APOSTOLO

Enciclopedia Italiana (1929)

APOSTOLO (dal gr. ἀπόστολος, derivato a sua volta da ἀποσιέλλω "invio, mando")

Adolfo OMODEO
Alberto PINCHERLE
Antonino SANTANGELO
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In greco classico il termine ha valore di "inviato, rappresentante"; con lo stesso nome si designò anche il "comandante di una spedizione marittima, l'ammiraglio", l'invio di una flotta, e la flotta medesima, e persino (ἀπόστολον πλοῖον) la nave da trasporto. Nel linguaggio cristiano designa una funzione importantissima della Chiesa primitiva e della prima propagazione del cristianesimo. Nella tradizione evangelica un nucleo di dodici discepoli costituisce un collegio speciale che accompagna Gesù nelle sue peregrinazioni, e sono poi da lui inviati a propagare più celermente l'annunzio evangelico per i borghi e le città di Galilea. Normalmente in Matteo e in Marco i dodici sono designati come discepoli" (μαϑηταί): solo quando sono presentati in funzione di propagandisti erranti sono designati col termine ἀπόστολοι (Marco, VI, 30; Matt., X, 2). Invece in Luca, che presenta altri settanta discepoli in funzione di propagandisti di grado inferiore, il termine tende a diventare la designazione costante del collegio dei dodici. Nel Vangelo secondo Marco la costituzione del collegio dei dodici è posta nel primo periodo della predicazione a Cafarnao (III, 13 segg.). In Matteo il momento della designazione resta indeterminato (X, 1-4); in Luca (VI, 12-16) la designazione è posta prima del grande discorso della pianura che corrisponde al discorso dalla montagna di Matteo. La funzione degli apostoli come missionarî è determinata dai discorsi attribuiti a Gesù prima del loro invio come annunziatori del regno. Essi ricevono potere sui demonî (potere d'esorcismo) e d'operar guarigioni. Secondo Marco gli apostoli non devono aver con sé altro che una verga e i calzari; è fatto loro divieto di portar denaro e una doppia tunica: hanno diritto all'ospitalità e al vitto gratuito: concedano a chi li accoglie la benedizione di pace, la ritolgano a chi li respinge, e scuotano dai piedi, in segno di testimonianza, la polvere di quei luoghi che rifiutano di accoglierli. In Matteo (X) le condizioni dell'apostolato appaiono anche più dure: gli apostoli non devono portar con sé neppure la verga e i calzari. Devono inoltre limitare la loro missione al territorio giudaico e non passare in territorio pagano o samaritano. Non compiranno l'annunzio nelle città d'Israele che si manifesterà il Figlio dell'Uomo. Il loro messaggio è l'annunzio del regno di Dio, imminente (X, 7: πορευόμενοι δὲ κηρύσσετε λέγοντες, ὅτι ἤγγικεν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν). Devono concedere gratuitamente i carismi della loro missione, e ricevere gratuitamente ospitalità e vitto. Anche in questo passo è prospettata la possibilità d'accoglienza e di repulsa del loro messaggio e del loro augurio di pace. Una sorte peggiore di Sodoma e di Gomorra colpirà, nel giorno del giudizio, le terre ribelli all'invito evangelico. Poi il discorso si amplifica con una serie di elementi che, più che all'apostolato, si riferiscono genericamente alla situazione dei seguaci del Cristo nel mondo: persecuzioni, processi, testimonianza, assistenza dello Spirito Santo, ricompensa futura.

Anche in Luca abbiamo le stesse condizioni inasprite della povertà: gran parte del contenuto dei discorsi di missione riportati dai due primi evangelisti è suddiviso, e talora anche ripetuto, nei due discorsi ai dodici e ai settanta discepoli (IX,1-6 e X,1-16). Il raddoppiamento rappresenta, secondo molti critici, la missione cristiana in Israele, e in Samaria, la terra infedele per eccellenza: cioè fra le genti. Però alcuni elementi del discorso di missione di Matteo sono riferiti fuori della cornice dell'invio dei discepoli, e alludono genericamente alle condizioni dei discepoli del Vangelo.

Qualche divergenza esiste fra i Vangeli nell'elenco dei dodici. Marco e Matteo dànno: Simone figlio di Giona detto Pietro (o Cefa in aramaico), Giacomo di Zebedeo e suo fratello Giovanni soprannominati da Gesù Boanerges cioè figli del tuono, Andrea fratello di Pietro, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tomaso, Giacomo figlio d'Alfeo, Taddeo, Simone cananeo, Giuda iscariota.

Nell'elenco di Luca (VI, 14-15), che si ripete negli Atti degli apostoli (I, 13), seconda opera dello stesso evangelista, a Taddeo (in Matteo è chiamato anche Lebbeo) è sostituito Giuda di Giacomo. Vi è anche un'oscillazione negli aggruppamenti a paio: ché, secondo la tradizione, gli apostoli dovevano operare a due a due. Nel quarto Vangelo, il quale però non dà mai un elenco completo del collegio dei dodici, oltre a un anonimo "discepolo prediletto" di Gesù (che la tradizione identifica con Giovanni figlio di Zebedeo e con l'autore del Vangelo), figurano Pietro, Andrea, Natanaele, Filippo, Tomaso detto Didimo, Giuda iscariota e l'altro Giuda. Le divergenze sono eliminate dall'armonistica ortodossa mediante l'identificazione di Giuda con Taddeo, e di Natanaele con Bartolomeo, in base al criterio che Taddeo può essere un soprannome e Bartolomeo un patronimico (in aramaico significa "figlio di Tolmai o Tolomeo").

Caratteristica è pure nei Vangeli la funzione riservata ai dodici nel regno di Dio: ognun d'essi sarà nel regno giudice e rettore d'una delle dodici tribù d'Israele: fra loro sorge contesa perché gli Zebediadi pretendono i primi posti e vogliono sedere su due troni alla destra e alla sinistra di Gesù (cfr. Matteo, XIX, 28 e XX, 20 segg.; Luca, XXII, 39; Marco, X, 35 segg.).

Non sono molte le notizie rilevanti che i Vangeli dànno sugli apostoli. I sinottici ci narrano la vocazione di Pietro e Andrea, di Giacomo e Giovanni, chiamati da Gesù mentre sono intenti a pescare sul lago di Tiberiade. Nel quarto Vangelo la vocazione del discepolo anonimo, d'Andrea, di Pietro, di Filippo e di Natanaele è posta sulle rive del Giordano, dopo la testimonianza di Giovanni il Battista a Gesù (I, 35 segg.). In Matteo (VIII, 9-13) il pubblicano chiamato da Gesù mentre siede alla dogana è identificato con l'apostolo Matteo: nei passi paralleli (Marco, II, 13-17; Luca, V, 27-32) il pubblicano è invece chiamato Levi figlio d'Alfeo. Matteo (XX,22 segg.) e Marco (X, 38 segg.) fanno profetare da Gesù agli Zebediadi il martirio. Tutti e quattro i Vangeli narrano il rinnegamento di Pietro e il tradimento di Giuda iscariota.

