ARCHITETTO

Enciclopedia Italiana (1929)

ARCHITETTO (dal gr. ἀρχιτέκτων, letteralmente "capocostruttore")

G. Cu.
G. G.

Le condizioni sociali e la posizione professionale dell'architetto, la sua preparazione culturale e pratica, le sue relazioni con gli artefici da un lato, coi pubblici o privati committenti dall'altro, hanno sempre avuto importanza per la produzione architettonica dei varî periodi. È interessante vedere come esse si siano venute mutando nei diversi periodi storici.

L'architetto nell'evo antico.

Tra gli antichi Egizî l'architetto assume una figura tra burocratica e sacerdotale, a capo d'una vasta organizzazione statale, basata sul regime di monopolio e sull'enorme quantità della mano d'opera; a ciò rispondono il tipo grandioso dei monumenti, i procedimenti costruttivi con cui sono sorti, la relativa immobilità della tipologia architettonica, la frequente trascuranza nell'esecuzione.

In origine i Greci non usarono che una sola denominazione generica (τέκτονες); l'epopea omerica, per esempio, non conosce che τέκτονες. Quando, in seguito, si volle fare una distinzione, fu creato per il personale dirigente la parola ἀρχιτέκτων, che, giusta il suo significato etimologico (da ἄρχω "comando" e τέκτων "costruttore") indica "colui che sta a capo delle maestranze". Ma per stimare un architetto veramente meritevole di questo nome, gli antichi non si contentavano della sua capacità tecnica; esigevano altresì una non comune cultura generale. Se si presta fede a Vitruvio (I, 1, 12), Piti, edificatore del tempio di Atena a Priene, pretendeva (e l'avrebbe lasciato scritto nei suoi commentarî) che un architetto dovesse avere una cultura così vasta e profonda, da superare in ciascuna disciplina ogni cultore in essa specializzato. Vitruvio trova esagerata questa pretesa e ritiene sufficiente poco più che un'infarinatura; ma un'infarinatura quasi enciclopedica, in quanto che, a parte la necessaria preparazione particolare nel campo strettamente tecnico, fondata su studî teorici e sulla pratica, vorrebbe che l'architetto s'intendesse non solo di geometria e di disegno, ma pure di lettere, di storia, di filosofia, di musica, di giurisprudenza e di astrologia (I, 1, 1 segg.). Quintiliano definisce l'architettura una disciplina utile all'arte del costruire (Inst. or., II, 21). E alla necessità di una preliminare cultura generale s'ispirava, più tardi, l'imperatore Costantino, quando ordinava che nella provincia d'Africa si promovessero studî d'architettura e ad essa s'invogliassero i giovani sui diciotto anni che avessero già compiuti sufficienti studî letterarî (Cod. Theod., XIII, 4). A rigore, dunque, la qualifica di architetto non avrebbe dovuto competere se non a chi possedesse un minimo di determinate cognizioni, sia specifiche, sia sussidiarie. Se non che, all'atto pratico, le cose stavano alquanto diversamente. Non sempre infatti la qualifica di architetto fu attribuita a professionisti di qualche levatura; e ciò soprattutto nel mondo romano; basti, per il momento, ricordare la rampogna dello stesso Vitruvio contro quei tali che degli architetti indebitamente usurpavano l'esercizio professionale, mentre erano da meno di capimastri.

Ma, a questo punto, va rilevato un altro fatto. Il termine architetto, per analogia di quanto accade ai tempi nostri, ci fa venire in mente l'ideatore e il costruttore di edifici. E si può ammettere che anche in antico, e specialmente in Grecia, in linea di massima, se ne avesse lo stesso concetto, sebbene in origine la voce τέκτων si riferisse ai costruttori in legno e in metallo. Ma, una volta acquistata l'accezione di costruttore, essa venne a riferirsi a qualsiasi categoria di costruttori, specialmente in pietra, dopo che la pietra diventò il materiale predominante nelle opere edilizie. Tuttavia sarebbe un errore pensare che la qualifica di architetto fosse esclusiva dei costruttori edili. Essa ha un significato molto generico. Come architetto è Ictino, che edifica il Partenone, e Mnesicle che innalza i Propilei dell'Acropoli, così architetto chiama Erodoto quel Mandrocle di Samo, che gittò sul Bosforo il ponte di barche per il passaggio dell'esercito persiano (IV, 87, 88); e, come nella categoria degli architetti furono necessariamente compresi tutti gl'ingegneri (costruttori di opere militari, di porti, di arsenali, di canali e d'altre opere idrauliche, di navi, ecc.), non ne furono esclusi quegli altri inventori di macchine e di ordigni, d'uso civile o militare, che in gran parte, direttamente o indirettamente, hanno contribuito al progresso dell'arte del costruire. Si pensi ad Archita, ad Archimede, a Ctesibio e a tanti altri. Questo valore estremamente generico della denominazione (è appena il caso di ricordare che architetti si chiamavano talvolta in Grecia anche gli impresarî teatrali) ha fatto nascere il concetto di una tal quale indeterminatezza della figura professionale dell'architetto antico, e particolarmente del romano. Ma in realtà, d'indeterminatezza in senso assoluto non si può parlare, come non se ne potrebbe parlare a proposito della figura professionale dell'ingegnere moderno, per il solo fatto che la qualifica d'ingegnere si suole, nell'uso popolare, attribuire, oltre che agl'ingegneri veri e proprî ed agli architetti, anche a un'infinità di professionisti minori, che con quelli non hanno in comune se non l'uso, talvolta, di alcuni strumenti del mestiere. Non si può a riguardo degli architetti dell'antico Oriente, perché anche quelle grandi architetture (i templi, le piramidi ed altri monumenti sepolcrali dell'Egitto, le mura di cinta e i templi della Mesopotamia, gli sfarzosi edifici della Persia, il tempio di Salomone a Gerusalemme, ecc.) presuppongono un personale specializzato, non solo nella parte esecutiva, ma altresì in quella creativa e direttiva (a cui non contraddice il fatto che in Egitto spesso lavoravano da architetti gli stessi sacerdoti, in certo qual modo a somiglianza dei monaci cisterciensi del Medioevo); non a riguardo degli architetti greci, perché nella prima epoca storica il tipo dell'ulisside (dell'uomo che si adatta indifferentemente a mansioni e a lavori di qualsiasi genere) era scomparso, ammesso pure che sia mai esistito; e, d'altro canto, se col nome di architetto si usava indicare tanto chi dirigeva i lavori quanto il pubblico funzionario incaricato della sorveglianza e del regolare adempimento dei contratti, questa diversità di funzioni era non solo chiarissima, ma altresì sancita nella duplice definizione che della voce "architetto" dà qualche lessicografo ('Αρχιτέκτων ὁ τῶν οἰκοδομημάτων ἐπιστάτης, καὶ ὁ ἄρχων τῶν τεκτόνων); e neppure a riguardo degli architetti romani, perché, se similmente si prescinde dal nome e si guarda alle persone, non di rado contraddistinte da qualifiche speciali (machinatores, magistri e geometrae, per gli architetti veri e proprî, per lo meno in determinate epoche, perché in altre hanno avuto diverso significato; come aquileges per gl'ingegneri idraulici, libratores per i livellatori, mensores per gli agrimensori, ecc.), si può dedurne che le rispettive funzioni fossero abbastanza nettamente definite. Ed è la funzione, e non il nome, ciò che determina la figura del professionista. Troviamo sì, un po' dappertutto, ma particolarmente in Grecia, come nel nostro Rinascimento, ingegni versatili capaci di attività molteplici: di architetto e scultore (Fidia), di architetto e pittore (Bupalo di Chio, il menzionato Mandrocle di Samo), di architetto e poeta (Gitiada di Sparta), di architetto e oratore (gli ateniesi Metioco e Filone), di architetto e filosofo (Ippodamo di Mileto); ma, nel complesso, si tratta di eccezioni. Né, riguardo agl'inventori di macchine e di ordigni deve sorprendere ch'essi siano stati soprattutto dei matematici; giacché la matematica costituiva per costoro la necessaria base culturale per lo sviluppo di quel determinato spirito inventivo. Frequente è poi il caso d'architetti, di meccanici e d'altri professionisti del genere, che hanno lasciato trattati generali o scritti su argomenti particolari, relativi all'arte che professavano. A noi son pervenute le opere di Filone di Bizanzio, di Vitruvio, di Frontino, nonché numerosi scritti di gromatici. Ma, tutto ciò premesso, resta il fatto, di già rilevato, che anche in antico la qualifica di architetto si affermò particolarmente per i costruttori di edifici e affini: per quelli, cioè, le cui opere vistose s'imposero all'ammirazione dei contemporanei e dei posteri. Di ciò si ha un riflesso nella stessa tradizione mitologica e nei primi albori della tradizione storica (Ciclopi, Dedalo, Pelasgi). Ma nella costruzione in pietra i Greci furono preceduti, come in tutto lo sviluppo della civiltà, dai popoli orientali. Nell'Egitto e nella Mesopotamia sorgevano edifici monumentali, richiedenti l'opera di architetti espertissimi, quando ancora in Grecia l'architettura vera e propria non era neppure agli albori. La vera e propria architettura che prima fiorì nel mondo greco, inteso in senso lato, fu la minoica, che è preellenica e non greca, e che, d'altronde, riflette l'influenza delle architetture orientali e rivela, al pari di queste, una complessità di compiti che, per parecchio tempo, non si riscontra nel mondo greco propriamente detto, in quanto cioè agli architetti non spettava soltanto di preparare e di dirigere la costruzione di singoli edifici, ma altresì di tracciare i piani regolatori forse d'intere città, comunque di conformare a questi piani le loro costruzioni e di coordinarle tra di loro. Compiti di questo genere penetrarono piuttosto tardi nella Grecia propriamente detta, e più tardi ancora nel mondo italico e in Roma.

