Apostrofo

Enciclopedia dell'Italiano (2010)

apostrofo

Silvia Demartini

Definizione

Il termine deriva dal gr. apóstrophos «rivolto altrove, indietro», da apostrépho «volgo indietro o in senso contrario». Apóstrophos (o -us) compare nel latino tardo, con significato unicamente grammaticale. Si tratta di un segno grafico diacritico in forma di virgoletta alta (’) che l’ortografia italiana normalmente usa per indicare l’➔elisione (l’amica, quell’albero), cioè la soppressione della vocale finale di una parola quando la parola successiva inizia per vocale o per h.

Oggi più raramente che in passato l’apostrofo è introdotto anche per segnare l’apocope, cioè la perdita della vocale o della sillaba finale di una parola indipendentemente dalla contiguità con vocale che segue. Sono significativi alcuni casi di apocope postvocalica: le forme di seconda pers. sing. dell’imperativo di verbi comuni come di’ (da dīc, apostrofato per distinguerlo da sostantivo; Serianni 19912: 81), sta’, da’, va’, fa’ e pochi altri termini (pie’, be’, po’, mo’). Non vanno dimenticate le forme apocopate delle preposizioni articolate, diffuse per secoli soprattutto in poesia, e i termini be’ (bei) e que’ (quei). In passato, l’apostrofo indicava anche un fenomeno oggi del tutto scomparso e dato come arcaico già dai grammatici del Cinquecento: l’aferesi della vocale iniziale di parola seguita da consonante appartenente alla stessa sillaba (lo ’nvito, padron ’Ntoni, ma anche l’articolo scritto come clitico ’l). Tra gli usi secondari c’è quello di indicatore della soppressione delle prime cifre di un anno (il ’48).

Cenni storici

L’apostrofo era un segno noto già nell’antichità. Certo, se si considera che l’abitudine di scrivere separando le parole si è diffusa intorno al IX secolo, diventando consueta solo dall’XI secolo in poi, non è difficile immaginare il ruolo marginale che aveva avuto l’apostrofo nei testi precedentemente copiati in scriptio continua. Eppure, già nei più antichi testimoni di opere greche l’apostrofo è saltuariamente presente in alternanza con la diastole, segno di aspetto uguale all’apostrofo, ma collocato in basso, che presto assume forma di virgola. Persisteva, intanto, l’abitudine di introdurre l’apostrofo alla fine di parole straniere e come segnale di fine paragrafo, capitolo o libro (Geymonat 2008: 46).

Nei testi dei grammatici latini si trovano indicazioni sull’apostrofo, solitamente collocato tra gli accenti. Diomede lo definisce «circuli pars dextera, […] ad summam litteram consonantem adposita cui vocalis subtracta est», dando l’esempio «tanton’ me crimine dignum?» (Diomede 1961: 435); Prisciano lo tratta con due segni affini: la citata diastole (disiunctio in latino) e la hyphen (coniunctio, un semicircolo basso che segnalava la pronuncia unificata di parole contigue).

È complesso tracciare la storia dell’apostrofo nei secoli di trapasso dal latino al volgare come lingua scritta. Di fronte alla congerie di abitudini presenti nei manoscritti, si può affermare che l’apostrofo era quasi del tutto assente negli scritti in volgare, a vantaggio delle forme univerbate. Anche negli autografi di Petrarca e di Boccaccio elisioni, aferesi e apocopi non sono contrassegnate da alcun segno e lo stesso vale per gli scritti quattrocenteschi.

La prima comparsa dell’apostrofo in un testo volgare a stampa in Italia si trova nell’edizione del dialogo latino del ➔ Bembo De Aetna (1496) stampata da Aldo Manuzio. L’apostrofo compare in: ain’ per aisne «dici tu?» (Castellani 1995: 31). Sarà nell’edizione di ➔ Petrarca del 1501, caratterizzata dalla modernizzazione del sistema interpuntivo, che l’apostrofo verrà introdotto in abbondanza per segnare elisioni (Voi ch’ascoltate), aferesi (e ’l van dolore) e apocopi (i’ che l’ésca amorosa al petto avea, ma anche reduci i pensier’ vaghi). Questo segno, però, non si diffuse facilmente.

Il Cinquecento, secolo della stampa, è anche il secolo della faticosa affermazione dell’apostrofo. Tuttavia, anche nel Dante aldino del 1502 l’uso è poco regolare (si trovano luno e laltro). Permangono, poi, nelle scritture manuali, abitudini dure a scomparire: per es., in Guicciardini compaiono luno, laltro, lhuomo, dhavere, nelle Prose di Bembo si trovano grafie come un’huomo (Migliorini 1957: 222). In questo secolo è significativo il contributo dato al conguaglio grafico dai correttori di stamperia come Lodovico Dolce, che nelle sue Osservationi dedica all’apostrofo (il «rivolto» che «si pone ogni volta, che si leva la vocale») alcune considerazioni, distinguendo i numerosi impieghi poetici dai pochi ammessi anche nella prosa. Grafie come gliniqui, luno e l’altro, frequenti nella grammatica di Fortunio del 1516, erano ancora ammissibili.

