Arbitrato societario 3. La tutela cautelare

Diritto on line (2016)

Marcello Gaboardi

Abstract

Nell’ambito della disciplina dell’arbitrato societario, l’art. 35, co. 5, d.lgs. 17.1.2003, n. 5 prevede il potere del collegio arbitrale di sospendere in via cautelare l’efficacia della delibera assembleare impugnata, imponendo così una deroga – l’unica prevista finora dall’ordinamento – alla regola secondo cui l’adozione delle misure cautelari in sede arbitrale compete esclusivamente all’autorità giudiziaria ordinaria. La compressione del potere cautelare giudiziale nelle ipotesi ora menzionate rinviene, però, una sorta di bilanciamento nell’espressa previsione della competenza del giudice ordinario ad adottare misure cautelari strumentali ad un’azione di merito societaria promossa nelle forme dell’arbitrato irrituale.

Premessa

Si può parlare di tutela cautelare nell’arbitrato societario per riferirsi alla fattispecie prevista dall’art. 35, co. 5, d.lgs. 17.1.2003, n. 5. Tale provvedimento normativo contempla, agli artt. 34-36, la possibilità che le clausole compromissorie contenute negli atti costitutivi di società commerciali non quotate introducano una forma di arbitrato deputata alla soluzione di controversie insorgenti «tra i soci o tra i soci e la società» e aventi ad oggetto «diritti disponibili relativi al rapporto sociale» (art. 34, co. 1). In tale contesto normativo, l’art. 35, co. 5, contempla un’ipotesi eccezionale di deroga alla regola generale dell’art. 818 c.p.c., secondo cui i «sequestri» e gli «altri provvedimenti cautelari» di cui sia chiesta l’adozione in sede arbitrale sono di competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria ordinaria. La regola è espressione di un principio tralatizio e viene ribadita anche dallo stesso art. 35, co. 5, laddove viene precisato – in apertura della disposizione – che la devoluzione in arbitrato di una controversia societaria non può precludere – alla stregua dell’art. 669 quinquies c.p.c. – il ricorso della parte al «giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito» per il riconoscimento della tutela cautelare. Anzi, la possibilità di ricorrere al giudice cautelare viene ammessa ora anche nel caso di arbitrato (societario) «non rituale»: un’eventualità, quest’ultima, che era stata invece costantemente esclusa – nella prospettiva dell’arbitrato irrituale tout court – dalla giurisprudenza anteriore all’introduzione del laconico (ma perentorio e inequivoco) inciso dell’art. 35, co. 5. Con la riforma dell’arbitrato di diritto comune introdotta dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40, la fruibilità della tutela cautelare (giudiziale) anche nell’ambito dell’arbitrato irrituale è stata, poi, estesa al di fuori del contesto speciale dell’arbitrato societario; ciò che ha ridotto in parte qua l’importanza dell’art. 35, co. 5, la cui residua rilevanza operativa è da ricondursi oggi – secondo una comune opinione – ad una sorta di riconoscimento dell’applicabilità dell’arbitrato irrituale anche in materia societaria.

Tuttavia, se è vero che colui che promuove un giudizio arbitrale nella materia societaria può sempre ricorrere – anzi, in linea di principio, può pur dirsi che deve ricorrere – alla via della giurisdizione ordinaria, non è men vero che il menzionato art. 35, co. 5, enuclea una rilevantissima (ed, anzi, l’unica) eccezione a tale rigido principio codicistico, riservando agli arbitri l’autonomo potere di sospendere l’efficacia della delibera assembleare impugnata. La natura cautelare e, in particolare, inibitoria di tale misura sospensiva (v. Trib. Padova, 21.2.2000, in Soc., 2000, 1119 ss.) rende, quindi, la previsione dell’art. 35, co. 5, un unicum nel sistema della cognizione arbitrale. D’altra parte, è però innegabile che una simile misura cautelare, riflettendo il modello della sospensione concessa in sede giudiziale ex art. 2378, co. 3-4, c.c., rappresenti, al pari di questa, il completamento indispensabile della tutela demolitoria. In altri termini, il riconoscimento del potere sospensivo al collegio arbitrale è ispirato non soltanto dall’esigenza di innovare la competenza arbitrale in materia cautelare, ma anche dall’esigenza di assicurare al collegio arbitrale una più penetrante ed efficace delibazione dell’impugnazione della delibera viziata.

