APPENNINO

Enciclopedia Italiana (1929)

APPENNINO (A. T., 24-25-26 e 27-28-29)

Federico SACCO
Roberto ALMAGIA
Giuseppe LUGLI
Augusto BEGUINOT

Storia della conoscenza, caratteri generali, suddivisioni. - L'antichità non ci ha lasciato nessuna descrizione sistematica dell'Appennino, perché ciò non rientrava veramente nei compiti della geografia classica; e i non copiosi accenni dei geografi e degli storici (indicazion) generali, pochissimi nomi di vette, menzioni un po' più numerose di passi, particolari itinerarî, ecc.) non rappresentano certo il patrimonio totale delle conoscenze dell'evo antico. Tale patrimonio si accrebbe certamente nel Medioevo, come è dimostrato, tra l'altro, dalle prime carte che sintetizzano graficamente le conoscenze, ma che non risalgono più addietro del sec. XIV o XV (cfr. alla voce Italia); ma descrizioni sintetiche generali si cercano invano anche in questo periodo, e più tardi; quelle di Flavio Biondo, di Leandro Alberti, ecc., si modellano ancora sui classici, più che fondarsi sulla osservazione diretta. Questa comincia ad aver larga parte presso gli studiosi che ricercarono sul terreno i monumenti dell'età antica come, nel sec. XVII, il Cluverio e l'Holstenio; ma bisogna arrivare al sec. XVIII o al principio del XIX per trovare una serie di studî continuati, di carattere naturalistico, sull'Appennino; tra i primi e più insigni studiosi si ricordano lo Spallanzani, il Procaccini-Ricci, il Tenore, ecc. Nel sec. XIX si sviluppano studî e ricerche di carattere prevalentemente geologico, cui son legati i nomi di Ponzi, Savi, Stoppani, Canavari, De Stefani, ecc. poi quelli di moltissimi tra i più recenti nostri geologi e rilevatori, Baldacci, Zaccagna, Lotti, Franchi, Verri, Parona, Crema, Cortese, Sacco; a quest'ultimo si debbono inoltre ampî lavori sintetici. Interviene anche l'opera di geografi: Giovanni e Olinto Marinelli, Porena, De Lorenzo, De Magistris, Almagià, ecc.; partecipano agli studî anche stranieri (Forsyth Major, Suess, Partsch, Hassert, Deecke, Gignoux, Du Riche Preller, T. Fischer, Philippson, Braun, Rühl, ecc.). Ma l'esplorazione scientifica di alcune parti è da completare, e molti problemi, anche di carattere generale, sono da definire. Tra questi vi è il problema dei rapporti dell'Appennino, sia con la sommersa Tirrenide e coi suoi residui, sia con le prossime catene montuose mediterranee, le Alpi, le catene dinariche, l'Atlante. È sicuro che l'Appennino appartiene alla serie delle catene giovani che circondano il Mediterraneo occidentale (Altaidi postumi, secondo la nomenclatura del Suess), ma non possono considerarsi come accertati definitivamente i rapporti tettonici con le Alpi Occidentali, con la Corsica e l'Elba, con l'Atlante: l'ipotesi dei carreggiamenti condurrebbe poi ad una vera rivoluzione di tutti i concetti più comunemente accolti sulla struttura dell'Appennino; ma la sua applicazione a questa catena, se ha dei sostenitori convinti (Steinmann, Argand, Lugeon, Termier), ha anche oppositori decisi tra i nostri geologi (De Stefani, Lotti, De Lorenzo; per tutto ciò in particolare v. italia).

Geologia. - La catena appenninica, costituente la maggior parte dell'Italia peninsulare, se complessivamente sembra costituire una unità geografica abbastanza individualizzata, all'occhio del geologo appare invece costituita da diverse parti o regioni, quali: il Gruppo di Voltri (o Massiccio ligure), il Monferrato (comprendente il bacino terziario del Piemonte), l'Appennino Settentrionale (o Appennino Ligure-etrusco o Appennino Ligure-emiliano-toscano), la Catena Metallifera (il Preappennino Tirrenico o antica Tirrenide), il Lazio, l'Appennino Centro-meridionale, la Puglia (o Antiappennino Adriatico) e la Calabria, zone che si congiunsero o addossarono le une alle altre in tempi diversi, sino a costituire il complesso appenninico quale oggi vediamo, sotto la curiosa forma dello stivale d'Italia. Per brevità di esposizione e per evitare inutili ripetizioni che deriverebbero dall'esame singolo di ogni zona, si indicheranno brevemente le diverse formazioni geologiche dalle più antiche alle recenti.

I terreni più antichi, sviluppati largamente a costituire la maggior parte della Calabria, sono rappresentati da gneiss spesso granitoidi, nonché da graniti, con intercalazioni anfibolitiche, il tutto dell'era primaria, secondo alcuni arcaica.

Dalle formazioni gneissiche si passa talora in Calabria a formazioni micascistose o filladiche, qua e là grafitose, le quali fanno supporre che si tratti di Paleozoico superiore.

Scisti metamorfici un po' analoghi, più o meno lucenti, gneissici, micacei, talcosi, cloritosi, filladici e simili, appaiono come base generale dei terreni nella Catena Metallifera, dove sono riferibili al Permo-carbonico, età che in alcuni punti (p. es. nel M. Pisano, ecc.) è precisata da filliti varie come: neuropteridee, pecopteridee, annularie, calamiti, ecc.

La serie del Secondario o Mesozoico è assai bene sviluppata e tipica in gran parte dell'Appennino con la seguente successione stratigrafica.

Il Trias, specialmente esteso nelle Alpi Apuane (dove appaiono i famosi marmi ornamentali, statuarî, ecc.), è costituito essenzialmente da calcari dolomitici in banchi bianco-grigiastri, spesso subcristallini, talora con resti di Giroporelle, Encrini, Molluschi, ecc.; qua e là vi appaiono anche zone gessose, come p. es. nell'alta Val Secchia e nella Garfagnana. Talora, specialmente nella parte inferiore della serie triasica, appaiono zone quarzitiche e speciali scisti silicei varicolori (soprattutto nell'Italia Meridionale), oppure scisti sericitici, filladici (come in Toscana); inoltre si incontrano qua e là calcari scistosi bituminosi con interessanti resti di pesci, come presso Giffoni Valle Piana nel Salernitano.

Il Retico o Infralias è rappresentato generalmente da calcari grigi, compatti o cavernosi, qua e là con Megalodonti, talora un po' scistosi con Avicule, ecc.

Il Lias sovente è assai complesso, cioè formato in basso da calcari grigi o grigio rossicci con Crinoidi, Terebratule, Ammoniti, ecc.; poi da calcari selciferi, spesso molto ricchi in Ammoniti, donde il nome di Rosso ammonitico; infine da scisti marnosi con frequenti impronte di Posidonomie.

La formazione del Giura consta di calcari svariati, spesso straterellati, talora diasprigni, talora varicolori, selciferi, con resti di Radiolarie, di Aptici, di Ammoniti, di Belemniti, ecc.

Quanto al Cretacico, nell'Appennino Settentrionale si inizia generalmente con calcari biancastri, in strati o banchi, ancora con qualche Ammonite e Terebratule. Seguono verso l'alto scisti, svariati, varicolori, con Fucoidi, Pticodi. Invece nell'Appennino Centro-meridionale la serie cretacica è rappresentata da una potentissima serie calcarea, talvolta un po' dolomitica, in banchi che mostransi qua e là assai fossiliferi, cioè con Toucasie o Requienie, Nerinee, Corallari, ecc. in basso, con Ippuriti o Rudiste e Caprinidi verso l'alto. Tale serie dell'Appennino Centrale termina spesso con calcari rosati, spesso arricciati. Detti calcari assumono non di rado l'aspetto di calcari di scogliera per l'abbondanza di resti di Ellipsactinee, Corallari, Echinidi, Briozoi, Molluschi, ecc.

Si deve però osservare che, oltre alla suddetta serie normale, tipica, del Mesozoico, nell'Appennino Ligure compare anche la sua speciale facies metamorfica tanto sviluppata e tipica nelle Alpi Occidentali, le quali infatti hanno la loro ultima propaggine appunto nell'Appennino Settentrionale dove costituiscono il cosiddetto Gruppo di Voltri. Questo gruppo montuoso è geologicamente riferibile al vero sistema alpino; per cui, se non fosse della profonda depressione savonese o di Altare che per i geografi in generale rappresenta il punto di divisione tra Alpi ed Appennino, tale separazione sarebbe più logico segnarla al Passo dei Giovi. Il gruppo di Voltri è infatti costituito dalla formazione calce micascistosa inglobante potentissime intercalazioni di prasiniti, anfiboliti, diabasi, serpentine, ecc.; serie che, per i rari resti fossili incontrativi altrove, è da considerarsi come una formazione comprensiva estendentesi dal Trias al Giura.

Si noti ancora che la potentissima ed estesissima formazione delle argille scagliose, degli argilloscisti, degli scisti galestrini, ecc. comprendenti svariate e potenti pietre verdi (serpentine, lerzoliti, eufotidi, diabasi, ecc.) che costituisce tanta parte dell'Appennino Settentrionale, invece di essere eocenica, come generalmente si ritiene, potrebbe essere cretacica, stando ai fossili (Cicadee, Radiolarî, Uintacrini, Inocerami, Ammoniti, Pticodi, Ittiosauri, ecc.) che vi si rinvennero. Tale interpretazione darebbe maggiore unità allo speciale fenomeno sedimentario-metamorfico che investì parte notevole delle formazioni mesozoiche in Italia.

La serie del Terziario o Cenozoico costituisce circa la metà dell'Appennino, presentandosi generalmente con grande potenza nella parte inferiore eocenica, e con meravigliosa regolarità e ricchezza di fossili nella parte media e superiore, tanto da essere questa una regione classica specialmente con la sua formazione marginale detta appunto subappennino.

A parte la questione degli argilloscisti ofitiferi, sopra ricordati come facies speciale trattando del Cretacico, ma che generalmente sono attribuiti all'Eocene, la serie eocenica dell'Appennino s'inizia talora con scisti brunastri o rossigni inglobanti o passanti spesso nella loro parte superiore a calcari nummulitici che talora rappresentano da soli l'Eocene inferiore, come calcare screziato, o calcare nummulitico, ricchissimo cioè in Nummuliti, Orbitoidi, Alveolina, Crinoidi, Molluschi, Litotamni, ecc.

Segue in alto una potentissima formazione, ora argilloso-calcarea (calcari a Fucoidi, a Elmintoidee, ecc. che formano il cosiddetto Liguriano e che passano talvolta a vere ardesie, come le famose lavagne del Chiavarese), ora prevalentemente arenacea (il cosiddetto macigno o etrurio), ora mista, calcarea ed arenacea, in strati irregolarmente alternati, da taluni chiamata macigno giovane. Vi scarseggiano i fossili, salvo numerosissime impronte svariate le cosiddette Icniti, Nemertiliti, Elmintoidi, Condriti, Fucoidi, Zoofici, ecc. All'estremità settentrionale (Monferrato) dell'Appennino, l'Eocene medio-superiore (Parisiano-Bartoniano) si presenta con marne e caratteristici calcari a Litotamni, Orbitoidi e Nummuliti, Rotularie, ecc. come presso Gassino.

L'Oligocene scarseggia generalmente nell'Appennino, salvo che in quello settentrionale dal lato padano, anzi nel bacino terziario del Piemonte vi appare con grande potenza e lungo sviluppo. Esso si inizia generalmente con una certa trasgressione e si presenta in forma di banchi arenaeei, spesso conglomeratici, anche a grossi elementi (piano Tongriano), terminando però in alto (piano Stampiano) con strati marnosi ed arenacei alternati od anche solo marnosi friabili.