Gli architetti romani ci riguardano più da vicino. I più antichi di cui si abbia ricordo nella tradizione storica sembra siano da ritenersi i pontefici, se è vero che il loro nome deriva dalla costruzione del ponte Sublicio. Se così è, questo fatto sarebbe il primo indizio di ciò che si ha ragione di pensare rispetto alla successiva architettura romana, cioè: che l'esercizio della grande architettura di stato fosse una funzione statale e che gli architetti fossero dei pubblici ufficiali. Ma, stante la mancanza di notizie precise, le cose a questo riguardo non sono molto chiare. Poiché nelle fonti non esiste traccia di architetti pubblici, civili, con ufficio stabile presso l'amministrazione dello stato, si è creduto di poter congetturare che per le opere pubbliche di carattere non militare prevalesse, così a Roma come nei municipî, il sistema dell'appalto e che gli appaltatori, chiamati redemptores (fossero o no architetti essi medesimi), provvedessero a tutto; mentre per i lavori aventi carattere di pubblica utilità, e specialmente per quelli di indole militare (ponti, strade, fortificazioni), lo stato provvedeva direttamente, servendosi di militari per la loro esecuzione. Siccome poi questi lavori di carattere pubblico e militare furono da principio i più importanti in Roma, si sono dedotte le seguenti conclusioni: a) che in origine l'architettura in Roma non fu un'arte, ma un ufficio, esercitato dallo stato; b) che, quando in seguito penetrò dalla Grecia in Roma l'architettura artistica, questa rimase completamente distinta e separata dalla prima. Di qui la teoria di una netta permanente distinzione tra l'ingegneria e l'architettura propriamente detta; la quale teoria poi ha influito sulla formulazione di un'altra teoria: quella della netta distinzione fra la tradizione costruttiva romana e l'architettura formale esteriore, di facciata o di rivestimento che dir si voglia. Principî e teorie che non si possono accettare a occhi chiusi. Fossero o no militari gli addetti alle opere edilizie eseguite direttamente dallo stato, è certo comunque che non possono essere stati degl'improvvisatori. Anche se le opere di fortificazione erano ideate dalle supreme autorità militari, la loro esecuzione richiedeva la collaborazione d'un personale tecnico specializzato d'indiscutibile valentia, il quale non poteva formarsi se non attraverso una preparazione lunga e accurata. L'esempio di Vitruvio, che era stato avviato alla professione di architetto prima che servisse nella milizia, è molto istruttivo in proposito. Se è vero, dunque, che l'architettura romana di stato fosse un ufficio, difficilmente si può supporre che non vi fosse addetto un personale stabile, se non di diritto per lo meno di fatto. E, d'altro canto, non c'è ragione di supporre che l'ufficio escludesse l'arte. Infatti, senza entrare nella spinosa questione della definizione dell'arte, è innegabile che certe costruzioni di carattere pubblico e militare, come per esempio i ponti e molte opere di fortificazione, siano spesso vere opere d'arte, intese nel senso più strettamente estetico della parola. E, insieme coi ponti e con le fortificazioni, altre opere si possono annoverare. Il Promis (il primo e il più reciso assertore degli assiomi su enunciati) nomina espressamente anche gli anfiteatri. È indubitato che l'architettura romana, che rappresenta l'ulteriore sviluppo di ciò che, in origine, è stata tutta l'architettura italica (compresa grandissima parte della cosiddetta architettura etrusca) ebbe sempre un carattere di utilità. È vero altresì che l'uso di determinati mezzi tecnici finì per stabilire particolari tradizioni costruttive, che contraddistinguono nettamente l'architettura romana dalle altre architetture antiche (e quindi anche dalla greca): notevolissima quella del conglomerato cementizio, che permette la formazione del monolito artificiale o a concrezione, il quale a sua volta consente straordinarî sviluppi di determinati elementi architettonici, come la vòlta. Ma sta di fatto che, come non si può scindere la tecnica dalla struttura, così non è possibile scindere la struttura dalla forma esteriore. Ora, ammettiamo pure che gli architetti romani fossero anzi tutto dei provetti ingegneri, padroni assoluti dei tradizionali sistemi costruttivi e di tutti gli espedienti tecnici in uso presso di loro; ma, senza dire che anche la forma scheletrica di un edificio è sempre un'opera d'arte, specialmente se la sua concezione spaziale risponde a determinati principî di euritmia, non possiamo immaginare che essi creassero soltanto scheletri di edifici e non edifici completi, per lo meno nelle loro linee essenziali. Lo stesso arco di Costantino sta a dimostrare come - in un'epoca in cui la scultura era già in via di decadenza, mentre l'architettura era ancora in piena efficienza - l'architetto sia riuscito a risolvere abbastanza felicemente il problema della decorazione, servendosi in gran parte di composizioni a rilievo preesistenti, avvedutamente scelte. Che poi gli architetti romani siano riusciti più originali nella concezione d'insieme che nella decorazione, è un fatto di secondaria importanza; che per gli elementi decorativi prendessero a prestito motivi già esistenti nell'arte greca o che addirittura si giovassero della collaborazione di artisti greci, poco importa; che l'esecuzione materiale d'alcune parti venisse affidata a talune categorie di maestranze specializzate e quelle di altre ad altre (con la specializzazione delle maestranze si connette l'esistenza di corporazioni, o collegi, che tanta importanza ebbero nella formazione delle tradizioni tecniche), è cosa che riguarda il principio, universalmente osservato, della distribuzione del lavoro; e, finalmente, che l'esecuzione di molte opere pubbliche fosse data in appalto non significa che i redemptores si dovessero occupare anche dei progetti o che non lavorassero sotto la direzione degli stessi architetti che i progetti avevano disegnati e preparati. È inammissibile, dunque, una distinzione tra ingegneri e architetti nel senso che i primi attendessero ai lavori che si eseguivano per conto dello stato e gli altri ai lavori che si eseguivano per conto di privati; che questi fossero artisti e quelli no. Ciò che invece avrebbe una straordinaria importanza sarebbe l'accertamento del principio che l'architettura di stato fosse un ufficio accessibile soltanto a cittadini romani, non importa se militari o civili; perché, data la quantità e la grandiosità delle costruzioni romane d'iniziativa statale, quando risultasse in modo sicuro che queste costruzioni non avessero potuto essere ideate e dirette se non da architetti cittadini romani, non potrebbe non saltare agli occhi l'infondatezza dell'opinione che Roma dovesse tutte o quasi tutte le sue opere edilizie ad architetti greci. Bisogna fare le debite riserve sull'assolutezza di tale principio: anche senza tener conto di Apollodoro di Damasco, dell'età traianea, non sapremmo spiegarci, ad esempio, come mai potesse essere opera del greco Ermodoro un arsenale marittimo (Cicer., De orat., I, 14), che il Promis ritiene fosse quello di Ostia. Ma ciò non toglie che quell'opinione sia contraddetta dall'esplicita testimonianza di Vitruvio, quando afferma, almeno per l'epoca a lui anteriore, che anche tra i cittadini romani si erano avuti grandi architetti, tra cui Cossuzio; non solo, ma contraddetta altresì dall'esempio pratico di Vitruvio medesimo, istruttivo pure a questo riguardo, in quanto è lecito supporre che non sia stato infrequente il caso d'ingegneri militari che, al pari di lui, divenuti liberi cittadini, si fossero dati al libero esercizio della professione di architetto e fossero anche stati adibiti in opere pubbliche. Gli architetti greci certamente abbondavano in Roma; quando altri indizî mancassero, a rendercene edotti basterebbe la testimonianza dell'imperatore Traiano, in una lettera a Plinio il giovine, governatore della Bitinia (Epist., X, 49). Ma, data la preminenza probabilmente anche dell'elemento direttivo locale (comunque, della locale tradizione costruttiva) nelle più caratteristiche tra le opere architettoniche di Roma, si spiega come, una volta affermatasi l'architettura romana con le sue peculiarità specifiche, fosse inevitabile che anche gli architetti provenienti dalla Grecia dovessero adattarsi all'ambiente che li ospitava e subirne gli ammaestramenti.

