ARCHITETTURA - Area bizantina

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

ARCHITETTURA - Area bizantina

A. Iacobini

Nella storia dell'a. di Costantinopoli e del Mediterraneo orientale il sec. 6° segna il momento di più netta rottura con la tradizione tardoantica e paleocristiana, cui corrisponde la sperimentazione e la messa a punto di un nuovo codice e di un nuovo linguaggio spaziale, autenticamente bizantini. Nel campo dell'edilizia religiosa, in particolare, si consuma quello che è stato suggestivamente definito un vero e proprio 'scisma' architettonico (Krautheimer, 1965) tra l'Europa, che rimarrà in sostanza fedele per tutto il corso del Medioevo al tipo basilicale di estrazione romana, e i territori bizantini, orientati da allora in poi, preferenzialmente, verso strutture a planimetria centralizzata, coperte a volte e cupole.Da Giustiniano all'iconoclastia. - Il disegno di restaurazione imperiale di Giustiniano (527-565) costituì l'humus culturale e la grande occasione operativa per l'attuarsi di questa svolta. Come si ricava da quel testo d'eccezione che è il De Aedificiis di Procopio di Cesarea, l'attività architettonica era infatti considerata dal sovrano uno dei pilastri del suo programma, uno strumento e un segno visibile dell'efficacia della sua azione politica. Il centro propulsore nell'elaborazione del nuovo linguaggio fu Costantinopoli, assurta ormai al rango di vera capitale cosmopolita, luogo di polarizzazione e fusione delle più autorevoli tradizioni regionali dell'Oriente cristiano.Alle soglie dell'età di Giustiniano si colloca la chiesa costantinopolitana di S. Polieucto, un singolare monumento oggi noto solo sulla base delle indagini archeologiche (Harrison, 1986), la cui costruzione fu finanziata da un personaggio di grande spicco nell'élite culturale del tempo, Anicia Giuliana, nipote dell'imperatore Valentiniano III. Posta presso la sua residenza urbana, la chiesa, eretta tra il 524 e il 527, sorgeva al di sopra di un'alta piattaforma ed era probabilmente suddivisa in tre navate. I muri di fondazione rinvenuti, eccezionali per spessore (m. 7), inducono a supporre che fosse coperta in muratura, o con una grande volta preceduta da un'imbotte o meglio con una vera e propria cupola: un aspetto quest'ultimo che le conferirebbe un ruolo di capostipite nella definizione della nuova tipologia ecclesiastica di età giustinianea. La descrizione dell'edificio contenuta nell'Anthologia Palatina (I, 10) e i frammenti scultorei sopravvissuti (pilastri, capitelli, colonne, nicchie) confermano che al di sopra delle navate minori correvano delle gallerie, aperte sulla nave mediana a esedre con nicchie, sostenute in basso da pilastri e colonne. Ma sia la pianta sia l'alzato restano largamente ipotetici, anche se i versi dell'Anthologia attestano in via generale un'impostazione spaziale fondamentalmente accentrata (óikon perídromon).Oltre all'originalità della struttura, la costruzione presentava un secondo elemento di distinzione nel panorama artistico della capitale: l'apparato decorativo dell'interno, improntato a una ricchezza quasi 'barocca' e a un fastoso gusto orientalizzante. Intarsi di marmi colorati, colonne alveolate, sculture policrome che fondono motivi classici e sasanidi componevano un insieme assai vistoso, da cui si differenziarono le chiese fondate da Giustiniano, ma che costituì un autorevole modello per la Costantinopoli della prima età macedone (chiesa nord del monastero di Costantino Lips, 907).Tuttavia, l'impronta più inconfondibile nella Costantinopoli del sec. 6° è stata lasciata dalle fondazioni imperiali di Giustiniano, sorte nell'ambito di un programma edilizio che ebbe il suo momento più intenso dopo le distruzioni della rivolta di Nika (532). Obiettivi e risultati di questo grande disegno sono illustrati nel De Aedificiis, il cui primo libro è interamente dedicato ai monumenti della capitale.A ridosso dell'ascesa al trono (527), Giustiniano fece erigere, accanto alla sua residenza di principe (il palazzo di Hormisdas), la chiesa dei Ss. Sergio e Bacco, che andava ad affiancarsi a una sua precedente fondazione, la basilica dei Ss. Pietro e Paolo del 518-519. Il nuovo edificio, a pianta centrale, che è il solo sopravvissuto di questo unitario complesso, presenta un'inedita struttura a doppio involucro. Il corpo esterno è quadrangolare; il circuito interno, ottagonale, è scandito da otto pilastri, collegati, su un doppio ordine, da diaframmi di colonne alternativamente curvi e rettilinei. Questo vano centrale è coperto da un'ampia e singolarissima cupola a ombrello. L'idea-base è quella di uno spazio unificato, concepito come nucleo espanso e rotante, su cui converge e da cui si dirama, secondo molteplici direttrici prospettiche, una cintura esterna di ambienti, formata dalle navate laterali (costituenti un deambulatorio) e dalle gallerie superiori. Forse precedenti di pochi anni la ricostruzione della Santa Sofia, i Ss. Sergio e Bacco rappresentano il primo monumento d'avanguardia giustinianeo, tappa di fondamentale importanza nella messa a punto della nuova tipologia di chiesa a cupola. La sua struttura a perimetro quadrangolare con nicchioni di spigolo e vano interno a esedre potrebbe costituire una versione costantinopolitana, profondamente rielaborata in rapporto alla copertura a cupola, di modelli architettonici provenienti dalla Siria. Nella chiesa dei Ss. Sergio, Bacco e Leonzio a Bosra del 512 si trova infatti un impianto suggestivamente affine, ma con un nucleo centrale tetraconco, forse originariamente concluso da un tetto ligneo. L'impianto a tetraconco godette, del resto, di una notevole fortuna in ambito siriaco per tutta la prima metà del sec. 6° (martyrium di Seleucia Pieria, fine sec. 5°, restaurato dopo il 526-528; chiesa episcopale di Apamea, 536 ca.; tetraconco di Resafa, ante 553; madrasa al Hallāwyya di Aleppo, inizio sec. 6°), perpetuando una tipologia di netta estrazione classica, probabilmente di carattere palatino (Lavin, 1962; Krautheimer, 1965), che ebbe forse uno dei suoi prototipi cristiani nel perduto ottagono costantiniano di Antiochia (Kleinbauer, 1973; 1987). L'idea del doppio involucro dovette affascinare profondamente gli architetti di Giustiniano: si apprende da Procopio (De Aed., I, 8, 12-16) che a Costantinopoli altre due chiese oggi perdute (S. Giovanni all'Hebdomon e S. Michele in Anaplo) sviluppavano questa struttura in una variante a perimetro ottagonale con un anello interno di esedre concave, come nel S. Vitale di Ravenna. Ma fu nella Santa Sofia che il nuovo modello spaziale trovò l'occasione irripetibile per essere sperimentato in scala monumentale.L'edificio, il cui progetto fu steso da Antemio da Tralle e Isidoro da Mileto, era già in costruzione appena un mese dopo le devastazioni della rivolta di Nika e venne terminato nel breve spazio di cinque anni e mezzo. Il corpo esterno, preceduto da un atrio oggi scomparso e da un doppio nartece, è un rettangolo con i lati quasi uguali. Il corpo interno, definito da quattro altissimi pilastri, collegati da altrettante arcate, consiste in un vasto spazio quadrato coperto da una cupola su pennacchi sferici. Questo enorme nucleo centrale, sui lati nord e sud, è serrato in alto dalle pareti finestrate, cui si allineano in basso le colonne