ARBITRATO

Enciclopedia Italiana (1929)

ARBITRATO (il latino arbiter "arbitro" è probabilmente connesso con baetere "andare"; fr. arbitrage; sp. arbitrío; ted. Schiedsgericht; ingl. arbitration)

Gabriele SALVIOLI
Camillo Viterbo
Vincenzo ARANGIO-RUIZ

Si dicono arbitri i giudici privati designati dalle parti (Dig., IV, 8, de receptis: qui arbitrium recep., 13, 2; ibid., 50) per la risoluzione di una controversia. Già le dodici tavole conoscono l'arbiter, che però è un giudice, e spesso così è chiamato. Più precisamente nella postulazione per la legis actio per iudicis (Gaio, IV, 12, 20) ricorre la designazione iudex arbiterve; questo arbitro si differenzia dal giudice soltanto per la libertà conferitagli nel giudicare. I processi in cui egli è chiamato si dicono perciò arbitria. Il vero arbitro è da distinguersi dall'arbiter datus, che ripete, anche se accolto dal consenso delle parti, l'autorità dal funzionario che lo ha "dato". La decisione dell'arbitro non ha la forza esecutiva che ha quella del giudice; le parti però ne assicurano il rispetto, il sententiae arbitri stare, con l'aggiunta di una clausola penale. Giustiniano (Cod., II, 56, de receptis, 4) concesse, sotto alcune condizioni, al litigante vincitore un'azione in factum, anche se mancasse la stipulazione dell'adempimento.

La definizione di arbitro data sopra vale anche per il nostro diritto. Sono però spesso qualificati arbitrali, nelle nostre leggi, organi giudicanti obbligatorî fissi, non nominati dalle parti, che debbono essere considerati vere giurisdizioni speciali. Le espressioni arbitro e arbitrali trovano le loro spiegazioni in una ragione di mera opportunità, come indicazioni delle facoltà eccezionali concesse a codesti giudici speciali quanto al procedimento e al modo di decidere (Mortara). Questi arbitrati si dicono necessarî.

Il procedimento dinnanzi ai giudici privati s'inizia con un contratto, o compromesso (per la legge germanica è valido anche un atto di ultima volontà), che fu detto processuale negativo (Chiovenda), perché ha un effetto prorogatorio, in quanto spoglia l'autorità giudiziaria della competenza, conferendo la relativa eccezione di compromesso, e ne investe gli arbitri; termina con l'intervento del giudice ordinario, pretore, che conferisce, previa una superficiale indagine sul ricorrere delle condizioni volute dalla legge, l'esecutorietà forzata al giudicato arbitrale, detto lodo. L'oggetto del compromesso dev'essere, pena la nullità, una controversia determinata. La clausola compromissoria è una promessa di contratto di compromesso, che ha generalmente per oggetto tutte le controversie che possono nascere da un contratto. Recentemente essa fu resa valida (legge 31 dicembre 1925) anche in Francia, uno dei pochi paesi che ancora non l'ammettesse.

La legge disciplina l'arbitrato nel capo secondo del codice di procedura civile con una serie di norme, di cui sono cogenti quelle riguardanti il compromesso e il deposito del lodo, mentre sono da considerarsi dispositive, nel silenzio della legge, quelle riguardanti il procedimento, sempre che la deroga non contraddica allo scopo della norma stessa. Non sono compromettibili controversie riguardanti l'ordine pubblico, come quelle di stato e di separazione personale, né può l'arbitrato sostituire il giudizio di cassazione.

Un desiderio, spesso illusorio, di rapidità e d'economia spinge le parti a ricorrere a queste specie di giudizî; altre volte è la volontà di sfuggire al rigore dello stretto diritto, o la ricerca di un giudice tecnicamente esperto. È esagerato considerare l'arbitrato tanto come un mero residuo del passato, quanto come un prodromo di miglior giustizia avvenire (Chiovenda).

Molto si è discusso e si discute ancora intorno alla natura giuridica dell'arbitrato; privata per gli uni, giurisdizionale per gli altri, essa è anche oggetto di contemperatrici tesi intermedie. L'estrema tesi privatistica fu spinta (A. Rocco) fino a ritenere che l'arbitro esprima, determinandola, la volontà delle parti in quell'elemento in cui rimaneva indeterminata. Altri (Chiovenda), respingendo la dottrina estrema, parte dal principio che la mera preparazione logica della sentenza, in cui consiste l'attività dell'arbitro, non è obiettivamente, ma solo subiettivamente, se compiuta da un organo giurisdizionale, atto giurisdizionale. L'elemento logico non ha se non un valore di preparazione dell'atto di volontà, e quest'ultimo solo è nell'arbitrato giurisdizionale. L'arbitro non attua la legge, giudica soltanto secondo la legge, e il suo giudizio è poi assunto a dignità d'atto giurisdizionale. Si giunge così alla conclusione che il lodo esecutivo è un atto in cui è privata la materia logica, pubblica la volontà dell'organo che conferisce l'esecutorietà. A sostegno di ouesta distinzione è richiamato l'antico scabinato e il moderno giurì, in cui le operazioni del giudicare sono affidate a persone diverse. Pure ammettendo la possibilità di una legge differente, di cui si nega però l'opportunità, che conferisca agli arbitri caratteri giurisdizionali, si osserva che nella nostra legislazione questi caratteri mancano; il che appare evidente per chi consideri che agli arbitri è negato ogni potere istruttorio di coercizione.

I sostenitori dell'opposta tesi (Fedozzi e recentemente Zanobini) mettono in rilievo il valore del giudizio logico della sentenza, onde è poi loro facile ravvisare nel lodo una perfetta sentenza di puro accertamento, che diventerà di condanna.

Tesi accreditata è quella (Mortara) che, per sostenere la giurisdizionalità dell'arbitrato, parte dal concetto che l'amministrazione della giustizia è ufficio del potere sovrano; quindi il giudizio arbitrale è, almeno secondo l'ordinamento che gli ha dato il nostro codice, funzione giurisdizionale. Il compromesso ha un effetto prorogatorio della giurisdizione che consente alle parti la scelta dei giudici, di giudici privati, cui l'investitura proviene però sempre dal potere sovrano, anche se la designazione è delle parti. L'attività di questi giudici è incompleta, e si completa con quella del pretore. Fra la teoria giurisdizionalistica (sostenuta con varie gradazioni da Mortara, Galante, Fedozzi, Zanobini, Galgano) e quella privatistica (che ha per principali sostenitori il Rocco, il Chiovenda, il Calamandrei, lo Scaduto), ve n'è una temperatrice (Carnelutti), secondo cui, accanto agli elementi conoscitivo (d'accertamento) e volitivo (d'esecuzione) delle sentenze, vi sarebbe un terzo elemento, l'imperio, che al conoscitivo inerisce e il volitivo prepara. Poiché la varia posizione degli scrittori è da far risalire al concetto che essi hanno della sentenza (eccetto per il Rocco per quanto propugnatore della natura dichiarativa della sentenza), s'intende come da questa posizione scaturisca una tesi intermedia. Gli sviluppi di queste tesi conducono a considerare il compromesso come il contratto che conferisce agli arbitri la facoltà di compiere un atto che può e dev'essere ratificato dal giudice ordinario; esso non è quindi processualmente un contratto meramente negativo. L'attività dell'arbitro e quella del pretore sono elementi di un'unica attività pubblico-privata. Non importa mettere in rilievo l'analogia di questo tema con quello della delibazione.