L’arbitrato e la tutela cautelare

La possibilità di perseguire le esigenze cautelari in sede arbitrale è sempre stata rigorosamente preclusa dalla legge processuale in ragione della strutturale carenza di un potere giurisdizionale in capo all’organo arbitrale. Ciò che contraddistingue la giustizia arbitrale è, infatti, notoriamente, la derivazione del potere decisorio direttamente dalla volontà delle parti, senza alcuna attribuzione di un potere con valenza (o efficacia) pubblicistica ad opera della legge. L’attività decisoria dell’arbitro, pur culminando in un provvedimento che ha natura definitoria, non è quindi suscettibile ipso iure di acquisire quel carattere di esecutorietà e vincolatività che contraddistingue, invece, il provvedimento giurisdizionale inteso come risultato dell’esercizio di una funzione pubblica dello Stato.

Ecco allora che il potere decisorio dell’arbitro, se si rivela congruo rispetto all’esigenza di definire la lite devoluta in arbitrato, è invece inidoneo di per sé ad assumere il carattere dell’imperatività che resta acquisibile soltanto a seguito del riconoscimento giurisdizionale della esecutorietà del lodo, con conseguente impossibilità per l’organo arbitrale di attribuire autonoma esecutività ad un proprio provvedimento. L’assenza di poteri coercitivi ha finito così per implicare la preclusione dello stesso potere di concedere la misura cautelare, risultando inefficiente e processualmente diseconomico un risultato giurisdizionale che non potrebbe consentire un’esecuzione forzata, e quindi una concreta fruizione del provvedimento, in caso di inottemperanza da parte del destinatario. Una misura cautelare concessa dal collegio arbitrale sarebbe, infatti, suscettibile soltanto di un adeguamento spontaneo ad opera delle parti; un adeguamento, quest’ultimo, che si potrebbe anche porre in linea con gli interessi delle parti (a non aggravare il probabile danno o a non subire implicazioni negative in sede di valutazione del loro comportamento processuale o di condanna alle spese), ma che appare irrilevante nella prospettiva della soddisfazione della tutela richiesta in quanto dipendente essenzialmente dalla coercibilità della misura adottata.

D’altra parte, non si è mancato di osservare – suscitando invero qualche perplessità – che una tutela cautelare concessa in sede arbitrale non potrebbe offrire quella piena garanzia del contraddittorio (con tutti i suoi corollari) che si impone allorché il giudizio debba svolgersi secondo le forme ridotte e, per molti versi, discrezionali del rito camerale; una garanzia, quest’ultima, che verrebbe invece salvaguardata – secondo questa impostazione – mediante l’affidamento della decisione ad un organo dotato di ampi poteri cognitori e istruttori come quello giurisdizionale. Ma è altresì la rigida struttura del giudizio arbitrale e, specialmente, la impermeabilità di tale procedimento alle forme camerali (e, invero, a qualsiasi altra forma procedimentale che non sia quella ispirata al rito ordinario e regolata dalle norme codicistiche in tema di arbitrato) a ostacolare maggiormente la possibilità che il provvedimento cautelare venga pronunciato dall’arbitro, tenuto conto, peraltro, che l’assenza d’ogni controllo giurisdizionale ex post sulla concessione (o sul diniego) della misura cautelare finisce per rendere ancora più ardua una legittimazione dell’arbitro a decidere sul merito della cautela.

Se è vero che sussistono ragioni teoriche e pratiche per l’esclusione normativa di un potere cautelare arbitrale secondo il disposto dell’art. 818 c.p.c., non è men vero però che tali ragioni non hanno, per così dire, un valore immanente al sistema o, comunque, un carattere di irrinunciabilità da parte dell’ordinamento. E ciò è ben dimostrato, a me pare, non solo dal fatto che altri ordinamenti riconoscono – seppur con limiti e, talvolta, specifiche guarentigie giurisdizionali – un generale potere cautelare arbitrale (v. §§ 1033 e 1041 ZPO tedesca, in cui è sancita una competenza cautelare arbitrale concorrente con quella della corte statale, alla quale è riservata la sola esecuzione del provvedimento cautelare; art. 1468 NCPC francese, in cui è previsto il potere dell’arbitro di concedere senz’altro tutte le misure «conservatoire ou provisoire» che ritenga opportune, ad eccezione dei sequestri conservativi e giudiziari che sono invece rimessi alla competenza esclusiva della «juridiction de l’Etat»), ma altresì dal fatto che il legislatore nazionale ha ritenuto opportuno prevedere, in chiusura dell’art. 818 c.p.c., una clausola di salvezza per le ipotesi di deroga al divieto codicistico e, ancor più (anzi: ancor prima), introdurre nell’ordinamento la possibilità della sospensione dell’efficacia della delibera assembleare impugnata ad opera direttamente del collegio arbitrale investito della tutela demolitoria. Siffatta misura cautelare documenta, malgrado la peculiarità della situazione disciplinata, un rinnovato atteggiamento del legislatore processuale, incline ad ammettere la possibilità di un potere cautelare arbitrale quantunque esercitabile – come si vedrà – entro limiti particolarmente rigorosi. Ed invero, può dirsi apprezzabile una tale (prudente) innovazione legislativa solo che si consideri, anche al di là di un tentativo di allineamento alla normativa internazionale (v. art. 17 ss. UNCITRAL Model Law on International Commercial Arbitration), come sia implicito in essa il rafforzamento di valori come la coerenza delle decisioni (cautelare e di merito) uniformate dalla comune origine arbitrale e il contenimento di sprechi processuali insiti nello sdoppiamento delle attività processuali o nella diversificazione della competenza e della giurisdizione (se solo si volge lo sguardo verso rapporti giuridici e, in specie, societari transnazionali). La scelta legislativa pare ancora più rilevante se si considera, poi, che l’attribuzione del potere cautelare (rectius di un dato tipo di potere cautelare) è avvenuta in favore di un organo collegiale nominato da un soggetto terzo estraneo alle parti e ai loro specifici interessi.