che schermano le gallerie e il piano terra, mentre, longitudinalmente, si espande in due semicupole sorrette a loro volta da esedre minori.Una costruzione di tali dimensioni e complessità dovette certamente richiedere, in fase di progetto, una precisione estrema nel calcolo di pesi e resistenze e nella scelta dei materiali da impiegare (pietra negli elementi portanti e nella parte bassa delle pareti, mattoni nella parte alta e nelle coperture). Ma, nonostante l'impostazione rigorosamente scientifica, l'intenzione si rivelò, alla prova dei fatti, troppo audace, come dimostrarono le prime deformazioni della struttura già in corso d'opera e, infine, il crollo della cupola durante il terremoto del 7 maggio 558. La nuova calotta, 7 m. più alta di quella originaria, fu compiuta, dopo la morte dei suoi ideatori, da Isidoro da Mileto il Giovane, il quale, prima di intervenire nella copertura, provvide a rinforzare le arcate e i pilastri che avevano ceduto e a ispessire le pareti nord e sud, chiudendo in parte gli enormi finestroni della prima fase.Come avevano compreso Procopio e Paolo Silenziario (Mango, 1972, pp. 72-78, 80-96), l'audacia rivoluzionaria delle soluzioni tecniche è, in Antemio e Isidoro, al servizio di una nuova idea dello spazio, che supera definitivamente la concezione classica di parete e di massa. Portando alle estreme conseguenze il principio dell'organismo centrifugo e quello dell'interferenza degli involucri spaziali (applicati già nei Ss. Sergio e Bacco), essi giungono a creare all'interno della Santa Sofia il sorprendente effetto di una spazialità ambivalente, circoscrivibile ma al tempo stesso indefinita. Elemento catalizzatore del sistema è la luce che (lo notava già Procopio) sembra scaturire dall'interno stesso della chiesa. Irrompendo dalle innumerevoli aperture, i fasci luminosi si moltiplicano e s'incrociano, riverberandosi sulle distese auree dei mosaici e tagliando la penombra dei vani laterali; un tempo accendevano di un brillìo intenso soprattutto la zona dell'altare, i cui arredi erano rivestiti d'argento e d'oro. L'intera decorazione (dalle sculture a sottile traforo ai marmi rari, che vestono con gusto pittorico pilastri e pareti) sembra assoggettata a un principio assoluto di unità delle arti, che concorrono a una qualificazione dello spazio come luce.A un centinaio di metri a N della Santa Sofia l'intervento imperiale risollevò una seconda illustre vittima della rivolta di Nika, la chiesa della Santa Irene. Nonostante i dubbi che ancora permangono sul suo aspetto originario, vi si può comunque riconoscere un autorevole esempio di integrazione fra la tradizionale formula basilicale con gallerie e il nuovo sistema di copertura a cupole e volte. Sull'invaso longitudinale si innesta, in prossimità dell'abside, una cupola su pennacchi sorretta da quattro grandi pilastri, impiegando in forma semplificata l'unità modulare a pianta quadrata tratta dal naós della Santa Sofia. Questo nucleo spaziale, che emerge in altezza e si espande lateralmente (a N, S, E) in profonde volte a botte, era preceduto da una campata più bassa, forse ancora a botte o a vela in direzione della facciata.Tuttavia in testa alle trentatré chiese che Giustiniano eresse nella capitale doveva senz'altro figurare, accanto alla Santa Sofia, un secondo edificio oggi perduto, i Ss. Apostoli, ricostruito dal 536 al 550 sulla preesistente struttura che risaliva al 4° secolo. Stando alla descrizione di Procopio (De Aed., I, 4, 9-18), si deduce che la chiesa giustinianea presentava (come quella più antica) una pianta a croce libera. Il monumentale organismo (che servì poi da modello al S. Marco di Venezia) aveva in ogni braccio tre navate con gallerie, coperte probabilmente da cupole, di cui solo quella centrale era provvista di finestre. Anche qui era utilizzata, per giustapposizione, l'unità modulare a cupola derivata dalla Santa Sofia, ripetuta quattro volte attorno all'incrocio. Lo conferma concretamente, in Asia Minore, un altro grande monumento imperiale, la chiesa di S. Giovanni a Efeso (ante 548-565), che il De Aedificiis (V, 1, 4-6) afferma essere stata esattamente ricalcata sul santuario costantinopolitano, a eccezione della maggior lunghezza del braccio occidentale. Pesanti pilastri in pietra scandivano qui la successione uniforme delle campate, separate da volte a botte, in uno spazio che doveva essere certamente di grande effetto monumentale, ma incolmabilmente lontano, nella sua rigida assialità, dal fluido dinamismo prospettico della Santa Sofia.Se questi monumenti costantinopolitani costituiscono l'avanguardia creativa del sec. 6° in fatto d'a., sia nei prototipi unici (Ss. Sergio e Bacco, Santa Sofia) sia nelle versioni che ne sperimentano in forme 'semplificate' la riproducibilità (Santa Irene, Ss. Apostoli, S. Giovanni di Efeso), a essi non corrisponde, quantitativamente, un riscontro significativo sul resto del territorio imperiale. È vero che la cupola diviene spesso il segno di distinzione degli edifici più importanti, ma, statisticamente, la maggioranza delle chiese costruite nel sec. 6° continua a essere rappresentata dalle basiliche.Dall'analisi delle singole realtà regionali emerge una mappa artistica dell'impero bizantino fortemente policentrica, in cui solide e autorevoli tradizioni locali mantengono la propria autonomia linguistica rispetto ai modelli elaborati nella capitale.In Siria, nella basilica della Santa Croce a Resafa (Ruṣ1āfa, regione dell'Eufrate), che la scoperta di un'iscrizione ha recentemente ancorato all'anno 559, si trova operante, nel sec. 6° inoltrato, una maestranza che lavora su una tipologia spaziale legata a modelli di almeno sessant'anni prima. Come nella chiesa di Qalb Lōze (seconda metà sec. 5°), sul Massiccio Calcareo presso Aleppo, anche qui l'interno a navate è scandito da tre amplissime arcate su bassi pilastri quadrangoli (rinforzate poi per motivi statici), mentre il livello del cleristorio è movimentato da un fittissimo partito a colonnine pensili di gusto classicheggiante. La facciata è affiancata dai consueti ambienti a torre, ripetuti anche a E, a serrare l'abside entro una parete rettilinea. Lo spazio, benché ritmato da alti semipilastri, è sempre unificato in senso longitudinale e, come è consuetudine liturgica della Siria, la piattaforma allungata del bema si proietta dal coro a occupare due terzi della nave centrale. La muratura, infine, segue l'esperta tecnica regionale a poderosi blocchi lapidei.Del tutto diversa è invece la situazione di Qaṣr ibn Wardān, un importante impianto militare realizzato certamente su progetto di maestranze dell'esercito tra il 561 e il 564. La piccola chiesa che fiancheggia il palazzo costituisce infatti un unicum nella regione. A impianto centralizzato con navatelle e matronei disposti a U, essa presenta un naós molto slanciato, definito da quattro arconi e coperto da una cupola in muratura su pennacchi: un dispositivo di matrice nettamente costantinopolitana, che si può considerare una versione semplificata e in scala ridotta del tema spaziale della Santa Sofia. Nonostante certi adattamenti locali nell'esecuzione del progetto (abside non emergente), anche la rara tecnica muraria a larghe fasce alternate di pietra e laterizio costituisce una sigla inequivocabilmente metropolitana.