La concezione dell'apostolato è presentata nel suo massimo sviluppo e col significato di funzione costitutrice della Chiesa negli Atti. Il collegio dei dodici è ricompletato, subito dopo l'ascensione di Gesù risorto, mediante la designazione per sorteggio di Mattia in luogo del traditore Giuda (I, 15-26). Gli apostoli ricevono l'investitura dello Spirito Santo e il dono dei linguaggi (II, 1 segg.). Rendono più volte testimonianza a Gesù risorto al cospetto del p0p0lo (IV, 1 segg.; V, 17 segg.) nonostante le violenze degli avversarî; presiedono alla comunità e, per un certo tempo, alle opere di beneficenza; compiono miracoli e guarigioni (II-VI). Anche quando altri propagandisti appaiono sulla scena, per esempio Stefano e Filippo designati dapprima come diaconi (VI,1-7), in seguito però, almeno il secondo, come evangelisti, cioè annunziatori del Vangelo (XXI, 8), dagli apostoli dipende la propagazione della nuova fede. Solo dagli apostoli di Gerusalemme, capeggiati da Pietro e Giovanni, i convertiti dai missionarî di minor dignità ricevono il dono dello Spirito; essi, e a fianco ad essi Giacomo "fratello del Signore", risolvono le controversie circa le osservanze legali e la missione fra i gentili (VIII-XI e XV). Anche quando, narrata la morte di Giacomo di Zebedeo e la prigionia e la fuga di Pietro, il racconto si concentra ormai tutto intorno al nuovo apostolo extra numerum, Paolo, nella narrazione degli Atti Gerusalemme e gli apostoli di Gerusalemme rimangono il centro intorno a cui gravita e a cui è continuamente ricondotta la missione del nuovo apostolo. La concezione gerarchica e chiusa del collegio, destinato a propagare il messaggio evangelico e a costituire la Chiesa, fa appena un'eccezione per il grande missionario scelto da Dio come vaso d'elezione".

I termini di apostolo e apostolato prendono un significato più largo negli scritti di Paolo. Per Paolo l'apostolato non è prerogativa d'un collegio chiuso, ma è una grazia (o carisma) da Dio concessa a coloro ch'Egli ha eletti e predestinati annunziatori del Vangelo. Talora, nell'uso corrente, egli designa apostoli anche i messi delle chiese, eletti dalle chiese stesse (cfr. II Cor., VIII, 23; Filipp., II, 26); può sembrare che egli designi apostoli anche Silvano e Timoteo (I Tess., II, 7) i quali probabilmente erano collaboratori di grado inferiore: ma nel significato più pieno, per lui gli apostoli sono contrassegnati da un'elezione speciale del Cristo risorto. Il mandato apostolico ha un legame con la visione del risorto, anche se non tutti coloro che videro il risorto divennero apostoli. Il Cristo che si rivela esige una testimonianza. Perciò nel c. XV della 1a lettera ai Corinzî, elencando le diverse apparizioni del risorto, Paolo distingue fra il collegio dei dodici e la cerchia degli apostoli, che il Cristo ha suscitati, fino a lui. La tesi del Holsten e di J. Weiss, che vorrebbero espungere dal testo le parole τοῖς δώδεκα che creano questa distinzione, non solo non ha basi sufficienti nella storia del testo, ma urta in gravi difficoltà, perché nella storia posteriore del cristianesimo nessuno mai avrebbe sdoppiato apostolato e collegio dei dodici. Non che per Paolo i dodici non siano apostoli (cfr. I Corinzî, IX, 5); ma non esauriscono in sé, in quanto collegio, la funzione dell'apostolato. Se apostolo è Simon Cefa, apostoli non meno autorizzati sono Paolo e Barnaba (I Cor., IX); "nobili fra gli apostoli" sono Andronico e Iunias (Romani, XVI, 7); apostolo è anche Apollo (I Cor., IV, 9). Insomma il termine d'apostolo coincide col significato di missionario itinerante suscitato direttamente dal Cristo. Di questo primitivo concetto lato dell'apostolato abbiamo ancora un residuo nella Didachè (XI, 3 segg.), quando già le comunità si organizzavano sotto l'episcopato monarchico. È prevista la possibilità che si presenti un apostolo: gli si concedono le prerogative contemplate dal Vangelo, ma lo si sottopone a un rigoroso controllo: "Circa gli apostoli e i profeti fate come è prescritto dal Vangelo. Ogni apostolo che viene da voi accoglietelo come il Signore. Non rimarrà 〈se non> un giorno solo. Se ve n'è bisogno, anche un altro. Se rimane tre giorni è falso profeta. Partendosene, l'apostolo non prenda nulla, altro che il pane: se domanda denaro è falso profeta". In Paolo, invece, la nozione carismatica dell'apostolato grandeggia. L'apostolato è il massimo dei carismi i quali, tutti necessari come funzioni e membra dello stesso corpo della Chiesa, cioè di Cristo, hanno questa gradazione di dignità (I Cor., XII, 28): nella Chiesa vengon prima gli apostoli, poi i profeti, poi i dottori, quindi le possanze (cioè i carismi taumaturgici), quindi i carismi delle guarigioni, quindi le opere di soccorso, quindi le direzioni (cioè i carismi di chi dirige le chiese), infine le varie specie di linguaggio (cioè il balbettio mistico estatico della glossolalia). L'apostolato perciò è il primo strumento di Dio per divulgare l'annuncio evangelico, costituire la Chiesa e operare la salute del mondo. Come strumenti della salute nella fede di Cristo gli apostoli - nel caso speciale Paolo - sono per predestinazione scelti da Dio fin dalle viscere materne. Sono i banditori del Vangelo (κηρύσσειξ τὸ εὐαγγέλιον). Infatti, avendo Iddio stabilito, secondo la profezia di Gioele "che ognuno che invocherà il nome del Signore sarà salvo", la necessità di propaganda rientra nei piani della Provvidenza. "E come dunque potrebbero invocarlo senza aver creduto? E come crederebbero senza averne avuto notizia? E come ne avrebbero notizia senza la proclamazione? E come lo proclamerebbero senza averne avuto missione? Così com'è scritto: come son belli i piedi di chi reca la lieta novella!" (Rom., X, 13 segg.). Corrispettivo a questa predisposizione provvidenziale è la forza soprannaturale che assiste dovunque e sempre l'apostolo. Nell'apostolo opera la forza divina del Vangelo stesso, che è "miracolo di Dio per la salvezza d'ogni credente, Giudeo prima e poi Greco", rivelazione e trasmissione della giustizia che viene da Dio. L'apostolo Paolo sa di avere la forza spirituale necessaria per abbattere ogni opposizione al Vangelo, ed ogni ribellione alla parola divina; sa che la sua gloria futura di ministro del Vangelo supererà di gran lunga quella di Mosè ministro della legge; ha poteri discrezionali sulle chiese entro l'orbita affidatagli da Dio, sia direttamente sia per interposta persona; solo di fronte a Dio e a Cristo egli è responsabile (cfr. Rom., I, 16-17; I e II Cor., passim). In forza di questa sua concezione dell'apostolato, Paolo rivendica la sua piena autonomia anche di fronte agli apostoli di Gerusalemme. Afferma di aver ricevuto direttamente il suo Vangelo dal Risorto, e non da uomini, né pel tramite d'uomini; di non aver avuto bisogno di consultare, dopo la sua conversione, gli apostoli di Gerusalemme suoi predecessori. Afferma che nulla vale, in confronto con la rivelazione del Risorto, il rapporto personale col Gesù storico, o, com'egli dice, col Cristo secondo carne. Di questo egli non vuol sapere più nulla; non vuol conoscerlo: irride gli apostoli di secondo grado che hanno bisogno di commendatizie e d'essere accreditati da autorità superiori, mentre l'apostolo vero ha la commendatizia nell'ostensione dello Spirito, e nell'efficacia della propria opera (cfr. Galati, I-II; II Cor., III, 1 segg.; V, 16).

Sull'interpretazione di questi passi di Paolo, come pure circa l'identificazione degli ὑπερλίαν ἀπόστολοι di II Cor., XI, 5, viva è la discussione tra i critici più recenti. Comunque, non si può disconoscere che anche di fronte alle autorità di Gerusalemme l'atteggiamento di Paolo fu di fatto assai meno indifferente di quanto può apparire dalla sua affermazione di diretta dipendenza dal Risorto: se egli si recò a Gerusalemme a far riconoscere il suo Vangelo nel dubbio di correre e d'aver corso invano, se accettò una specie di tributo imposto da Gerusalemme alle chiese delle genti, e se, pur di recare a Gerusalemme l'offerta delle chiese delle genti, cadde in prigionia.