La legge ammette, quando vi sia espressa dichiarazione delle parti, gli arbitri amichevoli compositori che decidono secondo l'equità; equità che può coincidere o non coincidere con lo stretto diritto. Ciò conferisce a questi arbitri un potere modificativo e costitutivo dei rapporti, che in un certo senso li riavvicina agli arbitratores. L'arbitro conciliatore, di cui all'art. 402 cod. proc. civ., non presenta difficoltà speciali.

Gli articoli 1454 e 1718 del codice civile ammettono che due contraenti possano rimettere a un terzo la determinazione di un elemento del contratto. Sulla base di questi due articoli la dottrina ha costruito la figura generale dell'arbitratore, già conosciuto di fatto, anche se non di nome, nel diritto romano. Arbitratore è quindi colui che vien chiamato a determinare in un rapporto giuridico un elemento non definito dalle parti. Quale la differenza fra arbitro e arbitratore? Taluno (A. Scialoja) prende come criterio di distinzione il modo di giudicare: lo stato ha il monopolio dell'attuazione del diritto, non della risoluzione delle controversie; quindi i giudizî di equità, ammesso che non vogliano beneficare dell'esecutorietà forzata, come è il caso per quelli pronunciati dagli amichevoli compositori, sono sottratti alle forme sancite dal capo secondo del codice di procedura civile. V'è chi (Scaduto) pone l'arbitratore e l'arbitro su due piani diversi. Il secondo appartiene al campo pubblico, è giudice nel contrasto delle parti, il primo appartiene al campo privato e non emette la sua pronuncia nel dissenso delle parti, ma fissa un elemento nell'accordo delle parti medesime. Infatti, quando le parti rimettono all'arbitrio boni viri un elemento del loro contratto, si accordano astrattamente sulla determinazione di esso entro gli stretti limiti di quell'arbitrio. Lo Scaduto respinge l'arbitrium merum e quello boni viri inappellabile, che ad esso parifica, e lo crede ammissibile soltanto se contenuto in stretti limiti predeterminati: questi limiti sono l'oggetto dell'accordo, l'arbitratore è in questo caso un semplice mezzo per la determinazione. Altri (Carnelutti), seguitando per una via già segnata (Sraffa, Galgano, ecc.), desume il criterio di differenziazione dalla distinzione fra controversia economica e controversia giuridica. Il giudice della prima è arbitratore, arbitro quello della seconda. Giudici entrambi, perché entrambi giudicanti sul contrasto delle parti, anche se dall'accordo delle medesime ripetono la facoltà di decidere. È giudice l'arbitratore giudicante secondo l'arbitrio boni viri; perché, se è pur vero che con la sua designazione le parti fecero una designazione astratta, entro certi limiti determinata, dell'elemento contrattuale sottoposto al giudizio, non bisogna dimenticare d'altra parte che la determinazione subiettiva, come la concepisce ognuna delle parti, non è coincidente, e l'arbitratore decide quindi nel sostanziale disaccordo delle parti. Giudice è anche quando statuisce secondo l'arbitrium merum, perché è pur sempre l'impossibilità dell'accordo (o almeno l'accordo non raggiunto) quella che, determinati gli altri elementi, arresta le parti dinanzi alla determinazione di quello deferito all'arbitratore.

S'identifica con quello della distinzione fra arbitri e arbitratori il problema riguardante la validità dei cosiddetti arbitrati liberi o irrituali; cioè dell'obbligatorietà che può conferire la volontà delle parti alla decisione presa da un terzo al di fuori delle prescrizioni sancite dal codice di procedura civile pel giudizio arbitrale.

Un'autorevole dottrina (Scaduto) ritiene stia all'accordo delle parti dar vita a una tale decisione; e ciò perché nei compromessi irrituali, in quanto si ricorre agli arbitratori, si fa mancare la controversia e quindi la sua risoluzione. Altri (Scialoja) sostiene che gli arbitrati liberi rientrino in quei giudizî di equità, che, non pretendendo dallo stato il conferimento dell'esecutorietà forzata, né invadendo il campo a questo riservato dal diritto, vanno esenti da ogni vincolo di forma. Secondo la dottrina che sembra prevalere (Carnelutti), essi sono ammissibili o no, a seconda che si tratti di una controversia economica o di una controversia giuridica. Per altra via (Bonfante), si ammise l'arbitratore anche nel campo della controversia giuridica, partendo dal principio della rappresentanza, per cui il lodo, essendo frutto di una delegata volontà delle parti, rimarrebbe in un campo in cui questa volontà è sovrana. Fu obiettato (Sraffa) che non può concepirsi una rappresentanza contraddittoria come quella di chi rappresenti due parti che hanno interessi e vedute diverse. Inoltre pub la parte delegare altri a fare ciò che non potrebbe essa stessa: risolvere una controversia? Appartiene all'arbitrato libero l'arbitrato con foglio in bianco, in cui le parti rimettono agli arbitri un foglio già firmato da riempire? La giurisprudenza pare favorevole. La più autorevole dottrina ritiene che qui ci troviamo dinanzi a un fenomeno processuale e non di diritto materiale. Non si ha qui una dichiarazione in bianco. Chi sottoscrive in bianco non dichiara nulla, ma mette la controparte in grado di provare che egli ha dichiarato; cioè si producono degli effetti di diritto processuale, in base alle regole legali delle prove. Ciò non toglie che la dichiarazione redatta dal terzo in sé rimanga un giudizio.

Il deareto 20 luglio 1919, n. 1272, modificando l'art. 941 cod. proc. civ., toglie ogni dubbio sulla possibilità per gli arbitrati esteri di trovare riconoscimento nel regno. Rimane vivo il problema, però, quando il lodo straniero sia pronunciato in materia che sarebbe di competenza delle autorità italiane. S'intuisce facilmente la posizione dei sostenitori delle suaccennate teoriche di fronte a questo problema. I giurisdizionalisti identificano quest'ipotesi con quella della proroga della giurisdizione nazionale a beneficio della straniera, gli altri negano invece l'identificazione. Né vale certo a togliere ogni ragione al dibattito la recente legge 8 maggio 1927, n. 783 (Raccolta ufficiale delle Leggi e Decreti del regno d'Italia, 1927, n. 1127; vol. V, p. 4471), che approva il corrispondente protocollo di Ginevra, e il cui art. 1 statuisce: Chacun des États contractants reconnaît la validité, entre parties soumises respectivement à la Juridiction d'États contractants différents, du compromis ainsi que de la clause compromissoire par laquelle ies parties à un contrat s'obligent, en matière commerciale ou en toute autre matière susceptible d'être réglée par voie d'arbitrage par compromis, à soumettre en tout ou parties les différences qui peuvent surgir dudit contrat, à un arbitrage même si le dit arbitrage doit avoir lieu dans un pays autre que celui à la juridiction duquel est soumise chacune des parties au contrat.