In certe regioni (specialmente nelle alte valli della Bormida) le formazioni oligoceniche sono assai ricche in piccole Nummuliti, Corallari, Molluschi, ecc. di carattere subtropicale; in altre invece (come presso o tra i rilievi rocciosi dell'Appennino Savonese) inglobano lenti lignitiche, fra cui si trovano resti di una splendida flora subtropicale (a Palmacee), nonché ossami di Antracoteri, Trionici, ecc.

La serie del Miocene è invece assai più estesa, specialmente sul lato adriatico della catena appenninica; esso è quasi unicamente di deposito marino, e vi sono rappresentati tutti i piani, specialmente nel classico e famoso bacino terziario del Piemonte, dove infatti si possono ben distinguere regolarmente disposti: il piano Aquitaniano, a banchi abbastanza regolari marnosi e arenacei alternantisi migliaia di volte, qua e là fossiliferi; il piano Langhiano, tipicamente marnoso, grigio, spesso straterellato con Filliti, Pteropodi, Nucule, Solenomie, ed altri Molluschi di mare un po' profondo; il piano Elveziano, a tipo generalmente littoraneo, quindi prevalentemente arenaceo, talora molto calcarifero, in modo da costituire banchi compatti, come la pietra cantoni del basso Monferrato, i famosi calcari arenacei di S. Marino, S. Leo, S. Simone, della Verna, del M. Fumaiolo, sino alla pietra leccese, ecc.; formazione ovunque zeppa di fossili marini di ogni tipo, come indicano p. es. la classica fauna di Superga, quella di Rosignano Monferrato, quella di varî calcari organogenici del Miocene sparsi in lembi su varie parti dell'Appennino sino all'estremità delle Puglie; infine il piano Tortoniano, spiccatamente marnoso, qua e là fossilifero. È notevole che in certe regioni subalpine del Piemonte, come in quelle monregalesi e dei colli torinesi, le formazioni mioceniche marine inglobano ciottoli e massi rocciosi talora accumulati in enormi lenti estese e potenti, richiamando alla mente le formazioni moreniche.

Quanto al Miopliocene, detto anche Messiniano, Piano pontico, ecc., è ben noto, sia per il suo enorme sviluppo lungo l'Appennino dal lato adriatico, e in parte anche (in Toscana) dal lato tirrenico, sia per il suo carattere di deposito litoraneo-maremmano, passante anche al continentale: esso è infatti rappresentato da depositi sabbioso-ghiaiosi, talora (come p. es. in vaste zone dell'Appennino Centro-meridionale del lato adriatico) arenacei (compatti e potenti tanto da ricordare il macigno eocenico), da gessi (la famosa zona gessoso-solfifera), da calcari cariati, da marne argillose a Dreissene, Cardii, Neritine, Melanie, Melanopsidi, da marne silicifere fogliettate (Tripula) ecc., spesso ricche di Filliti, Diatomee, Insetti, Pesci, ecc., nonché qua e là (come in Toscana) da veri depositi lignitici con fossili di tipo continentale, come Molluschi lacustri e terrestri, Trionici, Emidi, Suini, Tapiri, Antilopi, Scimmie, ecc.

Infine il Pliocene costituisce la grande fascia subappenninica (donde appunto il nome di Subappennino), ampia talora anche decine di chilometri o addentrantesi molto nell'Appennino, come nel Bolognese, nella Toscana, nonché tra la Puglia e la Basilicata; nel qual caso vi appaiono frequenti ed estesi depositi grossolani, anche ghiaioso-ciottolosi, littoranei. Normalmente invece il Pliocene è un deposito che si inizia con marne argillose o sabbiose, grigie (il piano Piacenziano), inglobanti un'immensa quantità di fossili marini meravigliosamente conservati; succedono gradatamente verso l'alto della serie caratteristiche sabbie giallastre (piano Astiano), spesso zeppe di fossili di littorale, talora accumulati in veri nidi o banchi specialmente di Ostriche, Pettini, ecc., non essendovi neppur rari i resti di Balenottere, Delfinidi, denti di pesce, ecc.

Una forma speciale di deposito pliocenico di mare poco profondo o littoraneo appare in varî ed anche assai estesi lembi delle Puglie, sotto forma di calcari arenacei, più o meno teneri (volgarmente detti tovo, carparo), risultanti da un impasto di frantumi di organismi marini commisti a sabbia; materiale molto usato per costruzioni in tutta la Puglia.

Generalmente questa immensa serie terziaria marina dell'Appennino si chiude, nell'alto del Pliocene, con uno speciale deposito fluvio-lacustre o deltoide (le alluvioni plioceniche o piano Villafranchiano) che rappresenta il passaggio dalla fase marina a quella continentale; vi si trovano infatti resti di Molluschi lacustri o terrestri, nonché ossami di Elefanti, Mastodonti, Rinoceronti, Tapiri, Ippopotami, Bovidi, Cervidi, Iene, Felini, Canidi, Ursidi, Scimmie, ecc. Note a questo riguardo sono le regioni di Villafranca d'Asti, e dei bacini del Mugello, dell'Arno, di Gubbio, Terni, Spoleto, ecc., nelle cui conche, già lacustri, si accumularono spesso notevoli depositi di ligniti.

Le formazioni del Quaternario o Antropozoico appenninico sono assai svariate ed estese, ma poco potenti, salvo che nella regione marginale, dove esse in breve inspessendosi notevolmente passano a costituire la potente coltre della pianura specialmente sul lato padano. In complesso vi si possono distinguere i depositi antichi, più o meno giallastri ed alterati (del periodo diluvio-glaciale o Pleistocene), generalmente un po' elevati sui fondi vallivi, da quelli alluviali del periodo recente (od Olocene) dei fondi vallivi, oltre ai detriti di falda, ai depositi torbosi, alle dune o tomboli, ai depositi littorali, e parte dei travertini, della panchina, ecc. Ma è più opportuno distinguerli secondo l'origine, come segue.

Depositi diluviali, ghiaioso-ciottolosi, commisti a sabbia argillosa impura e coperti generalmente da limo (la cosiddetta terra da mattoni), il tutto di tinta giallastra o giallo-rossastra per alterazione, generalmente assai elevati (da decine a parecchie centinaia di metri): si trovano sui fondi vallivi attuali (così sopra Acqui, e specialmente in Val Sinni, con dislivelli anche di oltre 500 m.), oppure a riempire conche entrappennine già lacustri, come i bacini del Noce, dell'Agri, ecc. e la parte superiore delle conche lacustri plioceniche sovraccennate. Vi si connette il Loess, che ammanta alcune regioni collinose, specialmente i colli torinesi, dove esso assume anche grande potenza ed il suo aspetto classico.

Nelle regioni calcaree, specialmente se solo ondulate, si è depositata e conservata la cosiddetta terra rossa, argilla impura giallo-rossastra.

Depositi lacustri, sabbioso-argillosi, con intercalazioni ghiaiosociottolose oppure torbose, s'incontrano in varie conche entrappenniniche (grandiose quelle del Mercure e dell'Agri nell'Appennino Meridionale) talora costituendo la chiusa di una fase lacustre iniziatasi nel Pliocene; contengono resti di Cervidi, Suidi, Elefanti, ecc., nonché gusci di Elicidi, Paludine, Ciclostome, Limnee, Planorbidi, infinite Diatomee, ecc.

Limitati depositi continentali sono quelli delle caverne, in forma di terriccio con brecciame, croste stalagmitiche, importanti specialmente perché inglobano qua e là ossami di Orsi, Iene, Felidi, Bovidi, Cervidi, ecc.

Depositi glaciali: sono abbastanza frequenti attorno ai maggiori rilievi montuosi, specialmente dell'Appennino Settentrionale e delle Alpi Apuane, ma anche attorno ai maggiori gruppi montuosi dell'Appennino Centrale e Meridionale (Sibillini, Gran Sasso, Velirio, alta Val Sangro, Majella, Vulturino, Pollino, ecc.), provandoci così che anche in questa catena peninsulare il glacialismo ha avuto uno sviluppo notevole.

Il terreno morenico talora è tipico ed assai esteso e potente (come nelle alte regioni delle pietre verdi e del macigno dell'Appennino Settentrionale), testimoniando così il grande sviluppo (anche per oltre un chilometro) dei ghiacciai pleistocenici; altrove invece è rappresentato solo da accumuli detritici, disposti grossolanamente a semicerchio, od anche solo in irregolari allineamenti in rapporto ad antichi glacio-nevati.

Depositi di travertino (lapis tiburtinus): ve ne sono specialmente nell'Appennino Centrale e Meridionale, in forma di più o meno estese e potenti zone calcaree anche abbastanza alte sugli odierni fondi vallivi, in rapporto con sorgenti di acque calcarifere enormemente più copiose delle attuali, essendo allora ben più abbondanti le precipitazioni atmosferiche che le alimentavano.

Analogo al travertino è il deposito marino-littoraneo noto col nome di panchina, formatosi lungo la costa tirrena, specialmente nel Livornese; essa in parte è già emersa per sollevamento relativamente recente, ma giace tuttora in gran parte sottomare.

Altri depositi calcarei marnosi o maremmani (così il carparo o crostone del Tavoliere delle Puglie) si alternano talvolta con strati sabbioso-argillosi, costituendo nell'assieme la facies del Siciliano.

I depositi marini-littorali, sotto la solita forma di sabbie e ghiaie, sono assai estesi, talora in commistione con quelli fluviali di sfociamento; in diverse regioni si estendono i cordoni e le dune, anche assai alte, come in parecchi punti dell'Italia Meridionale, o basse, come i cosiddetti tomboli della Toscana, relativamente recenti.

Infine hanno un grande sviluppo le formazioni vulcaniche, sia come rocce trachitiche, leucitiche, leucotefritiche, andesitiche, basaltiche, ecc., compatte o scoriacee (lave), oppure come lapilli, ceneri, ecc., nei centri vulcanici di eruzione (M. Amiata, Radicofani, Campigliese, Roccamonfina, Vulture, Vesuvio, ecc.) e di esplosione (Vulcani laziali, ecc.); sia come tufi incoerenti o cementati, di trasporto eolico, più o meno lontani dal rispettivo centro di eruzione e di deposito subaereo o subacqueo, contenenti allora talvolta gusci di Ostriche, Pettini, Pettunculi, Cerizidi, Nasse, ecc. oppure resti rari di Cervidi, di Elicidi, ecc. Oltre a varie regioni della Toscana, sono specialmente classici pel vulcanismo quaternario dell'Appennino il Lazio e la Campania colla regione flegrea (v. sotto la voce vulcani).

Esaminate sommariamente le svariate formazioni principali costituenti l'Appennino, accenniamo ancora alla loro tettonica.

Naturalmente, più le formazioni sono antiche, più si presentano tettonicamente disturbate e tormentate; ma su tale fenomeno influì pure molto, talora anche moltissimo, la natura litologica; così per esempio, mentre si veggono le potenti pile di banchi di calcari triasici appena ondulate (per quanto fratturate e dislocate), si notano invece i ben più giovani argilloscisti ofitiferi (la ben nota formazione delle argille scagliose e dei galestri con pietre verdi) fortissimamente corrugati e ridotti spesso a pieghe rovesciate, ribaltate e carreggiate anche per qualche chilometro.

Tale interessante fenomeno di carreggiamento fu certamente esagerato da alcuni autori, ma interpretato nei suoi giusti limiti riuscirà a spiegare intercalazioni e posizioni stratigrafiche apparentemente strane.