Un quadro simile - di continuità delle tradizioni regionali con rari e caratterizzati episodi di penetrazione esterna - emerge in Anatolia, dalla Panfilia alla Licaonia, dall'Isauria alla Mesopotamia. In quest'ultima regione in particolare, nell'area del Ṭūr 'Abdīn, si consolida, sull'onda delle imprese edilizie legate alla fortificazione del limes, una ben caratterizzata scuola architettonica, che segue per le chiese tipologie del tutto proprie: ad aula longitudinale con pilastri e archi addossati alle pareti che sostengono una volta a botte (Mar Sovo a Hah); oppure a navata trasversale, sempre coperta a botte, con nartece e triplice santuario a vani quadrangolari chiusi (Mar Gabriel a Kartmin; Mar Yakub a Salah; chiesa di Ambar). La tecnica muraria, che contribuisce alla creazione di nitidi effetti stereometrici, è a grandi blocchi di pietra, le volte in laterizio.Doveva certamente apparire un'eccezione, in queste regioni di confine, la chiesa della Santa Sofia di Edessa (Urfa) nell'Osroene, costruita prima del 545-546 e oggi perduta. Da un inno della fine del sec. 6°, che ne descrive la struttura in chiave cosmologica (Mango, 1972, pp. 57-60), si ricava infatti che l'edificio era a pianta centralizzata e coperto da una cupola in muratura, che - dice espressamente il testo - non presentava "alcuna parte lignea", come invece era la norma nella tradizione siriaca. Vi era tuttavia un elemento estraneo a questa scelta fondamentalmente metropolitana: la cupola era impostata non su pennacchi ma su trombe, come ancora si può vedere nella chiesa di al-Adhra a Hah (fine sec. 6°-inizi 7°), considerata come una più tarda, anche se parziale, derivazione della Santa Sofia edessena. Anche quando risulti accertata una diretta committenza imperiale - come accade per la Palestina -, non per questo essa si traduce necessariamente in un orientamento 'moderno' nella scelta delle tipologie architettoniche da impiegare. È il caso della Nea Ekklesia voluta da Giustiniano a Gerusalemme, oggi nota solo archeologicamente e datata tra il 535-536 e il 542. L'edificio, il cui progetto - stando a Procopio - sarebbe stato inviato dalla capitale, era una tradizionale basilica a gallerie, la cui scansione a cinque navate (de' Maffei, 1988) riprendeva addirittura lo schema costantiniano del Santo Sepolcro.Con una caratterizzazione formale del tutto autonoma, il meccanismo si ripete esattamente per il monastero del monte Sinai, i cui lavori dovettero essere avviati dopo il 536. La chiesa della Theotokos, realizzata da Stefano di Ailat presso la memoria del roveto ardente di Mosè, divisa in tre navate con due basse torri in facciata, non rivela alcuna componente di gusto allogena, ma rapporti piuttosto stretti con la tradizione architettonica del vicino Negeb.Nei Balcani, ma soprattutto in Grecia e nelle isole egee, più aperti, anche per loro vicinanza, a un diretto contatto con Costantinopoli, l'assimilazione dei nuovi tipi architettonici giustinianei fu indubbiamente più precoce che altrove e fu del tutto indipendente, a quanto risulta, da interventi di committenza esterni, legati alla corte. Anzi, l'unico caso accertato di patrocinio imperiale, quello di Iustiniana Prima (Caričin Grad), la città nuova eretta nell'Illirico settentrionale sul luogo natale di Giustiniano, rivela un'impronta metropolitana solo nell'impianto urbanistico, mentre le otto chiese sviluppano, in diverse varianti, tipologie tradizionali autoctone e non.Una situazione diversa emerge invece a Filippi in Macedonia, dove, nella c.d. basilica B (ante 540), la nuova unità spaziale a cupola su pilastri si fonde con l'impianto di una basilica a transetto. Le corte navate a gallerie, fittamente ritmate dai colonnati e dalla ricca finestratura, erano coperte a volte: a botte lateralmente, con un'unica grande crociera al centro. Nel transetto due profonde imbotti controbilanciavano la cupola posta all'incrocio. Come a Costantinopoli, le pareti divisorie e le coperture sono in mattoni, i pilastri in pietra. Ma l'imponente scheletro portante è così abilmente dissimulato (i pilastri a E sono fusi esternamente con il giro dell'abside, quelli a O con la controfacciata), che l'interno primitivo doveva certamente apparire luminoso e leggero sotto l'espandersi delle volte, secondo un'originale interpretazione della nuova spazialità costantinopolitana. Altre due chiese greche, a Páros e a Gortina (Creta), sviluppano lo schema di Filippi, ampliandolo in una struttura dichiaratamente cruciforme. Probabilmente sulla scia dei Ss. Apostoli di Costantinopoli, la Katapoliani (Hekatontapyliani) a Páros (metà sec. 6°) espande attorno alla campata centrale con cupola su pennacchi quattro bracci voltati a botte, di cui tre (ovest, nord, sud) suddivisi in tre navate a gallerie. Le rovine di S. Tito a Gortina (forse fine sec. 6°) offrono invece un'originale variante del tipo, riservando la suddivisione in navate con gallerie al solo braccio ovest e combinando bracci absidati del transetto e bema in una sorta di struttura a triconco.Il nuovo linguaggio architettonico raggiungeva spesso le province dell'impero sotto forma di derivazioni parziali, di elementi singoli. È il caso dell'Africa settentrionale riconquistata da Giustiniano (534), dove compaiono con una certa frequenza le coperture a volta e, assai raramente, la cupola. Un gruppo di chiese della Tripolitania e della Tunisia è caratterizzato da un sistema misto: la navata maggiore, scandita da colonne binate, presenta un tetto ligneo, le navatelle hanno piccole volte a crociera. Nella basilica di Dāmūs al-Kharīṭa a Cartagine una cupola venne invece inserita entro un edificio preesistente. Più che nelle strutture, il gusto metropolitano si diffuse in Africa attraverso gli arredi e la scultura decorativa d'importazione, la cui massiccia presenza va forse intesa anche come segno visibile del programma giustinianeo di restauratio dell'autorità imperiale.Nonostante la messe di marmi proconnesiaci (capitelli, amboni, plutei) che ne riveste gli edifici sacri, anche la maggiore