Chaque État contractant se reśerve la liberté de restreindre l'engagement visé ci-dessus aux contrats qui sont considéres comme commerciaux par son droit national. L'État contractant qui fera usage de cette faculté en avisera le Secrétaire général de la Société des Nations, ecc.

Gli arbitrati privati esercitano la loro influenza nel campo internazionale, sia quando un arbitrato nazionale assume un'importanza che trascende i confini della patria (es. London Court of Arbitration); sia con l'arbitrato per gruppi in cui i giudici sono nominati parte dai rappresentanti dell'uno, parte dai rappresentanti dell'altro stato; sia infine con l'arbitrato mondiale, cui è riconosciuta una competenza internazionale, come alla Cour d'arbitrage della Camera di commercio di Parigi.

Bibl.: G. Chiovenda, Principî di diritto processuale civile, Napoli 1923, p. 105; L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Milano [1905], n. 34 segg.; V, Milano [1909], p. 43; E. Codovilla, Del compromesso e del giudizio arbitrale, Torino 1899; A. Rocco, La Sentenza civile, Torino 1906; P. Bonfante, in Riv. di dir. comm., II (1905), p. 45 segg.; Galante, Sentenze arbitrali, in Digesto italiano; id., La Funzione degli Arbitri, in Legge, 1906, p. 1594; id., Natura ed efficacia delle sentenze degli arbitri, in Scritti in onore di Carlo Fadda; Minozzi, Foglio in bianco come accettazione anticipata dei giudizi arbitrali, ibidem; P. Fedozzi, L'arbitrato nel diritto processuale civile internazionale, Palermo 1908; C. Ghirardini, Sull'arbitrato nel diritto processuale civile internazionale, in Rivista di dir. civile, 1910; S. Galgano, Contributi alla dottrina dell'arbitrato nel diritto processuale civile, in Rivista critica di dir. e giurisp., 1910, 1911; Simon, Du compromis, Parigi 1866; L. Weill, Les sentences arbitrales en droit international privé, Parigi 1906; A. Wach, Vorträge über die Reichszivilprocessordnung, Bonn 1879; J. Kokler, Gesammelte Beiträge zum Zivilprozessrecht, Berlino 1894; K. Hellwig, System des deutschen Zivilprozessrechts, Berlino 1919; B. Windscheid, Diritto delle Pandette, trad. italiana di C. Fadda e P. Bensa, II, ii, Torino 1904, § 415 seg.; F. Scaduto, Gli arbitratori nel diritto privato, in Annali della Università di Palermo, XI; A. Sraffa, Compromessi e lodi arbitrali fra industriali senza le forme del giudizio, in Riv. dir. comm., II (1905), p. 451; F. Carnelutti, Arbitrato estero, in Riv. dir. comm., I (1916), pag. 374; id., L'accettazione del lodo improprio da parte dei compromettenti, in Riv. dr. proc., II (1925), p. 54; id., Arbitri ed arbitratori, in Riv. dir. proc., I (1914), p. 121; id., Per una riforma dell'arbitrato, in Riv. dir. comm., I (1923), p. 58; Caliendo, In tema di arbitrato libero, in Riv. dir. proc., II (1925), p. 52; Lessona, in Foro ital., I (1926), p. 1065; M. Ricca Barberis, Arbitrato all'estero e valore di contratti precedenti, in Riv. dir. comm., II (1924), p. 299; Paola, Arbitrato con foglio in bianco, in Riv. dir. civ., II (1924), p. 481; A. Nussbam, Internationales Jahrbuch für Schiedsgerichtswesen, Berlino 1926; A. Scialoja, Arbitrati liberi, in Riv. dir. comm., 1922, p. 496; T. Liebman, Sul tema degli arbitrati liberi, in Riv. dir. proc., 1927; Niccoli, L'arbitrato in America, in Riv. dir. proc., 1926, p. 328; M. Sarfatti, L'arbitrato in Inghilterra, in Riv. dir. proc., 1926; P. Calamandrei, Il significato costituzionale della giurisdizione di equità, in Arch. Giur., LXXXV (1921), p. 221; id., La sentenza oggettivamente complessa, in Riv. dir. proc., I (1924). Quanto precede non è che parte dell'amplissima bibliografia esistente.

L'arbitrato internazionale.

Origini e sviluppo storico. - L'idea di sottoporre ad arbitrato le controversie fra gli stati non poteva essere, in linea generale, propria del mondo antico; troppo profondo era il rancore che si determinava nell'offeso contro il vero o presunto offensore, e troppo sentita la diversità delle razze, che toglieva la possibilità di considerare i popoli stranieri come soggetti di relazioni giuridiche da attuarsi pacificamente. La massima di Gaio (IV, 34), si quid adversus pactionem fiat, non ex stipulatu agitur, sed iure belli res vindicatur, vera sostanzialmente in ogni tempo, è nel mondo antico la verità attuale di ogni giorno. L'arbitrato poté avere larga applicazione nel solo ambiente ove la netta separazione giuridica e politica lasciava sussistere un'irriducibile unità nazionale, col conseguente riconoscimento di una sostanziale uguaglianza fra popolo e popolo e di una comune civiltà da difendere. Domnque l'alfabeto e la parlata greca, come pure l'organizzazione politica sulla base della città stato, permettano di riconoscere nell'avversario il socio, l'arbitrato è al suo posto: non solo quando una più stretta affinità etnica raccolga le città in federazioni, o quando la tradizione di un'antica amicizia favorisca la tendenza ad accomodamenti pacifici, ma anche là dove le rivalità di confine e le gare per l'egemonia abbiano lungamente armato le città le une contro le altre, è sempre diffusa l'impressione che lo stato di guerra, naturale in confronto dei barbari, sia fra Greci un male da affrontarsi soltanto nei casi di estrema necessità (cfr. per tutti Platone, De rep., p. 469 b segg.). L'arbitrato rimonta così fino ai primi documenti storici, e si afferma perfino nei miti: si pensi, per questi ultimi, all'arbitrato dell'Areopago descritto da Pausania (IV, 5, 2; 7); e si ricordino l'arbitrato del tiranno di Corinto, Periandro, fra Atene e Mitilene (Erod., V, 95), la decisione emessa dagli Spartani nella controversia fra Atene e Megara circa il possesso di Salamina (sec. VI), quella dei Corinzî nella controversia fra Atene e Tebe circa il possesso di Platea (519 o 509 a. C.).