Nel gruppo di Voltri (Appennino Ligure), ultima propaggine meridionale delle Alpi Occidentali, si vede che, in rapporto appunto con la loro costituzione di scisti svariati (per quanto metamorfici e molti ofitiferi), le formazioni sono fortemente corrugate, pigiate, sollevate e anche rovesciate in modo accentuatissimo, oltre che distinte dal vero Appennino per un fortissimo disturbo tettonico, con un hiatus divisorio assai spiccato corrente da Sestri Ponente a Voltaggio circa, cosicché questa potrebbe essere la linea, geologicamente più naturale, di divisione dell'Appennino dalle Alpi.

I terreni cristallini della Calabria, i più antichi di tutta la catena appenninica, sono fortemente disturbati, come si vede bene specialmente nella serie scistosa.

Così pure più o meno corrugati, ma con una certa regolarità e poche fratture, si presentano i varî scisti cristallini del Permocarbonico nella Catena Metallifera Toscana, come si può osservare chiaramente nelle due grandiose pieghe che originarono le Alpi Apuane. A detti scisti permici succede, in generale abbastanza regolarmente, tutta la serie mesozoica, anch'essa più o meno corrugata od ondulata, come mostrano le belle regioni geologiche dello Zaccagna; però, fuori delle Apuane, i terreni mesozoici sono spesso fratturati e quindi affioranti con irregolarità:

Nell'Appennino Meridionale la serie dei banchi calcarei del Mesozoico (specialmente del Trias e del Cretacico) è così potente, compatta e massiccia, che, malgrado gli intensi sforzi orogenetici subiti, non poté essere generalmente corrugata, per cui si è solo ondulata (come il Cretacico della Puglia), oppure si fessurò verticalmente, spostandosene poi i giganteschi frammenti o zolle in modo assai vario, formando quasi grandiose gradinate orografiche, come per esempio nell'Abruzzo.

Invece nell'Appennino Centrale i calcari mesozoici, più stratificati, sono spesso corrugati, talora sino al rovesciamento; anzi quelli straterellati del Cretacico sono in generale caratteristicamente ripieghettati nei modi più complicati e bizzarri.

Passando al Cenozoico si constata che le formazioni eoceniche sono generalmente assai tormentate nella loro tettonica; ciò specialmente perché, appoggiandosi per lo più sopra zone argillose (argille scagliose, scisti galestrini e simili), oppure avendo alternanze argilloscistose, specialmente nella loro parte inferiore, presentarono alle potenti pressioni tangenziali (verificatesi più volte dall'Eocene in poi) grande facilità a corrugamenti ripetuti ed intensi, tanto che dette formazioni, sia calcaree sia arenacee, si poterono ridurre a numerose pieghe, spesso accavallate, pígiate, ribaltate e rovesciate sino a raggiungere anche scorrimenti di notevole sviluppo orizzontale. Ciò specialmente nell'Appennino Settentrionale; del resto anche nell'Appennino Meridionale è spesso spiccatissima la differenza tra la tettonica a grandi zolle, fratturate e spostate, dei massicci banchi calcarei mesozoici, e quella con pieghettatura arricciata delle formazioni eoceniche, accavallate contro detti massicci o comprese e compresse tra di essi.

Tra l'Eocene e l'Oligocene vi è generalmente un notevolissimo hiatus, estendentesi spesso anche al Miocene, per cui dette formazioni oligo-mioceniche o mancano affatto, o si appoggiano più o meno trasgressivamente su quelle più antiche, in stratificazione spesso solo ondulata o poco inclinata oppure presa in sinclinali isolate, come in alcune regioni dell'Emilia, (in Val Tidone, presso Borgo Val di Taro, intorno a Castelnuovo nei Monti, ecc).

Però tutte le formazioni oligo-mioceniche sono meravigliosamente disposte a regolare e dolce monoclinale nella conca della Scrivia e nell'alto Monferrato, e foggiate invece in una o più anticlinali (anche con forti pendenze) nel basso Monferrato, estendendosi così sino ai colli torinesi, che rappresentano una magnifica estrema anticlinale ellittica terminale dell'Appennino.

Però è a notarsi che, mentre la direzione generale delle pieghe appenniniche è da NO. a SE., ciò che delinea l'andamento generale della catena appenninica, invece tale direzione devia a SO. nella finale terminazione torinese, a causa dell'ostacolo opposto dal prossimo margine della rigida catena delle Alpi Occidentali. Quanto ai terreni pliocenici e quaternarî, essi sono quasi orizzontali o appena ondulati, con pendenza dolcissima da monte a valle.

Bibl.: C. De Stefani, Le pieghe delle Alpi Apuane, Firenze 1889; F. Sacco, Il Bacino terziario del Piemonte, Milano 1889; A. Issel, Liguria geologica e preistorica, Genova 1892; E. Cortese, Descrizione della Calabria, Roma 1895; G. De Lorenzo, Studi di Geologia nell'Appennino meridionale, 1896; F. Sacco, L'Appennino sett. e centrale, Torino 1904, id.; Gli Abruzzi, Roma 1907; id., Il Molise, 1909; id., L'App. meridionale, 1910; B. Lotti, Geologia della Toscana, Roma 1910; F. Sacco, La Puglia, 1911; D. Zaccagna, Note illustrative sulle Alpi Apuane, 1920; B. Lotti, Descrizione geologica dell'Umbria, Roma 1926.

Sull'inizio dell'Appennino e la sua separazione dalle Alpi furono già incerti i geografi antichi; Polibio ad es. non distingue fra Alpi Marittime e Appennino ed estende quest'ultimo ad ovest fino a Massalia (II, 116), per contro Strabone fa cominciare l'Appennino a Genova (IV, 201-02). La più antica menzione dell'Appennino in lingua latina si ha in una notevole iscrizione del 117 a. C. (Corp. Inscr. Lat., I, 199, 18), che fissa i termini fra la città di Genova e il territorio dei Viturii (inde sursum iugo recto in montem Apenninum quei vocatur Bopto; ibei terminus stat. Inde Apenninum iugo recto in montem Tuledonem; ibei terminus stat). Ma nell'uso dei più antichi scrittori latini (per esempio in Livio) il nome Appennino è limitato solo alla parte settentrionale, che percorre il paese dei Liguri e degli Umbri fin sopra Iguvium, dove, al sommo della cresta, era un tempio famoso dedicato a Iuppiter Apenninus. Nella storia delle guerre dell'Italia centrale e meridionale, il nome non appare mai. I geografi greci estesero il nome a tutto il rilievo della penisola; già Polibio (III, 110, 9) vede nell'Appennino lo spartiacque dell'Italia e, sulle sue orme, Livio scrive (XXXVI, 5) Apennini dorso Italia dividetur; poi la concezione dell'Appennino come spina dorsale della penisola diviene comunemente accettata (Plinio, Mela, Strabone).

Molto poco conosciamo delle vette e dei passi dell'Appennino nell'antichità. Per l'Italia Settentrionale siamo quasi interamente all'oscuro di nomi; per l'Italia Centrale e Meridionale abbiamo alcune notizie abbastanza precise e anzi qualche monte, specialmente del Subappenino, conserva ancora oggi il nome antico, come ad esempio il Soracte, i Montes Albani, il Vultur, il Garganus, il Caietanus, il promunturium Circeiensium, il Vesuvius, il Taburnus presso Benevento, ecc.

Altre identificazioni si possono ritenere come sicure, sebbene il nome sia cambiato: il Mons Fiscellus, identificato già da tempo coi Monti della Sibilla, perché Plinio riferisce che di là appunto ha origine la Nera (Nat. hist., III, 109), il Mons Lucretilis, ricordato da Orazio (Carm., I, 17, v.1) a proposito della sua villa, il quale monte era una parte o forse anche tutto il gruppo odierno del Gennaro, presso Tivoli, e il Mons Neptunius, oggi M. sant'Angelo, sopra Terracina. Più dubbia è l'identificazione del Mons Cunarus col Gransasso d'Italia, proposta dal Cluverio (Italia antiqua) per il solo fatto che Servio nel commento al libro X verso 185 dell'Eneide lo dice situato nel Piceno. Virgilio nomina (Aen., VII, v. 713) anche le Tetricae horrentes rupes che dovevano trovarsi nella medesima regione, presso il confine con la Sabina. In Sabina sembra che fossero inoltre il Mons Sevens, ricordato dallo stesso Virgilio (Aen., loc. cit.) e i Gurgures alti montes di Varrone (De re rust., II,1, 16).

Nella Campania era il Mons Tifata, al confine col Sannio il Mons Callicula, ambedue rinomati per le fasi della prima guerra punica.

Per ciò che riguarda i passi dell'Appennino, questi erano in antico presso a poco gli stessi di oggi, specialmente nell'Italia Settentrionale, dove le strade moderne di lungo percorso coincidono in gran parte con le antiche. Infatti la via Postumia passava, come oggi la strada fra Genova e Tortona, per il Passo dei Giovi (Mons Iuventus) alto circa m. 472 sul livello del mare, mentre la via Cassia attraversava probabilmente i monti Apuani fra Luna (Carrara) e Parma (o Reggio) all'altezza di 1261 m. sul mare per il Passo del Cerreto.

Un'altra via attraversava l'Appennino Settentrionale, quella che da Firenze raggiungeva Bologna e scavalcava il Monte Gazzarro nella sella detta la Futa (m. 903) o nell'altra poco distante, detta Giogo della Scarperia (m. 879), scendendo poi in pianura lungo la valle del torrente Santerno.

La Via Flaminia tagliava l'Appennino al Passo della Scheggia e quindi ridiscendeva in pianura per le foci di Cagli e per il famoso passo del Furlo, dove ancora rimangono notevoli segni del suo difficile tracciato.

La Via Salaria cominciava la salita dell'Appennino Sabino, penetrando attraverso le gole di Antrodoco (Interocrium); quindi tagliava il fianco del Masso dell'Orso, dove è un alto taglio di roccia, e raggiungeva la quota massima (m. : 1300) dopo Amiterno, nella località detta Taverna della Croce e Ponte di Cavallucci, tra i Monti Pago e Pietrito, per seguire poi la valle del Vomano.

La Via Valeria, dopo essere salita quasi a 1200 metri sul livello del mare (Monte Bove), solcava la cresta dei monti abruzzesi prima all'altezza del lago Fucino e quindi attraverso la Forca Caruso (Mons Imeus) scendeva all'antica Corfinium (Pentima) ed entrava nella gola dell'Aterno.

La Via Appia si manteneva generalmente a una quota piuttosto bassa, salvo fra S. Angelo e Melfi, dove raggiungeva la massima altezza in località La Toppa (m. 988); ma il percorso in quel punto non è ben definito. L'Appia Traiana, cioè il prolungamento traianeo da Benevento a Brindisi, risaliva nuovamente l'Appennino all'altezza di S. Vito, raggiungendo la quota di m. 920 sul mare, dove era in antico la mutatio Aquilonis e, dopo aver scavalcato alcune creste minori, ridiscendeva rapidamente verso la pianura pugliese.

Bibl.: B. Nissen, Italische Landeskunde, I, Berlino 1883, p. 213 segg.; Ch. Hülsen, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, i, coll. 210-214.

Ma per tutta l'antichità si parla sempre dell'Appennino come di una unità; nessun geografo antico introduce delle divisioni. E come una unità lo considerano i geografi e cartografi dei sec. XVI, XVII e. XVIII; per G. A. Magini, ad es., l'Appennino, "re dei monti", è per la Penisola quello che è "la spina nel pesce e la schiena negli animali" e procede continuo dalla Liguria allo stretto di Messina. L'introduzione di suddivisioni è soltanto il prodotto della geografia sistematica del sec. XIX. Non esistono perciò per l'Appennino nomi tradizionali per designare le varie sezioni, come esistono per le Alpi.