Come si formavano gli architetti antichi? Con la teoria e con la pratica, giusta il precetto vitruviano. Difficilmente si può pensare a scuole, intese nel senso moderno della parola, soprattutto per i primi tempi. La vera scuola era l'ambiente familiare, in quanto la professione si tramandava di padre in figlio e i giovani si addestravano nell'arte con l'insegnamento e sull'esempio dei genitori o dei parenti (Vitr., VI, praef., 6). Questo risulta in modo chiaro per l'Egitto, ove, per esempio, una vera dinastia di architetti, di padre in figlio, si è succeduta ininterrottamente per ben ventidue generazioni. Tale costumanza è tanto ovvia, che, con ogni probabilità, dovette essere seguita dappertutto. Tuttavia non si escludono altri modi di formazione degli architetti. Nello stesso Egitto, poiché gli architetti provenivano dalla casta sacerdotale e l'architettura era spesso esercitata dai medesimi sacerdoti, è lecito ammettere che gli ambienti sacerdotali costituissero altrettanti centri d'insegnamento. Alcunché di analogo si è congetturato rispetto alla Grecia, ove un surrogato di scuola per i giovani architetti sarebbero stati i templi. E, rimanendo nello stesso ordine di idee rispetto alle più antiche epoche di Roma, non possiamo non ricordarci dei pontefici. Dell'istituzione di vere scuole non si hanno notizie se non per epoche molto tarde. Giusta la testimonianza di Lampridio, spetta ad Alessandro Severo il merito di avere istituito delle scuole (auditoria), come per altri professionisti, Così anche per gli architetti, con l'assegnazione di vettovaglie agli scolari poveri, purché di condizione ingenua (Alex. Sev., 44). E provvedimenti analoghi, come si è accennato sopra, prese in seguito Costantino. Ma va rilevato che nei tempi precedenti, quando l'attività edilizia era in rapporto con la maggiore prosperità dell'impero, e la professione di architetto era molto rimunerativa, i giovani vi si dedicavano spontaneamente. Solo allorché, per deficienza di ordinazioni, l'attività edilizia si andò affievolendo, quella nobile professione fu disertata. Di qui la necessità di provvedimenti speciali per sopperire ai bisogni nei momenti in cui questi d'un tratto tornavano a farsi sentire.

Come lavoravano gli antichi architetti? Approssimativamente come oggi. Si è già sopra accennato al sistema di esecuzione delle opere militari e di molte opere pubbliche presso i Romani: all'ingrosso, il personale tecnico addetto all'amministrazione dello stato si può paragonare al genio militare e al genio civile dei nostri tempi. Quanto ai liberi professionisti, sovrani, stati, città, privati cittadini richiedevano la loro opera, ed essi apprestavano disegni e progetti, dirigevano lavori. Che usassero compilare progetti più o meno concreti e approntare prima disegni, risulta da alcuni passi di scrittori antichi (Cic., Ad Q. fr., II, 6; Plut., An vitios. ad infel. suff., 3; Aul. Gell., Noct. Att., XIX, 10). Dall'aneddoto poi dell'architetto macedone Dinocrate, che proponeva ad Alessandro il Grande di fondare una città sulla palma della mano di una immensa statua ricavata dal monte Athos, risulta che anche in quei tempi esistevano architetti dalla fantasia molto fervida, e che di simili voli di fantasia fossero capaci anche professionisti rispettabili, qual era certamente lo stesso Dinocrate, se, nonostante quella stravagante idea, Alessandro non disdegnò di valersi altrimenti della sua opera e di affidargli la direzione dei lavori per la fondazione di Alessandria. Approntati i progetti, i grandi lavori erano eseguiti da maestranze specializzate, o sotto la direzione degli stessi progettisti con la collaborazione di tecnici in sottordine, oppure erano dati in appalto.