Il pensiero di risolvere le controversie fra città con l'arbitrato era d'altra parte favorito dal predominio delle forme arbitrali nel processo privato: mentre a noi riesce in qualche modo ostica la concezione di un giudizio che non emani da un'autorità superiore, i Greci avevano nelle controversie civili la rappresentazione quotidiana dell'arbitro scelto liberamente dalle parti, e della decisione a cui soltanto l'accettazione del soccombente dava efficacia di cosa giudicata: non solo il compromesso aveva applicazione larghissima, ma avveniva altresì che le città organizzassero giunte di arbitri da adire in via amichevole prima di affrontare la decisione del tribunale vero e proprio, com'è dei dieteti ateniesi, la cui decisione fa stato, se le parti vi si sottomettano, e cade nel nulla, se il soccombente preferisca portare la questione al giudizio dell'Eliea. Inoltre l'artificiosa riduzione dello stato nei limiti ristretti della città e del contado faceva sì che, in tempi di civiltà raffinata, gran parte delle relazioni di diritto privato si svolgessero fra cittadini di diverse città, con la conseguente esigenza di accordi fra le città intorno alle norme che regolassero rapporti siffatti, e ai tribunali che ne conoscessero; era una ragione di più per l'avvicinamento fra i varî gruppi politici, e un modello di più da tener presente nel risolvere i conflitti di carattere pubblico.

Infatti, la terminologia dell'arbitrato internazionale (o, come preferiremmo chiamarlo, intercittadino) si adattò su quella dei procedimenti arbitrali di diritto privato. A entrambe le ipotesi si applica l'espressione δοῦναι ἐπιτροπήν, che indica il conferimento dei poteri all'arbitro: gli oggetti in controversia si designano anche qui come ἀμϕισβητούμενα o ἀμϕιλεγόμενα, il processo come δίκη, la decisione come ἀπόϕασις o κρίσις. Dove il procedimento è regolato minuziosamente, come nel decreto di Cnido sull'arbitrato fra la città di Calimno e i figli di Diagora di Cos (Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graec., 3ª ed., n. 953), l'analogia con l'ordinamento dei processi privati è costante: anzi l'uso d'iscrivere in stele marmoree i documenti di siffatti arbitrati soccorre alla deficienza delle notizie letterarie circa gli ordinamenti processuali in vigore fuori di Atene, e mostra come vigessero in ogni parte del mondo greco regole uniformi, e non solo nelle direttive generali, ma anche nei particolari dello svolgimento delle udienze.

A rigore, non si può parlare di arbitrato se non quando sia volontario: il che non accade quando gli statuti delle leghe impongono alle città associate di rimettere la decisione delle controversie reciproche agli organi federali, o alla città che questi designino di volta in volta. Un esempio perspicuo se ne ha nell'arbitrato fra Epidauro e Corinto, assunto da Megara (fra il 242 e il 235 a. C.) per decreto della lega achea (Sylloge, 471): e forse anche nell'arbitrato fra le isole di Melo e di Cimolia, deferito agli Argivi (circa 331 a. C.) per decreto del "sinedrio degli Elleni", nome pomposo sotto il quale sembra nascondersi la lega corinzia (Sylloge, 261). Ma non sempre dall'appartenenza a una lega discende l'obbligo di sottomettersi al suo arbitrato: così i giudizî della lega etolica (mediante arbitri scelti fra i cittadini delle città neutrali) nelle controversie di Melitea con Xyniai e con Perea (Sylloge, 546, A e B) si dicono provocati dalle città interessate di comune accordo, il che escluderebbe l'esistenza di un obbligo di comportarsi in questa guisa: in casi simili, come in quelli ove una città egemonica fa pressione sulle satelliti, perché deferiscano una controversia al suo arbitrato (ad esempio, Cnosso su Lato e Opunte, Sylloge, 712), il carattere volontario del compromesso è giuridicamente innegabile, se pure ne sia politicamente dubbia la spontaneità. Obbligatorio è, di nuovo, l'arbitrato imposto alle città da trattati di amicizia e di arbitrato, come quello di Atene coi Beoti per deferire ogni futura contestazione a Lamia (Sylloge, 464), o da trattati di pace o di tregua, come le celebri σπονδαί trentennali stipulate fra Atene e Sparta (con le rispettive simmachie) nel 445: chiunque abbia letto il primo libro di Tucidide sa quale sforzo diplomatico sia stato fatto, all'inizio della guerra del Peloponneso (431), per evitare che all'uno o all'altro popolo venisse imputato il mancato ricorso alla procedura arbitrale e la conseguente rottura della tregua.

L'accordo per sottomettere una controversia all'arbitrato (ὁμολογία) si esprime col rivolgersi all'individuo, o - come è assai più frequente - alla città prescelta (πόλις ἔκκλητος), con la richiesta generica che si assuma l'onere del giudizio, oppure con la preghiera di designare gli arbitri. Quest'ultima formula sembra preferita ove si sia d'intesa nel deferire la decisione a un piccolo numero di arbitri (quattro e tre nei lodi A e B di Sylloge, 546, cinque in Sylloge, 599, dove i Rodioti sono arbitri fra Priene e Samo): altrimenti gli organi della πόλις ἔκκλητος si attengono ai modi dei loro proprî ordinamenti giudiziarî, designando talvolta collegi numerosissimi di 151 (Sylloge, 471) e persino di 204 membri (Sylloge 953), o chiamando addirittura a decidere l'assemblea popolare (come in Sylloge, 261, su cui non ci sembrano fondati i dubbi del Tod). Il procedimento si svolge di solito nella città arbitra, salva la necessità, ricorrente dovunque si disputa di confini (non già della sovranità su territorî dai confini incontestati), che il collegio si rechi sul posto, e salva la prudente organizzazione di rogatorie testimoniali; la decisione è emessa, secondo le buone regole, a maggioranza di voti, e porta l'assoluzione o la condanna della città a cui carico si affermava l'esistenza di un'obbligazione, o l'aggiudicazione del territorio contestato, o, più spesso, la descrizione esatta dei confini ricostituiti, accompagnata talvolta da decisioni complementari circa la sorte dei possessi privati e delle ipoteche e circa la misura dei tributi federali quind'innanzi dovuti.

Ma l'efficacia vincolativa della decisione, per non essere rimessa al beneplacito della parte soccombente, deve trovare il suo fondamento nelle clausole del trattato compromissorio. Questo contiene la menzione pressoché costante della ὁμολογία; alla quale si aggiunge sovente la più precisa dichiarazione di voler sottoporsi (ἐμμενέιν) alla decisione, qualunque essa sia, e talmlta anche una clausola penale per l'eventualità del non sottoporsi (μὴ ἐμμένειν) con l'assunzione di apposita garanzia (ἐγγύη) da parte dei cittadini più abbienti. Un mezzo ulteriore di coazione morale è dato dall'obbligo fatto alla città arbitra di far iscrivere la decisione su stele marmoree, da esporsi nei suoi templi maggiori e in quelli delle città contendenti, e perfino a Delo nel tempio di Apollo.