Si distinguono di solito tre sezioni principali dell'Appennino, designate come Appennino Settentrionale, Appennino Centrale, e Appennino Meridionale. Quali linee divisorie si assumono solchi segnati da valli trasversali e da passi, e tali limiti sono, come sempre, convenzionali e pertanto variamente indicati dai geografi; ma alcuni caratteri cospicui per i quali le tre sezioni differiscono fra di loro possono con sicurezza segnalarsi, come vedremo tra breve; e possono pure segnalarsi alcuni caratteri differenziali fra le Alpi e l'Appennino, anche se una precisa linea divisoria fra i due sistemi non possa segnarsi che convenzionalmente.

Tali caratteri differenziali sono dati anziutto dalla diversa orientazione delle catene principali, che nell'Appennino vero e proprio hanno la direzione NO.-SE. che è quella generale della Penisola; poi dalle minori altezze, sia medie che massime, inferiori queste ultime a 3000 m.; onde nessun gruppo raggiunge il limite delle nevi permanenti (anche le vette superiori a 2500 m. sono pochissime e circoscritte ai gruppi del Gransasso e della Majella); inoltre la mancanza (tranne che in Calabria) di rocce cristalline, arcaiche e paleozoiche, e il prevalere, per contro, di terreni mesozoici e terziarî, rappresentati, a seconda delle sezioni, da arenarie, calcari, conglomerati, argille, sabbie, che dànno in generale forme molli, monotone, anche nelle aree più elevate; quelle forme, insomma, che sogliamo chiamare della montagna media, a determinare le quali hanno concorso anche altri processi morfologici di cui diremo in seguito. Infine altra caratteristica dell'Appennino è, in una con la minor complessità di struttura del sistema in confronto alle Alpi, l'asimmetria dei due versanti principali, adriatico e tirrenico: sul versante adriatico il corrugamento del rilievo appare più regolare, la fascia mediana più elevata è fiancheggiata esternamente da una regione collinosa digradante verso il mare, incisa da fiumi in valli trasversali. Sul versante tirreno, invece, la zona più elevata scende, talora assai rapidamente, verso dei solchi longitudinali, che furono occupati da bacini lacustri fino ad epoca geologica recentissima, ed ora sono solcati dai corsi superiori dei tributarî del mar Tirreno.

Come limite convenzionale tra Alpi ed Appennino, il consenso ormai pressoché unanime dei geografi designa la Sella o Bocchetta di Altare (495 m.) detta anche Col di Cadibona, a N. di Savona; ma in realtà tutta la sezione ad O. del Col dei Giovi (472 m.) può considerarsi come una zona di transizione fra i due sistemi, tanto per i caratteri geologici, che per quelli orografici; solo dopo il Col dei Giovi comincia ad apparire ben distinta la direzione NO.-SE. dei rilievi, che abbiamo indicato come caratteristica dell'Appennino.

Dalla Bocchetta d'Altare allo stretto di Messina il sistema si allunga per almeno 1350 km., ma non forma affatto un tutto unico, neppure dal punto di vista orografico. La sezione settentrionale è caratterizzata, dal punto di vista morfologico, soprattutto dal fatto che le principali catene si succedono da O. ad E. come le quinte di un teatro; ciascuna di esse, nella sezione più elevata, funge da spartiacque fra i fiumi tirrenici e gli adriatici, poi perde d'altezza e d'importanza, mentre lo spartiacque salta, mediante una sbarra trasversale, su una catena più orientale. Dal punto di vista litologico, caratteristico è il prevalere, nelle parti più elevate, di rocce arenacee, mentre più in basso hanno grande sviluppo le rocce argillose, marnose, sabbiose. Come limite meridionale dell'Appennino Settentrionale si suol prendere il solco segnato dalle valli del Tevere e del Metauro, riunite dai passi detti Bocca Trabaria (1044 m.) e Bocca Serriola (730 m.).

L'Appennino Centrale è caratterizzato orograficamente dalla graduale scomparsa della struttura a quinte e dall'apparire invece di due, o talora anche tre catene parallele, che racchiudono nel loro seno pianalti o conche, chiuse o quasi; la complessità del sistema è pertanto maggiore, e maggiore anche l'altezza dei gruppi principali, nei quali un piccolo numero di cime supera i 2500 m. Ciò nondimeno nessuna raggiunge, come si è detto, il limite delle nevi permanenti; cause d'ordine puramente topografico, spiegano la presenza di un piccolo ghiacciaio nel gruppo del Gransasso (v.). Dal punto di vista litologico caratteristica è la struttura calcarea di quasi tutti i gruppi principali.

Come limite meridionale dell'Appennino Centrale alcuni indicano il solco segnato dalle valli del Volturno e del Sangro, riunite dal Passo di Rionero (1010 m.), ma è forse preferibile adottare una linea più meridionale, quale quella segnata dalle valli del Tammaro (Calore) e del Biferno, riunite dalla Sella di Redole o di Vinchiaturo (538 m.); si viene così a includere nell'Appennino Centrale il gruppo del Matese.

Nell'Appennino Meridionale la continuità orografica del sistema sembra perdersi: alle lunghe zone corrugate, alle pieghe regolari orientate da NO. a SE., si sostituiscono sollevamenti isolati, in forma di massicci o zolle, costituite da pile potenti di calcari giurassici, liassici o anche da dolomie del Trias, separate da bacini depressi colmi di depositi del Terziario superiore, ovvero fasciati (soprattutto ad E. e a S.) da zone di colline pure formate da terreni terziarî a facies prevalentemente argillosa. In Calabria, poi, il carattere dell'Appennino muta di nuovo con l'apparire di altipiani elevati a sommità spianate e fianchi ripidi, la cui ossatura è costituita da terreni cristallini, ignoti a tutto il resto del sistema. Alcuni perciò fanno terminare l'Appennino al solco segnato dalla valle del Crati. Ma l'uso comune estende oggi il nome Appennino anche ai rilievi della Calabria fino allo Stretto di Messina, e a tale consuetudine ci conformeremo nella descrizione seguente.

Dall'Appennino vero e proprio si suole distinguere il Subappennino, nome col quale si designano dorsali e gruppi, di altezza solitamente minore, che si affiancano ai principali, tanto dal lato dell'Adriatico quanto dal lato del Tirreno, dove specialmente appaiono assai nettamente separati da solchi o valli longitudinali; ma delimitazioni ben precise e d'uso concorde non ci sono. Il nome di Antiappennino designa invece rilievi isolati, di origine e struttura del tutto differente, che s'incontrano tanto verso il Tirreno che verso l'Adriatico; essi sono del tutto separati dall'Appennino, col quale non hanno che fare e perciò non se ne parla qui (v. italia).

Appennino Settentrionale. - L'Appennino Settentrionale viene a sua volta comunemente diviso in due sezioni denominate Appennino Ligure e Appennino Etrusco o Tosco-emiliano; il limite è indicato dal Passo della Cisa (1040 m.), tra le valli della Manebiola (Taro) e della Magriola (Magra), o da quello, più depresso, ma men frequentato, del Brattello (945 m.), poco a SE. del primo, tra le valli del Taro e della Magra. L'Appennino Ligure (circa 160 km. di sviluppo), nella sua sezione occidentale, tra il Col d'Altare e i Giovi, forma, dal punto di vista geologico e litologico, l'anello d'unione con le Alpi, essendo costituito da rocce serpentinose, in moltissime varietà, le cosiddette rocce verdi che tanto sviluppo hanno nelle Alpi Occidentali (Alpi Liguri secondo taluni autori; v. alpi). Ma il rilievo, formato da catene brevi, dirette in genere da N. a S., ha modesta altezza, ed anche le vette più eccelse, il M. Beigua (1287 m.) e l'Ermetta (1267 m.), costituite da rocce serpentine, non hanno affatto fisionomia alpina. Gli estremi sproni meridionali delle catene scendono precipiti sul Mar Ligure; le sorgenti dei tributarî del Po distano pochissimo dal mare stesso (quelle dell'Orba appena 5 km.). Due passi importanti intaccano questa sezione, il Col del Giovo o Giovo di Sassello (523 m.) con carrozzabile da Savona ad Acqui; e il Passo del Turchino (532 m.) con carrozzabile da Voltri a Ovada. Verso l'estremità orientale, dove le catene, mantenendo la stessa direzione N.-S., hanno estensione un po' maggiore e sono abbellite da qualche piccolo lago (laghetti del Gorzente, oggi convertiti in bacini artificiali) è il passo detto la Bocchetta (772 m.), percorso da una strada che dalla industre valle della Polcevera conduce a Novi Ligure, strada diminuita di importanza dopo che venne costruita (1815-24) quella dei Giovi.

Solo ad oriente dei Giovi si manifesta la struttura caratteristica dell'Appennino Settentrionale: catene o pieghe anticlinali con direzione generale da NO. a SE. che si succedono le une alle altre come le quinte d'un teatro, costituite in larga misura da terreni eocenici, tra i quali spuntano, ormai ridotte ad isole di varia estensione, le rocce serpentinose. Lo spartiacque corre dapprima ancor vicino al mare, ma oltre il Passo della Scoffera (679 m.), percorso dalla grande strada Genova-Piacenza, se ne allontana sempre più; tra piega e piega cominciano ad interporsi valli longitudinali (Lavagna, Vara, Magra superiore). Le vette più elevate non s'incontrano peraltro lungo lo spartiacque, che ha percorso molto irregolare e non corrisponde all'asse orografico; ma in dorsali più vicine alla Pianura Padana, le quali hanno ancora direzione generale meridiana e sono divise tra loro dalle valli trasversali dei fiumi padani: così la catena a sinistra della Trebbia contiene i monti Antola (1598 m.), Lesina (1727 m.), Elvo (1701 m.); quella fra Trebbia e Ceno i monti Penna (1735 m.), Maggiorasca (1803 m.), Bue (1780 m.), Ragola (1710 m.), ecc.; quella tra Ceno e Taro, il M. Pelpi (1480 m.). Una zona di colline terziarie fascia all'esterno queste catene, digradando verso il Po, al quale le colline si avvicinano moltissimo presso Stradella. Invece a SE., abbastanza isolato tra la Vara, la Magra e il Taro superiore, è il gruppo di M. Gottero (1640 m.), che appartiene alla linea spartiacque; questa è cavallata, a NO. di esso, dalla rotabile che unisce la Riviera di Levante alla valle del Taro, col Passo delle Cento Croci (1033 m.).

Nell'Appennino Etrusco, che, fra la Cisa e la Bocca Serriola, ha uno sviluppo di circa 275 km., la disposizione a quinte è ancor più caratteristica: le catene hanno ormai tutte la direzione NO.-SE. e fungono una dopo l'altra da spartiacque; le tre principali sono riunite fra loro da sbarre trasversali e racchiudono valli longitudinali costituenti cantoni ben individuati, assai fittamente abitati. La prima catena si allaccia al gruppo di M. Gottero mediante la sbarra M. Molinatico-M. Borgognone, tagliata dal Passo della Cisa, si eleva subito a 1830 metri nel M. Orsaro e procede a SE. con vette arrotondate o spianate, comprese tra 1700 e 1800 m., nei cui fianchi, sul versante padano, si incavano numerosissimi bacini lacustri; oltre il Passo di Lagastrello (1200 m.) cresce ancora di altezza, culminando nel M. Alto (1904 m.) e nell'Alpe di Succiso (2017 m.), la vetta più settentrionale dell'Appennino che superi i 2000 m. (44°20' lat. N), e più a SE. nel Monte Cusna (2121 m.); un solo passo importante, quello del Cerreto, assai elevato (1261 m.) la traversa in questo tratto. A SE. del monte Cusna la catena è tagliata dal passo detto Foce delle Radici (1528 m.), ma forma spartiacque fino al monte Giovo (1991 m.) e al Rondinaio (1964 m.), oltre al quale si abbassa e perde d'importanza andando a morire con il lungo dorso di M. Albano (615 m.) sulle rive dell'Arno.