città dell'Italia bizantina, Ravenna, riconquistata nel 540, conferma sostanzialmente il quadro generale dei territori imperiali che si è venuto delineando. Se si esclude la chiesa di S. Michele in Africisco, già cominciata negli ultimi anni del regno goto, che riecheggiava con le sue ampie arcate su pilastri un tipo di matrice siriaca, l'unica vera eccezione alla radicata norma basilicale è la chiesa di S. Vitale, avviata dal vescovo Ecclesio (521-532) e consacrata dal suo successore Massimiano (547). Il complesso impianto ottagonale a doppio involucro è definito nel circuito interno da otto pilastri, collegati da esedre a trifora disposte su due piani, sui quali s'impostano l'alto tamburo e la cupola. Scomparsa la chiesa costantinopolitana di S. Giovanni all'Hebdomon che, a giudicare dai dati emersi dallo scavo, doveva rientrare in una famiglia assai prossima a S. Vitale, il confronto con i Ss. Sergio e Bacco serve a meglio definire l'originalità dell'edificio ravennate: per le proporzioni verticali e meno espanse, per l'articolazione chiara e unitaria degli spazi, elementi che nulla tolgono al suo sofisticato dispositivo prospettico e al fluido dinamismo dei volumi, perfettamente concepiti ed espressi nel linguaggio d'avanguardia della Costantinopoli giustinianea. Se, come attestano particolari tipologici e tecnici (l'adozione del tamburo, la cupola a tubi fittili), la maestranza che realizzò l'edificio fu sicuramente occidentale, nondimeno va sottolineato che essa adottò, deliberatamente, una particolare muratura, a mattoni lunghi e sottili con spessi strati di malta, more constantinopolitano (Deichmann, 1969-1989, II, 2).Tuttavia, circoscrivere la storia dell'a. del sec. 6° alla sola edilizia ecclesiastica e - come è consuetudine - a quel settore di punta che è costituito dalle chiese a cupola sarebbe senz'altro cosa riduttiva. L'a. giustinianea fu, in misura considerevole, anche un'a. pratica, a destinazione utilitaria e difensiva, dotata spesso di una fortissima valenza urbanistica. Il quadro che delinea Procopio è del resto in questo senso chiarissimo: da Costantinopoli ai Balcani all'Africa, dalla Palestina alla Siria a tutta l'Anatolia gli interventi imperiali - insoliti per quantità e impegno - moltiplicarono edifici pubblici e fortificazioni, cinte urbane, ponti, granai, cisterne, ardite opere di canalizzazione e deviazione di corsi d'acqua. Ne costituiscono esempi d'eccezione soprattutto le installazioni e le città fortificate del limes orientale, dall'Armenia al mar Rosso (Dara, Martyropolis-Silvan, Edessa-Urfa, Sergiopolis-Resafa, Zenobia-Ḥalabiyya, Palmira, ecc.), che furono la grande palestra dei migliori architetti di Giustiniano. Non è un caso, anzi, che gli unici mechanikói (architetti nel senso più alto e non semplici pratici) che Procopio espressamente ricorda risultino tutti impegnati in quest'area: da Antemio da Tralle e Isidoro da Mileto il Vecchio, che progettarono le opere idrauliche di Dara in Mesopotamia, a Crise d'Alessandria e Teodoro, attivi a Dara, per arrivare a Isidoro il Giovane che, prima di intervenire nella Santa Sofia a Costantinopoli dopo il terremoto del 558, lavorò in Siria, alle mura di Chalcis (550-551) e a quelle di Zenobia, assieme a Giovanni da Bisanzio. Quest'opera di grande riorganizzazione territoriale, le cui basi furono gettate da Anastasio (491-518), creò il presupposto non solo per un incremento dell'attività architettonica nelle aree coinvolte, ma anche per una vera e propria sperimentazione in campo urbanistico, attestata dal fenomeno delle città nuove: Ḥalabiyya, Resafa e Dara in Siria-Mesopotamia, Iustiniana Prima nei Balcani.Dell'a. civile a Costantinopoli che, stando a Procopio, contava in gran numero palazzi, ospizi, porti, ponti, vie porticate, non resta quasi traccia. Fanno eccezione le cisterne: Yerebatan Sarayı, nelle vicinanze della Santa Sofia, eretta al di sotto della basilica civile, e Binbirdirek, presso l'ippodromo. Sia la prima, di enormi dimensioni, sia la seconda presentano un impianto modulare a file parallele di campate quadrate, ricoperte da volte in laterizio sostenute da colonne. Quella di Binbirdirek, nella sua ridotta superficie, guadagna però ingegnosamente profondità per mezzo di sostegni più alti, realizzati, sempre con criterio rigorosamente modulare, raddoppiando l'unità-colonna con un rocchio centrale d'incastro.Distrutti i ponti della capitale, rimane, a non molta distanza, in Bitinia, quello fatto erigere da Giustiniano sul fiume Sangario (Sakarya), terminato nel 560 e ricordato ancora in costruzione nel De Aedificiis (V, 3, 8-11). La poderosa struttura, lunga quasi mezzo chilometro, è tutta in grandi blocchi lapidei e presenta sette arcate a pieno centro contraffortate da piloni semicilindrici. A esso doveva essere collegata un'importante stazione di controllo lungo la strada dell'Anatolia, poiché alla testa orientale si trova un edificio absidato, cui corrispondeva, a O, una porta monumentale oggi scomparsa.Tra i complessi palaziali è pervenuto in condizioni di notevole leggibilità quello - residenziale e militare a un tempo - di Qaṣr ibn Wardān in Siria (561-564), una postazione di retrovia del limes, priva di mura di cinta. Oltre alla chiesa, essa comprendeva un palazzo e una caserma, entrambi a impianto quadrato con corte centrale, realizzati eccezionalmente con una tecnica muraria di tipo costantinopolitano. Nell'ala sud del palazzo, al di sopra dell'ingresso, compare una grande sala d'udienza voltata, con pianta a triconco o quadriconco, al cui incrocio era forse collocata una cupola come nella vicina chiesa. Lo stesso schema quadrangolo con corte interna e sala triconca assiale si trova anche nella Siria meridionale, a Bosra, applicato a un palazzo episcopale dell'inizio del sec. 6°, e riappare, duecento anni dopo, nel palazzo omayyade di Mshattá.A pochi anni di distanza dalle mura anastasiane di Diyarbakır, le cinte urbane di Resafa e di Ḥalabiyya documentano l'altissimo livello tecnologico e formale raggiunto nel settore delle fortificazioni