Ciò non toglie che talvolta i lodi arbitrali siano rimasti inadempiuti; non già per opposizioni sollevate in forme giuridiche (la pretesa opposizione dei Corinzî in Sylloge, 471 si riferisce soltanto alle modalità dell'esecuzione), ma perché il soccombente preferì farsi giustizia da sé, come gli Elei dopo la controversia coi Tebani (Erod., VI, 108; Tuc., V, 31), o abusò della sua forza per costringere il vincitore più debole a rinnovare la controversia in nuove istanze, come nell'interminabile controversia fra Nartacio e Melitea.

Non potremmo aspettarci nell'Italia antica un'altrettale diffusione dell'arbitrato: l'unità nazionale in una molteplicità di stati liberi non si riscontra nella penisola nostra, anzi il compito di fare dell'Italia una nazione fu attuato esclusivamente nel nome e con le armi di Roma, sicché anche nell'epoca d'oro delle civitates foederatae, il foedus non si distinse dall'annessione se non nella maggiore dignità del legame e nella garanzia di una larga autonomia municipale. Se fra i soci Roma interviene talvolta come arbitra, il nostro pensiero non ricorre all'arbitrato internazionale, anzi riconosce quel regime che vedemmo praticato nelle città della lega achea. Applicazioni giuridicamente interessanti di arbitrato internazionale facente capo a Roma si hanno soltanto nel sec. II a. C., nei riguardi delle città greche e nell'ordine di quel pietoso rispetto per la cadente madre della civiltà antica che ebbe la sua maggiore espressione nella politica di T. Quinzio Flaminino. Anche in quest' ipotesi, d'altra parte, se all'arbitrato si addiviene nel nome di Roma, questa non funziona già da città arbitra, ma da alta protettrice, alla quale le città contendenti ricorrono per farsi indicare la via. Le questioni vengono portate dai legati delle πόλεις a conoscenza del senato: questo esamina anzitutto se vi sia luogo a procedere (lo nega, ad esempio, nel caso dell'iscrizione n. 705 della Sylloge, per questioni che si ritengono già risolte dal precedente intervento di un magistrato romano), e nell'affermativa dà incarico a un magistrato di affidare il giudizio a una libera città, confermando, ove esista, la scelta già fatta dalle parti, o altrimenti scegliendo egli stesso quella città che meglio convenga nel pubblico interesse. Funzione, come si vede, piuttosto integrativa della volontà degl'interessati (volonta sovrana, ormai, di diritto e non di fatto) anziché rivolta a cercare e a imporre una qualsiasi risoluzione della controversia: il procedimento arbitrale di tipo greco conserva intatte le sue articolazioni, salvo che, nell'autorizzazione del senato a seguire l'antico costume e nel controllo del magistrato romano, si profila la maestà della potenza egemonica al cui beneplacito si riporta ogni parvenza di potere sopravvivente nelle città protette. Con mano leggiera ma forte, il senato rinnovava, nel campo dei rapporti fra le città, il fenomeno del primo intervento della iurisdictio di stato nel primitivo procedimento arbitrale fra i cittadini: intervento che si esplica appunto sorvegliando l'impostazione della controversia e la scelta che le parti facciano dell'arbitro. Non può far meraviglia, pertanto, che, nel dettare al magistrato la linea di condotta da seguire e le istruzioni da comunicarsi alla città arbitra, il senato abbia condotto l'impostazione della controversia sugli schemi delle formule proposte negli albi dei pretori, urbano e peregrino, come moduli dei processi privati: in quest'ordine d'idee le iscrizioni relative ai processi arbitrali hanno potuto essere sfruttate per la storia del processo formulare e per quella dell'actio iniuriarum, e sono ora segnate tra le fonti attraverso le quali si può cogliere la concezione originaria del processo. Ma a discorrere di ciò non è questo il luogo: piuttosto va ricordato che, pur attraverso la mediazione romana, il procedimento già descritto rimane immutato: cfr. oltre Sylloge, 599, già citata, le iscrizioni relative all'arbitrato di Mylasa fra Magnesia e Priene (ibid., 679), di Sardi fra Priene e Mileto (F. Hiller v. Gärtringen, Inschr. von Priene, Rerlino 1906, nn. 111 e 120), di una citta incerta fra Priene e Samo (ibid., n. 43), di Mileto fra Sparta e Messene (Sylloge, 683), di Magnesia fra Itanos e Hierapytna (ibid., 685).

Non mancano, fuori dei rapporti coi Greci, casi che, secondo la terminologia del De Ruggiero, possono dirsi di arbitrato federale: così non soltanto gli arbitrati, più o meno dubbî, che si dicono provocati dai conflitti fra Ardea e Aricia (Liv., III, 71-72) e fra Napoli e Nola (Val. Mass., VII, 3, 4), ma anche quelli, ricordati dalle iscrizioni, fra Genova e i Veturî (Corp. Inscr. Lat., V, 7749), fra Este e Padova (ibid., V, 2491), fra Este e Vicenza (ibid., 2490): i contendenti erano, rispetto alla citta giudicante, in una situazione così subordinata, che i delegati di Roma dovevano procedere alla decisione con lo stesso animo col quale avrebbero risolto conflitti fra municipî, né sono senza significato le due storielle che fanno decidere la questione a vantaggio non dell'una o dell'altra parte, ma della città arbitra. Anche le forme del procedimento sembrano lasciate alla discrezione dei cittadini romani (per lo più magistrati), ai quali si affida la decisione; ma soltanto in Corp. Inscr. Lat., V, 7749 il documento conservatoci ha la struttura di una vera e propria sentenza. Più vicino all'arbitrato internazionale è l'intervento di Roma nel conflitto fra Cartagine e Massinissa, nel tempo fra la seconda e la terza guerra punica (Pol., XXXII, 2; Liv., XXXIV, 62; XL, 17 ecc.): ma, lasciando da parte il titolo di socius et amicus populi Romani spettante a Massinissa e quello di amica et foederata attribuito a Cartagine nel trattato di Scipione Africano, è noto che lo stesso trattato vietava alla città di far guerra e lasciava a discrezione dei Romani proprio la sua sovranità sulle antiche regioni fenicie, oggetto dell'ambizione del re dei Numidi.

Una rinascita dell'istituto dell'arbitrato internazionale si ebbe poi solo nel Medioevo. La costituzione della società medievale, la supremazia spirituale del papa ci spiegano le ragioni del rifiorire dell'istituto: nella storia dello sviluppo dell'arbitrato sono ricordate parecchie notevoli decisioni pronunciate da pontefici, altre ancora da celebri giureconsulti o da intere facoltà di giurisprudenza, fra cui particolarmente quelle di Bologna, Padova, Perugia. Nel secolo XVI l'arbitrato decadde, e solo sulla fine del sec. XIX riprese vita anche pel contributo delle concezioni politiche americane. I primi anni del sec. XX segnano un rapido notevole progresso nella estensione della giustizia arbitrale fra i popoli, soprattutto col sistema di convenzioni bilaterali particolari; e, se le conferenze dell'Aia del 1899 e del 1907 non raggiunsero tutti i risultati pratici che si speravano, pure servirono per preparare il terreno ad ulteriori progressi. Dopo la grande guerra 1914-1918 l'idea arbitrale riprese nuovo vigoroso slancio: numerose, anche fra grandi potenze confinanti, sono ormai le convenzioni di arbitrato e di conciliazione; si ricordino fra queste particolarmente gli accordi di Locarno; nel campo poi dell'organizzazione va particolarmente menzionata l'istituzione della Corte permanente di giustizia internazionale.