D’altra parte, l’ordinamento processuale arbitrale può dirsi maturo per l’affidamento all’arbitro di poteri cautelari non solo nell’ambito delle misure lato sensu anticipatorie (spesso, e non senza contrasti, ritenute concorrenti o addirittura sostitutive – soprattutto se atipiche – del provvedimento sospensivo ex art. 2378, co. 4, c.c.), ma anche nell’area delle misure aventi funzione propriamente conservativa, purché assistite da un potere coercitivo (arbitrale o statale) anche solo indiretto (art. 614 bis c.p.c.; v. anche art. 1468 NCPC cit.: «au besoin à peine d’astreinte»). A ben vedere, un legittimo e congruo esercizio del potere cautelare non esige ex se di accompagnarsi ad un autonomo potere coercitivo della misura, potendo supplire alla sua carenza l’assimilazione della decisione cautelare al lodo (v. art. 23 Ley de Arbitraje spagnola – ley 23.12.2003, n. 60 – nella parte in cui è stabilito che alla misura cautelare disposta dall’arbitro si applichino le disposizioni sulla nullità e sull’esecuzione del lodo) o, senz’altro, l’imposizione di una pronuncia in punto di cautela per il tramite di un provvedimento avente la forma del lodo (v. Rule 53 Arbitration Act 2010 scozzese, in cui è prevista la possibilità per il collegio arbitrale di adottare «a provisional award granting any relief on a provisional basis which it has the power to grant permanently») ovvero assicurando, comunque, il successivo intervento attributivo di esecutività al provvedimento (cautelare) arbitrale (v. Rule 39 Arbitration Act 1996 inglese, secondo cui la misura cautelare arbitrale «shall be subject to the tribunal’s final award»). E ciò senza considerare che il d.lgs. n. 40/2006, innovando la disciplina del lodo arbitrale con l’espressa equiparazione della sua efficacia a quella della «sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria» (art. 824 bis c.p.c.), ha finito non solo per avvalorare una natura giurisdizionale (e, quindi, concorrente e sostitutiva rispetto alla decisione del giudice ordinario) della determinazione del collegio arbitrale (v., da ultimo, Cass., S.U., 25.10.2013, n. 24153, in Foro it., 2013, I, 3407 ss.), ma anche per rafforzare – di conseguenza – la capacità del decisum arbitrale di incidere in misura analoga alla sentenza sulla situazione sostanziale dedotta e, così, prim’ancora, sulle condizioni giuridiche e/o patrimoniali che ne assicurino una tutela provvisoria. Il rafforzamento dei poteri cognitori del collegio arbitrale per effetto del nuovo art. 816 ter c.p.c. ha consentito, inoltre, un maggiore avvicinamento tra l’attività di accertamento dei presupposti cautelari che può svolgersi in sede arbitrale (beninteso: ove ciò sia consentito) e quella celebrata in sede giudiziale, come pare possibile desumere, in particolare, dalla innovativa disciplina in tema di assunzione della testimonianza e di acquisizione di informazioni presso la pubblica amministrazione.