A fissare regole simili a quelle moderne furono Leonardo Salviati e Daniello Bartoli, stabilendo, per es., che il troncamento non va segnato con apostrofo davanti a consonante e nelle voci uscenti in liquida o nasale scempia. Ma negli scritti l’uso dell’apostrofo resta oscillante per tutto il Seicento e oltre: Tesauro e Marino, per citare due casi, non fanno distinzione tra elisione e troncamento, apostrofandoli indifferentemente. Curiosamente, poi, la Crusca, fino all’ed. 1691, non registrerà la parola apostrofo come lemma, benché essa compaia nel corpo di molte definizioni nella grafia di termini come co’, i’, da’, e’. La norma che regola la questione dell’apostrofo dopo l’articolo indeterminativo verrà data per la prima volta da Salvatore Corticelli nel 1745 (Corticelli 18402) ed è pressapoco quella ancora accettata dalle grammatiche novecentesche:

Senz’esso si scrive un quando è masculino, non già quando è femminino; poiché si può tanto scrivere un uomo, quanto un diamante […], ma non già un stella […]: laonde quando poi si scrive un’anima o un’essenza, si dee apporvi l’apostrofo.

Nell’Ottocento si ha la conclusiva normalizzazione delle regole dell’apostrofo, la cui applicazione resta, però, spesso guidata dal gusto, soprattutto in poesia. Nella seconda metà del secolo Raffaello Fornaciari descrive un impiego parco dell’apostrofo, lasciando le elisioni di verbi e nomi alla licenza degli scrittori, ma consigliando ancora l’elisione di che davanti a vocale o h. Risolve, poi, la questione dell’apostrofo in fin di rigo (accettato fino a metà Ottocento) imponendo l’a capo prima della consonante apostrofata, ma sull’argomento ancora nel Novecento ci saranno opinioni diverse. Il Novecento ha conferito all’apostrofo definitiva regolarità: già il manuale di Giuseppe Malagoli (1905) propone un compendio degli usi pressoché identico a quelli delle grammatiche attuali. Gli usi arcaici permangono come espediente metrico-espressivo di poesia: per es., se nel 1897 ➔ Giovanni Pascoli scriveva «siepe che il passo chiudi co’ tuoi rami / irsuti al ladro dormi ’l-dì», ancora in Guido Gozzano leggiamo: «Quant’anni avrete poi? Quanti n’avranno / quei due palmizi» e in Eugenio Montale: «Godi se il vento ch’entra nel pomario», mentre nella poesia di Giorgio Orelli le anguille «s’agitano».

Oggi

Oggi l’apostrofo attraversa una nuova fase critica. Permane l’incertezza dopo l’articolo indeterminativo a seconda che segua un maschile o un femminile, risolta per analogia o con l’omissione (un altra) o, più frequentemente, con l’ipercorrettismo (un’altro). Ma, come già riscontrava Migliorini a metà Novecento, le forme intere guadagnano sempre più terreno rispetto a quelle elise. Le aferesi marcate da apostrofo sono invece in netto declino; la soppressione di vocale nel dimostrativo (’sta cosa, ’sta volta > stavolta), comune nel parlato, è raramente indicata con apostrofo nello scritto e lo stesso vale per gli ipocorismi di allocutivo (Eli’, ma’, pa’ scritti senza apostrofo o accentati).

Un caso notevole è quello di po’, il cui apostrofo è spesso scritto come un improprio accento, di solito grave perché più simile all’apostrofo. Infine, il mescolamento di codici tipico di mail, chat ed sms favorisce l’uso del brachigrafico 1 al posto sia di un, sia di una; di conseguenza, è consueto trovarsi di fronte alla grafia mista 1 amica o 1amica (in scriptio continua!), in cui le ragioni del numero prevalgono su quelle dell’ortografia.

apostrofo
apostrofo [prontuario]
Andrea Viviani

Natura

L’➔apostrofo è, nell’italiano scritto, il segno che indica la caduta (o soppressione), in ragione di fenomeni di natura diversa e distinta, di una vocale (se davanti ad altra vocale si parla di ➔ elisione) o di una sillaba, in fine o ad inizio di parola.