Diritto moderno. - Il momento caratteristico dell'istituto dell'arbitrato internazionale consiste nella risoluzione di una controversia fra soggetti di diritto internazionale per opera di un terzo. Quest'enunciazione è sufficiente a indicare i varî elementi necessarî a distinguere quest'istituto da altri affini. Si deve trattare anzitutto di "controversia fra soggetti dell'ordinamento internazionale"; si adotta questa formula perché più comprensiva ed esatta di quella di "controversia fra stati". Infatti possono aversi controversie fra stati che non cadono nell'ambito del diritto internazionale: tali quelle in cui uno stato si presenta come persona giuridica interna nell'ordinamento dell'altro; e per contro vi possono essere controversie fra uno stato e un non stato, la cui risoluzione resta compresa nell'istituto dell'arbitrato internazionale: basta dunque che si tratti di pretese di due parti fondate direttamente su norme di diritto internazionale. Presupposto dell'arbitrato è ancora l'esistenza d'una controversia: da ciò deriva che, se due stati, p.. es., nella stipulazione di un negozio giuridico lasciano indeterminato qualche elemento del suo contenuto rimettendolo all'arbitrio di un terzo, si rientra in una figura diversa da quella dell'arbitrato in senso tecnico. Naturalmente, in linea di principio, l'esistenza di una controversia - come si legge in una sentenza della Corte di giustizia internazionale - è già data dal semplice fatto di una divergenza di valutazione tra le parti su qualche elemento di diritto o di fatto: però vi sono trattati di arbitrato, i quali richiedono, per la determinazione del momento in cui possa dirsi che esista una controversia arbitrabile, il fatto che si siano tentate trattative dirette diplomatiche per la risoluzione della vertenza. L'oggetto della controversia può essere della natura più diversa: può quindi anche riferirsi ad una controversia interna sorta precedentemente tra un privato e uno stato; nel momento che lo stato, di cui è cittadino il privato, l'assume nelle proprie mani e la trasporta sul terreno internazionale, si rientra necessariamente nel campo della controversia internazionale (secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia internazionale). Peraltro alcuni trattati di arbitrato richiedono in queste ipotesi che siano stati preliminarmente esauriti i procedimenti interni predisposti a tutela della pretesa del privato.

Ma l'elemento più caratteristico e nello stesso tempo più importante dell'arbitrato internazionale è rappresentato dalla "risoluzione per mezzo dell'opera di un terzo". Risoluzione, ossia regolamento obbligatorio della controversia; per ciò resta nettamente distinto l'arbitrato dalla mediazione e dalla conciliazione. Questi due procedimenti - pur differenziandosi dal lato politico - coincidono in diritto sul punto che la funzione del terzo (stato o organo di conciliazione) consiste nell'avvicinare le tesi contrastanti delle due parti e nell'indicare delle proposte di risoluzione della vertenza, le quali non sono perciò vincolative per le parti stesse.

A discussioni ampie nella dottrina ha dato luogo la determinazione della figura dell'arbitro e del rapporto in cui esso si trova con gli stati compromittenti. Le tesi sostenute più di recente si possono ridurre a due: o si concepisce l'arbitro come un semplice privato, incaricato di una funzione tecnica che acquisterà rilevanza giuridica per volontà delle parti compromittenti, ovvero si definisce l'arbitro come organo comune degli stati compromittenti. Entrambe le tesi sembrano insufficienti: la pronuncia dell'arbitro ha immediatamente rilevanza internazionale: non vi ha libertà per ognuna delle parti di accoglierla o respingerla, ossia di attribuire ad essa valore formale internazionale: quindi è innegabile che l'arbitro manifesta una volontà internazionalmente rilevante. Ma da ciò non deriva che l'arbitro sia organo comune delle parti: se tale fosse, esso sarebbe sottoposto alla volontà di ognuna di esse, laddove invece, una volta istituito il procedimento arbitrale, l'arbitro si contrappone alle parti in giudizio. La tesi dell'organo comune si dimostra in contrasto con la natura stessa dell'arbitrato. È necessario rompere con certe tradizioni dottrinali e affermare nettamente che l'arbitro una volta costituito, è investito di un potere giuridico internazionale: potere che sorge, sì, per volontà delle parti compromittenti, ma che poi si dimostra indipendente rispetto alla volontà eventualmente dissenziente dell'una o dell'altra parte in giudizio. L'arbitro agisce per quel determinato rapporto come persona nello stesso ordinamento in cui si trovano le due parti in giudizio.

La vecchia disputa intorno al contrasto o meno dell'arbitrato con la sovranità si palesa subito superflua. L'arbitro è investito di un potere giuridico, ma lo è per volontà delle parti: l'impegno arbitrale contiene certo delle limitazioni alla libertà di agire degli stati, ma ogni trattato internazionale contiene una tale limitazione, e come parrebbe grave errore l'affermare che l'esistenza di una convenzione internazionale è contrastante col principio di sovranità, lo stesso deve dirsi per questo impegno speciale che consiste nell'accettare la risoluzione di una controversia per mezzo di arbitri. La facoltà di assumere impegni internazionali - fu detto recentemente dalla Corte di giustizia - è la prova della sovranità.

Il vincolo arbitrale assume per altro forme diverse, che sono state anche considerate come note di differenziazione dell'istituto stesso. Può darsi che due stati convengano di sottoporre ad arbitrato una determinata vertenza già nata, stabilendo in pari tempo la composizione e il funzionamento del tribunale arbitrale (compromesso). Può darsi ancora che due stati si accordino di sottoporre ad arbitrato determinate possibili controversie, nel caso che esse abbiano a sorgere. Questo impegno poi può essere assunto o con la forma di un trattato ad hoc (trattato di arbitrato) ovvero mediante una "clausola compromissoria", che accompagni un trattato su oggetto di natura diversa. Si capisce facilmente che il progresso dell'arbitrato è riposto in modo particolare sullo sviluppo di tali impegni assunti precedentemente al sorgere di possibili controversie. Sull'attuazione di tale obbligazione preventiva è mestieri accennare ad alcune distinzioni. L'impegno precedente può essere generico, indeterminato: allora, al sorgere della controversia, è necessaria la stipulazione di un accordo specifico (compromesso) che determini quelle modalità di attuazione che non erano state determinate nell'accordo precedente. In questo caso la seconda dichiarazione di volontà completa la prima: se l'accordo non si raggiunge, non può farsi luogo al procedimento arbitrale e la condotta di quella parte che ostacola il raggiungimento dell'accordo sul compromesso potrà essere qualificata internazionalmente illecita, in quanto in essa si riscontri un mancamento alla buona fede.