La sospensione della delibera impugnata

L’art. 35 d.lgs. n. 5/2003 raccoglie, sotto la rubrica «disciplina inderogabile del procedimento arbitrale» societario, una variegata normativa concernente il compimento di taluni significativi atti processuali di parte o l’esercizio di taluni primari poteri dell’organo giudicante. Il tratto comune alla predetta normativa è costituito, pertanto, dal carattere inderogabile delle regole procedimentali ivi delineate; un carattere, quello della inderogabilità, che si spiega considerando non solo l’importanza degli istituti regolati (come, ad esempio, l’intervento in causa di un terzo o l’efficacia soggettiva del lodo), ma anche la profonda divergenza di tale disciplina rispetto alla normativa generale dell’arbitrato di diritto comune. Un aspetto, quest’ultimo, che si palesa con particolare evidenza soprattutto in relazione alla possibile sospensione dell’efficacia della delibera impugnata in sede arbitrale (co. 5) e alla connessa iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento concessorio della misura sospensiva (co. 5-bis).

L’eccezionalità della disposizione è resa ben evidente dal raffronto con l’impostazione sistematica espressa nell’art. 818 c.p.c. e imperniata – come detto – sul dogma della esclusività della competenza giurisdizionale ordinaria in punto di concessione della tutela cautelare. Pur ribadendo, infatti, la ricorribilità al giudice ordinario ex art. 669 quinquies c.p.c., la disposizione in esame apre la via alla concessione della tutela cautelare in sede arbitrale senza mediazioni stricto sensu giurisdizionali. La disposizione ha determinato, dunque, un’evidente frattura nel sistema arbitrale di diritto comune, rivenendosi – per l’appunto – un dogma consolidato nell’affermazione della incompetenza cautelare dell’arbitro; tuttavia, la frattura provocata dall’art. 35, co. 5, se giustifica (ed, anzi, per molti versi, impone) la clausola di salvezza con cui si chiude la disposizione dell’art. 818 c.p.c., pare ispirata più dall’esigenza di assicurare un pieno ed efficace esercizio della tutela demolitoria avverso la delibera assembleare viziata che da un’intenzione legislativa di innovare il sistema cautelare societario o, addirittura, quello generale. E ciò sembra essere confermato non solo dal fatto che nell’ordinamento mancano altre ipotesi di accesso alla tutela cautelare in sede arbitrale (sia nell’arbitrato societario che nelle altre tipologie arbitrali), ma anche dal fatto che una tale eccezione al regime ordinario è stata introdotta soltanto in un determinato ambito della tutela giurisdizionale. Come si è osservato nel paragrafo introduttivo, infatti, il ruolo svolto dalla tutela cautelare anticipatoria ex art. 2378, co. 3-4, c.c. è strettamente legato al sistema della tutela reale avverso le delibere assembleari invalide. Ed invero, mantenere separata la tutela cautelare da quella di merito per quanto concerne l’individuazione del giudice competente e lo svolgimento del relativo procedimento concessorio avrebbe significato ridimensionare profondamente (se non addirittura escludere) ogni efficienza del giudizio impugnatorio, atteso che la decisione dell’istanza cautelare è idonea ad incidere sulla manifestazione dell’interesse ad ottenere l’annullamento o la conferma della delibera viziata. Non è infrequente, infatti, che la dinamica della vita societaria induca gli organi dell’ente ad attivarsi per assumere le iniziative finalizzate ad adattare l’assetto societario al regime provvisorio introdotto dal giudice cautelare senza attendere l’esito del giudizio di merito, la cui introduzione, pur essendo necessaria – almeno di regola – per evitare la decadenza della misura cautelare, si rivela in concreto inutile o, comunque, inidonea a soddisfare l’interesse della parte all’eliminazione di una delibera che sia stata (non solo viziata e sospesa, ma anche) modificata, corretta o, per altro verso, replicata in sede assembleare. Ecco allora che sottrarre alla competenza arbitrale il potere di decidere in punto di sospensione della delibera impugnata appare come una soluzione che non solo armonizza le forme della tutela reale, assicurando anche in sede arbitrale che l’istanza sospensiva sia promossa contestualmente all’avvio (e decisa coerentemente con l’esito) dell’azione di merito (v. art. 2378, co. 3, c.c.: «contestualmente»), ma assicura altresì una piena efficienza del giudizio arbitrale, che sarebbe altrimenti privato di un’effettiva possibilità di incidenza sul piano della tutela giurisdizionale già pienamente soddisfatta in sede di giudizio ordinario.