Ci rimane in ultimo da accennare alle condizioni sociali, giuridiche ed economiche degli architetti antichi. Queste condizioni variano secondo i paesi. In Egitto essi godevano d'una posizione quanto mai privilegiata, come se si fosse voluto adeguarla alle opere veramente grandiose di quell'architettura. S'è detto che molti architetti appartenevano alla casta sacerdotale. Spesso erano addirittura principi del sangue, in quanto sposati a figlie o a nipoti dei Faraoni. Grande responsabilità, ma al tempo stesso grande autorità, importava il titolo di architetto del re. Tra i più noti di questi architetti ricordiamo: Bek-en-Chons, la cui statua si conserva nella Gliptoteca di Monaco, e che (nelle iscrizioni incise nella statua stessa) si qualifica gran sacerdote di Ammone e architetto; Nefer, di cui pure si conserva una statua a Bulaq; e, particolarmente, Cha, capo architetto, addetto al palazzo del Faraone verso la metà della XVIII dinastia (secoli XVI-XV a. C.), del quale la Missione archeologica italiana in Egitto ha scoperto la tomba, ricca e intatta, nella valle delle Regine, e la cui qualità d'altissimo dignitario non solo risulta dalle denominazioni di sovrintendente ai lavori (nel papiro funerario che fu trovato sopra il secondo sarcofago) e di capo del palazzo (nell'iscrizione incisa sulla statuetta di legno che lo rappresenta), ma pure dalla sfarzosità del suo sarcofago interno e di quello della moglie, Mirit, entrambi incatramati e dorati, come si conveniva per i Faraoni e, appunto, per gli altissimi dignitarî. Non è a credere che in condizioni identiche si trovassero gli architetti negl'imperi assiro e babilonese; ma certo si esagera quando si pensa che non fossero tenuti in alcun conto e venissero addirittura defraudati di ogni riconoscimento di merito, e che tutto questo fosse attribuito ai sovrani che ordinavano le opere. Una statua acefala del Louvre, da Tello nella Caldea, rappresenta un architetto seduto. Ciò prova come anche nelle regioni mesopotamiche l'onore delle statue non fosse insolito per questi nobili professionisti. Ma d'una posizione non troppo dissimile da quella degli egiziani sembra godessero gli architetti greci; s'intende, gli architetti veri, quelli, cioè, che con le loro creazioni geniali accrebbero lustro alle città nelle quali furono chiamati a prestare l'opera loro. Rispetto, poi, al mondo romano, è sembrato che si presentasse una certa analogia con quello che si credeva degli architetti assiri e babilonesi, ma che, come si è visto, non è esatto. E non è esatto neppure rispetto agli architetti romani. È certo che una legge vietava che sugli edifici s'inscrivessero altri nomi che non fossero del principe o di chi avesse fatto le spese; e questa è forse la principale ragione per cui i nomi degli architetti romani ci sono quasi completamente sconosciuti. Ma ciò non toglie ch'essi godessero di una posizione sociale eminente. Nel valutarla bisogna, anche qui, tener conto della grande disparità esistente tra le molte persone che, a ragione o a torto, erano qualificate architetti. A prescindere dai dirigenti le grandi opere edilizie, certo è, per esempio, che in due pubbliche amministrazioni si trovano architetti: nella militare e in quella delle acque. Ma gli architecti Augusti, cioè gli architetti imperiali (denominazione che ai nostri orecchi suona alquanto pomposa), talvolta designati con le qualifiche speciali di architectus armamentarii imperatoris, architectus equitum singularium, architectus classis praetoriae, architectus ordinatus, non erano che dei semplici militi o, tutt'al più, dei modesti sott'ufficiali. E quelli addetti all'amministrazione delle acque, alla loro volta, non erano che tecnici subalterni, posti alle dipendenze dei curatores aquarum. A tutto ciò fa riscontro l'esistenza non solo di liberti (ai quali del resto non era impedito di assurgere a posizioni molto elevate), ma anche di schiavi che si qualificavano architetti. Ma sta pure di fatto che, nella buona epoca, l'esercizio dell'architettura era compreso tra le più nobili professioni (Cicerone, De off., I, 42, 15; Vitr., VI, praef., 5 seg.). Non è possibile, quindi, pensare che non fossero tenuti nella più alta estimazione quei cittadini che (giusta la ricordata testimonianza di Vitruvio) furono grandi architetti, e quegli altri che vennero successivamente creando quelle grandi opere dell'architettura romana che, pur essendo rimaste per la maggior parte anonime, attestano tuttavia del genio costruttivo dei loro autori. E che in realtà nella maggiore considerazione siano stati tenuti gli architetti di grande distinzione è provato dagli esempî cospicui di Rabirio, Apollodoro di Damasco, Alipio di Antiochia, e dal fatto che ad essere architetto ambì perfino un imperatore: Adriano.

Naturalmente, adeguate al valore e alle capacità individuali, e anche alle attitudini a sapersi fare avanti, non possono non essere state le rispettive condizioni economiche, in quanto dipendenti dai proventi dell'esercizio professionale. Quelle dei professionisti di maggior distinzione non devono essere state punto disprezzabili: dalla testimonianza di uno scritto attribuito a Platone (Anterast., p. 135) si ha notizia che in Grecia gli architetti non erano molto numerosi e che quindi bisognava compensarli con onorarî alquanto elevati; e a questa notizia relativa alla Grecia fa riscontro, per Roma, il rimprovero di troppa avidità che Vitruvio muove ai colleghi del suo tempo.

Bibl.: H. Brunn, Geschichte der griech. Künstler, 2ª ed., II, Stoccarda 1889, p. 216 segg.; C. Promis, Gli architetti e l'architettura presso i Romani, in Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino, s. 2ª, XXVII; E. De Ruggiero, Dizion. epigr. di antich. rom., I, Roma 1895, p. 643 segg.; E. Caillemer, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiquités grecques et romaines, I, Parigi 1877, p. 374 segg.; J. Marquardt e Th. Mommsen, Handbuch der röm Alterthümer, VII, i, p. 894 segg.; C. Merkel, Die Ingenieurtechnik im Altertum, Berlino 1889, p. 596 segg.; C. G. de Montauzan, La science et l'art de l'ingénieur aux premiers siècles de l'Empire, Parigi 1909, p. 109 segg.; G. Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani, Roma s. d., passim, particolarmente pp. 9-16; G. Cozzo, Ingegneria romana, Roma 1928, passim. Sulle corporazioni romane: A. Choisy, L'art de bâtir chez les Romains, Parigi 1873, p. 181 segg.; J. P. Waltzing, Étude historique sur les corporations professionnelles chez les Romains, Lovanio 1895. Sugli architetti egiziani: H. Brugsch, Geschichte Aegyptens, Lipsia 1877; Deveria, Bakenkhonsou, in Rev. arch., n. s., VI, p. 101; G. Perrot e Ch. Chipiez, Hist. de l'art dans l'antiquité, I, Parigi 1882, p. 627 segg.; E. Schiaparelli, Relaz. sui lavori della miss. archeol. ital. in Egitto (anni 1903-1920), II, Torino 1927. Sulla statua caldea di Tello, Perrot e Chipiez, Hist. de l'art, II, Parigi 1884, pagina 595 segg., fig. 286.

L'architetto nell'età medievale e moderna.

Si è detto che per gli Egizî l'architetto era alla testa di tutta l'organizzazione statale dei lavori, basata sul regime di monopolio e sul lavoro manuale di grandissimo numero di schiavi; donde grandiosità di edifici, con sperpero di mano d'opera e di materiali. In Grecia, il lavoro di professionisti, che spesso venivano dall'esercizio della scultura, produce l'accuratezza dei particolari, la fedeltà a tipi costruttivo-decorativi lentamente formatisi. A Roma, l'organizzazione quasi militare e di maestranze guidate da abilissimi capi porta alla grande architettura spaziale, meraviglia d'equilibrio, di slancio, di disciplina e di scienza costruttiva.

L'eredità romana si trasmette negli ordinamenti e nel tipo di produzione all'impero romano d'Oriente. La fondazione di Costantinopoli segnò un grande evento nella vita architettonica e non meno grande nella preparazione professionale. Costantino, nell'avviare un grande sviluppo edilizio, volle avere pronta una classe di architetti atta ad eseguire il suo grandioso disegno; e richiese ai magistrati di tutte le provincie l'istituzione di speciali scuole, a cui venivano attratti giovani già versati nelle arti liberali e maturi, poiché si richiedeva che avessero circa 22 anni d'età (l'editto è del 334 e fu seguito da altri due del 337 e del 344; la copia del Codex Theodosianus [XIII, 3] è quella indirizzata alle provincie africane).