Ma tra il Rondinaio e il Cimone, un'altra sbarra trasversale tagliata dal Passo dell'Abetone (1368 m.; v.) ci porta sulla seconda catena, che s'inizia appunto col Cimone, il monte più alto dell'Appennino Settentrionale (2163 m.; v. cimone), e funge da spartiacque per soli 25 km. fino al M. dell'Uccelliera (1797 m.) formando una dorsale elevata (Libro Aperto 1937 m., Corno alle Scale 1945 m.), ma sempre con forme dolci e arrotondate, prevalendo, nelle aree più elevate, rocce arenacee in strati assai potenti. A SE. del Monte dell'Uccelliera la catena è secata in una profonda gola dal Reno, che ha le sue sorgenti sul versante meridionale, a breve distanza dal Passo delle Piastre (761 m.), per cui passa la rotabile da Pistoia a Bologna; la ferrovia traversa invece la dorsale in una serie di gallerie. Nella sua continuazione più a SE., questa stessa catena è fortemente intaccata e quasi smembrata da valli e vallecole; diminuendo d'altezza, accompagna la Sieve a destra (M. Giovì, 992 m.), poi oltre questo fiume si prolunga col Pratomagno (v.). Ma sulla destra del Reno una terza catena s'inizia, che, dapprima poco elevata, è frequentemente intaccata da valichi assai depressi: la Sella di Montepiano (1136 m.), la Futa (903 m.), il Giogo della Scarperia (879 m.), il Passo di Casaglia (927 m.), tutti percorsi da carrozzabili conducenti dal popoloso bacino di Firenze alla parte centrale dell'Emilia; cresce a poco a poco di altezza fino a culminare nel gruppo del Falterona (1649 m.; v.), poi si prolunga a SE. fino al M. Fumaiolo (1408 m.), e all'Alpe della Luna (1454 m.; v.). Dal Falterona una sbarra trasversale, tagliata dal Passo della Consuma (1058 m.; v.), la unisce al Pratomagno. Dal M. Fumaiolo invece si diparte quel contrafforte fra Arno e Tevere che ha il nome di Alpe di Catenaia. Anche in quest'ultima sezione l'Appennino Settentrionale è facilmente attraversabile: l'unica ferrovia fra Firenze e la Romagna l'attraversa con una lunga galleria (degli Allocchi) a SE. del già ricordato Passo di Casaglia; altri passi rotabili sono l'Alpe di S. Benedetto o Passo di Prataglione (892 m.), il Passo dei Mandrioli (1173 m.), dal Casentino alla valle del Savio, il Passo di Viamaggio (986 m.), dall'alta Valle Tiberina a quella della Marecchia, ecc.

Sul fianco adriatico dell'Appennino Settentrionale si stende tutta una fascia di basse montagne e colline costituite da argille e sabbie di varî orizzonti, dall'Eocene al Pliocene, che si può designare col nome di Subappennino, senza che si possa peraltro segnare una linea di confine. Sul versante tirreno invece, rilievi subappenninici ben individuati sono le Alpi Apuane, molto diverse anche per struttura ed aspetto (v. apuane, alpi), il Pratomagno, l'Alpe di Catenaia ed anche quella che può considerarsi come una continuazione di quest'ultima a S., cioè l'Alta di S. Egidio (1048 m.) che digrada a S. verso il Trasimeno.

Le forme dell'Appennino Settentrionale sono in parte determinate dalla natura delle rocce prevalenti, ma soprattutto sono collegate con le più recenti vicende geologiche. Gli ultimi grandi corrugamenti orogenici avvennero - a quanto sembra - nel Miocene medio; da allora fino al Pliocene inferiore l'alta terra formatasi rimase emersa, e fu preda al lavorio degli agenti atmosferici e delle acque, la cui opera di demolizione e di spianamento assunse grande intensità, si da ridurre già le parti marginali a condizioni prossime a quelle di un tavolato di erosione; sopravvenuta poi la transgressione del Pliocene inferiore, i margini del tavolato scomparvero sotto le acque del mare pliocenico, ma nella parte centrale e maggiore continuò l'opera di livellazione e di spianamento che dovrebbe aver ridotto l'Appennino Settentrionale alla condizione di un penepiano con rete idrografica in istato di avanzata vecchiaia. Soltanto la zona culminale, la più intensamente corrugata, sfuggì, almeno in parte, a quest'azione di spianamento, forse perché costituita da rocce più resistenti, come il macigno. Verificatosi, alla fine del Pliocene, un nuovo sollevamento, esso portò un ringiovanimento della rete dei corsi d'acqua, che iniziarono un nuovo ciclo di erosione: l'attuale rete idrografica appare infatti, specialmente sul versante adriatico, come una rete ringiovanita, ed anzi in parte riincisa e adattata (sovrimposta) nell'antico penepiano (v. italia, idrografia). Ai movimenti di masse verificatisi nel Pliocene risale anche probabilmente la formazione dei maggiori bacini lacustri del versante tirrenico, che rappresentano antiche valli longitudinali, mature o vecchie, successivamente trasformate in bacini chiusi per effetto di sollevamenti di entità maggiore verso il Tirreno, minore verso l'asse appenninico, onde si generarono contropendenze nei fondi vallivi. I laghi sono ora prosciugati ed al loro posto troviamo di nuovo vallate longitudinali quasi chiuse, costituenti come cantoni isolati.

L'epoca glaclale ha determinato anche nell'Appennino Settentrionale un discreto sviluppo di ghiacciai, che sembra scendessero sul versante N. fin verso gli 800 m.; ne avevano certamente le alte valli della Trebbia, dell'Aveto, della Parma, dell'Enza, della Secchia, della Scoltenna (Panaro); un accurato studio sui depositi glaciali (morene, massi erratici, rocce arrotondate, ecc.) e sulla distribuzione e localizzazione degli antichi ghiacciai si attende peraltro ancora. Al modellamento glaciale alcuni hanno riportato anche l'origine della maggior parte dei piccoli bacini lacustri dell'Appennino Settentrionale, dei quali il De Stefani ha contato circa 150, raccogliendo per una quarantina di essi taluni elementi idrografici. I più notevoli sono: il Lago Santo Parmense (alt. 1507 m.; kmq. 0,725; prof. 20 m.), il Lago Ballano (alt. 1337 m.; kmq. 0,73; prof. 20 m.) e il Lago Verde di Val Cedra (alt. 1497 m.; kmq. 0,6), entrambi oggi ampliati artificialmente per scopi industriali; il lago Squincio (alt. 1240 m.; kmq. 0,31; prof. 3 m.); il Lago Santo Modenese (alt. 1501 m.; kmq. 0,053, prof. 20 m.), il lago Scaffaiolo (alt. 1175 m.; kmq. 0,011, prof. 2,5 m.) ecc.

Nella regione subappenninica adriatica, dove predominano, come si è detto, rocce facilmente erodibili, la morfologia è influenzata da fenomeni di demolizione e di erosione accelerata, le frane, che sono un vero flagello nel Reggiano e nel Modenese (v. frane), i calanchi, caratteristiche associazioni di solchi di erosione ventagliformi che hanno un aspetto singolarissimo su estese aree del Subappennino romagnolo (v. calanchi). Nel Miocene dell'Appennino Romagnolo appaiono anche formazioni gessose, con le quali sono pur collegate forme singolari di rilievi ed anche un peculiare sviluppo di fenomeni carsici (grotte, doline, ecc.).

Con le variabili forme del terreno e con la rete idrografica è anche in rapporto la distribuzione delle colture, degli abitati, delle strade, ma qui non è possibile entrare in particolari su questi argomenti. Un prospetto riassuntivo dei valichi e delle strade transappenniniche si troverà alla fine di questo articolo. I centri abitati in permanenza più elevati dell'Appennino Settentrionale non vanno oltre i 1000 m.; il più alto sembra esser Abetone-Serrabassa (1385). Le abitazioni temporanee hanno scarsa importanza.

Appennino Centrale. - Nell'Appennino Centrale, che, come si è detto, si può limitare fra la Bocca Trabaria e il Passo di Vinchiaturo, la struttura a quinte si conserva solo nella sezione settentrionale mentre la parte principale (centrale e meridionale) ha per nucleo un'alta terra - il grande altipiano abruzzese - la cui ossatura è del tutto calcarea, e che è ricinto e percorso da catene, pur costituite in prevalenza da pile potenti di calcari eocenici o preterziarî. Le catene principali, quelle orientali, dirette ancora da NO. a SE., si avvicinano sempre più all'Adriatico, ma esse perdono ben presto la funzione di spartiacque principale; la linea di displuvio corre più ad occidente su dorsali meno elevate e anche attraverso i pianalti; i tributarî dell'Adriatico, dopo un percorso più o meno lungo in valli longitudinali, incidono le catene orientali in gole anguste e incassate, che sono pure una caratteristica morfologica peculiare dell'Appennino Centrale.

La catena del Falterona, l'ultima delle catene dell'Appennino Settentrionale, continua a fungere da spartiacque fino alle sorgenti del Burano, dove una sbarra trasversale, tagliata dal Passo della Scheggia (570 m.) ci porta su una catena più orientale, la quale si inizia più a N. col M. Nerone (1527 m.), che con la sua nuda massa calcarea annunzia il carattere litologicamente più saliente dell'Appennino Centrale, culmina poi nel Catria (1702 m.), continua a S. con una lunga dorsale di calcari secondarî (M. Cucco 1567 m., M. della Penna 1437 m., M. Pennino 1570 m., M. Cavallo 1485 m.) fino alle sorgenti del Chienti, intaccata fortemente solo in due punti, alla così detta Sella di Fossato (740 m.; carrozzabile da Foligno ad Ancona; la ferrovia sottopassa in galleria) e al Piano di Colfiorito, ove l'incerta soglia spartiacque (750 m.) era occupata fino a poco tempo fa da un bacino lacustre, primo esempio di un caso che poi non di rado si ripete nell'Appennino Centrale. Oltre il M. Cavallo, mentre la catena, cessando di formare spartiacque, si prolunga a S. e a SO. sulla destra del Nera (M. Torremaggiore 1428 m.), un'altra sbarra trasversale tagliata dal Passo di Visso (816 m.) ci porta su un'altra catena più orientale, che, per la sua lunghezza ed altezza, fu già detta la catena principale dell'Appennino Centrale. Essa si inizia più a N., sulla destra dell'Esino, coi dossi del Lelegge (996 m.) e del Sanvicino (1484 m.), e si viene allineando parallelamente alla catena del Catria, separata da questa per la profonda sinclinale Fabriano-Camerino; dal M. Rotondo (2103 m.) al Vettore (2478 m.) forma l'aspra e nuda catena dei Monti Sibillini (v.), dai fianchi ripidi, uno dei tronchi più selvaggi dell'Appennino; poi, oltre la profonda gola del Tronto, si prolunga - cessando ormai di formar spartiacque e con una continuità che è solamente orografica - nei Monti della Laga, molto elevati, ma di aspetto diverso dai contigui, perché costituiti eccezionalmente da arenarie e marne del Terziario medio (Pizzo di Sevo 2422 m., M. Gorzano 2455 m.); oltre la gola del Vomano si eleva alle massime altezze nel gruppo del Gransasso d'Italia (Corno Grande 2914 m.; v. gransasso) e oltre la gola del Pescara nell'aspro dorso del Morrone (2060 m.) e nel massiccio della Majella (M. Amaro 2795 m.; v. majella). Le gole su ricordate offrono anche i passaggi principali tra i due versanti: la strada da Spoleto ad Ascoli-Piceno accompagna il Tronto nella gola di Arquata; quella da Aquila a Teramo, superato l'elevato Passo delle Capannelle (1260 m.) scende lungo il Vomano, quella da Sulmona a Pescara si addentra lungo la Pescara nella gola di Popoli.