Se invece il trattato di arbitrato stabilisce tutte le condizioni per l'attuazione della procedura arbitrale, si dovrebbe pensare che, al verificarsi dell'evento futuro - controversia - non fosse necessario un ulteriore accordo di volontà delle due parti per dare inizio alla procedura arbitrale stessa. Pure a questo proposito si delineano alcuni sistemi, che costituiscono come successive tappe nel perfezionamento dell'istituto arbitrale. O si richiede sempre la stipulazione di un compromesso: il procedere ad esso costituisce certo un dovere per le parti e per questo si parla di compromesso obbligatorio o compromesso di esecuzione; o, se una parte si rifiuta di stipularlo violerà certo il trattato di arbitrato e quindi incorrerà in responsabilità internazionale, ma intanto il tribunale arbitrale non potrà divenire attivo né la procedura avere inizio. In altre convenzioni di arbitrato si è fatto un passo innanzi e si è ammesso che, se le parti non riescono ad addivenire alla stipulazione del compromesso, toccherà allo stesso collegio arbitrale provvedervi e la sua dichiarazione avrà forza obbligatoria per le parti come se il compromesso fosse stato da esse stesse concluso (si ricordino le prime applicazioni nei trattati conclusi dall'Italia con la Danimarca e col Perù nel 1905). Infine, in altre più recenti convenzioni, ed è questo lo stadio più perfetto dell'arbitrato, si è ammesso che, essendo tutto predisposto (natura delle controversie arbitrabili, composizione e funzionamento del tribunale, procedura, ecc.), è sufficiente la manifestazione di volontà di una sola parte per dare vita al processo: l'altra parte vi è coinvolta senza o contro la sua volontà. Donde - quale logico svolgimento - il processo può iniziarsi e concludersi anche nella contumacia del convenuto.

Si capisce allora come una parte della dottrina, trovandosi in presenza di quest'ultima fase dell'arbitrato internazionale, propenda a dare ad esso la qualifica di procedimento giurisdizionale, ma la ragione delle controversie al riguardo può essere chiarita solo che si stabilisca chiaramente il punto di vista sotto cui si pongono gli studiosi. È innegabile che il concorso di volontà delle due parti per la risoluzione di una controversia a mezzo di arbitrato esiste tanto nel caso di stipulazione del compromesso per una vertenza già nata, quanto nel caso d'impegno precedente per controversia futura. Se in entrambi i casi il fondamento del procedimento si trova nella volontà delle parti, la sua natura arbitrale resta fuori di discussione. Se nell'ipotesi di arbitrato, già precostituito in tutti i suoi elementi e il cui procedimento s'inizia anche in base al ricorso di una sola parte, si parla da alcuni di "giurisdizione", la ragione sta nel fatto che questi scrittori concentrano la loro attenzione al momento d'inizio del processo, in cui può realmente mancare la volontà di una delle parti: ma d'altra parte è innegabile che, se si considera che anche la possibilità di tale situazione era stata voluta precedentemente dal convenuto, non potrà contestarsi anche per queste forme di procedimenti arbitrali il fondamento della volontà di entrambe le parti. In sostanza si tratta più che altro di una differenza graduale: nulla vieta che, sotto questo aspetto, si usi la formula di "giurisdizione" per indicare il procedimento che s'inizia per volontà di una sola parte. Così pure una nomenclatura molto seguita è quella introdotta dal Lammasch, di "arbitrato isolato", per designare l'arbitrato che sorge per una sola determinata controversia, e di "arbitrato istituzionale", per designare quello predisposto in modo più stabile per le controversie future.

Argomento della maggiore importanza pratica è quello attinente alla competenza del tribunale arbitrale. L'ambito della sua cognizione risulta dal compromesso, o dal trattato di arbitrato o clausola compromissoria. Si deve perciò di volta in volta risalire alle norme in essi contenute: nella teoria generale dell'arbitrato non può farsi altro che indicare i criterî di competenza più generalmente seguiti. Dalla competenza per una determinata controversia alla competenza generale per tutte le possibili controversie, v'ha tutta una graduazione di criterî attributivi di competenza la cui sistemazione offre aspetti interessanti. Si distinguono di solito le controversie in giuridiche e politiche, riservando le prime al giudizio arbitrale; ma non v'ha alcuna ragione che osti alla decisione arbitrale anche delle seconde. Così può darsi che si attribuisca all'arbitro soltanto la risoluzione di punti di diritto, e non quella concernente il fatto, o entrambe; ovvero che gli si attribuisca la competenza a emettere una sentenza di accertamento, o anche di condanna. Un'importanza notevole nelle convenzioni di arbitrato hanno assunto le cosiddette clausole eccettuative, ossia quelle dichiarazioni con le quali le parti escludono dalla risoluzione arbitrale le controversie che toccano l'onore, l'indipendenza, gl'interessi vitali dello stato. Si capisce che finché la qualificazione sulla natura di tali controversie era rimessa alla parte interessata, l'istituto dell'arbitrato ne risultava notevolmente indebolito: un progresso notevole si è realizzato nei più recenti trattati d'arbitrato in cui è affidata allo stesso tribunale arbitrale la competenza a decidere se si verifichi o no il caso della riserva per onore, interessi vitali, ecc. I primi notevoli esempî ci sono offerti nei trattati conclusi agl'inizî di questo secolo tra Svezia e Norvegia, Norvegia e Portogallo, Italia e Perù, Italia e Argentina, Svezia e Danimarca, ecc. Lo stesso si dica per l'ipotesi - in fondo analoga a questa - di distinzione tra controversie giuridiche e politiche, quando si attribuisce al tribunale arbitrale la facoltà di determinare, in modo preliminare, se si tratta di controversie dell'una o dell'altra natura.

Sul modo di costituzione del tribunale arbitrale diversi sono i sistemi adottati. All'arbitro unico, si sostituisce man mano il principio del collegio di più arbitri. La designazione di questi può esser fatta o direttamente dalle parti o indirettamente: più delicata è la questione della scelta del superarbitro la cui posizione preminente nel caso di parità di voto degli arbitri, ha attirato l'attenzione degli stati. O le parti si accordano direttamente sulla scelta, ovvero la rimettono allo stesso collegio degli arbitri, ad un terzo capo di stato, ecc. Il problema della presenza del giudice nazionale delle parti in conflitto ha dato luogo a vive discussioni in dottrina: il principio rigoroso dell'esclusione - certamente giustificato dal punto di vista della garanzia d'imparzialità del collegio giudicante - non sembra sia ancora maturo per essere tradotto nella pratica internazionale. Resta però ben chiaro che tutti i giudici - compresi anche i nazionali - non sono affatto dei rappresentanti dello stato di cui sono cittadini o da cui sono stati eletti: una volta investiti dell'ufficio essi non dipendono in diritto dalla volontà del loro stato: l'attuazione più energica di questo principio, si trova nello statuto della Corte permanente di giustizia internazionale.