A chiarimento di queste diverse nozioni dell'apostolato conviene tener presente anche alcuni dati che provengono da fonti extra-bibliche. A. Harnack (Mission und Ausbreitung des Christentums, 4ª ed., Lipsia 1923, I, 348 segg.) richiama l'attenzione su di un apostolato giudaico, di cui ci parlano Eusebio (In Iesaiam, XVIII, 1) ed Epifanio (Haer., XXX, 4: cfr. anche Iuliani imp. ep., 25; Codex Theodosianus, XVI, 8, 14; S. Girolamo, Comm. ad Gal., I, 1; Corpus Inscr. Lat., IX, n. 648). Dopo la distruzione di Gerusalemme il patriarca dei Giudei, subentrato nei poteri del sommo sacerdote e del Sinedrio, comunica con i giudei della dispersione per mezzo di "apostoli", che portano le lettem, encicliche, riportano a Gerusalemme le offerte e i tributi della diaspora, e formano il consiglio del patriarca. Ora se si trasferisce quest'istituzione, intesa a mantener salda l'unità etnica del giudaismo e testimoniata solo per più tarda età, nel periodo apostolico, si chiariscono molti elementi della tradizione cristiana. Saulo, accreditato da lettere del Sinedrio per Damasco, è un apostolo della suprema autorità giudaica, prima d'essere un apostolo del Cristo (Atti, IX, 1-2). Si chiarisce anche la richiesta delle "colonne" della chiesa di Gerusalemme di far contribuire le chiese delle genti per la comunità madre (cfr. Gal., II, 10; Atti, 30; I Cor., XVI, 1 segg.; II Cor., VIII-IX; Rom., XV, 25). La Gerusalemme cristiana si comporta verso le chiese delle gentì come la Gerusalemme giudaica verso la diaspora. Si chiarisce la funzione degli apostoli come raccoglitori d'offerte, non solo fra le genti, ma anche in Palestina, secondo la tradizione dei primi capitoli degli Atti: funzione compiuta anche da Paolo, pur con tutti i suoi contrasti con Gerusalemme (cfr. l'episodio d'Anania e Saffira, come esempio di tale funzione da parte dei dodici: Atti, IV, 32; V, 11). Si capisce anche la concezione centralistica degli apostoli di grado inferiore, irradiantisi da Gerusalemme, e accreditati con commendatizie, come apostoli di Gerusalemme. Invece la concezione paolina dell'apostolato di diretta missione divina e in dipendenza dalle cristofanie, si riconnette ad un'altra tradizione, secondo la quale la teofania o la visione delle cose superne coincide con l'investitura profetica e la delegazione d'un messaggio. Questa tradizione da un lato è la tradizione dei profeti d'Israele, che fan risalire il loro mandato a una teofania (cfr. Omodeo, Prolegomeni alla storia dell'età apostolica, Messina 1921, p. 151 segg.), dall'altro è documentata anche nelle religioni ellenistiche; p. es. in Poimandres, I, 26 segg., il mistico rapito nell'estasi riceve la consacrazione a profeta e il mandato di recare agli uomini immersi nella gozzoviglia e nel sonno la vera notizia di Dio. Per questo lato la nozione d'apostolo tende a confondersi con quella dell'uomo divino latore di divino messaggio.

Un altro dato che può concorrere ad illuminare la pozione dell'apostolato è la costumanza, attestataci epigraficamente, dell'ambasciatore sacro (ϑεωρός) che annunzia l'era saluta: e nelle feste dei sovrani soteres (cfr. Dittenberger, Orientis Graeci inscr. selectae, n. 36: Σωτίων ϑεωρὸς τὰ Σωτήρια ἐπαναγγέλλων). Questa costumanza può chiarire l'apostolato cristiano come ambasceria e proclamazione di Cristo.

Tali essendo i principali elementi del concetto d'apostolato, il problema sta nel coordinarli. Da una parte l'armonistica ortodossa cerca di lar convivere pacificamente tutti gli elementi attestati dalla tradizione del Nuovo Testamento. Dall'altra parte l'indirizzo critico insiste sul loro contrasto, specialmente fra la concezione chiusa del collegio dei dodici e la concezione paolina; fra apostolato del Cristo secondo carne, e del Cristo risorto: fra apostolato come funzione di missione, e apostolato come organo di amministrazione interna delle chiese. Così il Wellhausen (Einleitung in die drei ersten Evangelien, 2ª ed., Berlino 1911, pp. 138-147), fondandosi sulle discrepanze degli elenchi apostolici, esclude la nomina dei dodici da parte di Gesù, e ammette nella tradizione una prolepsi, per la quale un'istituzione della primitiva Chiesa sarebbe stata trasferita nella carriera terrena di Gesù. Sulle orme del Wellhausen, J. Weiss (Urchristentum, Gottinga 1914, p. 34) sostiene che la tradizione evangelica sul collegio dei dodici che fa corona a Gesù è una leggenda nata dal trasformarsi d'una parola tradizionale, attribuita a Gesù con riferimento ai discepoli in genere: "voi siederete su troni a giudicare le dodici tribù d'Israele", nell'altra, secondo il tenore di Matteo, XIX, 28: "voi siederete su dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele". Il Loisy, sulle orme del Wellhausen e del Weiss, esclude egli pure la designazione dei dodici da parte di Gesù, e sviluppa d'altro canto un'idea già avanzata dal von Dobschütz: del concetto paolino d'apostolato come concetto di formazione polemica e apologetica. I dodici dovettero in origine essere i primi dodici capi della comunità di Gerusalemme, i commissarî delegati dalla stessa comunità. Il termine d'apostolo doveva aver riferimento alle funzioni d'amministrazione, connesse al concetto d'apostolato giudaico. Apostolo designerebbe una funzione ormai remota dal significato etimologico della parola, come presbitero ed episcopo designano funzioni ben diverse dai significati primitivi di anziano ed ispettore. Il concetto d'inviato e di missionario, e soprattutto dell'inviato non da una comunità ma dal risorto, sarebbe stato messo in evidenza dalla mentalità mistica ed aberrante, rispetto alla tradizione, di Paolo. La tradizione subapostolica che parla dell'apostolato come d'una funzione ecclesiastica, simile a quella dell'episcopo e del diacono, conterrebbe un elemento primitivo (Les Actes des Apôtres, Parigi 1920, p. 167 segg.).

Questa tesi non è però da tutti condivisa nello stesso campo critico. Si è osservato che l'eliminazione dei dodici dalla storia evangelica creerebbe, nuove difficoltà. Le incertezze degli elenchi si spiegano meglio se si tratta dei compagni di Gesù, che poterono non aver tutti grande importanza nella storia successiva, che non se si tratta dei fondatori della Chiesa. Non solo, ma nella stessa età apostolica i dodici scompaiono da Gerusalemme, e quella chiesa ci appare retta da Giacomo e dai presbiteri. Non si darebbe poi una spiegazione sufficiente del perché il traditore fu incluso negli elenchi. Se l'apostolato fosse stato una funzione stabile della prima comunità, si sarebbe riprodotto nelle altre chiese. I discorsi di missione della tradizione sinottica permettono anche di ricostituire un tipo di apostolato arcaico, anteriore alla costituzione della Chiesa. È limitato ad Israele: gravita tutto nell'annunzio del regno di Dio imminente; ignora ogni ordinamento ecclesiastico. Si prevedono conversioni e repulse in massa d'interi borghi e villaggi più che conversioni individuali (il testo di Luca, IX, 5; X, 10-11 sarebbe primitivo rispetto ai passi paralleli). I missionarî sarebbero i precorritori del giudizio. In tale forma - abbia o no usato Gesù il termine "apostolo"- l'attività missionaria dei dodici quadrerebbe con il contenuto messianico-escatologico che l'indirizzo critico odierno riconosce predominante in Gesù. La nota di bando, di proclamazione a quelli di fuori, sarebbe primitiva. Si verrebbe a suggerire il seguente scaglionamento dei dati tradizionali (cfr. p. es. Omodeo, Gesù, 2a ed., Messina 1925, p. 125; Paolo di Tarso, Messina 1922, p. 50): i dodici avrebbero formato una cerchia chiusa, non in quanto missionarî (apostoli), ma in quanto rappresentano un'anticipazione della gerarchia del regno: sono i dodici rettori delle dodici tribù nel regno messianico. S'intenderebbe com'essi, insieme con i parenti di Gesù, primeggiassero nella comunità nuova. Ma s'intenderebbe anche come nell'entusiasmo della prima fase sorgessero altri missionarî che derivavano il loro mandato dalla visione del risorto: massimo Paolo. Questi missionarî, operando fra i gentili, si trovarono presto impacciati dalle prescrizioni arcaiche della missione di Galilea, p. es. dal divieto d'ogni preoccupazione economica, dalla propaganda a masse compatte, dal diritto al mantenimento gratuito. A questo Paolo rinunziava, anche a costo di sentirsi rinfacciare che per questa rinunzia stessa egli non era vero apostolo: lo vediamo preoccupato del finanziamento della missione, sia che viva del suo lavoro, sia che si faccia sovvenire da chiese già costituite. Così, sempre secondo questa concezione, Paolo protesterebbe di non essere un apostolo di second'ordine; ma egli stesso, d'altro canto, si dichiara l'ultimo degli apostoli. Nella seconda generazione cristiana si avrebbe la sintesi: le due nozioni dell'apostolato cioè si fonderebbero insieme.