dall'a. giustinianea. A Ḥalabiyya - dove lavorò Isidoro il Giovane - l'imponente praetorium inserito lungo la cortina della città alta si presta a sintetizzare carattere e linguaggio di questi interventi. Si tratta di un nitido blocco parallelepipedo privo all'esterno di scansioni in piani, nella cui apparecchiatura lapidea si riconosce la mano quasi virtuosa dei tagliapietra siriaci. L'interno è scandito in tre livelli, ognuno di sei campate comunicanti coperte da larghe crociere. La gabbia strutturale è tutta in pietra, le volte in mattoni. Al polo opposto della Santa Sofia, esso esprime, nei termini di una geometria rigorosa, un ideale giustinianeo di funzionalismo puro.Il gran secolo era destinato però a chiudersi drammaticamente. A pochi anni dalla morte di Giustiniano la coesione territoriale dei domini bizantini cominciò a subire una serie di inesorabili colpi, che compromisero in modo definitivo l'effimera restauratio dell'impero universale: nel 568 i Longobardi discesero in Italia; negli ultimi vent'anni del secolo le popolazioni slave dilagarono nei Balcani e in Grecia; nel 632 esplose infine l'inarrestabile avanzata degli Arabi, che sottrassero ai Bizantini la Siria, la Palestina e tutta l'Africa settentrionale, fino alle coste della Spagna.Nel cupo scenario di crisi demografica, carestie e pestilenze che le fonti dipingono lungo questi decenni si registrò un forte calo della vita urbana con un tendenziale restringimento e arroccamento delle città. L'attività architettonica probabilmente si ridusse agli interventi di primaria necessità e alla riparazione degli edifici già esistenti. Rare furono le costruzioni realizzate ex novo e le poche che sono note delineano un panorama monumentale così lacunoso e incerto, quanto a fisionomia e successione cronologica, da costituire a tutt'oggi una vera e propria questione aperta.Nell'edilizia sacra emerge comunque, come linea-guida, la crescente preferenza per uno schema architettonico che tende a concentrare lo spazio attorno al nucleo mediano, al di sotto della campata a cupola, secondo i concetti più innovativi dell'a. giustinianea.A un impianto sostanzialmente affine, a croce inscritta, appartiene una serie di edifici, quasi tutti in territorio anatolico, il cui inquadramento e i cui reciproci rapporti risultano però problematici da valutare, a causa della perdita di alcuni esemplari. Si tratta (e si ricordano qui i monumenti maggiori) della chiesa della Dormizione di Nicea, del S. Clemente di Ankara, del S. Nicola di Myra e della Santa Sofia di Salonicco. Nell'ambito del gruppo, quest'ultima potrebbe candidarsi al ruolo di unico exemplum datato, sulla base dei mosaici che vi furono fatti eseguire da Irene e Costantino VI (780-797). Nulla impedisce, tuttavia, che la decorazione sia stata realizzata su di una struttura più antica. L'edificio, che è articolato in un naós cruciforme a cupola con le navate laterali inserite in una sorta di dispositivo a U, sembra vicino per molti aspetti al tipo della basilica cupolata del sec. 6°, come la Santa Irene di Costantinopoli o (nella forma accentrata) la piccola chiesa di Qaṣr ibn Wardān. Ma le proporzioni pesanti, il tipo di muratura, la ridotta illuminazione dell'interno inducono a orientarsi verso una datazione avanzata, forse all'inizio dell'8° secolo.La Dormizione di Nicea, studiata e documentata fotograficamente prima della distruzione avvenuta nel 1922, è oggi ridotta al tracciato basamentale e a pochi frammenti della decorazione. La chiesa originaria aveva un naós cruciforme, individuato da quattro grossi pilastri, e navatelle sovrastate da gallerie. Ma occorre ricordare che fu anche oggetto, dopo il terremoto del 1065, di un cospicuo restauro che interessò la cupola, i timpani e il nartece. Pur con tutti i limiti del caso, la tecnica muraria, lo stile della scultura decorativa e dei mosaici del bema, infine un recente riesame dell'originario programma iconologico dell'abside sembrano convergere verso una datazione del monumento alla fine del 6° secolo. In questo caso la chiesa della Dormizione verrebbe ad attestare l'esistenza - in qualità di capostipite e in età immediatamente postgiustinianea - di un tipo architettonico che fu quello preferenzialmente adottato nei due secoli successivi.Una data preiconoclasta, tra la fine del sec. 6° e l'inizio del 7°, è stata attribuita, in base alla scultura architettonica, anche alla chiesa di S. Clemente ad Ankara, distrutta nel 1921. Ma la tecnica muraria ad alti letti di malta potrebbe anche suggerirne un decisivo spostamento cronologico verso il 9° secolo. L'edificio, piccolo ma elegante, era in linea generale strutturalmente vicino alla Dormizione di Nicea, ma ne differiva per il sistema d'imposta della cupola, su trombe anziché su pennacchi.Dubbi altrettanto consistenti permangono, nonostante la sua sopravvivenza fisica, sulla chiesa di S. Nicola a Myra, sulla costa meridionale dell'Asia Minore. La complessa pianta dell'edificio, con due cappelle mortuarie sul fianco meridionale e numerosi annessi, si spiega con la sua funzione di frequentatissimo centro di pellegrinaggio, ripetutamente restaurato nel corso dei secoli. La struttura, forse originaria del sec. 6°, dovrebbe risalire nella sua veste attuale all'8° (Peschlow, 1975), ma con la traccia di cospicui interventi, non solo decorativi, a metà dell'11° secolo.Sia o no una creazione della capitale (indurrebbe a pensarlo Nicea, il testimone più antico del gruppo, vicinissima a Costantinopoli), sta di fatto che il tipo di chiesa con naós cruciforme cupolato determinò, con il suo attestarsi, il definitivo tramonto della basilica, non più corrispondente ormai alle nuove esigenze pratiche e simboliche della liturgia postgiustinianea, segnando una tappa di grande importanza nella formazione della struttura classica dell'edifico sacro mediobizantino. Nel periodo tra la fine del sec. 6° e la fine dell'8°, che - a onta della frammentarietà delle informazioni - dovette corrispondere a una fase di effettiva crisi nella storia architettonica