ARCHETIPO

Enciclopedia Italiana (1929)

ARCHETIPO (gr. ἀρχέτυπον, da ἀρχή "principio, origine" e τύπος "tipo, immagine")

Vittorio SANTOLI

Tipo originario, modello primitivo. Il termine, che viene spesso usato soltanto con significato generico, assume un valore tecnico quando è adoperato in senso filosofico o in senso filologico.

L'archetipo in senso filosofico. - Il nome allude, in questo caso, al carattere tipico delle forme logiche supreme, che l'idealismo oggettivo ipostatizza, in quanto le pone come i modelli originarî che poi vengono imitati, più o meno, dagli individui empirici di una medesima specie. Così, archetipi sono le idee platoniche, in quanto fra esse e le cose vige un rapporto di "somiglianza" o di "imitazione". Analogamente, per Berkeley gli archetipi sono le idee di tutte le cose quali esistono nel pensiero di Dio prima della creazione.

L'archetipo nella tradizione manoscritta dei testi. - Delle opere dei classici greci e latini, di moltissimi scrittori medievali e di alquanti dell'età moderna (p. es. dei poeti del teatro elisabettiano) noi non possediamo l'autografo o una copia equivalente all'autografo. Il caso più semplice è che la tradizione si riduca a un'unica testimonianza. Ma nella massima parte dei casi le testimonianze sono più d'una: compito della critica è quello di ricostruire per mezzo del confronto metodico delle testimonianze (recensione) un testo il più vicino possibile all'originale. La recensione conduce a stabilire rapporti di dipendenza e di autorità fra i rappresentanti la tradizione del testo. Una testimonianza che dipenda esclusivamente da altra a noi nota o ricostruibile non ha alcun valore: di essa l'editore non terrà conto né per la costituzione del testo né per l'apparato. Ma dopo questa eventuale eliminazione può restare una diversità di tradizione. E qui si presentano varie possibilita. Il caso più semplice è che, nella costruzione dello stemma o dell'albero genealogico, il critico riesca a ricondurre i diversi rami della tradizione a un testo, a noi non conservato ma ricostruibile, dal quale ha origine tale ramificazione. Questo testo, che chiamiamo archetipo, è più vicino all'originale che non il testo di qualsivoglia testimonianza.

La ricostruzione integrale dell'archetipo è assicurata qualora sia possibile dimostrare che da esso ha avuto origine una tripartizione della tradizione scritta: la costituzione del suo testo è data dalla concordanza di due rami. Qualora, invece, la tradizione consti di due rami soli, la ricostruzione dell'archetipo sarà sicura per i passi concordanti; problematica, ossia con una duplice lezione, per i passi nei quali i due rami divergano con uguale autorevolezza. L'archetipo, abbiamo detto, dev'essere più antico delle testimonianze; ma può darsi il caso che esso da testimonianze (p. es. da citazioni in fonti antiche) derivanti da una tradizione anteriore sia parzialmente degradato a portatore di varianti; le specie di errori notate in questi luoghi è supponibile che si ripetano anche là dove non siamo in grado di controllare il testo dell'archetipo. Il quale non è, naturalmente, il testo dell'originale: fra l'originale e l'archetipo può correre un intervallo così di pochi anni come di secoli; l'archetipo può essere un apografo molto fedele, ma può presentare anche differenze per un rispetto o per un altro notevoli, che il critico può talvolta riuscire a individuare più o meno precisamente (p. es. l'archetipo del Convivio di Dante appare tinto "non lievemente di una coloritura dialettale, che si può dire all'ingrosso aretina"), può contenere già lacune e interpolazioni. Sanare, là dove e fin dove è possibile, il testo, togliendo le differenze, integrando ed espungendo, è opera dell'emendazione.

Ma ci sono casi non semplici. Un caso meno semplice è, per esempio, quello della Divina Commedia, un testo per il quale s'è mostrato vano ogni tentativo di fare una compiuta genealogia dei testi. "Si possono fare aggruppamenti più o meno vasti, più o meno sicuri; ma non s'arriverà mai a determinare, come sarebbe desiderabile e necessario, tutte e precise le relazioni sia di questi aggruppamenti fra loro, sia dei loro capostipiti coll'originale o con gli originali di Dante o con le prime copie desunte da essi".

Casi più complessi sono quelli nei quali può esserci un archetipo con varianti, o una redazione originaria duplice (o plurima).

È nota la forma della diffusione del libro nell'antichità grecoromana: l'arbitrio che in essa regnava costrinse già dotti del sec. III a curare criticamente i testi: quando Tolomeo III si procurò da Atene gli originali dei tragici, aveva di mira anche uno scopo scientifico: quello di assicurare alla biblioteca di Alessandria un testo sicuro. E che nell'antichità ci dovessero essere codici con varianti è stato dimostrato acutamente dal Knoche per la tradizione di Giovenale: sulla base dei nostri codices mixti possiamo ricostruire due versioni, a cui fondamento è un unico archetipo, il quale con tutta probabilità era un codice con varianti, tale cioè che conteneva due testi diversi: il testo vero e proprio e le varianti. Si deve in questo caso supporre che ogni scriba abbia posto a fondamento il testo, e abbia inoltre accolto le varianti là dove gli pareva bene. Cosicché i nostri codici misti ci danno resti dell'archetipo. Il Pasquali pensa che anche l'archetipo della vulgata dell'Apologetico di Tertulliano avesse doppie lezioni, e doppie recensioni il manoscritto da cui fu tratta la redazione Fuldense. Archetipi con varianti esistono anche per Eschilo e Teocrito.

La pluralità della redazione ci è nota sia per testimonianza esplicita sia attraverso la recensione. Non diversamente dai moderni, anzi con maggiore facilità, anche gli antichi mutavano e rifacevano i loro scritti; la critica moderna ha concluso (per citare alcuni dei suoi ultimi e più notevoli risultati) per una duplice redazione, o per rimaneggiamenti da parte dell'autore, dell'Apologetico di Tertulliano e del Decameron del Boccaccio. L'idea di una trasmissione meccanica, appoggiata ancora all'autorità del Lachmann e generalmente vigente, cede ragionevolmente il luogo in questi e in altri analoghi casi a una visione più ampia dei problemi della critica del testo.

Bibl.: A. Boeckh, Encyclopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften, Lipsia 1877, pp. 179-209 (opera postuma); K. Lachmann, In T. Lucretii Cari de rerum natura libros comm., 4ª ed., Berlino 1882, p. 3 segg.;W. Schubart, Das Buch bei den Griechen und Römern, Berlino 1907; L. Havet, Manuel de critique verbale appliquée aux textes latins, Parigi 1911; H. Kantorowicz, Einführung in die Textkritik, Lipsia 1921; M. Barbi, prefazione alle opere di Dante: Testo critico della Società Dantesca, Firenze 1921; P. Maas, Textkritik, nell'Einleitung di Gercke e Norden, Lipsia 1927, su cui G. Pasquali in Gnomon, 1929; U. Knoche, Die Überlieferung Juvenals, Berlino 1926; Ein Juvenalkodex des 11. Jahrhunderts..., in Hermes, LXIII (1928), pp. 342-63, e Gnomon, 1928, p. 94 segg.; M. Barbi, Sul testo del "Decameron", in Studi di filologia italiana, I (1927), pp. 9-68; G. Pasquali, Per la storia del testo dell'"Apologetico" di Tertulliano, in Studi ital. di filol. classica, n. s., VII (1929), pp. 13-57.

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