In questa prospettiva, dunque, va ribadito che la previsione dell’art. 35, co. 5, sembra essere stata dettata più dalla volontà di ampliare l’ambito delle controversie (societarie) devolvibili in arbitrato – in ossequio ai principi espressi dalla delega parlamentare alla riforma del rito societario e, quindi, anche alla disposizione in esame (art. 12, co. 3, l. 3.10.2001, n. 366) – che dalla intenzione di scalfire la rigidità del dogma di cui all’art. 818 c.p.c. Tanto più che la natura inibitoria della misura sospensiva de qua riduce fortemente le esigenze di un’esecuzione coatta del provvedimento cautelare, il quale genera ipso iure l’effetto consistente nella (provvisoria) preclusione di ogni efficacia della delibera impugnata. È semmai una forma di coazione indiretta che deve poter assistere l’adozione di una misura cautelare inibitoria e assicurare così l’osservanza (rectius la permanenza) del risultato sospensivo fino alla decisione sull’azione di merito o, tutt’al più, fino alla revoca o modifica della misura stessa ex art. 669 decies c.p.c. Un risultato, quest’ultimo, che se può essere garantito dal presidio della legge penale e dell’obbligo di osservare i provvedimenti lato sensu giurisdizionali (art. 388 c.p.), non pare invece assicurabile mediante l’imposizione alla parte opponente di un obbligo di prestare «idonea garanzia per l’eventuale risarcimento dei danni» alla stregua dell’art. 2378, co. 4, c.c.; e ciò in quanto la deroga al divieto di tutela cautelare in sede arbitrale va interpretata rigidamente e non può essere estesa a misure provvisorie diverse rispetto a quella sospensiva, in ragione soprattutto dell’assoluta eccezionalità della previsione dell’art. 35, co. 5, e della non immediata funzionalità dell’«idonea garanzia» a incidere sulla permanenza della misura cautelare sospensiva (riflettendo, per l’appunto, l’esigenza di assicurare alla società un futuro ristoro risarcitorio). Una lettura rigorosa della disposizione in esame è suggerita, d’altra parte, anche dal più ampio contesto normativo in cui è regolata la devoluzione in arbitrato dei giudizi impugnatori avverso le delibere assembleari viziate. Ed infatti, il d.lgs. n. 5/2003 contempla e valorizza in maniera peculiare tale tipologia di liti societarie nel contesto generale delle «controversie insorgenti (...) tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale» ai sensi dell’art. 34, co. 1. La valorizzazione operata dal legislatore del 2003 si percepisce non solo dalla previsione in parte qua del potere sospensivo del collegio arbitrale, ma anche dal dominio delle regole di diritto (in luogo di quelle equitative imposte in via pattizia) e dall’impugnabilità del lodo ex art. 829, co. 2, c.p.c. (in luogo della sua inimpugnabilità tout court disposta nella clausola compromissoria statutaria) ogni qualvolta «l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari» (art. 36, co. 1). E coerentemente anche l’ambito applicativo della disposizione in esame va letto rigorosamente ammettendo, cioè, che l’esercizio del potere cautelare possa estendersi ai casi di impugnazione delle decisioni del consiglio di amministrazione (e degli altri organi collegiali) delle società di capitali (art. 2388 c.c.; v. anche Cass., 3.1.2013, n. 28, in Giur. it., 2013, 1096 ss.), ma non anche alle decisioni assunte dai soci all’interno di società di persone che paiono avulse dal sistema impugnatorio di cui agli artt. 2377-2378 c.c. (v. Trib. Trento, 14.2.2004, in Giur. mer., 2004, 1699 ss.).