In seguito, gli apostoli vengono considerati come la base della Chiesa (cfr. Apocalisse, XXI, 14; Efesini, II, 19; IV, 11; II Pietro, III, 2; Erma, Simil., IX, 15, 4; 16, 4), mentre per lo innanzi la base era Cristo. Gli apostoli, più che per la loro attività di propaganda, vengono esaltati per la loro azione nell'interno della Chiesa, come fondamento della tradizione disciplinare e dogmatica; veicolo attraverso cui s'è trasmesso lo Spirito e la sana dottrina; primi degli episcopi, ideale archetipo della vita religiosa della Chiesa, propugnatori dell'ortodossia e avversarî degli eretici. I primi spunti di questa concezione si trovano in varî passi delle Lettere pastorali (I e II Timoteo; Tito), nell'Epistola di Barnaba (V, 9; VIII, 2) e in altri scritti del cristianesimo antico (I Clem., 42; Giustino, Apol., I, 39). Da questa concezione presero lo spunto le leggende intorno agli apostoli, fiorite dal sec. II in poi. (Circa le leggende sugli apostoli cfr. la vasta sezione della silloge del Hennecke, Neutestamentliche Apokryphen, 2a ed., Tubinga, pp. 111 segg.).

Copiosa è del resto la letteratura relativa agli apostoli. Se le vicende più antiche della chiesa di Gerusalemme e la storia dell'apostolato di Paolo fino al suo arrivo in Roma sono narrate negli Atti degli apostoli canonici (v.), grande è per contro il numero degli Atti (Πράξεις, Acta) apocrifi; grande anche quello degli scritti che pretendono di riferire l'insegnamento di questo o di quell'apostolo, o anche dell'intero collegio dei dodici (v. apocrifi). Del primo gruppo fanno parte opere come gli Atti di Andrea, di Paolo, di Tomaso; del secondo, la Predicazione di Pietro (Κήρυγμα Πέτρου) e numerosi Vangeli apocrifi (di Andrea, di Tomaso, di Bartolomeo, di Pietro, ecc.) oltre all'Epistola di Barnaba; del terzo, il Vangelo dei dodici apostoli che alcuni ritengono tutt'uno con quello degli Ebrei, e un gruppetto di opere, alle quali accenniamo partitamente.

La Dottrina dei dodici apostoli (Διδαχὴ τῶν δώδεκα ἀποστόλων). - Molto citato, in Oriente ed in Occidente (p. es. Asc. Isaiae, III, 21; Eusebio, Hist. Eccl., III, 25, come apocrifo; Niceforo, Stichom., 68; ps.-Cypr., De aleator., 4) durante i primi secoli, questo scritto, il cui titolo più esatto è verisimilmente quello di Dottrina del Signore, attraverso glî apostoli, ai gentili, scompare dopo il sec. XIV (epoca in cui è citato ancora da Niceforo Callisto, Hist. Eccl., II, 46); sicché rappresenta una data importante per gli studî di antica letteratura cristiana il 1883, nel quale anno l'opera venne data per la prima volta alle stampe da Filoteo Bryennios, metropolita di Nicomedia, di su un codice pergamenaceo del 1506, del monastero del Santo Sepolcro in Costantinopoli. Proveniente da Gerusalemme, il manoscritto vi fu riportato nel 1887. Da allora in poi l'opera è stata ristampata più volte, sola, o nelle collezioni degli scritti noti come Padri apostolici (v. Apostolici, padri); abbastanza numerosi e importanti frammenti papiracei hanno contribuito a perfezionare la critica del testo.

L'operetta, scritta in una lingua strettamente affine a quella del Nuovo Testamento, riproduce un centinaio circa di passi dell'Antico Testamento, e più di duecento del Nuovo; però molte particolarità dello stile rivelano che l'autore si esprime secondo modi caratteristici piuttosto della mentalità semitica. Comprende sedici capitoli, e si può dividere in tre parti: morale (I-VI), liturgica (VII-X) e disciplinare (XI-XV); il c. XVI è escatologico. La prima parte, che si inizia con la constatazione che "due sono le vie, una della vita e una della morte; e vi è gran differenza tra loro", si trova riprodotta quasi letteralmente nei capitoli XVIII-XX dell'Epistola di Barnaba, oltre che nel Pastore di Erma (Mand., II, 4-6; VIII, 4-5) e in altri scritti. Secondo il Harnack, le cui conclusioni sono state accettate dalla quasi totalità dei critici, questa parte dello scritto si sarebbe formata su un manuale giudaico, La dottrina delle due vie, che avrebbe servito per l'istruzione dei proseliti. Esso avrebbe compreso le parti seguenti: I,1-3; II, 2 fino a V, 2, forse anche il c. VI. Ad esso sarebbero stati aggiunti I, 3 fino a II, 1 e quindi i capi VII-XVI. Più probabilmente però un documento primitivo, che comprendeva la catechesi morale e la conclusione escatologica, ha servito di prologo e di epilogo alla parte centrale, disciplinare e liturgica.

La prima parte contiene una serie di precetti, che incominciano da quello dell'amore verso Dio e il prossimo; il manuale inculca il principio della comunione dei beni (cfr. Atti, II, 44 seg.; IV, 34 seg.), il rispetto ai maestri nella fede, il ricercare ogni giorno il volto dei fratelli. Caratteristica l'ingiunzione: "sudi l'elemosina nelle tue mani, finché tu sappia a chi dai" (I, 6). Molti precetti sono gli stessi del Discorso della montagna; sono enumerati dapprima quelli positivi, poi quelli negativi. Numerosi gli esempi di "parallelismo" delle frasi, caratteristico della poesia ebraica. Segue l'enumerazione dei peccati da cui occorre guardarsi. È vietato il cibarsi di animali immolati agli idoli (idolothyyta; cfr. I Cor., VIII).