Con articolo determinativo e dimostrativi

L’apostrofo è obbligatorio con l’articolo determinativo maschile singolare lo (l’imbuto, l’oboe; davanti a semiconsonanti abbiamo sempre l’apostrofo, l’uomo, ma lo iodio, piuttosto che l’iodio) e si trova usato sistematicamente anche con il femminile la (l’anima, l’onda, l’iscrizione, piuttosto che la iscrizione). Nell’italiano moderno con gli articoli plurali l’apostrofo è ammesso (ma resta d’uso raro) soltanto quando la parola seguente inizia con la stessa vocale elisa (gl’individui, l’erbe, ma più spesso gli individui, le erbe e sempre gli alberi, le azioni).

Le stesse regole che valgono per l’articolo determinativo valgono per i dimostrativi (quest’anno, quell’altra; ➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi) e per le ➔ preposizioni articolate; in queste ultime, l’apostrofo è obbligatorio se formate con lo (all’attacco, dell’uomo, nell’istante); estesissimo, ma un po’ meno generale, se formate con la (all’attenzione, dell’università, nell’ora, ma anche della università, ecc.); è praticamente escluso in quelle formate con gli e le.

Con articolo indeterminativo

Con l’articolo indeterminativo, l’uso dell’apostrofo è fonte di confusione e dubbio. Sistematico, se non proprio obbligatorio, con il solo femminile, a segnalare l’elisione della ‹a› di una (un’oca, un’università piuttosto che una università), non va invece impiegato al maschile, data la possibilità di usare la forma un al posto di uno: tale uso configura un errore sottoposto a fortissima censura perché denuncia scarsa dimestichezza con le regole dell’ortografia. Massima attenzione quindi con un amico, un estimatore, un incidente e così via.

Ancora oggi diffuso, ma meno sistematico di un tempo, è l’impiego dell’apostrofo con i pronomi personali atoni anteposti al verbo (➔ parole proclitiche): t’acchiappo!, l’ascolto, m’imbarazza, s’arrabbia, c’interessa. Si tratta di forme del tutto accettabili (quando non addirittura preferite) anche nei registri più elevati.

Casi incerti

È interessante come parole in uso possano essere la risultante della fusione (➔ univerbazione) di preposizione + nome: è il caso di allarme / allarmi, attestato (e accettabile anche oggi, pur se nella sola esortazione, e non come nome) anche nella grafia disgiunta: all’armi.

Non mancano casi di impiego dell’apostrofo confinato alle locuzioni cristallizzate: tant’è ma non tant’erano, senz’altro ma non senz’egli, quand’anche ma non quand’infine, com’è ma non com’anche, e così via.

L’apostrofo è convenzionalmente usato anche negli imperativi di seconda persona singolare di fare, andare, stare, dare e dire: fa’, va’, sta’ e da’. L’uso dell’accento al posto dell’apostrofo è una grave infrazione alla norma; nel penultimo caso realizza una sovrapposizione con una diversa forma verbale: è, difatti, terza persona singolare del presente indicativo. Diverso il caso del verbo dire, il cui imperativo presenta le due forme, pienamente accettabili, di’ e (► grafie unite e separate).

Errori comuni

Apostrofo e non accento va usato anche con po’ (e in altri casi, fuori però dall’uso o dallo standard perché arcaismi o localismi: mo’ «ora» per modo, ve’ per vedi, vo’ per voglio e altri): qui a cadere (per troncamento, e a prescindere dalla lettera che segue) non è una vocale, ma un’intera sillaba: po-co (nel caso di pie-de ha però prevalso la grafia piè, con l’accento). L’uso di con l’accento, erroneo, è purtroppo frequentissimo nelle scritture, anche in quelle mediamente formali e professionali.

Ad inizio di parola

L’apostrofo si usa anche all’inizio di parola, per segnalare la caduta della vocale o della sillaba iniziale. In ➔ italiano antico e nel linguaggio lirico tradizionale era frequentissimo anche con il, dove segnalava la caduta di ‹i› dopo vocale: te lo dice ’l cor mio. Oggi si trova, per riprodurre fenomeni di oralità pertinenti al parlato più colloquiale, spesso connotato localmente (– come è andata? –’nsomma; ’st’estate che fai?; ’sto film è ’na noia), ma si tratta di grafie inammissibili nello scritto formale. La forma ridotta del dimostrativo è però accolta nello standard in forme come stamattina per questa mattina, stasera per questa sera, stanotte per questa notte, stavolta per questa volta.

L’apostrofo si usa anche davanti ai numeri e nelle ► date: l’8 settembre ’43, nel ’64, dove indica la caduta, come avviene nel parlato, di millenovecento.

È buona norma che nello scritto a mano (la videoscrittura di solito non la contempla, giustificando sempre a margine per parole intere) si eviti l’andata ► a capo (► sillabe, divisione in) al margine destro di riga con un elemento apostrofato ‘pendente’, ma è anche sconsigliabile ripristinare la vocale elisa nei casi in cui l’apostrofo sia obbligatorio. Si possono invece scindere così le preposizioni articolate: del- / l’interesse, nel- / l’attesa, sul- / l’acqua.

Fonti

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