La sospensione della delibera impugnata dinanzi al collegio arbitrale trae la propria disciplina processuale da una lettura combinata della norma speciale dell’art. 35, co. 5, con quella generale della sospensione disposta dal giudice ordinario alla stregua dell’art. 2378, co. 3-4, c.c. Una lettura prudente delle due citate disposizioni e, per l’appunto, della loro combinazione ermeneutica si impone in ossequio, anzitutto, al menzionato carattere inderogabile della lex specialis e, poi, anche alla rigidità del sistema codicistico di sospensione dell’efficacia della delibera assembleare. Un primo dato ricostruttivo di grande importanza è offerto, in questo senso, dalla radicale esclusività della competenza arbitrale in punto di concessione della misura inibitoria ogni qualvolta la decisione sull’impugnazione della delibera assembleare sia devoluta alla competenza del medesimo collegio arbitrale. Il carattere esclusivo e la conseguente irrinunciabilità della competenza de qua emerge chiaramente dallo stesso dato letterale della disposizione in esame e, in particolare, dall’impiego dell’avverbio «sempre» per qualificare la possibilità dei soci opponenti di ricorrere alla tutela sospensiva in presenza d’una clausola statutaria che devolva in arbitrato i giudizi impugnatori della delibera assembleare. Una tale compressione dell’autonomia statutaria delle parti, alle quali viene dunque sottratta la possibilità di concedere all’arbitro un potere di annullamento della delibera che sia sguarnito del potere (complementare) di sospenderne l’efficacia, non sembra potersi allentare neppure nel caso di inerzia (finanche colpevole) del collegio arbitrale investito dell’istanza sospensiva (o, prim’ancora, del soggetto incaricato della nomina arbitrale). È pur vero, come sostenuto da una certa parte della giurisprudenza di merito, che la previsione di una generale potestà cautelare del giudice ordinario per il caso di devoluzione in arbitrato di una lite societaria (art. 35, co. 5, prima parte) può assumere la valenza di una norma di chiusura del sistema arbitrale societario ed essere invocata per ammettere il ricorso alla tutela sospensiva nei casi in cui manchi o sia tardivo l’intervento del collegio arbitrale (v. Trib. Milano, 19-20.9.2007, in Giur. it., 2008, 371 ss.; Trib. Agrigento, 4.11.2004, in Giur. comm., 2007, II, 222 ss.); nondimeno, sembra che una tale conclusione sia difficilmente sostenibile con riferimento all’impugnazione della delibera assembleare viziata posto che, in relazione a tale tipologia di liti societarie, la scelta legislativa si è nettamente orientata nel senso della esclusività della competenza arbitrale (v. Trib. Napoli, 8.3.2010, in Soc., 2010, 1510 ss.; Trib. Milano, 4.10.2005, in Giur. comm., 2006, II, 1128 ss.) e della sopravvivenza della tutela cautelare atipica ex art. 700 c.p.c. – sub specie di sospensione giudiziale dell’efficacia della delibera – dopo la proposizione della domanda ma prima della costituzione dell’organo arbitrale (v. Trib. Napoli, 6.2.2012, in Soc., 2012, 563 ss.; Trib. Milano, 17.3.2009, in Riv. arb., 2009, 311 ss.; sull’ammissibilità della tutela cautelare d’urgenza in luogo di un’impraticabile sospensione dell’efficacia della delibera impugnata v., da ultimo, Trib. Milano, 28.11.2014, in Soc., 2015, 689 ss.).

Anche sul piano processuale il regime applicabile alla misura de qua va ricostruito combinando le peculiarità del sistema arbitrale societario e del giudizio impugnatorio della delibera viziata con quelle del regime cautelare uniforme di cui agli artt. 669 bis ss. c.p.c. Ed infatti, sia la decisione sulla misura sospensiva sia le successive vicende processuali del provvedimento cautelare sono variamente influenzate non solo dalle regole dell’art. 35, co. 5 ,e dalle prescrizioni dell’art. 2378, co. 3-4, c.c., ma anche dalla disciplina generale sulla giurisdizione cautelare dettata dal codice di rito. Il sovrapporsi di questi dati normativi consente, quindi, di ritenere che la concessione della misura sospensiva debba essere pronunciata dal collegio arbitrale previo accertamento in forma sommaria dei presupposti generali del fumus boni iuris e del periculum in mora. Non è certo questa la sede per esaminare i requisiti che costituiscono, per così dire, il perno della tutela cautelare in sede civile; nondimeno, pare opportuno precisare come tali requisiti assumano una particolare rilevanza in rapporto alla situazione soggettiva che è coivolta nel giudizio impugnatorio della delibera assembleare e che viene provvissoriamente tutelata dall’accolgimento dell’istanza sospensiva. Da un lato, infatti, va osservato che la necessaria contestualità ex art. 2378, co. 4, c.c. tra l’istanza cautelare e la domanda di merito impone al collegio arbitrale una delibazione del fumus bonis iuris alla stregua dei motivi di impugnazione concretamente (e contestualmente) esperiti dalla parte istante con la domanda arbitrale di annullamento della delibera (v. Trib. Milano, 26.7.1997, in Giur. it., 1998, 93 ss.); dall’altro lato, giova rammentare che la delibazione del periculum in mora, pur svolgendosi secondo il consueto canone della sommarietà, esige un’attenta ponderazione tra l’interesse del soggetto impugnante (rectius: il pregiudizio che subirebbe l’impugnante per la mancata sospensione dell’efficacia della delibera) e l’interesse della società (rectius: il pregiudizio che subirebbe la società per effetto della concessione della misura sospensiva). L’attenta ponderazione degli interessi in conflitto – prescritta dall’art. 2378, co. 4, c.c. sub specie di valutazione comparativa dei pregiudizi – consente ed, anzi, impone al collegio arbitrale di confrontare le ragioni di un’impugnazione apparentemente fondata con l’assetto organizzativo e decisionale della società; un assetto, quest’ultimo, che si è venuto infatti determinando per il tramite (anche) della deliberazione impugnata (v. Trib. Roma, 3.9.2004, in www.judicium.it).