Nei capitoli seguenti si parla del battesimo, che dev'essere amministrato con la formula trinitaria, preferibilmente per immersione in acqua corrente, ma anche ferma, o anche per aspersione. Dev'essere preceduto da un digiuno: e i fedeli digiuneranno il mercoledì ed il venerdì, per distinguersi dai giudei che digiunano di lunedì e giovedì. I capi IX e X trattano dell'eucaristia; ma di questa si riparla anche nei capitoli XIV e XV. La cosa si spiega, se si ammetta che il rito eucaristico vero e proprio è qui ancora congiunto con la celebrazione dell'agape (v.). La preghiera sul pane ("come questo pane spezzato, disperso sui monti, raccolto divenne uno, così si riunisca la tua Chiesa dall'estremità della terra nel tuo regno") ha un sapore nettamente escatologico e mistico; e con l'attesa della venuta del Signore si chiude, un po' bruscamente, la Didachè (XVI). Ma i capi X-XV ricordano ancora i ministri della parola: l'apostolo, il profeta, il dottore. Il primo è un predicatore itinerante; il secondo è colui che parla in ispirito (λαλοῦντα ἐν πνεύματι, XI, 7) e considerato anche come superiore all'apostolo; ma deve segnalarsi anche per la condotta morale irreprensibile ("non chiunque parla in ispirito è profeta, ma solo colui che pratica i costumi del Signore"). Accanto a costoro, troviamo però la gerarchia stabile, di vescovi e diaconi (i presbiteri non sono nominati) che devono presiedere alle riunioni domenicali (XV, 1). Vengono eletti dai fedeli, scegliendo i più degni. Siamo dunque ancora in un periodo di transizione, tra il Nuovo Testamento e quegli scritti sub-apostolici in cui la gerarchia appare più saldamente e uniformemente organizzata. Si riconosce che i peccati possono venire rimessi (XI, 7).

Grande dunque l'importanza storica di quest'operetta: che, redatta in forma semplice e piana, ci rappresenta lo stato e le credenze delle comunità cristiane tra la fine del sec. I e l'inizio del II (sarebbe stata scritta tra l'80 e il 120; parecchi critici preferiscono come termine estremo il 100; alcuni risalgono fino al 70 o poco dopo). Incerta è invece la collocazione geografica: le opinioni sono divise tra la Palestina (Gerusalemme), la Siria (Antiochia) e l'Egitto (Alessandria).

L'Epistola apostolorum. - È il titolo presunto e usato correntemente di un apocrifo, probabilmente del secondo secolo, di recente scoperto e pubblicato. Ne dette il primo annunzio C. Schmidt che al Cairo, fra i papiri Bouriant, ne trovò una traduzione copta frammentaria (1897). In seguito ne furon segnalati frammenti di versione latina in un palinsesto viennese e ne fu pubblicata una versione etiopica. Un'edizione completa con versioni critiche sia dal copto sia dall'etiopico è stata pubblicata nel 1919 da C. Schmidt. Lo Schmidt ha avuto il merito di distinguere quest'opera dall'altro apocrifo, Testamentum Domini nostri, con cui essa era conglobata nella versione etiopica.

Il testo originale doveva essere in greco. Gli apostoli di Gesù con una lettera cattolica, diretta sia ai credenti delle genti sia a quelli della circoncisione, comunicherebbero le ultime istruzioni date loro da Gesù prima dell'ascensione, per avviarli alla missione universale e per sventare preventivamente le insidie di Simon Mago e di Cerinto, primi padri dell'eresia gnostica. L'intonazione complessiva dell'opera è cattolica e vuole combattere le manifestazioni più dannose dello gnosticismo, cioè il docetismo, la negazione della risurrezione della carne, l'affermazione gnostica dell'esistenza di dottrine esoteriche comunicate segretamente dal Risorto ai discepoli. Le ultime istruzioni, secondo l'Epistola, sarebbero state queste che gli apostoli comunicano a tutti.

L'antignosticismo però non è così forte da impedire l'assimilazione di alcuni miti gnostici circa la discesa di Gesù sulla terra, la sua trasformazione nell'angelo Gabriele nell'annunciazione, la discesa agl'inferi, ecc.; rielaborati però in guisa da culminare nell'affermazione della incarnazione del Redentore. Molta altra parte dell'Epistola si riferisce alla necessità della disciplina ecclesiastica di cui sono investiti gli apostoli, e ha somiglianza con le più antiche collezioni di canoni. In complesso l'opera è assai significativa per la storia del primitivo cristianesimo.

La Didascalia apostolorum. - È un'antica silloge di disciplina ecclesiastica del sec. III. Il suo contenuto fu in seguito diluito nei primi 6 libri delle Costituzioni apostoliche. Fu scoperta da P. de Lagarde in un manoscritto siriaco parigino nel 1852 e da lui pubblicata nel 1854. In seguito ne fu scoperto un altro codice, pure siriaco, a Roma. Nel 1900 il Hauler ne pubblicò ampî frammenti latini da un palinsesto veronese; tre nuovi manoscritti siriaci nel 1903 la signora Gibson. Una redazione più ampia, che non si sa se sia un estratto dalle Costituzioni apostoliche o uno stadio intermedio fra la Didascalia e le Costituzioni, ci è pervenuta nelle versioni araba ed etiopica. Il testo originale doveva essere greco.

Il valore storico dell'opera è altissimo. Nessun altro documento dei primi secoli ci rappresenta con tanta ricchezza di particolari la vita della Chiesa antica, anche tenendo il debito conto di ciò che era piuttosto aspirazione dell'autore che non realtà effettiva.

L'opera si presenta come un'enciclica dei dodici apostoli, riuniti a concilio in Gerusalemme: è un ritorno sulla loro opera missionaria per instaurare la disciplina, minacciata dagli scismi e dalle eresie, di cui è primo padre Simon Mago. Tanto qui quanto nell'Epistola apostolorum la disciplina si presenta apertamente come un quid superadditum al carisma cristiano, che a rigore, come dono dello Spirito, non avrebbe bisogno di norma legislativa. È già superata la prima fase del cristianesimo. I cristiani ci appaiono ormai assestati nella vita d'ogni giorno, dediti alle loro cure e alle loro famiglie, per quanto rigidamente separati dai gentili. La vita normale è quella della famiglia; è raccomandato il matrimonio in età giovanile, è consentito un secondo matrimonio (e non più) ai vedovi. Ancora mancano gli accenni all'ascetismo monastico. L'encratismo è combattuto. La Chiesa è ormai nettamente distinta in laici e clero. La gerarchia comprende vescovo, presbiteri, diaconi, diaconesse, e vedove con funzioni ecclesiastiche. L'episcopato monarchico è affermato con estremo vigore, ma, fatto singolare, non è considerato continuazione ideale dell'apostolato. Il vescovo tiene il posto di Dio, il diacono quello di Cristo, la diaconessa quello dello Spirito Santo (il cui nome è femminile in siriaco), i presbiteri quello degli apostoli. Il vescovo ha il diritto di sciogliere e di legare non solo per quanto si riferisce ai corpi, ma per quanto si riferisce alle anime: è sacerdote teoforico, va amato come padre, temuto come re, venerato come Dio. Tutta la vita ecclesiastica si accentra in lui: i presbiteri hanno una funzione puramente decorativa, di consiglio del vescovo. I diaconi sono gli strumenti della sua attività: l'occhio, l'orecchio, il braccio del vescovo. Questi accoglie ed esclude dalla chiesa, ammonisce, incoraggia, riammette i penitenti, giudica, amministra la beneficenza. Le sue prerogative sacerdotali sono rinforzate con esempî dell'Antico Testamento, perché se la Didascalia combatte l'osservanza della legge giudaica, suggerisce poi una distinzione, nell'Antico Testamento, fra ciò che era imposto ai giudei ed è stato abrogato dal Cristo, e ciò che dev'essere ancora ritenuto valido. Il vescovo non è responsabile verso la comunità, ma verso Dio, delle anime affidategli. È combattuta l'esorbitante attività delle vedove, residuo d'una fase carismatica che consentiva spontanee iniziative alle donne. Le vedove non devono né insegnare, né battezzare, né andare in giro per le case, tranne che per l'assistenza dei malati. La loro funzione è la preghiera perpetua: esse sono, insieme con gli orfani e i poveri, l'altare di Dio su cui si riversano i sacrifizî della Chiesa. Preoccupazione destano i ricchi, perché col denaro e la loro preponderanza sociale possono perturbare quell'assenza di riguardi umani e d'accezion di persona propria dell'istituto divino: v'è pericolo che i vescovi dalla potenza sociale dei ricchi si lascino corrompere o intimidire. È ammesso e difeso calorosamente l'istituto della penitenza, anche per gravi peccati. Il vescovo deve evitare che si contagi il suo gregge, ma anche essere mite verso i peccatori che, esclusi, mostrano pentimento. L'unica sanzione è l'esclusione dalla Chiesa e dallo Spirito Santo; la penitenza è pubblica, la riammissione avviene con l'imposizione delle mani da parte del vescovo. Copiose sono pure le prescrizioni riguardanti la liturgia eucaristica, i digiuni pasquali e le offerte di beneficenza, assimilate alle decime dell'Antico Testamento.