Nel periodo immediatamente successivo la figura dell'architetto aulico è rappresentata da quel Ciriade ricostruttore della basilica di S. Paolo, a cui si dà il titolo di Vir clarissimus, comes et mechanicus, ovvero di professor mechanicus (lettere di Simmaco al tempo di Valentiniano II e Teodosio, anni 384-387); o meglio da colui al quale Cassiodoro (Variae, II, 39; VII, 5) si rivolge per determinarne le funzioni nelle opere della corte. Egli lo incita a studiare Euclide, Archimede e Macrobio. Lo chiama a curare il palazzo che tramanderà il suo nome ai posteri e gli richiede che la sua opera armonizzi con l'antico. Gli ricorda che a lui verranno a chiedere ordini il costruttore delle mura, il cavatore dei marmi, gli operai delle vòlte, gli artefici del bronzo e del musaico e ch'egli dovrà spendere bene il denaro assegnatogli. Come segno della sua alta dignità porterà una bacchetta dorata ed avrà nella corte il primo rango.

Quello che sappiamo della vita bizantina, come le trattazioni di Procopio e di Vegezio, le notizie su architetti quali Antemio di Tralle ed Isidoro di Mileto, ci mostra essere la cultura e il grado dei maggiori architetti dello stesso ordine che nel tempo romano; come infatti, a chi ben guardi, l'ordinamento politico e sociale ed il concetto architettonico nello schema spaziale e costruttivo appaiono appunto continuazione diretta di Roma.

Nell'Occidente d'Europa il Medioevo, fino al sec. XI, ha interesse per la silenziosa conservazione della tradizione antica e delle antiche istituzioni corporativistiche, di cui tuttavia le tracce sono scarsissime ed incerte. Ben maggiore è l'importanza dei due periodi che chiamiamo romanico e gotico, in Italia non nettamente disgiunti se non dall'invasione di una moda esotica presto riassorbita. Una nuova tecnica e una nuova arte sorgono dai timidi tentativi, s'evolvono, e compiono il loro ciclo, tra aggruppamenti regionali e importazioni più o meno artificiose.

Le nostre cognizioni sull'organizzazione professionale sono per questo tempo tutte pervase da pregiudizî: dapprima l'opera dei monaci, nei quali il Lenoir, il Didron, il Montalembert hanno voluto vedere i monopolizzatori non solo della cultura del tempo, ma anche della tecnica delle costruzioni; il prevalere di arcane formule simboliche; il disinteresse degli operai che lavoravano per la gloria di Dio; più tardi l'invadere delle maestranze di artefici vaganti che lavoravano insieme in piena libertà cooperativa, senza che tra essi si avanzasse un capo, il vero e proprio architetto. E il Ruskin scioglie un inno a questi metodi e dice che solo per essi può aver vita l'architettura.

Tutti questi errori hanno potuto prevalere appunto, come si è accennato, per il carattere dei documenti archivistici, i quali quasi sempre tacciono dell'architetto e si riferiscono invece all'organizzazione amministrativa, spesso molto complessa, che accompagnava i lavori e che aveva secondo i casi le sue numerose figure nell'operarius, nel massarius, nel receptor, nell'expensor, nel rector fabricae, ecc.

Gli studî del Hasak, del Dehio, del Briggs, del Jackson hanno da tempo fatto giustizia di queste leggende. Si è tolta importanza ai teorici, i quali mai come in questo tempo sono stati lontani dalla vita: sia i teorici del simbolo, come S. Paolino, od Onorio d'Autun, o il vescovo Durand, che volevano trarre schemi architettonici da concetti liturgici, sia i teorici della geometria, i delineatori di quegli astrusi intrecci di figure fondamentali di cui troviamo traccia nei disegni di Villard de Honnecourt o in quelli, più tardi, del Cesariano. A questa scolastica geometrica e simbolica si riferiva Jean Mignot quando, partendo sdegnato da Milano, esclamava: Ars sine scientia nihil est ma intanto i maestri lombardi elevavano il duomo di Milano, non applicando una formula, ma traducendo in pietra un ben più ampio e saldo sentimento di tradizione italiana nella proporzione degli spazî e nella distribuzione dell'ornamento.

Anche si è ben determinato come non fosse affatto generale l'esercizio dell'architettura da parte dei monaci, i quali ordinariamente si occupavano delle costruzioni per recarvi direttive generiche di pensiero e di tradizione, e per darvi un'organizzazione amministrativa. E anche il lavoro collettivo ed anonimo delle maestranze ha ceduto il campo, almeno nelle opere maggiori, alla figura direttiva dell'architetto, con la libera collaborazione degli artefici nei particolari architettonici o decorativi.

Nelle recenti sue ricerche il Briggs ha a tal riguardo ritrovato numerosi nomi di architetti, pur sotto la modesta denominazione di aedificator o protomagister o maître maåon. Di taluno di essi, come Raimondo di Tolosa, egli ricorda l'alta considerazione in cui era tenuto, di altri i privilegi goduti; dal noto taccuino di Villard de Honnecourt trae la dimostrazione di una perizia disegnativa e di un'alta cultura; e ricorda l'esistenza di veri uffici di disegno e di preparazione tecnica annessi alle grandi fabbriche.

Ne risulta così lumeggiata, nella sua intima essenza, tutta l'architettura medievale. Vi hanno gran parte le maestranze di artefici, che nei monumenti minori lavorano da sole, applicando un repertorio di schemi e di tipi ed imprimendo ad ogni elemento decorativo un carattere individuale; e da questa organizzazione, come anche dalle discontinuità dei lavori che si trascinavano per lunghi periodi tra interruzioni e riprese, deriva quell'inimitabile carattere di varietà e d'irregolarità pur nell'unità architettonica; ma nei lavori maggiori ritorna la figura superiore dell'architetto, che progetta e dirige e che accoppia l'elevata cultura con le nozioni tecniche acquistate sperimentalmente nei cantieri. Monumenti mirabilmente organici, come le cattedrali di Reims e di Salisburgo, non sono quindi risultato quasi fortuito d'una produzione collettiva di artefici illetterati, ma opera individuale di un cervello maestro che unisce la scienza e l'esperienza, la concezione costruttiva e quella artistica.

Tutto ciò è ancor più chiaro in Italia. Qui non tanto le grandi corporazioni di muratori e di scalpellini come in Francia, ma alcuni artieri nomadi, specialmente lombardi, chiamati a collaborare con le maestranze locali. Per le opere minori i dilettanti colti e i capimastri, per le maggiori i veri architetti, spesso tratti dalle altre arti, pittori e scultori che con la bella versatilità italiana s'impadronivano presto dei concetti tecnici, chiamati spesso da luogo a luogo, preceduti già dalla loro fama, ad elevare palazzi o chiese o a completarli o a trasformarli. Ed ecco i nomi di Lanfranco, di Buschetto, di Bonanno, di Rainaldo, di Arnolfo, di Giotto, di Matteo Gattaponi, dell'Orcagna, di fra Bevignate, di Antonio di Vincenzo, di Lorenzo Maitani, di Matteo Carnevale, ecc.

Talvolta, è vero, l'unità direttiva anche da noi sembra sommergersi nei comitati consultivi che decidono su varie questioni, o nei concorsi per taluni elementi, come capitelli, porte e finestre; ma in realtà si tratta più che altro di complicazione formale e accessoria che non turba la continuità di un pensiero architettonico essenziale e dominante. Anche quando muta il magister operis o il protomagister, o quando i comitati o le iniziative sporadiche sembrano sovrapporvisi, rimane l'unità data dall'opera d'un architetto che noi non più vediamo, o da un disegno o da un modello fondamentale.