Gli studî geologici e morfologici più recenti hanno messo in luce la discontinuità di questa cosiddetta catena principale appenninica, che in realtà si ravvisa costituita da dorsali e massicci ben distinti formanti l'elevato orlo orientale dell'altipiano. Il carattere di altipiano, incavato da conche, solcato da groppe elevate, si nota già nel paese che si affianca ad O. ai Sibillini e costituisce l'alta valle del Nera e il bacino del suo affluente Corno; esso è chiuso a S. dal grande sprone culminante nel Terminillo (2213 m.; v.), che si può considerare come il confine settentrionale dell'Abruzzo. L'altipiano abruzzese, alto in media 600-700 m., è incavato dalle grandi conche di Aquila, di Sulmona, del Fucino (o Marsica) e di Casteldisangro. Sui massicci principali che si adergono nella sua parte centrale corre, in genere, lo spartiacque tirreno-adriatico. Essi sono: la imponente catena di M. Velino (2487 m.), cui si aggrega anche la Montagna della Duchessa (v. velino); il Sirente, dorsale calcarea brulla, di poco meno elevata (2340 m.); i monti Marsicani (M. Terrata 2208 m., M. Marsicano 2243 m.) e il gruppo di M. Greco (2283 m.), i quali precipitano ripidi sull'alta valle del Sangro; il gruppo della Meta (2247 m.; v.) fra l'alto Sangro e l'alto Volturno, e a S. di quest'ultimo il Matese (M. Miletto 2050 m.), il più meridionale dei tipici massicci calcarei diretti da NO. a SE., dell'Appennino. L'orlo occidentale dell'altipiano è assai meno elevato; esso è segnato dalla catena che si erge fra il Salto e il Turano (M. Navegna 1506 m.) e dalla Serralunga a O. del Fucino (M. Cornacchia m. 2003). Altre pieghe più occidentali, separate da queste ultime per mezzo delle valli del Turano e del Liri sono di nuovo più elevate, ma da taluni si ascrivono già al Subappennino: sono i M. Sabini (Pellecchia 1368 m., v. Sabina) e i Simbruini (Viglio 2156 m., v. simbruini). Carattere subappenninico hanno indubbiamente le Mainarde, dorsali che si affiancano alla Meta, smembrate in diversi gruppi dagli affluenti di sinistra del Liri; il più alto è quello di M. Cairo (1669 m.). L'ultima grande piega occidentale, conservante sempre la direzione NO.-SE. e il carattere di montagna calcarea, nuda, povera d'acqua, è quella dei Lepini (Semprevisa 1536 m.) cui fanno seguito i M. Ausoni e gli Aurunci (v. lepini).

L'ampiezza e l'elevatezza della zona montuosa rendono malagevoli le comunicazioni tra i due versanti dell'Appennino Centrale. La principale strada che mena dall'Umbria in Abruzzo (Terni-Aquila), oggi accompagnata dalla ferrovia, valica lo spartiacque alla Sella di Corno (1000 m.). La strada che da Roma per la valle dell'Aniene conduce al bacino di Sulmona, oggi pur accompagnata da ferrovia, valicata la dorsale occidentale, supera poi lo spartiacque alla Forca Caruso (1031 m.), a NE. della conca del Fucino; da quest'ultima si passa invece nella valle del Liri e a Sora per il Passo di Capistrello (791 m., ferrovia), nella valle del Sangro per il Passo di Gioia Vecchio (1354 m.). Ma la principale arteria di comunicazione tra l'Abruzzo interno e il Napoletano sale da Sulmona al Piano delle Cinquemiglia, uno dei maggiori bacini chiusi dell'Abruzzo, cosiddetto dalla sua lunghezza (alt. 1250 m.), scende a Casteldisangro e poi valica lo spartiacque al Passo di Rionero (1010 m.), scendendo a Isernia nel bacino del Volturno. La ferrovia Sulmona-Isernia non accompagna questa antica strada, ma sottopassa i dorsi più alti in numerose gallerie. Il Passo di Vinchiaturo (538 m.), che abbiamo assunto come limite sud dell'Appennino Centrale, è pure percorso da una strada e da una ferrovia per la quale si passa dalla valle del Biferno in quella del Tammaro.

Anche nell'Appennino Centrale, i principali corrugamenti orogenetici ebbero termine - a quanto pare - col Miocene, mentre più tardi si verificò un intenso lavorio di spianamento per opera degli agenti atmosferici, che, oltre al ridurre notevolmente l'altezza originaria delle pieghe maggiori (situate allora in posizione più centrale e formanti lo spartiacque principale), determinò forme senili o addirittura vasti penepiani. Resti di antiche superfici di spianamento si riconoscono di fatto ancora, nei massicci maggiori, in genere ad altezze fra 1800 e 2000 m.: in modo più evidente, per quanto finora consta, nel Matese; manca però tuttora uno studio generale, di coordinamento. Sopravvenne poi il sollevamento postpliocenico, molto intenso (sì da portare, in taluni casi, il pliocene marino ad altezze superiori a 1000 m. sul livello marino attuale), e forse più intenso al margine che verso l'asse della catena: forme giovani si sovrapposero alle vecchie preesistenti, fu asportata la coltre di depositi poco resistenti, che rivestiva i massicci calcarei, e i fiumi, approfondendo rapidamente il loro letto, incisero entro le rocce dure quelle gole anguste e selvagge, incassate tra pareti ripide, che sono caratteristiche dell'Appennino Centrale e rappresentano, almeno nella più parte dei casi, tipiche gole sovraimposte.

Il glacialismo ha lasciato nell'Appennino Centrale tracce più numerose ed evidenti che nel Settentrionale. Già da tempo fu segnalata, in tutti i gruppi montuosi superanti i 2000 m., l'esistenza sia di circhi glaciali, talora occupati da laghetti, sia di depositi morenici, non però così ben conservati e tipici come nelle Alpi sia di altre tracce dell'èra glaciale; ma solo in tempi recenti le ricerche di varî geologi hanno condotto ad accertare uno sviluppo prima insospettato dei depositi glaciali, dei quali s'incontrano imponenti residui sui fianchi dei maggiori massicci (Gransasso, Majella, Velino, Marsicani, Simbruini), anche a basse quote; forse fin verso i 900-1000 m. Manca però un lavoro di coordinamento che permetta sia di precisare la distribuzione dei depositi glaciali, sia di distinguere le tracce delle diverse glaciazioni, sia di fissare il limite delle nevi, che forse si aggirava intorno ai 1100-1200 m.

Durante il Pleistocene l'Appennino Centrale era ricco anche di grandi bacini lacustri, anzi essi riempivano tutte le maggiori conche, chiuse o quasi, che abbiamo più volte menzionato. L'origine di questi laghi è incerta e forse non è per tutti la stessa; alcuni di essi sembra siano antiche valli longitudinali sbarrate da movimenti tettonici o da altre cause. Uno solo dei maggiori, il Fucino, è rimasto fino ad epoca recente; altri si sono svuotati per l'incisione delle profonde gole per le quali ancor oggi escono i corsi d'acqua percorrenti le superstiti conche, altri sono rimasti come bacini carsici a scolo sotterraneo.

Dato il grande sviluppo delle masse calcaree, il fenomeno carsico ha in tutto l'Appennino Centrale uno sviluppo imponente, anzi ne costituisce, dal punto di vista morfologico, una delle caratteristiche più cospicue. Non sono frequenti (per quanto non ne manchino esempî) gli aggruppamenti di numerose piccole doline, come sono relativamente rare, per quanto finora si conosce, le caverne di notevole sviluppo; ma l'esplorazione speleologica è poco progredita. Più frequenti sono le doline di grandi dimensioni (molte decine o qualche centinaio di metri) e soprattutto i campi chiusi a sfogo sotterraneo, del tipo dei polje balcanici: tra questi il Piano di Rascino, il Piano di Roccadimezzo, il Piano delle Cinquemiglia, i vicini Quarto Grande, Quarto S. Chiara e Piano Aremogna e, in sostanza, anche il Fucino stesso. La circolazione sotterranea delle acque in seno ai potenti massicci calcarei va molto in profondo, richiamata in basso per il suaccennato approfondimento recente delle valli e delle gole; da essa dipendono le sorgenti, spesso copiosissime, alla base dei massicci stessi, tipiche sorgenti carsiche.

I piccoli bacini lacustri permanenti o temporanei, sono poco meno di un centinaio nell'Appennino Centrale; alcuni sono di origine glaciale (laghi di circo, come il Lago di Pilato nei Sibillini, il Lago della Duchessa, il Lago del Morrone, il Lago Vivo nella Meta), altri occupano cavità carsiche (Lago del Matese), altri sono dovuti a cause diverse; il maggiore, il Lago di Scanno (circa 1 kmq.; profond. 33 m.), è un lago di sbarramento per frana (v. Scanno).

Anche sul fianco adriatico dell'Appennino Centrale si stende una fascia collinosa, più o meno larga, costituita da rocce argillose o marnoso-arenacee del Terziario, facilmente erodibili; quivi fattore morfologico di grande importanza sono le frane, diffuse, specie nel Subappennino Chietino; altrove hanno notevole sviluppo forme simili ai calanchi dell'Emilia, detti scrimoni nel Teramano.

L'influenza della morfologia del terreno sulla distribuzione delle colture, degli abitati e della rete stradale è ancor più evidente nell'Appennino Centrale che nel Settentrionale; senza entrare in particolari, accenniamo solo alla frequenza dei centri di dorsale e delle strade di spartiacque nella zona subappenninica, dove i fondovalle ed i fianchi, malfidi e franosi, sono in genere evitati; e ancora alla distribuzione degli abitati intorno alle sorgenti, nelle regioni interne a morfologia carsica scarse di acqua in superficie.

Per i centri abitati più elevati dell'Appennino Centrale e per le abitazioni temporanee v. abruzzo.

Appennino Meridionale. - Nell'Appennino Meridionale appare evidente la distinzione in due sezioni, di cui l'una può denominarsi Appennino Campano-lucano, all'altra spetta il nome di Appennino Calabrese; come limite fra le due sezioni si assume di solito il Passo dello Scalone (744 m.), per il quale si passa dal Tirreno nella valle dell'Esaro (Crati).

Il massiccio del Matese, quasi interamente isolato e spostato verso il Tirreno rispetto allo spartiacque principale, annunzia già il carattere dell'Appennino Meridionale, nel quale i maggiori rilievi sono effettivamente costituiti da massicci isolati, di solito a forme aspre, nettamente divisi l'uno dall'altro da conche o da solchi vallivi molto profondi, talché, come si è già detto, la continuità orografica del sistema si perde; e tanto più in quanto i più elevati tra quei massicci sono estranei allo spartiacque e spostati, rispetto ad esso, verso l'interno (cioè verso il Tirreno), proprio all'opposto di quanto avviene nell'Appennino Centrale; mentre la linea displuviale corre su alture che di rado passano i 1000 metri e spesso restano al disotto degli 800. Si aggiunga che, mentre nel Matese l'asse principale del sollevamento ha ancora la direzione NO.-SE., caratteristica dell'Appennino, nei massicci più meridionali la orientazione dei corrugamenti è variabile e non corrisponde ad alcuna norma: le condizioni orografiche attuali sono il risultato di numerosi movimenti di massa successivi, che hanno sollevato e variamente corrugato potenti pile di calcari, ormai esclusivamente secondarî, con rappresentanza anche dei piani più antichi (Trias).