di Bisanzio, la leadership creativa passò all'Armenia (v.), che nel sec. 7° divenne il maggiore centro di elaborazione di forme e tipologie edilizie di tutto l'Oriente cristiano.Periodo mediobizantino. - La prima metà del sec. 9° vede il definitivo assestarsi nel Mediterraneo di una situazione di mutato equilibrio: gli Arabi, veri depositari dell'eredità romana, dominano immensi territori dall'Iran alla Spagna, in cui si sviluppa una splendida civiltà urbana. L'impero bizantino invece, pur vivendo una fase di nuova ascesa, è ristretto di fatto all'Asia Minore, alla Grecia e alle remote province della Crimea e dell'Italia meridionale e vive in un regime di stato rurale con un'unica grande metropoli che detiene il monopolio quasi esclusivo della cultura e della produzione artistica.L'ultimo sovrano iconoclasta, Teofilo (829-842), eresse, a quanto pare, soprattutto palazzi e incoraggiò una moda orientalizzante che traeva impulso da un dialogo assai stretto con l'arte musulmana. Non lo attestano solo i prodigiosi automi che l'imperatore fece realizzare sull'esempio di analoghi congegni esistenti a Baghdad, ma anche i resti della residenza che egli si fece costruire a Bryas, un sobborgo asiatico di Costantinopoli. Questo grande edificio, di cui ancora esistono le sostruzioni, sarebbe stato costruito dopo l'830, su suggerimento di un ambasciatore che persuase Teofilo a imitare le fastose regge abbasidi (Eyice, 1959). Era costituito da un ampio recinto rettangolare, compatto e rigorosamente assiale, e aveva al centro del cortile una chiesa a triconco "di grande bellezza ed eccezionale misura" (Teofane Continuato; Mango, 1972, p. 160). Un altrettanto spiccato carattere islamizzante dovevano avere anche gli interventi voluti dal sovrano nel palazzo di Costantinopoli, in cui vennero costruite numerose strutture a padiglione, minuziosamente descritte un secolo più tardi da Costantino Porfirogenito. Le loro fantasiose denominazioni (triclinio della Perla, sala dell'Amore, cubicolo dell'Armonia) evocano effettivamente l'Islam favoloso di Hārūn al-Rashīd e lasciano immaginare una struttura palaziale non ordinata a blocchi assiali, ma a molti vani autonomi distribuiti in cortili, terrazze e giardini.

La sconfitta degli iconomaci nell'843 e il trionfo dell'ortodossia vennero a coincidere con una serie di successi militari e politici che conferirono nuova autorità a Bisanzio: da un lato la vittoria sull'emiro di Melitene (863) diede un nuovo corso ai rapporti con gli Arabi, dall'altro la conversione dei Bulgari al cristianesimo (864) trasformò un nemico potenzialmente pericoloso in un alleato culturalmente e religiosamente dipendente.I termini néos, kainós, kainúrghios, allusivi a un concetto di rinnovamento o, per meglio dire, di restauratio (Mango, 1974), ricorrono frequentemente negli scritti del tempo. Fozio fu il portavoce di quest'idea; più tardi la fece sua un grande sovrano, Basilio I (867-886), che la tramutò operativamente in un programma che fu anche un programma di restauro dell'edilizia sacra. La Vita Basilii (Mango, 1972, pp. 192-199) menziona l'intervento imperiale in venticinque chiese della capitale e in sei dei sobborghi, nonché la costruzione ex novo di otto di esse all'interno del Grande palazzo. Tra queste era la celebre Nea Ekklesia, dedicata nell'880 e smantellata alla fine del sec. 15°, che fu con ogni probabilità il modello di gran parte dell'a. sacra mediobizantina. Dalle fonti medievali, che ne descrivono con ammirata partecipazione la straordinaria ricchezza, si ricava che essa sorgeva al di sopra di una sostruzione, che era coperta da cinque cupole e che aveva probabilmente pianta a croce greca. Il corpo principale dell'edificio era preceduto da un atrio con fontane, mentre a N e a S l'affiancavano due portici voltati a botte.Se l'adozione della struttura a quinconce in questo celebre monumento può aver contribuito in modo determinante alla sua diffusione, che divenne da allora in poi capillare, il titolo di capostipite della tipologia che viene comunemente assegnato alla Nea di fatto non ha basi sicure. Molti esempi di una conoscenza precoce di questo schema sia in Oriente (Fatih Cami a Trilye, forse 780-813) sia in Occidente (oratorio di Germigny-des-Prés, dopo l'800; S. Satiro a Milano, 868; ecc.) sollevano infatti la questione se esso sia nato a Costantinopoli prima della Nea di Basilio I, diffondendosi poi nelle province, o se piuttosto non sia approdato dalle province alla capitale all'epoca in cui la Nea fu costruita (Krautheimer, 1965). Facendo perno sulle dimensioni ridotte, che sono una caratteristica costitutiva di questi edifici fin dalle origini, Mango (1974) ha supposto che la tipologia sia nata in ambito monastico, in funzione di un numero modesto di fedeli. Ciò troverebbe conferma nella precoce comparsa dello schema a croce inscritta con cupola su quattro colonne in un gruppo di chiese della Bitinia (monasteri di Pelekete e Megas Agros e Fatih Cami a Trilye), la regione che fu la culla del monachesimo bizantino durante la lotta per le immagini.Rispetto a tre secoli prima la committenza imperiale aveva subìto un sostanziale cambiamento: le opere promosse da Giustiniano erano soprattutto monumenti pubblici, quelle volute da Teofilo e Basilio I - fatta eccezione per i restauri a strutture preesistenti, come le mura di Costantinopoli - sono quasi esclusivamente destinate all'élite di corte. Questo tipo di mecenatismo ispirò da allora in poi - come un modello normativo - anche le scelte dei committenti minori. Nel campo dell'edilizia religiosa ciò determinò il netto prevalere di fondazioni private, segnatamente monastiche, favorito da quel fenomeno che nel sec. 11° assunse la forma istituzionale della charistiké. I monasteri cioè venivano affidati a ricchi benefattori laici, che ne amministravano le proprietà incassando l'eccedenza dei profitti, ne potevano trasmettere ereditariamente beni e privilegi, godevano infine del diritto a usufruirne come luogo di ritiro e di sepoltura (Lemerle, 1967). Il rapporto con