Il luogo d'origine dell'opera è probabilmente qualche chiesa provinciale della Celesiria. La data è incerta; dovette essere scritta ín un periodo di lunga pace della Chiesa: o nella prima metà del sec. III, prima delle persecuzioni di Decio e Valeriano o, più probabilmente, nella seconda metà, fra queste e quella di Diocleziano.

I Canoni e le Costituzioni degli apostoli. - Sotto l'uno o l'altro titolo vanno diverse collezioni.

1. Vengono in primo luogo gli 84 od 85 Κανόνες τῶν ἁγίων ἀποστπϕλων, conservati in greco e in diverse versioni in lingue orientali, accolti dal sinodo in Trullo (o Synodus Quinisexta) del 692; ma che il Decreto gelasiano considera come apocrifi. Il numero varia, da 47 ad 85; ma le differenze dipendono dalla maniera diversa in cui sono divisi nei differenti manoscritti. Trattano promiscuamente press'a poco di tutto ciò che concerne la vita ecclesiastica: ordinazioni, matrimonio dei chierici, simonia, gerarchia, eucaristia, pasqua, battesimo, delitti e pene, ecc. Si trovano nella collezione di Giovanni Scolastico (morto nel 577); alcuni sono citati da Severo d'Antiochia (prima metà del sec. VI); Dionigi il piccolo tradusse in latino due volte i primi 49, sdoppiando nella seconda versione il terzo canone in due, così da raggiungere il numero di 50. Egli sa anche, intorno al 500, di dubbi circa la loro autenticità. E gran somiglianza con alcuni di questi presenta la maggior parte dei 25 canoni del concilio d'Antiochia del 341. Da qual parte è dunque la derivazione? Contro critici più antichi, i moderni, con il Bickell e il Funk, pensano che i canoni dipendano dai concilî del sec. IV e V, da quello di Nicea a quello di Calcedonia. La raccolta sarebbe perciò della fine del sec. V.

2. L'introduzione alla raccolta dei 27 o 30 Canoni apostolici - conservati in siriaco, arabo ed etiopico e che, secondo una versione, sarebbero estratti dalla Dottrina di Addai (Taddeo; ma non hanno rapporto con la Dottrina di Addai edita dal Philipps, Londra 1876) - racconta come gli apostoli, nell'anno 342 dei Greci (33 d. C.), recatisi sul Monte degli Olivi, dopo avere assistito all'Ascensione del Signore e ricevuto il sacerdozio, prescrivessero diverse ordinanze, di carattere per lo più liturgico e disciplinare. Il testo originale era greco; sono stati conservati dalle chiese siriache rivali (melchita, giacobita, nestoriana) e sono quindi anteriori alla loro separazione: cioè del sec. IV o, al più, degl'inizî del V.

Tra le varie collezioni di minore importanza meritano ancora menzione l'ὅρος κανονικὸς τῶν ἁγὶων ἀποστόλων, 18 anatemi, del sec. IV, secondo il Harnack; e i 9 canoni, che si presentano come emanati dagli apostoli riuniti ad Antiochia, il testo dei quali sarebbe stato trovato da Panfilo nella biblioteca di Origene a Cesarea. Derivano da Atti, XI, 36 e XV, 29, e da molti altri testi, quali il Dialogo con Trifone di Giustino martire, la Didachè, la Didascalia, le Costituzioni. Anche Origene presenta numerosi testi paralleli. Sulla loro età si è molto discusso, oscillandosi tra il sec. V, il sec. IV (età di Giuliano l'Apostata) e perfino il II, per cui sarebbero stati veramente noti ad Origene.

3. Le Costituzioni apostoliche fanno parte della cosiddetta "letteratura clementina" (v. clemente di Roma). Il titolo completo è infatti "Ordinamenti dei santi apostoli attraverso Clemente, vescovo e cittadino di Roma, o istruzione universale" (Διαταγαὶ τῶν ἁγίων ἀποστόλων διὰ Κλήμεντος τῶν Πωμαίων ἐπισκόπου τε κα πολίτου ἢ καϑασκαλία). Il testo greco, pubblicato per la prima volta dal gesuita Fr. Torrès nel 1563, fu tradotto in latino, lo stesso anno, da G. C. Bovio, e nel 1578 anche dal Torrès. Numerose le citazioni negli scrittori della Chiesa orientale. Il sinodo in Trullo aveva respinto l'opera, come falsa ed ereticale.

Le Costituzioni comprendono otto libri. La pubblicazione della Didascalia siriaca ha permesso di scoprirne la fonte, come più tardi quella della Didachè ha messo in evidenza almeno una delle fonti del libro VII. Le interpolazioni fatte alla Didascalia hanno per lo più il carattere di aggiornamenti delle prescrizioni di questa. Il luogo d'origine è la Siria; vi si ricorda la festa del Natale, il 25 dicembre. Poiché questa, come festa distinta dall'Epifania (6 gennaio) venne celebrata in Antiochia, per la prima volta, nel 388, non si può risalire oltre quest'anno. Non occorre però scendere più in basso, come vorrebbe il Funk, ossia nel sec. V, poco prima della controversia nestoriana, alla quale il testo non contiene accenni. La condanna del sinodo in Trullo aveva attirato l'attenzione su passi in cui si credeva di poter scorgere dottrine ariane o macedoniane (negazione della divinità dello Spirito Santo). Si è anche pensato che l'autore fosse un apollinarista. Ma l'importanza di questi passi non è molto grande, e dell'autore o redattore non si può pensare se non che fosse un semi-ariano superstite o un opportunista, che altrove ha frasi di sapore prettamente ortodosso. Il settimo libro, dopo un aggiornamento della Didachè (le due parti intorno all'Eucaristia sono fuse in una, la menzione del profeta è soppressa, ecc.), reca nei capitoli 23-49 una lunga preghiera, quindi istruzioni per i catecumeni e sul battesimo, che modificano le prescrizioni della Didachè, un elenco di coloro che ricevettero l'ordinazione dagli apostoli, e altre preghiere. Anche l'interpolatore di questi libri viveva in Siria, nel sec. V; ha usato, oltre la Didachè, un'altra fonte, un formulario o un rituale. Notevoli i punti di contatto con l'edizione interpolata delle lettere di S. Ignazio. Allo stesso interpolatore dei primi sette libri e dell'epistolario ignaziano apparterrebbe anche la redazione finale del libro VIII. Questo si divide in tre parti: intorno ai carismi (cap. 1-2) in cui s'impone, a chi ne sia dotato, di non insuperbire; delle ordinazioni (3-26) nella quale si trova anche un "messale" con altre preghiere (5-15) e prescrizioni relative ai varî gradi della gerarchia; infine dei canoni (27-46) che trattano di nuovo delle ordinazioni e di altre materie, e istruzioni liturgiche a complemento delle già date. In alcuni manoscritti si trovano anche gli 84 (85) canoni degli apostoli, accolti dal concilio in Trullo. Si tratta, evidentemente, di una compilazione.