La laconicità del dettato normativo dell’art. 35, co. 5, d.lgs. n. 5/2003 suggerisce, inoltre, un’applicazione analogica delle ulteriori regole processuali imposte dalla disciplina codicistica per la sospensione che sia disposta dall’autorità giudiziaria ordinaria. I caratteri del giudizio arbitrale societario non paiono, anzitutto, precludere la possibilità che la misura sospensiva sia concessa anche inaudita altera parte ogni qualvolta la convocazione del controinteressato potrebbe pregiudicarne l’attuazione; fermo restando il recupero del contraddittorio con apposita udienza, tale soluzione appare, infatti, pienamente legittimata non solo dalle previsioni degli artt. 669 sexies c.p.c. e 2378, co. 4, c.c., ma anche dall’affidamento esclusivo del potere di nomina del collegio arbitrale ad un soggetto terzo estraneo alla società ex art. 34, co. 2, d.lgs. n. 5/2003. Coerente coi caratteri dell’arbitrato societario è, poi, anche la prescrizione di una previa audizione di «amministratori e sindaci» da parte del collegio che sia chiamato a decidere l’istanza cautelare (così ancora l’art. 2378, co. 4, c.c.); è indubbio, infatti, che tali soggetti potrebbero fornire – anche nel contesto arbitrale – una serie di informazioni utili a quella valutazione comparativa tra pregiudizi che – come detto – è funzionale al riconoscimento del periculum in mora e, quindi, alla concessione della misura cautelare. D’altra parte, la disciplina speciale in tema di arbitrato societario non pare incompatibile neppure con le regole della revocabilità o modificabilità della misura cautelare ad opera del medesimo organo decidente che abbia emesso il provvedimento concessorio; ed infatti, assegnando all’arbitro il potere di pronunciare la misura sospensiva, il legislatore minus dixit quam voluit, atteso che il potere di revocare o modificare la misura cautelare – per lo meno quando ricorrano i presupposti di cui all’art. 669 decies c.p.c. – va letto come una manifestazione del potere di emanare la misura provvisoria e va, dunque, considerato come un corollario o un completamento di tale potere. Allo stesso modo, deve ammettersi la riproponibilità al collegio dell’istanza cautelare inizialmente rigettata allorché ricorrano quei «mutamenti delle circostanze» o quelle «nuove ragioni di fatto o di diritto» che giustificano – ai sensi dell’art. 669 septies c.p.c. – la concessione della misura sospensiva. A ben vedere, anzi, la riproponibilità dell’istanza cautelare pendente lite, così come la revocabilità (o modificabilità) della misura cautelare, costituiscono un adeguato bilanciamento alla regola della irreclamabilità dell’ordinanza di sospensione prescritta dall’art. 35, co. 5. In quest’ultimo caso, infatti, prevale la disposizione espressa e inderogabile della lex specialis, la cui giustificiazione è rintracciabile – secondo una comune opinione – nella semplificazione e, auspicabilmente, anche nell’accelerazione della procedura arbitrale. Ed invero, è indubbio che la reclamabilità dell’ordinanza imporrebbe un grave appesantimento per la procedura sia nell’ipotesi in cui la delibazione dei motivi di reclamo spettasse al medesimo (o ad altro) collegio arbitrale, sia nell’ipotesi in cui tale delibazione – nel silenzio della legge – venisse affidata all’autorità giudiziaria ordinaria esorbitando, però, i limiti della devoluzione in arbitrato della lite concernente la validità della deliberazione assembleare. Qualche dubbio di asimmetria normativa – e, dunque, di illegittimità costituzionale – potrebbe tuttavia porsi in parte qua, atteso che, da un lato, la regola della irreclamabilità vale solo per l’ordinanza concessoria (e non anche – expressis verbis – per quella avente un contenuto opposto) e, dall’altro lato, il sistema della tutela sospensiva riconosciuta in sede giudiziale contempla espressamente la reclamabilità del provvedimento cautelare. In particolare, è proprio quest’ultima discrasia normativa – e non tanto la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione – che induce a ritenere insufficienti le ragioni della celerità del giudizio arbitrale e della sua piena autonomia rispetto alla giurisdizione ordinaria (ogni qualvolta ricorra una clausola compromissoria statutaria che devolva in arbitrato i giudizi aventi ad oggetto la validità delle deliberazioni assembleari); sia la necessità di rispettare il termine per la pronuncia del lodo sia la necessità di evitare ingerenze della giurisdizione ordinaria sulla lite arbitrale pendente parrebbero ragioni inadeguate a bilanciare lo squilibrio normativo con il sistema dell’art. 2378 c.c. e – quel che più conta – con l’istanza di tutela della società (interessata a reclamare l’ordinanza concessoria) e dei medesimi soci opponenti (interessati a reclamare – ove la si ammetta per coerenza sistematica – l’ordinanza che nega la sospensione).