Di grande interesse per rendersi conto di tale organizzazione è il seguire le vicende di alcuni tra i più noti monumenti italiani del Medioevo. Vedi p. es. C. Boito, Architettura del Medioevo in Italia, Milano 1880; id., Il Duomo di Milano, Milano 1889; L. Fumi, Il Duomo d'Orvieto, Roma 1891; A. Gatti, La basilica petroniana, Bologna 1913; P. Egidi, Carlo I d'Angiò e l'abbazia di S. Maria della Vittoria, Napoli 1910.

Quando nel Quattrocento s'inizia un nuovo mirabile italianissimo periodo, che cerca di portare le forme antiche a funzione di vita nuova, gli ordinamenti professionali non mutano sostanzialmente; soltanto si accentua il distacco tra l'aristocrazia di alcuni architetti maggiori e l'opera degli artefici della costruzione spicciola o della decorazione, i primi dei quali intendono il Rinascimento in modo organico nei concetti di spazî e di proporzioni, gli altri nella ricerca del piccolo particolare preziosamente lavorato.

I rapporti tra Leon Battista Alberti e il Pasti per la fabbrica del Malatestiano, i contrasti del Brunellesco con gli operai di Santa Maria del Fiore per la costruzione della cupola, le ricerche di Federico da Montefeltro, dapprima in Toscana, "ove è la fonte degli architettori", poi a Mantova, per trovare in Luciano di Laurana l'autore del Palazzo di Urbino, l'attività teorica e pratica, militare e civile, di Francesco di Giorgio e dei Sangallo vecchi (i Giamberti), l'opera di Bramante nel periodo lombardo stanno ad illustrare lo stato intellettuale e sociale dei non molti architetti sommi; taluni dei qualì provenivano da altre arti (Bramante pittore, Brunellesco orafo, Francesco di Giorgio scultore), altri da mestieri (come i Sangallo, carpentieri), altri infine, come l'Alberti, erano di famiglia nobile e di alta educazione; ma tutti avevano completato nelle botteghe e nei cantieri la loro preparazione professionale ed avevano elevata la propria cultura con una intensità di studio principalmente basata sulle ricerche di antichi edifizî e sui commenti del testo di Vitruvio.

Intorno a loro, come si è detto, sono gli architetti minori e i costruttori e le maestranze, e ne deriva nell'architettura del Quattrocento uno sdoppiamento singolare. Da un lato l'opera dei maestri che anticipa i tempi nella ricerca di nobili e grandi espressioni veramente classiche nel sentimento di dignità e di proporzione; dall'altro quella del minuto popolo dell'arte che riveste schemi architettonici ancora ibridi, o addirittura in ritardo, con una mirabile ornamentazione in rilievi eleganti e sottili.

La tendenza a considerare l'architettura come pura espressione d'arte si accentua; e, salvo che in alcune opere di singolarissima elevatezza, tale tendenza porta a un certo decadimento negli organismi costruttivi in confronto del precedente periodo gotico; ché la cognizione statica giunge spesso, non tanto in modo diretto dalla scienza costruttiva che accumula sperimentalmente i suoi risultati, quanto indirettamente dalla concezione spaziale derivata dallo studio degli antichi monumenti.

Nel Cinquecento, infine, la vera figura professionale dell'architetto prevale trionfalmente. Egli riassume in sé tutta la competenza artistica e tecnica e studia l'opera in tutti i suoi particolari e a sé subordina tutta l'esecuzione dei lavori; compensato spesso lautamente con stipendî regolari o con beneficî (Bramante ad esempio era frate del piombo, cioè godeva di prebende sui bolli nella Curia pontificia), capo di una schiera, non più di artefici, ma di aiutanti di studio che lo coadiuvano nei disegni e nelle misure. Ancora, non mancano capimastri magnificati per architetti o per ingegneri (due termini spesso tra loro confusi), ma hanno quasi sempre uffici secondarî e ruotano intorno agli astri maggiori.

Ed ecco, in rispondenza a queste cause che dànno alla produzione carattere individuale e compatto, l'architettura divenire unitaria e regolare, perdere l'aspetto regionale per elevarsi a stile nazionale, che presto invaderà il mondo con una diffusione meravigliosamente prepotente. La decorazione scultoria perde ogni valore in confronto della forma architettonica, e questa è dominata dal senso della proporzione perfetta.

La "divina proporzione", le leggi del ritmo architettonico sono ricercate dai teorici del tempo, sia con l'interpretare e volgarizzare le formule di Vitruvio per gli ordini architettonici, sia col trarre rapporti armonici dalla quadratura di figure e di oggetti; e rappresenta la vera caratteristica di questo periodo in cui si delinea alfine l'architetto moderno. Il disegno è ancora semplice e schematico anche quando esce dalle matite più geniali, ma va diretto allo scopo, che è quello di dare un'idea d'insieme dell'opera, ovvero d'essere interpretato nei disegni esecutivi, e, più comunemente, nei modelli in legno o in gesso.

Tale carattere aristocratico e accentratore dell'architetto prosegue nei due secoli successivi ed acquista il più elevato grado coi nomi del Bernini, del Borromini, del Buontalenti, del Fanzaga, dello Iuvara, del Vanvitelli, del Fuga; e, fuori d'Italia, del Mansart, del Hardouin, del Wreen e dei tanti architetti italiani che hanno affermato oltr'alpe la nostra architettura con una unità stilistica tutta italiana nuovamente raggiunta dopo tanti secoli. E lo spirito dominatore dell'architetto in questo periodo che gli si offre così fervido di vita, affronta i problemi nuovi d'immensi edifici monumentali, di sistemazioni edilizie, di decorazione interna, e s'impadronisce della tecnica idraulica o meccanica, e nel campo estetico porta un nuovo virtuosismo nella ricerca della forma, tormentando le linee e tentando di trasferire la statica nella dinamica, quasi per distaccarsi dallo spazio e dalla materia. A questa più vasta attività, a questo travaglio che preannunzia il pensiero moderno deve corrispondere una maggior preparazione di quella ottenuta fino allora col pratico tirocinio innestato sopra una cultura generale; e comincia l'insegnamento positivo nella scuola, che riprende il suo posto nella formazione degli architetti col progredire dei concetti scientifici. Trova essa la sua sede nelle nascenti accademie, come in Italia quella di S. Luca a Roma e la Clementina a Bologna, in Francia l'Académie d'architecture fondata nel 1671 e la Scuola di Roma voluta dal Colbert. E compaiono i libri di testo come, per esempio, quelli del Du Cerceau, del Delorme, dei Bibbiena, e soprattutto del Blondel e del Rondelet. Vi s'insegnano la geometria, la prospettiva, le regole degli ordini architettonici, il disegno, che assume ormai un alto valore a sé nei progetti; poi le norme di costruzione e di meccanica. E la composizione architettonica ha per fasti i grandi concorsi; e la trasmissione della tradizione avviene non tanto in modo vivo sui lavori, quanto sui banchi della scuola, teoricamente, da professore ad allievo.

Questo predominio della scuola nell'educazione dell'architetto si accentua nel sec. XIX in rispondenza agli enormi progressi della scienza e della meccanica, e in seguito al complicarsi delle esigenze che l'architettura pratica è chiamata a soddisfare, cioè allo svilupparsi di condizioni che richiedono una preparazione positiva di studio che non può aversi più nell'empirismo professionale; e, d'altro lato, tale predominio è richiesto anche dall'arte architettonica, che, nell'affievolirsi del senso stilistico, non è più un naturale linguaggio, ma formula spesso artificiosa, sia che segua le norme neoclassiche, sia che tenti altre vie nuove od antiche (v. architettura).