Si deve parlare qui anche delle cosiddette Constitutiones per Hippolytum (o Epitome del libro VIII delle Costituzioni apostoliche), che sono piuttosto estratti dallo stesso libro ottavo, omettendo quanto riguarda il culto (la liturgia dei capitoli 5-15 e le parti liturgiche dei capi 35-41), di cui, nei manoscritti greci, la prima parte reca il titolo "Istruzione dei santi apostoli intorno ai carismi" (Διδασκαλία τῶν ἁγίων ἀποστόλων περὶ χαρισμάτων) e la seconda quello di "Disposizioni dei santi apostoli intorno alle elezioni, attraverso Ippolito" (Διατάξεις τῶν ἁγίων ἀποστόλων περὶ χειροτονιῶν διὰ ‛Ιππολύτου).

4. Versioni orientali ci hanno conservato un altro gruppo di canoni, distribuiti in due serie, divisi però diversamente nelle singole versioni. Il Lagarde ha dato alla prima il nome di canones ecclesiastici, alla seconda quello di apostolici. Questi ultimi derivano dagli 84 (85) "canoni degli apostoli" (v. sopra).

Il cosiddetto Ordinamento ecclesiastico apostolico (ted. Apostolische Kirchenordnung) deve il nome, sotto il quale è generalmente noto agli studiosi, a J. W. Bickell, che ne pubblicò per la prima volta il testo di su un codice viennese. Comprende 20 o 30 canoni, comuni ad esso e alla Didachè. Qui si presentano come ordinanze formulate da ciascuno dei dodici apostoli (sono Giovanni, Matteo, Pietro, Andrea, Filippo, Simone, Giacomo, Natanaele, Tomaso, Cefa - distinto da Pietro - Bartolomeo e Giuda [di Giacomo: cfr. Luca, VI, 16; Atti, I, 13]). Per gli altri canoni si è pensato (Harnack, Bardenhewer) a fonti diverse o addirittura (Duchesne) al compilatore finale, che scriveva, verso la fine del sec. III, in Siria o in Egitto. Altri canoni (21-47 o 31-62), paralleli all'altra raccolta nota sotto il titolo Canoni d'Ippolito, ed alle Costituzioni apostoliche, sono contenuti nel cosiddetto "Ordinamento ecclesiastico egiziano" (ted. Aegyptische Kirchenordnung), che ci è arrivato in una traduzione etiopica, in traduzioni araba e copta, ed in una versione latina (nei cosiddetti frammenti veronesi). Il confronto tra esse dimostra che l'etiopica, a cui la latina si accosta molto spesso, dipende da una forma del testo greco diversa da quella che soggiace alle versioni araba e copta.

Sulle relazioni reciproche tra questi varî testi, la critica si è affaticata a lungo. Secondo monsignor Rahmani, alla base di tutti starebbe il Testamentum Domini (ancora confuso con l'Epistola apostolorum). H. Achelis pone invece, come testo capostipite, i Canoni d'Ippolito, da cui sarebbero, quindi, derivati l'Ordinamento egiziano, da una parte, una forma primitiva del libro VIII delle Costituzioni apostoliche (da cui l'epitome) e il libro VIII nella forma a noi nota; dall'altra, il Testamentum Domini. J. Wordsworth poneva anch'egli, come testo più antico, i Canoni d'Ippolito, quindi l'Ordinamento egiziano, il Testamentum Domini, l'epitome, il libro VIII delle Costituzioni apostoliche. Ma, secondo lui (seguito sostanzialmente da A. J. Maclean), tralasciando il Testamentum Domini, gli altri quattro documenti deriverebbero da un'opera perduta. Il Funk, invece, riteneva che il libro VIII delle Costituzioni apostoliche (del sec. V) fosse la fonte dell'epitome, dell'Ordinamento egiziano, e, parallelamente, del Testamentum e dei canoni d'Ippolito. Infine, due studiosi, E. Schwarz ed il benedettino R. H. Connolly, hanno raggiunto, indipendentemente, le medesime conclusioni. I Canoni d'Ippolito sarebbero una delle opere più tardive: tutte deriverebbero invece dall'Ordinamento egiziano, in cui è da riconoscere l'opera d'Ippolito, menzionata nel catalogo inciso sulla cattedra della sua celebre statua, sotto il titolo di Tradizione apostolica ('Αποστολικὴ παράδοσις). Questa tesi, malgrado qualche prudente riserva del Duchesne per ciò che riguarda i particolari (anch'egli crede si tratti di opera romana del principio del sec. III, ma pensa a possibili ritocchi o rimaneggiamenti alessandrini), si può ritenere oggi, nelle sue linee generali, come universalmente accettata.

5. Sotto il titolo di Costituzioni apostoliche vanno poi altri scritti, quali una "Disposizione" (Διάταξις), recente e di scarsa importanza, pubblicata dal Pitra (Juris ecclesiae Graecor. hist. et monum., I, Roma 1864, p. 421) in cui il Signore, dopo l'Ascensione, impartisce varie istruzioni agli apostoli che lo interrogano: ed un'opera "Intorno all'epifania del Signore, dalle costituzioni apostoliche" (Περὶτῆς ἐπιϕανίας τοῦ Κυρίου, ἐκ τῶν ἀποστολικῶξ διαταγμάτων, o διατάξεων) che deriva da passi del libro V delle Ctjstituzioni apostoliche e che, secondo il Funk (in Theolog. Quartalschrift, 1903, p. 195 segg.), avrebbe per patria l'Egitto e, per data, al più presto, la seconda metà del sec. V.

Per il cosiddetto Credo (o Simbolo) degli apostoli, v. credo. Per il "decreto apostolico di Gerusalemme", v. atti degli apostoli.

Apostolo si chiamò, nelle prime raccolte di libri del Nuovo Testamento (in ispecie quella di Marcione) il gruppo delle opere che non erano "Vangelo": ossia, gli Atti degli apostoli e le epistole, specie quelle di S. Paolo, che nelle citazioni dei Padri della Chiesa è l'apostolo per eccellenza. Il nome rimase all'epistola nella messa della liturgia greca (che non è desunta dall'Antico Testamento) e quindi passò anche al libro che contiene le epistole da leggere nelle varie feste del ciclo liturgico.

Diritto. - Dal valore etimologico del termine "apostolo" deriva poi il significato ch'esso ha assunto nel diritto processuale romano e canonico. Si chiamarono cioè apostoli, volgarmente secondo Modestino, le litterae dimissoriae, con le quali il giudice di grado inferiore avvertiva il giudice d'appello che le parti ricorrevano a lui: quod causa ad eum, qui appellatus est, dimittitur (Dig., L, 16, de verb. sign., 106). Chi si riteneva danneggiato dalla sentenza doveva, entro cinque giorni dall'interposizione dell'appello, chiedere gli apostoli, che l'appellante doveva presentare (Dig., XLIX, 6, de lib. dim.). Anzi: Apostolos, post interpositam provocationem, etiam non petente appellatore, sine aliqua dilatione iudicem dare oportet (Cod., VII, 62, de appel. et consul., 5 segg.; cfr. anche Paolo, V, 34 segg.).

Il diritto canonico distinse varî tipi di apostoli. Il primo, apostoli dimissorii, corrisponde agli apostoli del diritto romano: sono le lettere con le quali il giudice inferiore rimanda le parti a quello d'appello. Seguono gli apostoli reverentiales, quando cioè il giudice di primo grado ob reverentiam superioris appellati, accetta l'appello medesimo, anche quando non vi sarebbe obbligato. I reputatorii sono invece la dichiarazione del giudice ch'egli non accetta l'appello, dicendone le ragioni; i testimoniales sono gli atti notarili, che l'appellante si fa fare, per constatare che il giudice, contro la cui sentenza appella, non lo ha voluto ascoltare, o gli ha rifiutato gli apostoli dimissorii. Si chiamano invece conventionales quelli rilasciati dalla parte avversaria, in varî modi (cfr. Ferraris, Prompta Bibliotheca, Montecassino 1844, s. v.).