i ricchi benefattori determinò nell'istituzione monastica un caratteristico fenomeno di integrazione sociale: l'inurbamento. Da una parte divennero sempre più frequenti le nuove fondazioni intra moenia (a portata di mano dei loro protettori), dall'altra i maggiori monasteri di provincia ebbero nella capitale delle metochíe, cioè delle dipendenze.Perdute le chiese fatte costruire da Basilio I nella seconda metà del sec. 9°, occorre arrivare al primo ventennio del 10° per imbattersi nei primi due monumenti mediobizantini della capitale: la chiesa settentrionale del monastero di Costantino Lips (Fenari Isa Cami), inaugurata dall'imperatore Leone VI nel 907, e quella del Myrelaion (Bodrum Cami) del 920 ca., entrambe a croce inscritta con cupola su pianta a quattro colonne.Nel monastero di Lips, il blocco dell'edificio si espande a E con due cappelle annesse, le cui absidi si allineano a quelle del santuario. La torre scalare che affianca la facciata conduceva a un secondo piano, sul quale si trovano la galleria del nartece e, ai quattro angoli dell'edificio, quattro piccoli oratori cupolati, collegati tra loro solo esternamente per mezzo di un passaggio pensile. Le loro cupole svettanti sui tetti componevano in origine con la calotta centrale un dispositivo a quinconce che apparentava strettamente la chiesa alla Nea di Basilio I. L'interno, che ruota attorno al naós con vani piccolissimi e slanciati (stupendi gli altissimi pastofori scavati da nicchie multiple), doveva essere un tempo luminosissimo: soprattutto in corrispondenza dei bracci nord e sud, dove le grandi trifore sormontate da lunettoni creavano quasi un effetto di diafania parietale. Stando ai materiali ancora in situ e a quelli rinvenuti frammentari, la decorazione architettonica e l'arredo liturgico dovevano essere ricchissimi, come si conveniva al prestigio del committente: l'alto ammiraglio Costantino Lips. Mosaici, sculture con motivi di ascendenza sasanide, piastrelle smaltate islamizzanti, rivestimenti marmorei con icone a intarsio dovevano comporre un insieme cromaticamente sontuoso: un sistema decorativo tipicamente costantinopolitano, imitato a breve distanza di tempo nel maggior edificio del primo regno bulgaro, la rotonda di Preslav.Di committenza ancora più alta, direttamente legata alla persona dell'imperatore, è la chiesa del Myrelaion, annessa alla residenza di Romano I Lecapeno. Come la Nea di Basilio, essa è costituita da un organismo doppio, con una sottostruttura che ripete la scansione a quattro colonne del vano superiore. Un camminamento scoperto su mensole - analogo a quello di Fenari Isa Cami - correva a mezz'altezza e probabilmente serviva a collegare la chiesa al palazzo, mutato più tardi in monastero. Costruito interamente in laterizio con spessi letti di malta, questo monumento rappresenta un eccezionale punto d'arrivo nelle ricerche architettoniche della prima età macedone. Le soluzioni spaziali sperimentate quasi in vitro nei pastofori della chiesa di Lips giungono a comporsi qui in un organico sistema. La nuova idea-guida è quella dell'interazione volumetrica tra interno ed esterno, che si riflette nella modellazione delle pareti perimetrali, non più concepite come semplici piani-limite. Sui fianchi del nartece, le nicchie curve dell'interno si proiettano all'infuori formando tese superfici convesse tra gli alti piloni cilindrici. Nella cupola, articolata internamente a ombrello, la struttura si irraggia all'esterno con una serie di contrafforti triangolari che sono la risultante di una elaborata intersezione di figure solide. Come dimostrano anche gli speciali mattoni curvi appositamente fabbricati per realizzare i contrafforti, il Myrelaion rappresentò un cantiere d'avanguardia, in cui nuove soluzioni tecniche vennero messe a punto per obbedire a un nuovo concetto spaziale.Un monumento singolare, che per una sorta di attrazione tipologica è stato sempre assimilato al gruppo più antico delle chiese a croce con cupola, si trova a Dere Ağzı in Asia Minore. Del tutto privo di documentazione, questo edificio di considerevoli proporzioni, che sorge in posizione isolata nell'entroterra della Licia, può forse essere stato un luogo di pellegrinaggio. La struttura, oggi in rovina, corrisponde a una basilica cruciforme cupolata a gallerie, con bema assai profondo e campata d'incrocio innestata verso l'inizio della navata. A N e a S si affiancano alla chiesa due cappelle ottagonali a cupola. La spazialità ampia e l'impiego di una tipologia architettonica di origine giustinianea (Santa Irene) conferiscono al monumento una fisionomia apparentemente arcaica. Ma certe caratteristiche costruttive e certi dettagli lessicali sono già tipicamente mediobizantini: le cupole a ombrello, i pastofori scavati da nicchie come nella chiesa di Costantino Lips e nel Myrelaion, infine l'articolazione delle pareti esterne per piani scalati in profondità (Morganstern, 1983). A una collocazione cronologica all'inizio del sec. 10° conduce del resto anche l'analisi degli scarni residui in scultura e mosaico dell'originaria decorazione interna. Tutti questi elementi, che risultano un'eccezione nel panorama regionale, attribuiscono alla chiesa il carattere di un vero e proprio inserto metropolitano, realizzato forse da maestranze inviate da Costantinopoli. Quanto all'adozione di una tipologia grande, ormai in disuso nella capitale, si potrebbe spiegare con un'esigenza di fedeltà a un precedente locale.Parallela, e in parte intrecciata, con la fase iniziale dell'a. macedone a Costantinopoli fu la fioritura edilizia del primo regno bulgaro (864-969). La cronologia dei monumenti più importanti realizzati nelle antiche capitali di Pliska e Preslav è però a tutt'oggi materia di controversie. La vasta basilica extra moenia messa in luce a Pliska, a tre absidi poligonali, con lungo atrio colonnato, eretta con materiale di spoglio e scandita irregolarmente da colonne e pilastri, è stata datata alternativamente al 6° o al 9°-10° secolo. Di un'analoga oscillazione cronologica è stato oggetto