Il più settentrionale di questi massicci è quello dei monti Camposauro (1394 m.) e Taburno (1393 m.), circondato tutt'intorno da solchi profondi, dei quali il più rilevante, segnato dall'alto corso dell'Isclero, lo divide da un secondo massiccio, quello dell'Avella (1591 m.) e del Montevergine o Partenio (1496 m.); entrambi sono costituiti di calcare cretaceo di uno spessore superiore a un chilometro. Ne sono una dipendenza, a S., i Monti di Sarno (Pizzo d'Alvano 1131 m.), i quali digradano verso la pianura percorsa da questo fiume. Un altro solco, indicato dal corso superiore del Sarno stesso e dal Sabato, separa dal Partenio il Massiccio Irpino, limitato dalle altre parti dal Sele e dal Calore Irpino: formato da calcari cretacei e da dolomie triasiche entro cui l'acqua circola profondamente, impervio, coperto di boschi, esso è poi smembrato dalle alte valli del Sabato, del Calore, del Tusciano in gruppi assai isolati, come il Cervialto (1809 m.), il Polveracchio (1790 m.), il Terminio (1782 m.), il Pizzo Accellica (1657 m.), il Montagnone di Nusco (1492 m.), il M. Calvello (1580 m.), i Mai (1618 m.) ecc. La depressione fra Nocera e Salerno isola poi interamente l'erta e aspra catena dolomitica dei Lattari, che forma l'ossatura della Penisola Sorrentina (v. lattari). A N. del Cervialto, la ferrovia da Avellino a Foggia supera lo spartiacque (Calore-Ofanto) a soli 675 m.; la rotabile Avellino-S. Angelo dei Lombardi, poco più a N., resta ancora qualche po' più bassa (665 m.); tra Sele e Ofanto la Sella di Conza è alta anch'essa appena 700 m.

A S. del Sele si leva un altro grande massiccio, formato da calcari ippuritici imbasati sul Trias, che comprende l'Alburno (1742 m.) e il Cervati (1899 m.); esso è a sua volta diviso, per mezzo della profonda valle del Calore Lucano, dal rilievo del Cilento, poco meno elevato (M. Arsano 1883 m., M. Sacro 1704 m.) che si protende a O. verso il mare con appendici quasi isolate (M. di Bulgheria. 1225 m.) o con ripidi sproni che precipitano sulla costa (v. cilento). Invece ad E., oltre il vallo di Diano, fondo di lago prosciugato in epoca recente, si snoda un'altra collana di massicci cretacei, avviluppati alla base da depositi argillosi terziarî, che si inizia col Marzano (1530 m.), cresce in altezza col Maruggio (1577 metri) e col Volturino (1883 m.) riallacciandosi poi con una serie di serre tra il vallo di Diano e l'alto Agri, all'imponente massiccio del Monte del Papa (2007 m.), del Sirino (1793 m.) e dell'Alpe di Latronico (1892 m.), nei quali nuovamente appare il Trias con forme aspre, di tipo alpino. E finalmente, a S. dell'ampia sella fra Sinni e Noce (il Cavallo 846 m.), ecco il più meridionale ed elevato dei massicci, quello del Pollino (2248 m.) e della Serra Dolcedorme (2271 m.), costituito nel suo nucleo principale da dolomie e da calcari secondarî, che si leva come una muraglia fra il Tirreno e lo Ionio e, protendendosi a S. con lo sprone della Montea (1784 m.), precipita bruscamente sul vallo del Crati.

Ad E. e a SE. della corona di massicci mesozoici dei quali ora si è parlato, si stendono pianalti, costituiti da materiali terziarî principalmente flysch eocenico, ed anche calcari marnosi miocenici, cui si sovrappongono talora argille, sabbie e conglomerati pliocenici; su questi pianalti corre in genere l'irregolare spartiacque fra il Tirreno da un lato, l'Adriatico e l'Ionio dall'altro, che raggiunge le massime altezze nelle dorsali che dividono il Sele dal Basento (M. Li Foj 1367 m.), ma in genere resta assai più basso. Il prevalere di rocce argillose, in genere brulle e franose, dà alle forme del terreno e al paesaggio in genere, una nota di monotonia, rotta solamente, a S. dell'Ofanto, dal grande apparato vulcanico del Vulture (v.).

La storia morfologica dell'Appennino Meridionale è assai poco nota. È probabile che anche in questa parte dell'Appennino il ciclo di erosione che precedette l'attuale avesse raggiunto uno stadio di avanzata maturità o forse di vecchiaia, con forme prossime al penepiano, e che un sollevamento postpliocenico determinasse un ringiovanimento dell'idrografia, con nuova incisione, nelle vecchie superficie di spianamento, di solchi vallivi più o meno approfonditi a seconda della resistenza delle rocce, con fenomeni di sovraimposizione, gole ecc.; ma mancano al riguardo osservazioni sistematiche, e soprattutto non s'intravede per ora il coordinamento di queste vicende con quelle analoghe dell'Appennino Centrale e Settentrionale.

Anche nall'Appennino Meridionale vi fu durante l'epoca glaciale uno sviluppo di ghiacciai, piuttosto modesto tuttavia, per quanto finora se ne sa: tracce glaciali furono constatate nei gruppi del Cervati, del Vulturino, ecc., e, più cospicue, nel Pollino e nei monti Papa e Sirino, dove s'incontrano anche alcuni tipici laghetti di circo.

Grandi bacini lacustri occupavano nel Pleistocene parecchie delle aree depresse fra i maggiori massicci secondarî, ed alcune sezioni delle attuali vallate (del Volturno, del Platano, del Tanagro, del Noce, del Lao, del Basento, del Mercure, dell'Agri); essi si sono gradualmente prosciugati in epoche diverse; il lago del vallo di Diano è scomparso del tutto soltanto in età storica. Con lo stabilirsi delle condizioni climatiche attuali, mentre si accentuava sempre più il carattere torrentizio che oggi è comune a tutti i corsi d'acqua dell'Appennino Meridionale, si intensificavano anche i processi carsici nei massicci calcarei, ove la potenza degli strati è talora enorme, come si è già accennato, e la circolazione sotterranea vasta e profonda. Doline di grandissime dimensioni, piani carsici ove le acque sono smaltite da inghiottitoi, valli cieche sono frequenti ovunque; il progresso dell'esplorazione rivela poi anche a poco a poco l'esistenza di vaste caverne.

I massicci calcarei dell'Appennino Meridionale hanno perciò aspetto poco dissimile da quelli dell'Appennino Centrale, salvo che hanno conservato più estesi lembi della originaria coperta di boschi, ma sono, nel loro interno, scarsi d'acqua, di colture, di abitati, mentre le acque circolanti sotterraneamente erompono alla base in sorgenti localizzate, copiossisime, intorno alle quali si affollano le sedi umane. Nella fascia terziaria verso l'Adriatico e l'Ionio, il paesaggio muta interamente: col riapparire delle formazioni argillose riappaiono le frane, flagello terribile per il Molise e la Basilicata; strade e abitati schivano i fondovalle e le pendici malferme, per rifugiarsi sulle dorsali spartiacque; vaste aree sono sottratte alle colture ed assumono l'aspetto squallido e desolato di un deserto.

Isolati dall'Appennino, profondamente diversi per natura ed aspetto, sono il Gargano (v.) e le Murge (v.).

E profondamente differente dal resto dell'Appennino è anche quella sezione meridionale, cui si dà il nome di Appennino Calabrese, soprattutto perché intervengono a costituirla rocce sconosciute altrove, come gneiss, graniti e scisti cristallini, mentre si riducono, fin quasi a scomparire, i calcari secondarî; anche il Terziario, che occupa le zone esterne meno elevate, si presenta con caratteri un po' diversi. A S. del Passo dello Scalone una serie di rilievi, designata spesso col nome di Catena Costiera tirrenica, si allunga per una sessantina di chilometri tra il lungo vallo del Crati e il Tirreno, scendendo ripida sul mare, dal quale le creste più alte distano talora solo 607 km.; poco elevata (Serra Pantalonata, 1363 m.), ma scarsa di valichi, coperta ancora di boschi nel versante orientale, è costituita da micascisti facilmente erodibili: per ciò le brevi fiumare che precipitano al Tirreno ne hanno squarciato i fianchi con i loro ampî letti. La catena culmina a S. nel M. Cocuzzo (1541 m.), ad E. del quale una sella detta Piano del Lago (627 m.) conduce dall'alta valle del Crati in quella del Savuto. I rapporti tettonici di questa catena con il resto dell'Appennino non sono ben chiari.

Tutto il resto della penisola calabrese è costituito da quattro altipiani, la Sila, le Serre, l'Aspromonte, il Poro, i quali, nonostante la diversa estensione ed altezza, hanno caratteri comuni. Formati da rocce cristalline, sia massicce come i graniti, sia stratificate o scistose (filladi e altri micascisti, gneiss, ecc.), fasciati in basso, agli orli, da formazioni terziarie, hanno in alto forme spianate o cupoleggianti (M. Botte Donato nella Sila 1929 m.; M. Pecoraro nelle Serre 1420 m.; Montalto nell'Aspromonte 1958 m.), mentre i fianchi scendono ripidi ai due mari, interrotti però da terrazzi, in più serie, che ne formano una caratteristica morfologica peculiare e sulla cui origine non tutti i geologi sono d'accordo (v. calabria). Le fiumare che scendono da questi altipiani, ne hanno inciso i fianchi con solchi profondi, in causa della poca solidità delle rocce scistose ed anche dei graniti, coperti non di rado in superficie da una crosta di sfasciume prodotta dalla degradazione in posto, crosta spesa talora più decine di metri. Vaste soglie o depressioni, che furono bracci di mare fino ad epoca recente, separano fra loro i quattro altipiani, permettendo facili comunicazioni fra i due mari, mentre l'accesso alle parti più interne ed elevate di quelli, coperte ancora in parte di boschi e poco abitate, è talora assai malagevole (per una descrizione particolare, v. Sila, Serre, poro, aspromonte).

Bibl.: R. Almagià, Studi geografici sulle frane in Italia, I, Roma 1907; II, Roma 1910; id., Neue Untersuchungen und offene Fragen über die Morphologie des Zentral Apennin, in Geographische Zeitschrift, 1912; G. Braun, Beiträge zur Morphologie des nördl. Apennin, in Zeitschrift Ges. Erdkunde Berlin, 1907; Gius. De Lorenzo, Geologia e Geografia fisica dell'Italia meridionale, Bari 1904 (e la bibliogr. ivi citata); C. De Stefani, Le pieghe dell'Appennino fra Genova e Firenze, in Cosmos, 1892; id., I laghi dell'Appennino Settentrionale, in Boll. Club. Alp. Ital., 1883; id., Géotecnique des deux versants de l'Adriatique, in Mém. Soc. belge de geologie, 1908; id., I due versanti dell'Adriatico, in Atti VIII Congr. Geogr. Ital., 1921, pp. 76-106; C. S. Du Riche Preller, Italian Mountain Geology, II, The Tuscan Subapennin and Elba, Londra 1908; III, Central and Southern Italy, Londra 1923; Th. Fischer, La Penisola italiana, Torino 1902, pp. 199-310; U. Giovannozzi, Studio sulla distribuzione delle masse montuose nell'Appennino Centrale, Firenze 1914; G. Marinelli, La Terra: IV, Italia, parte 1ª, cap. V, pp. 156-301; Ol. Marinelli, Atlante dei tipi geografici, Firenze 1922, tavv. XVI, XXI, XXIII, XXV, XXVII, XXVIII, LVIII (e le illustraz. e la bibliogr. ivi citata); Memorie illustrative alla Carta idrografica d'Italia, III, Vol. 14, 20, 23, 26 bis, 27, 30, 31, 32, 35, 36, 37; F. Nussbaum, Geomorphologische Studien im nördlichen Apennin, in Geogr. Zeitschr., 1910; D. Pantanelli, L'Appennino Settentrionale dalla Trebbia al Reno, in Atti IV Congr. Geogr. Ital., Milano 1901, pp. 198-216; C. Parona, Trattato di Geologia, 2ª ed., Milano 1924, pp. 566-74 e 608-26 (e la bibliogr. ivi citata); J. Partsch, Die Hauptkette des Zentralapennins, in Verhandl. Gsellsch. Erdkunde Berlin, 1889; A. Rühl, Studien über die Kalkmassiven des Apennins, in Zeitschr. Ges. Erdk. Berlin, 1910-11; F. Sacco, La formazione geologica dell'Italia, in Boll. R. Soc. Geogr. Ital., 1919; F. Sacco, Lo sviluppo glaciale dell'Appennino Settentrionale, in Boll. Club. Alp. ital., 1893; L. Sawicki, Un profilo morfologico attraverso l'Appennino, in Riv. Geogr. ital., 1909. Vedi ancora la bibliografia delle voci Abruzzo, Calabria, Gransasso, Italia, Majella, Toscana, ecc.