La conseguenza di questo inevitabile irrigidimento didattico è stata quella di distaccare sempre più l'architetto da quelle categorie di mezze figure professionali che fino allora gli erano vissute accanto e non di rado s'erano confuse con lui. Il capomastro, che sempre era stato l'autore delle opere minori e in esse aveva mantenuto la continuità della tradizione semplice, o sviluppando l'arte popolare, o innestandovi i portati dell'arte maggiore, è da allora divenuto un esecutore materiale. Gli artisti della decorazione interna o esterna, i pittori, gli scultori, i musaicisti, gli stuccatori, i costruttori di mobili, di arazzi, di stoffe che ancora nel Settecento collaboravano con gli architetti, recando nell'opera complessiva la varietà nell'unità e dando a ogni elemento d'arte la funzione architettonica, o hanno visto quasi chiudersi il campo della loro attività individuale, ovvero hanno distaccato completamente la loro arte, come hanno fatto i pittori e gli scultori producendo opere isolate, fatte per le esposizioni, indipendenti dall'ambiente.

Per qualche tempo l'architettura è rimasta ancora unita e confusa con l'ingegneria; poi, aumentati a dismisura i campi di azione di questa, reso sempre più arduo e complesso il bagaglio scientifico occorrente per la costruzione, i due insegnamenti e le due professioni hanno cominciato a separarsi: separazione nettissima nei paesi anglosassoni, più o meno profonda negli altri.

Spezzato così l'esercizio promiscuo con le altre arti e le altre tecniche, l'architetto è divenuto essenzialmente colui che immagina, progetta, ordina la costruzione degli edifici; e la figura dell'architetto si è forse inaridita col diventare professionale, ma certo si è definita meglio che non in passato. Anche hanno cominciato a determinarsi alcune specializzazioni verso particolari campi, come appunto è avvenuto per le altre professioni. Si ha così l'architetto urbanista, che si occupa del grande tema dell'edilizia, l'architetto "degl'interni", che cura l'interiore conformazione e l'arredamento degli ambienti, e anche l'architetto paesista (architecte paysagiste o landscape architect), che ha per tema lo studio delle ville e della conformazione semplice degli edifici campestri.

Ancora, invero, specialmente in Italia, questo sicuro orientamento e questa precisa definizione di chi coltiva l'architettura sono ben lungi dall'essere intesi dalle classi dirigenti e dal pubblico, in cui permane il pregiudizio che l'architetto debba curare solo l'aspetto esterno, la veste decorativa, dando forma a un organismo ideato dall'ingegnere; ma per chi conosce come nell'architettura siano strettamente legati i tre elementi della rispondenza allo scopo, della costruzione, dell'arte, ciascuno dei quali fornisce all'altro mezzi di espressione, appare evidente l'assurdità di questo sdoppiamento che toglie all'architetto la padronanza dell'arte parziale e cristallizza la concezione tecnica e pratica in schemi monotoni, lontani dalla vita. L'architetto quindi deve essere il solo autore del suo edificio nel quale darà forma d'arte alla razionale attuazione del programma a lui proposto.

Entro questo schema e in relazione alle condizione della vita moderna, l'architetto deve avere per bagaglio intellettuale una cultura generale vasta e varia che gli consenta la cognizione elevata delle svariate esigenze e gli dia il metodo per saper studiare; una preparazione artistica completa sia nell'ideazione, sia nella decorazione, sia nel senso sicuro delle proporzioni, sia nell'espressione grafica; una conoscenza tecnica analoga, nel suo campo, a quella dell'ingegnere, e fatta di scienza e di pratica; una conoscenza storica dell'arte che gli dia nozione dello spirito stesso dei periodi architettonici che hanno preceduto il nostro: nozione che non era necessaria quando lo stile si trasmetteva ed evolveva naturalmente, ma che occorre ora che, o l'assimilazione di vecchi stili, o la ricerca di nuove espressioni richiedono il vaglio di una cultura elevata recante in sé l'elemento sperimentale.

In questi desiderî è incluso il programma della formazione di moderni architetti, lo schema della moderna scuola di architettura, che quasi dappertutto si va affermando come istituto universitario, a cui si accede dopo i completi studî secondarî, classici o tecnici, e che unisce insegnamenti artistici, scientifici, pratici.

Dando uno sguardo agli ordinamenti didattici delle principali nazioni estere, si troveranno differenze abbastanza sostanziali.

In Francia l'istruzione per gli allievi architetti si dà quasi esclusivamente nelle sezioni d'architettura delle Écoles nationales des beaux arts, cioè l'École centrale di Parigi e le 9 scuole regionali da non molti anni istituite nei dipartimenti. I corsi sono organizzati press'a poco come quelli di una facoltà universitaria e vi si può essere ammessi solo con la licenza delle scuole secondarie, il baccalauréat. L'insegnamento scientifico è affidato a corsi nella scuola, mentre la composizione è insegnata negli studî di maîtres, sia ufficiali, sia liberi. La durata dell'insegnamento ha un minimo di 4 o 5 anni, e al suo termine dà diritto a un diploma ufficiale, che è titolo di prim'ordine per l'ammissione negli uffici e anche per l'esercizio della professione, la quale tuttavia è libera. Accanto a questi corsi ufficiali v'è una scuola privata, l'École spéciale d'architecture, che dà un dipoloma dopo tre anni di studî ed è anch'essa completata dal tirocinio pratico presso architetti che esercitano la professione.

In Germania invece sono i politecnici che in una loro speciale sezione formano gli architetti. Con una vasta preparazione artistica e di studî stilistici e storici ivi si completa, in corsi quinquennali, lo studio scientifico e tecnico, che come svolgimento è quasi sempre distinto da quello degli allievi ingegneri. In alcuni politecnici, specialmente in quelli delle città dove esiste un'accademia di belle arti, gli studenti frequentano altresì lo studio di un architetto esercente. La professione è libera.

In Inghilterra non solo è libera la professione, ma, come in quasi tutti gli altri campi, lo stato non ha alcuna ingerenza nell'insegnamento; il quale avviene per mezzo di alcune scuole private per la parte teorica, e mediante il tirocinio presso un architetto esercente per l'educazione architettonica. Il Royal Institute of British Architects (R. I. B. A.) interviene per ammettere mediante titoli o esami i giovani architetti tra i proprî membri, sostituendo così una selezione di constatazione ad una per diploma. Tuttavia un largo movimento per variare questo stato di cose, che anche in Inghilterra non sembra più rispondente ai progressi della vita attuale, si va manifestando; e lo stesso British Institute sta studiando la creazione d'una scuola regolare e completa o almeno il coordinamento delle esistenti.

Negli Stati Uniti d'America già il sistema inglese ha subito, dalla fine del secolo scorso, profonde varianti; e ormai circa 22 scuole professionali, diversissime come programma, ma alcune veramente importanti, sono sorte e dànno un'educazione scientifica molto sviluppata. Alcuni stati, per quanto tiguarda l'esercizio professionale, richiedono la presentazione d'un titolo universitario, altri sottopongono ad esame i candidati.

In Austria l'istruzione teorica è data tanto nei politecnici quanto nelle accademie di belle arti, ovvero nelle scuole professionali associate alle accademie di belle arti; ed è completata dal tirocinio pratico presso un architetto. Esiste un esame di stato che è obbligatorio per i funzionarî dello stato, e in generale anche per quelli delle città; invece la professione è libera.

In Ungheria esiste un'università con una facoltà di architettura; e anche qui il diploma è obbligatorio per i posti ufficiali.

In Russia gli studî di architettura si compiono presso le accademie di belle arti, specialmente quella di Leningrado; ma sistematicamente i migliori allievi erano finora inviati a perfezionarsi all'estero.