L’arbitrato irrituale

L’accesso alla tutela cautelare giudiziale nell’arbitrato societario trova applicazione – come si è detto in apertura – anche nell’ipotesi in cui la clausola compromissoria statutaria scelga di devolvere la decisione delle liti societarie ad un arbitrato di tipo irrituale. Il richiamo a tale tipologia di arbitrato contenuto nella prima parte dell’art. 35, co. 5, costituisce, dunque, un’importante novità che non solo amplia l’ambito applicativo della tutela cautelare che l’autorità giudiziaria ordinaria può adottare in sede arbitrale, ma supera anche una consolidata lettura nel senso della incompatibilità tra la tutela cautelare e la giustizia privata.

In particolare, giova ricordare come l’inammissibilità di una tutela cautelare (giudiziale) nel contesto di una controversia devoluta ad arbitri liberi si sia venuta appuntando principalmente sul rilievo che i provvedimenti emessi in via cautelare sono preordinati ad un giudizio da svolgere dinanzi agli organi investiti del potere giurisdizionale, con la conseguenza che se il giudizio di merito relativo al diritto da tutelare è devoluto (per libera scelta dalle parti) in arbitrato libero, non può esserci spazio per l’emissione di un provvedimento che sia volto ad assicurare provvisoriamente gli effetti del giudizio di merito. Si tratta, a ben vedere, di argomenti la cui efficacia interpretativa non è stata sminuita dall’espressa estensione all’arbitrato societario irrituale dell’accessibilità alla tutela cautelare giudiziale: e ciò proprio in ragione del ridotto ambito applicativo della norma, il quale ha consentito, in un primo tempo, di indulgere maggiormente ad una lettura rigorosa dell’inammissibilità della tutela cautelare in sede di arbitrato non rituale ogni qualvolta non trovasse applicazione la lex specialis dell’art. 35, co. 5 (Cass., 17.6.1993, n. 6757, in Giust. civ., 1993, I, 2640 ss.; Trib. Catania, 13.9.1999, in Giur. comm., 2000, II, 507 ss.; Trib. Vercelli, 29.7.1998, in Riv. arb., 1999, 81 ss.; contra v. Trib. Milano, 9.4.2002, in Giur. it., 2002, 1657 ss.).

La prospettiva è oggi completamente rivista nell’arbitrato societario – e le antiche problematiche ampiamente sopite – avendo primaria rilevanza l’espressa previsione della ricorribilità al giudice ordinario anche nel caso in cui l’esigenza cautelare si sia manifestata in relazione a (o nel corso di) un giudizio arbitrale di tipo irrituale. Tale cambiamento non pare giustificare, tuttavia, una conclusione nel senso della equiparazione dell’arbitrato irrituale all’arbitrato secondo diritto sia per la specialità della regola dell’art. 35, co. 5, rispetto al sistema dell’arbitrato di diritto comune (che non contempla alcuna equiparazione in punto di cautela tra le due forme di arbitrato), sia per l’esclusività che contraddistingue l’ambito applicativo (oggettivo e soggettivo) dell’arbitrato societario. A tale riguardo, pertanto, deve escludersi che il collegio arbitrale possa concedere la misura sospensiva dell’efficacia della delibera impugnata allorché la decisione sia stata devoluta in arbitrato irrituale; spetterà infatti all’autorità giudiziaria ordinaria provvedere, in tal caso, alla concessione della misura de qua alla stregua dell’art. 669 quinquies c.p.c.

Fonti normative

Artt. 806 ss. c.p.c.: artt. 2377-2378 c.c.; art. 12 l. 3.10.2001, n. 366; artt. 34-36 d.lgs. 17.1.2003, n. 5.

Bibliografia essenziale

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