Vegetazione. - La vegetazione dell'Appennino risulta di numerose specie in comune con i territorî circummediterranei, di una larga rappresentanza dei componenti la flora silvatica centro-europea e, dove la catena si aderge sopra i 2000 m., assieme a nuclei di flora subalpina ed alpina nei quali emergono parecchie specie endemiche, vi sono irradiazioni di specie delle sommità delle Alpi e della Balcania.

Le mediterranee abbondano in quelle propaggini dell'Appennino che più si avanzano verso la costa o sono affatto costiere, e sono date in primo luogo dagli arbusti e suffrutici quasi tutti sempreverdi che costituiscono la macchia mediterranea o da boschi formati da alberi a foglie persistenti dei quali il più diffuso è il leccio (Quercus ilex); dalla Toscana in giù, ma più rara, la sughera (Q. suber); piccoli nuclei di Q. coccifera, macedonica (troiana) ed aegilops nell'Appennino Pugliese; boschi di pino d'Aleppo (P. halepensis) pure nel mezzogiorno, di pino marittimo (P. pinaster) specialmente nelle due riviere liguri: ma colonie di alcuni arbusti mediterranei più resistenti (Cistus), boschi e boscaglie di leccio s'inoltrano anche lungi dalla costa e rivestono le fiancate delle valli del Subappennino, mentre il fondovalle è coperto di essenze caducifoglie, quali roveri, frassino, frassinella, carpino orientale, ricollegantisi con le formazioni della zona submontana. Il limite superiore medio dei sempreverdi come consorzio, secondo il Koch è di 650 m., quindi un po' superiore a quello medio dell'olivo coltivato che è di 590 m. secondo lo stesso autore, ma può raggiungere i 700 m. a Pettorano sul Gizio secondo il Furres e salire anche ad 800 m. nell'Appennino Meridionale; questo limite estremo è spesso superato da individui isolati o da piccole associazioni sia di arbusti sia di lecceti che si possono incontrare sino alle quote di 800-1000 m.

Le formazioni arboree della zona seguente, la submontana - che con l'elevarsi dell'altitudine assume sempre meglio una fisionomia centro-europea, mentre in basso interferisce e si sovrappone alla macchia ed al bosco mediterraneo - sono date da querceti, spesso misti, con predominio di Q. lanuginosa (pubescens) ed affini razze in basso, di rovere (Q. sessilis-sessiliflora) in alto, che nelle vallate più fresche ed interne trovano il limite superiore oscillante fra 900-1110 m., mentre alquanto più elevato riesce quello del cerro (Q. cerris) che si spinge sino a 1300 m. ed anche oltre. Raramente è dato incontrare querceti tra 1350 m. (Castel del Monte) e 1420 m. (Rocca di Cambio) e ciò secondo il Furrer. Minore importanza ed estensione ha la farnia (Q. pedunculata) che può spingersi sino a 1100 m. e la Q. farnetto Ten. che comincia a trovarsi nel Lazio meridionale e si spinge sino all'estrema Calabria, ma la cui massima diffusione è nella Balcania (quercia d'Ungheria). Nei terreni silicei o profondamente decalcificati si trovano castagneti, spesso molto estesi, che si arrestano alla quota di 900-1000 m.

La zona montana è caratterizzata da un'essenza forestale di prim'ordine e di larga distribuzione, più che nelle stesse Alpi, il faggio (Fagus silvatica), che, secondo il Koch, ha il limite medio inferiore a 1060 m. e il superiore a 1800; i suoi limiti oscillerebbero, secondo il Fiori (Fiori e Paoletti, Flora Analitica d'Italia, Introd. geobotanica, I), tra 900-1600 m. nell'Appennino Tosco-emiliano, tra 1000-1800 m. in quello Centrale e tra 1000-2000 m. in quello Meridionale. Fra le essenze forestali di questa zona dobbiamo ricordare le Conifere e cioè il pino di Scozia (P. silvestris) che resta confinato nell'Appennino Settentrionale, il pino d'Austria (P. nigra) che si trova al Gransasso, Majella e Calabria settentrionale, il pino di Corsica (P. laricio) limitato alla Calabria, il P. leucodermis Ant. (= P. Heldreichii Christ.) in alcuni punti della Basilicata e Calabria tra 900-2000 m. e che si ritrova nella Balcania, dove pure vegeta il P. brutia Ten. che è poco noto da noi. La Conifera più diffusa resta, però, l'abete bianco (A. alba), che si ritrova in tutta la catena, ora mescolato al faggio, ora in popolazioni pure e che presenta i suoi limiti inferiori e superiori tra 600-1700 m. (Koch) e tra 900-1787 m. (Fiori). Restano esclusi dall'Appennino, mentre sono presenti nelle Alpi, il larice, l'abete rosso ed il cembro che, coltivati, vi prosperano egregiamente, come mostrano le abetaie di Vallombrosa, di Camaldoli, ecc. In generale meno sviluppata che sulle Alpi è la zona subalpina degli alberi nani e degli arbusti: vi dànno contributo il faggio ridotto a cespuglio, il Pinus pumilio (del ciclo di P. montana) che è stato trovato qua e là nell'Appennino Centrale, la varietà hemisphaerica del comune ginepro: ma di gran lunga più caratteristica ed estesa è la formazione dei pascoli e delle rupi.

La zona alpina si trova limitata ad alcune sommità più elevate dell'Appennino Tosco-emiliano e delle Alpi Apuane, più sviluppata è in quello centrale e specialmente nei gruppi del Gransasso, Majella, Morrone, ecc. e tracce se ne trovano nei monti più alti del Subappennino Laziale, e nell'Appennino Campano, Lucano e Calabrese ad una quota che oscilla attorno ai 2000 m. Nel solo Gransasso entrano a costituire la flora alpina ben 229 piante vascolari (Crugnola, La vegetazione del Gran Sasso d'Italia, Teramo 1894), parecchie delle quali endemiche dell'Appennino Centrale. Tra queste piante sono particolarmente interessanti: Ranunculus neapolitanus, Barbarea bracteosa, Dianthus longicaulis, Geranium reflexum, Orobus variegatus, Cirsium strictum, Centaurea cinerea, Hieracium pseudo-pilosella, Cynoglossum apenninum, Sideritis sicula, Armeria denticulata, Crocus-Orsinî, Fritillaria Orsiniana, Ornithogalum collinum, O. montanum, Carex Orsiniana, C. praetutiana, Serrafalcus intermedius.

Le colture di piante agrarie ed industriali insediate nell'Appennino corrispondono per grande parte a quelle della regione mediterranea, a cominciare dall'olivo di cui già si diede il limite superiore medio quale risulta al Koch, mentre sarebbe un po' inferiore secondo il Fiori (op. cit.) e, cioè, di 567 m. nel versante occidentale e di 364 m. in quello orientale; ma il limite superiore assoluto si adegua attorno ad 800 m. e tale è quello altresì della coltura della vite che in qualche caso, però, l'oltrepassa sebbene di poco. Notevole estensione hanno le colture granarie che anch'esse si livellano a questa quota, che può essere superata da alcune varietà di frumento (spelta), dall'orzo, dalla segale, ed anche dalla patata, ecc., mentre il mais si arresta più in basso ed è soprattutto coltivato nelle vallate. La zona dell'olivo e della vite è anche quella di numerosi alberi da frutto quasi tutti introdotti dall'uomo (mandorlo, ciliegio, susino, pero, melo, albicocco, ecc.), al quale si deve altresì l'introduzione del pino da pinocchi, del noce, e, nelle località più riparate e protette della Riviera ligure e su più larga scala dal Lazio meridionale in giù, delle Auranziacee che lungo la costa della Basilicata e della Calabria formano una cintura boschiva pedemontana confluente con la mediterranea: ma il prosperare delle stesse è condizionato dall'irrigazione. Ricordiamo inoltre, per la zona inferiore e submontana, lo sfruttamento del castagno a mezzo dell'innesto con razze di origine colturale e la coltivazione di piante industriali, quali il lino, la canape, la barbabietola, il sesamo, le ortaglie, ecc. (V. tavole CLI a CLXII). A. Fiori, nel suo Prodromo di una geografia botanica dell'Italia, divide il dominio floristico peninsulare od appenninico in tre settori:

a) Settore peninsulare settentrionale; b) Settore peninsulare centrale; c) Settore peninsulare meridionale, che corrispondono all'incirca alla distinzione geografica dell'Appennino stesso in settentrionale, centrale e meridionale.

Per altre notizie v. alla voce italia.

Bibl.: M. Tenore, Cenno sulla geografia fisica e botanica del Regno di Napoli, Napoli 1827; N. Terracciano, Relazione (I-IV) intorno alle peregrinazioni botaniche fatte per disposizione della Deputazione provinciale di Terra di Lavoro in certi luoghi della provincia, Caserta 1872-1879; id., Synopsis plantarum vascularium Montis Pollini, in Ann. R. Ist. Bot. di Roma, a. IV, 1889-90; T. Carnul, Statistica botanica della Toscana, Firenze 1871; F. Parlatore, Études sur la géographie botanique de l'Italie (op. postuma), Parigi 1878; G. Crugnola, La vegetazione del Gran Sasso d'Italia, Teramo 1894; A. Fiori, Prodromo di una Geografia botanica dell'Italia, ecc., in Fiori e Paoletti, Flora Anal. d'Italia, I (1908); M. Koch, Beiträge zur Kennntis der Höhengrenzen der Vegetation im Mittel meergebiete, Halle 1910; F. Cavara e L. Grande, Esplorazioni botaniche in Basilicata, in Bull. Orto Bot. R. Univ. di Napoli, III (1913); id., Contributo alla Flora del Terminillo (Abruzzo), ibid., IV (1914); M. Guadagno, La vegetazione della Penisola Sorrentina, ibid., V (1918); VII (1924); VIII (1926), continua; A. Trotter, La Fitogeografia dell'Avellinese, in Atti Congr. Nat. Ital., Milano 1907; id., Notizie ed osservazioni sulla Flora montana della Calabria, in Nuovo Giorn. Bot. Ital., n. s., XVIII (1911); E. Furrer, Die Höhenstufen des Zentral-apennin, in Beibl. n. 15 z. Vierteljahrschr. d. Naturforsch. Gesell. in Zurich, LXXIII (1928).

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