Anche per quanto riguarda il procedimento è necessario riferirsi alle norme particolari delle singole convenzioni di arbitrato.

Nella teoria generale dell'arbitrato può essere utile accennare ai criterî più importanti e più seguiti. La procedura si distingue generalmente nelle due fasi: la scritta e l'orale. L'ordine di presentazione degli scritti (memorie, contromemorie, e qualche volta, repliche) è determinato dalle stipulazioni arbitrali: di solito si ammette la presentazione contemporanea delle memorie per le due arti quando il procedimento s'inizia a mezzo di compromesso; ma se esso s'inizia per ricorso unilaterale, l'attore presenterà per primo la sua memoria cui risponderà il convenuto.

Circa l. assunzione di prove, all'iniziativa delle parti si accompagna un potere discrezionale del tribunale d'avvalersi di altri mezzi di prova per formarsi sicuramente il proprio convincimento, e lo stesso potere gli si attribuisce anche in materia di termini, ecc.

Alla fase scritta succede la discussione orale, e, chiusa questa, il collegio si ritira per deliberare, e le sue deliberazioni restano segrete. La sentenza è pronunciata a maggioranza dei presenti, e a parità di voti, decide quello del presidente. Per la redazione della sentenza qualche divergenza si è manifestata nella dottrina e nella pratica internazionale su questi due punti più importanti: se cioè la sentenza debba essere motivata e se i giudici di minoranza possano avere il diritto di unire la loro opinione dissidente.

La sentenza decide in modo definitivo e irrevocabile sulle pretese avanzate in giudizio dalle parti: da essa deriva perciò un'eccezione di cosa giudicata che potrà essere opposta da una parte avverso una domanda dell'altra sullo stesso oggetto, per lo stesso titolo (petitum e causa petendi): ma la sentenza ha forza obbligatoria solo tra le parti in giudizio: i terzi non possono - in diritto - ricevere da essa alcun pregiudizio. I principî di diritto affermati in una senteuza arbitrale non vincolano - in successivi processi - né il tribunale che l'emise né altri organi arbitrali, la giurisprudenza internazionale potendo solo costituire un mezzo ausiliario di conoscenza del diritto internazionale.

La parte soccombente è obbligata ad attenersi in buona fede al contenuto della decisione: entro quale termine ciò debba avvenire, dipende dalle disposizioni del compromesso o da norme speciali tra le parti. Problema grave e complesso è quello attinente ai mezzi di cui può valersi lo stato vincitore della lite per costringere la parte condannata all'adempimento della sentenza: per i membri della Società delle Nazioni questa materia (stadio di esecuzione della sentenza arbitrale) è stata regolata dal Patto della Società.

Si è detto che la sentenza di un organo arbitrale internazionale è definitiva: come principio di massima la possibilità dell'appello nei riguardi delle decisioni delle controversie internazionali resta esclusa. Naturalmente è necessario che esista una sentenza: ora se essa è sorta radicalmente nulla, non si ha una decisione, alla stessa stregua di un atto giuridico internazionale nato assolutamente nullo. La questione delle cause di nullità dei lodi arbitrali è stata ampiamente dibattuta nella dottrina: si sono indicate particolarmente le ipotesi di violazione di compromesso e di dolo di un giudice; da altri ancora si è aggiunto il caso d'un errore essenziale. In linea di principio è incontestabile che una decisione inficiata di nullità non può dar vita al dovere per la parte condannata di adempierla; dal punto di vista pratico non può peraltro negarsi che un'estensione delle cause di nullità finirebbe per costituire un correttivo al rigido principio dell'esclusione dell'appello. Ma un punto bisogna tenere fermo, ed è che la questione di nullità non può essere rilasciata all'arbitrio della parte soccombente, ma dev'essere sottoposta all'indagine preliminare di altro procedimento arbitrale.

L'istituto della revocazione, ammesso in varie convenzioni arbitrali, riguarda invece un'ipotesi diversa ben determinata: ossia per farsi luogo al giudizio di revocazione è necessaria la prova dell'esistenza d'un fatto nuovo precedentemente ignorato dal tribunale e dalle parti, fatto che per sua natura possa apparire tale da esercitare un'influenza sul modo di decidere. Del tutto diversa è infine l'ipotesi del giudizio d'interpretazione di una sentenza che sia stata emanata.

Bibl.: Per le origini e lo sviluppo dell'arbitrato internazionale nel mondo classico, un primo studio seriamente condotto è quello di E. Sonne, De arbitris externis, quos Graeci adhibuerunt ad lites et internas et peregrinas componendas, quaestiones epigraphicae, Gottinga 1888; più preciso dal punto di vista giuridico H. F. Hitzig, in Zeitschr. Savigny-Stiftung., XXVIII (1907), p. 244 segg.; buona compilazione, anche per questa parte, è: C. Philippson, International law and custom of ancient Grece and Rome, Londra 1911, II, 127-65. Ampî e precisi, con perfetta informazione letteraria ed epigrafica, i libri di A. Raeder, L'arbitrage international chez les Hellènes, Cristiania 1912, e di M. N. Tod, Internat. arbitration amongst the Greeks, Oxford 1913; nonché, per Roma, il saggio di E. De Ruggiero, L'arbitrato pubblico in relazione col privato presso i Romani, in Bull. Ist. dir. rom., V (1893), pp. 49-443. Pel confronto col processo privato greco, v. in ispecie A. Steinwenter, Streitbeendigung durch Urteil, Schiedsspruch u. Verleigch nach gr. Recht, Monaco di Baviera 1925; e pel carattere quasi formulare delle istruzioni senatorie, I. Partsch, Schriftformel im röm. Provinzialprozess, Breslavia 1905.

Per le concezioni moderne dell'arbitrato internazionale, A. Mérignhac: L'arbitrage international, Parigi 1895; E. Descamps, Essai sur l'organisation de l'arbitrate international, Bruxelles 1896; O. Nippold, Fortbildung des Verfahrens in völkerrechtlichen Streitgkeiten, Lipsia 1907; G. Fusinato, Ultimi progressi dell'arbitrato, in Riv. di dir. internaz., I; H. Lammasch, Rechtskraft internationaler Schiedssprüche; id., Die Lehre von der Schiedsgerichtsbarkeit in ihrem ganzen Umfange, in F. Stier-Somlo, Handb. d. Völkerrechts, Stoccarda 1914; J. Brown Scott, The Hague Peace Conferences, Baltimora 1909; D. Anzilotti, Corso di diritto internazionale, III, Roma 1913: G. Magyary, Die internationale Schiedsgerichtsbarkeit im Völkerkunde, Berlino 1922; G. Salvioli, La Corte permanente di giustizia internazionale, Roma 1923.

TAG

Ordinamento internazionale

Trattato internazionale

Guerra del peloponneso

Società delle nazioni

Autorità giudiziaria