In Spagna esistono a Madrid e a Barcellona scuole superiori di architettura che conferiscono il diploma di stato richiesto per assumere il titolo di architetto.

In Belgio gli architetti sono preparati da un'università statale, da parecchie università libere e accademie di belle arti; e gli studî tecnici ed artistici vengono praticamente proseguiti mediante il tirocinio presso studî di architetti.

In Svezia due scuole politecniche dànno, con 4 anni di studî, l'insegnamento architettonico e gli studî si completano alla scuola speciale presso l'Accademia di belle arti. Esiste un diploma, obbligatorio per gli architetti funzionarî dello stato.

In Svizzera, l'architettura è insegnata nel Politecnico di Zurigo, secondo il modello dei politecnici tedeschi.

Nella Repubblica Argentina, infine, è recente l'istituzione nell'università di Buenos Aires di una facoltà d'architettura, nella quale si avrà un corso di studî della durata di 5 anni.

Quanto all'esercizio professionale dell'architettura, esso è libero in alcune nazioni, in altre strettamente legato al titolo conferito dalle scuole o dalle istituzioni professionali.

In Italia siamo, in questo campo della preparazione e dell'esercizio relativi all'architetto, in un fervido periodo di mutamento e di nuova affermazione. Fino a pochi anni or sono, seguendo l'illogica scissione degli elementi architettonici, l'architettura s'insegnava unilateralmente dal punto di vista tecnico oppure da quello artistico. Da un lato gl'ingegneri, che vi si preparavano, insieme con gli altri rami della tecnica, nelle scuole d'ingegneria; dall'altro i professori di diesegno architettonico, che avevano il loro diploma dalle accademie di belle arti ove studiavano accanto ai pittori e agli scultori. L'esercizio professionale era quasi soltanto riservato agli ingegneri. Solo in alcuni politecnici esistevano delle scarne sezioni per allievi architetti, che portavano ad una specializzazione negli ultimi tre anni di corso.

Dal 1920 data l'istituzione della Scuola superiore d'architettura di Roma, organismo didattico completo d'ordine universitario, in cui si compiono, in cinque anni, studî regolari scientifico-tecnici, artistici, architettonici nei varî campi della teoria e della pratica; e tale istituzione è già stata seguita da altre, a Venezia, a Torino, a Firenze, a Napoli; mentre a Milano si perfeziona la Sezione architetti della Scuola d'ingegneria. A questa formazione non ancora bene ordinata (ché un nuovo ordine di studî non s'improvvisa) occorrerà portare maggiore unità, e anche occorrerà definirne meglio i rapporti col nuovo organismo d'insegnamento artistico, contemplato dalla grandiosa riforma del 1923.

Di pari passo con la definizione degli studî si sta avviando in Italia quella del titolo e della carriera professionale, l'uno e l'altra finora incerte e confuse. La legge 24 giugno 1923 sulle professioni d'ingegnere e d'architetto, e il relativo regolamento approvato con r. decreto 23 ottobre 1925, stabiliscono che i due titoli professionali spettino a coloro soltanto che ne conseguono i diplomi di laurea negl'istituti d'istruzione superiore, salvo talune disposizioni transitorie che consentono d'iscrivere nei relativi albi coloro i quali possano dimostrare all'atto dell'applicazione della legge di aver lodevolmente esercitato per un certo periodo ed acquistato la necessaria cultura. "Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano un rilevante carattere artistico e il ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20 giugno 1909 per le antichità e le belle arti sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere".

Come si vede tale delimitazione ufficiale è ancora necessariamente ibrida, ben lontana, per esempio, da quella che vige in Inghilterra ove tutta l'edilizia civile è campo dell'architetto; in essa appare ancora la sopravvivenza del concetto che considera l'architetto solamente fatto per i temi monumentali e non per quelli della vita ordinaria, e di quello che vede possibile lo sdoppiamento della parte artistica e della tecnica. Ma evidentemente gli ordinamenti legali non possono non tener conto di uno stato di fatti e di conoscenze tenacemente radicato, né precedere una preparazione che è in corso, ma che per il momento è ancora in embrione.

Analoghe o comuni con quelle degl'ingegneri sono per gli architetti le norme per l'esercizio professionale, i principî di etica professionale. L'architetto è considerato come la persona di fiducia del cliente, non solo nella redazione dei progetti, nella direzione dei lavori e nelle operazioni a queste accessorie, ma altresì nei rapporti amministrativi. È compensato direttamente dal cliente (sulla base di tariffe di onorarî che ordinariamente proporzionano il compenso all'entità finanziaria dei lavori) e non può esserlo da altri; nei rapporti con gli appaltatori deve rappresentare gl'interessi del cliente, pur con senso di equità e di giusta comprensione delle esigenze del lavoro. L'esercizio promiscuo dell'attività di architetto e di quella di appaltatore che va diffondendosi, per la illusione da parte dei clienti di rendere unica la responsabilità e semplice l'andamento dei lavori, e per il desiderio da parte degli architetti di maggiori guadagni, deve quindi ritenersi contrario ai suddetti principî e deve rigorosamente essere escluso.

Mentre questi concetti si concretano e le suddette definizioni stabilite dalla legge cominciano ad avere applicazione, nel nuovo ordinamento dello stato corporativo fascista il Sindacato degli architetti ha avuto il suo posto nella Confederazione Nazionale dei Sindacati Professionisti ed Artisti, accanto agli ingegneri e agli artisti, e sotto la sua egida sono stati posti varî enti di cultura, quali le Associazioni artistiche tra i cultori d'architettura.

La famiglia degli architetti si ritrova così e si riunisce nella nuova vita italiana, e s'avvia verso i nuovi compiti professionali ed artistici, che, con la diffusione nel paese d'una coscienza architettonica, oggi ancor torpida, con l'approfondirsi della cultura degli architetti, con la regolamentazione dei pubblici concorsi, con la formazione di ruoli di architetti negli uffici statali e comunali, con l'attivazione dei rapporti con le arti decorative, daranno all'Italia nuovamente quella posizione dominante nell'architettura che nei tempi passati le hanno conferito, talvolta la serrata organizzazione, talaltra la libera genialità dei suoi architetti.

Bibl.: Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori ed architetti, ed. Milanesi, Firenze 1878-85; Félibien des Avaux, La vie des plus célèbres architectes, Parigi 1690; Milizia, Opere complete, II e segg., 1826; Viollet-Le-Duc, in Dictionnaire raisonné de l'Architecture française, s. v. Architecte; Jackson, Gothic Architecture, 1915; H. Springer, De artificibus monachis et laicis Medii Aevi, Bonn 1861; M. Hasak, Die romanische und gotische Baukunst, Stoccarda 1902, cap. IX; J. Burckhardt, Geschichte der Renaissance in Italien, 4ª ed., Stoccarda 1904, cap. II; M. S. Briggs, The Architect in History, ecc., in Journal of the R. I. B. A. (1925); G. Giovannoni e P. D'Achiardi, L'educazione architettonica in Italia nel passato, nel presente, nell'avvenire, relazioni all'International Congress of architectural Education, Londra 1924; C. Boito, Questioni pratiche di Belle Arti, Milano 1893; id., Condizioni presenti dell'Architettura in Italia, in Nuova Antologia (1890); A. Louvet, L'Art d'architecture et la profession d'architecte, Parigi 1910; Atti dei Congressi internazionali degli Architetti; G. Giovannoni, Architetti e studi d'architettura in Italia, in Rivista d'Italia (1916).

TAG

Accademia delle scienze di torino

Federico da montefeltro

Impero romano d'oriente

Accademia di belle arti

Leon battista alberti