Marina. - Il termine apostolo indica, nelle navi a vela, ciascuno di quei due scalini di prua, sporgenti, sopra i quali si regge il bompresso. Il nome deriva dal fatto che, anticamente, questi scalini erano dodici (cfr. Guglielmotti, Vocabolario marino e militare, s. v.).

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Iconografia. - La rappresentazione degli apostoli fu in ogni tempo, fra quelle dei santi, la più cara alle arti figurative; e fin dalla prima età cristiana le loro immagini ricorrono abituali nell'arte monumentale e, ancor più, in ogni specie di suppellettile liturgica apprestata dalle arti minori. Qui, di necessità, ci interesseremo solo alle rappresentazioni che li figurano come "Collegio", rinviando alle voci per le storie del Cristo, della Vergine e dei singoli apostoli.

Quest'ultimi appaiono, in affreschi e in rilievi di sarcofagi anteriori al sec. III, testimoni al Cristo nei suoi miracoli, o isolati o in piccolo numero; e, quali ritratti, in opere delle arti minori, fra cui notevoli per lo sviluppo della loro iconografia numerosissimi vetri graffiti in oro. Poi alla fine del sec. III e al principio del IV, si stabilivano rappresentazioni presupponenti la loro presenza al completo. Circondano la cattedra del Cristo, loro maestro, in una serie di affreschi delle catacombe romane (Wilpert, Pitture delle catacombe, tavv. 126, 148, 152, 155, 177, 193, 225), nei musaici di S. Pudenziana a Roma (sec. IV), di S. Aquilino a Milano (fine del sec. V) e in un gruppo di sarcofagi romani e provenzali nei quali, tra le molte varianti, la scena più usuale è quella che pone il Cristo su una roccia da cui scaturiscono i quattro fiumi. Tranne Pietro e Paolo, ben individuati nel tipo, le loro persone non si differenziano per caratteri particolari, la più parte in aspetto giovanile e tutti indossanti tuniche e pallî clavati, senz'altro attributo - e anche questo spesso manca - che il rotulo. Ma gia al sec. IV oltre questa concezione del loro aspetto, naturale e pervasa di spiriti ellenistici, si era affermata l'altra di velare con simboli la loro presenza. Sotto specie di colombe circondano la croce di un sarcofago d'Arles - come nei musaici d'una basilica ora distrutta fatta erigere a Nola da S. Paolino - o un triplice alone in iscritto col signum Christi nei musaici del battistero d'Albenga. Sotto specie di agnelli vennero rappresentati diffusamente per tutto il Medioevo, dai sarcofagi romani e provenzali del sec. IV (in uno del Museo Lateranense è la doppia figurazione, la simbolica e la realistica) ai musaici del battistero di Albenga (agnelli incedenti verso una croce gemmata), a quelli di S. Apollinare in classe (gli agnelli escono in processione verso il Cristo apocalittico dalle porte di Betlemme e di Gerusalemme), ai romani ove compaiono quasi senza eccezione a balza del catino absidale.

Nei musaici ravennati (S. Vitale, Cappella dell'arcivescovado, in due battisteri) e in altri monumenti d'origine orientale risalenti al sec. VI (argenterie siriache, codici di Rabula e di Rossano) gli apostoli assumono caratteri individuali meglio definiti e la tipologia di alcuni di loro - Pietro, Paolo, Andrea, Giovanni - si fissa definitivamente, per mantenersi poi stabile nell'arte bizantina. Gli artisti ne derivarono i tipi più che dalle poche testimonianze che a questo riguardo offrono i Vangeli e gli Atti, dalla letteratura apocrifa che ebbe anche grande importanza per lo stabilirsi delle scene relative alla vita dei singoli apostoli. Tra i dodici prescelti da Cristo vengono inseriti Paolo, Marco, Luca e Mattia, a sostituire Giacomo minore, Taddeo e Giuda iscariota che compare solo nelle parti del traditore. Anche al sec. VI risalgono alcune scene della loro vita, comuni all'arte bizantina. La Comunione degli apostoli, rappresentazione simbolica della Cena storica, nella quale il Cristo assistito da angeli è figurato due volte accanto all'altare in atto di distribuire il pane e il vino ai discepoli, divisi in due schiere; rappresentazione che compariva nel ciclo musivo dei Ss. Apostoli di Costantinopoli, e che ci resta in due patene d'argento, una del sec. VI nella collezione Kalebdjan, l'altra del sec. VII nel museo di Costantinopoli, nei musaici del sec. XII di S. Sofia a Kiew e in monumenti bizantini posteriori al '200. Nella chiesa dei Ss. Apostoli era rappresentato anche l'altro tema caro all'arte bizantina e che venne ripreso dagli scultori romanici nel timpano di Vézelay: la missione degli apostoli distinta nelle scene della divisione e della predicazione, e che a noi è pervenuta in codici miniati (Parigi, graec. 510; Londra, British Museum, add., 19352) e nei musaici di S. Marco. Temi e tipi fissati dall'arte bizantina nel sec. VI, perdurarono in Italia per tutto il Medioevo con varianti troppo tenui perché metta conto rintracciarle; così che ancora in Duccio e nel Cavallini i loro tipi corrispondono a quelli stabiliti tra il secolo VI-XI, ed è possibile identificarli quasi senza incertezze. Né mancarono in Italia, accanto alle opere di artisti locali bizantineggianti, altre che possano riferirsi direttamente a bizantini. Nel sec. VIII le immagini clipeate della cappella di Giovanni VII in S. Maria Antiqua a Roma; nel XI, i musaici più antichi del S. Marco di Venezia; nel XII, i musaici di Cefalù, di Monreale, della cappella Palatina di Palermo e la rappresentazione dei dodici "venuti a giudicare le tribù di Israele" nei Giudizî finali del duomo di Torcello e dell'abbadia di Grottaferrata; nel XIII, gli affreschi del battistero di Parma.

Nell'età romanica e nella gotica la scultura si impiegò a decorare, quasi cariatidi, gli stipiti del portale maggiore delle basiliche oppure le facciate, come negli apostolatos delle chiese di Spagna. L'arte bizantina non aveva dato attributi, eccetto che le chiavi a Pietro e la spada a Paolo. Ora, specie oltr'alpe, vengono caratterizzati dagli strumenti del loro martirio. S. Andrea ha una croce latina; Giacomo Minore una clava, Bartolomeo un coltello, Giacomo Maggiore la spada e il bordone da pellegrino, Giovanni, ma più raramente, un calice. Gli altri, che ebbero particolari attributi solo nel '400, un libro o una spada. In quelle sculture è comune anche l'accenno alle concordanze dell'Antico e del Nuovo Testamento, ottenuto opponendo agli apostoli i profeti, rappresentazione che venne svolta e resa più chiara oltr'alpe in un'altra: il Credo degli apostoli, che oppose ai dodici che presentano uno stendardo iscritto coi versetti del Credo, dodici Profeti con versetti tolti dai loro libri e corrispondenti a quelli. La scena perdurò nel '400 - così nel Libro d'Ore del duca de Berry -, apparve in Italia in affreschi del battistero di Siena attribuiti al Vecchietta, e fu anche ripetuta da manieristi, quale Martino de Vos.

In Italia, durante la Rinascenza i dodici si trovano rappresentati innumerevoli volte nelle scene della vita del Cristo e in quelle glorificanti la Vergine. E seguitarono a essere uniti, come fondamento della Fede, dall'iconostasi della chiesa di S. Marco a Venezia, alla facciata della basilica vaticana e all'interno della basilica lateranense. (V. tavv. CXLIX e CL).

Bibl.: A. Heisemberg, Grabeskirche und Apostelkirche, Lipsia 1908, passim; L. Bréhier, L'art chrétien, 2ª ed., Parigi 1928, passim. Per ulteriore bibl. v. C. Künstle, Iconogr. der Heiligen, Friburgo in B. 1926, p. 93 segg.

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