anche il più illustre monumento bulgaro, la rotonda di Preslav, la nuova capitale dello zar Simeone (893-927). Essendo situato al di fuori della cittadella contenente il palazzo, non è certo che quest'edificio, di dimensioni alquanto ridotte (diametro m. 15), possa essere stato effettivamente una cappella palatina. Il muro d'ambito dodecagonale è movimentato da nicchie radiali e da un'abside semicircolare sporgente. Un anello di colonne forma, a ridosso delle nicchie, uno stretto ambulacro, sovrastato in origine da una galleria. Lo spazio centrale era coperto a cupola. A O sporgeva un avancorpo rettangolare con due torri scalari rotonde che conducevano alla loggia superiore e alle tribune. Infine alla facciata di quest'avancorpo si saldava un atrio a colonne con nicchie a muro. Come è emerso dagli scavi, l'apparato decorativo interno comprendeva colonne intarsiate nelle gallerie, piastrelle smaltate sulle pareti, mensole e cornici riccamente scolpite. Il ritrovamento di questi materiali, così affini per gusto a quelli della chiesa nord di Costantino Lips, sembra confermare l'attribuzione dell'edificio all'inizio del sec. 10°, anche se è stato ipotizzato che essi possano risalire a un intervento di restauro effettuato su un preesistente edificio del 6° secolo. È vero che questa tipologia architettonica non ha possibilità di riscontro diretto in monumenti noti, ma non va dimenticato che Basilio I aveva eretto una chiesa simile dedicata al profeta Elia nel Grande palazzo, descritta dalle fonti come un edificio circolare con ambulacro e sette bémata (cori).Gli anni del regno di Basilio II (976-1025) segnano l'apice del movimento di risalita dell'impero greco medievale: a oriente erano state saldamente riconquistate le regioni più remote, dall'Armenia alle coste della Siria; a occidente, dopo la sconfitta dei Bulgari, la frontiera era ritornata a toccare il Danubio e la penisola balcanica era tutta nuovamente bizantina. Le cospicue risorse accumulate nelle casse dello stato non furono però investite dal sovrano in grandi progetti: al suo nome non risulta anzi legata alcuna impresa architettonica. Fu soprattutto con i suoi successori, nel cinquantennio che giunge fino all'irruzione selgiuqide in Asia Minore (1071), che si esplicò una delle stagioni più creative della storia architettonica di Bisanzio. Purtroppo le grandi fondazioni imperiali di Costantinopoli sono andate tutte perdute e la loro scomparsa segna un vuoto difficilmente colmabile per la comprensione dei rapporti intercorsi tra la capitale e le altre regioni dell'impero.Un caso di eccezionale densità monumentale è costituito dalla Grecia e dalle sue isole. Nella zona settentrionale, in Macedonia, il centro-guida fu Salonicco, tradizionalmente una delle città più legate alla capitale. La chiesa della Panaghía ton Chalkeon, dedicata nel 1028, mostra infatti evidenti rapporti con l'a. costantinopolitana del principio del secolo precedente, soprattutto per la scelta dell'impianto. Ma, se paragonata al Myrelaion, ne emerge il carattere di versione semplificata del modello metropolitano. All'esterno, certi elementi, come i contrafforti semicilindrici, sono impiegati quasi come semplici citazioni lessicali, mentre la complessa articolazione volumetrica di partenza è tradotta in una struttura parietale ad arcate scalate in profondità con effetto essenzialmente grafico. Una novità interessante è rappresentata invece dai timpani curvilinei e triangolari che movimentano la sommità dell'edificio, sottolineati da dentellature multiple. Se nulla si sa dell'a. a Salonicco dopo la Santa Sofia e prima della Panaghía ton Chalkeon, è certo comunque che la pianta a croce greca inscritta su quattro colonne era stata importata in Grecia dalla capitale già alla metà del sec. 10°, nella chiesa della Theotokos a Hosios Lukas nella Focide. Costruita prima dell'adiacente katholikón, essa presenta, soprattutto nel trattamento esterno, caratteristiche che divennero da allora in poi tipiche di quella che già Millet (1916) individuò come un'autonoma école grecque. La muratura è realizzata infatti con una tecnica a cloisonné, che apparecchia i singoli blocchi incorniciandoli orizzontalmente e verticalmente con filari di mattoni semplici o doppi, che creano sulle pareti un vibrante reticolo rosso a contrasto con il bianco della pietra. Ne arricchiscono e variano la tonalità cromatica specchiature marmoree a bassorilievo attorno alle finestre, fregi dentellati e inserti di motivi cufici. Questi ultimi, destinati a divenire un originale Leitmotiv dell'a. greca, è incerto se siano il frutto di un contatto diretto con il mondo islamico (Bouras Filippides, 1977-1979) o se non siano stati piuttosto introdotti in Grecia con la mediazione di Costantinopoli (Grabar, 1971).

Contemporaneamente in Grecia settentrionale, negli insediamenti dell'Athos, si elaborava un modello del tutto particolare di chiesa monastica. L'esempio forse più antico va riconosciuto, nonostante i rimaneggiamenti, nel katholikón del monastero della Grande Lavra, fondato nel 961 da s. Atanasio. Attorno al nucleo centrale quadrato a croce inscritta si dilata un triconco, mentre una cupola su pilastri corona il naós. Due cappelle, anch'esse cupolate, su pianta a quattro colonne, fiancheggiano il profondo nartece trasversale (lité), riservato a speciali funzioni liturgiche (Babić, 1969, pp. 44-55). Questo stesso schema, le cui origini sono discusse e che presenta suggestive affinità con il S. Andrea di Peristerai (870-871), ritorna, forse a non molti anni di distanza, anche nelle chiese dei monasteri di Vatopedi e di Iviron.La Grande Lavra e, insieme a essa, anche altri monasteri dell'Athos e della Grecia mediobizantina, costituiscono un patrimonio monumentale molto significativo anche per la definizione del tipo classico dell'impianto monastico orientale. Una cinta fortificata rettangolare (Hosios Meletios e Sagmata in Beozia) o di andamento trapezoidale (Grande Lavra) racchiude una vasta corte, al centro della quale sorge isolata la chiesa. Lungo i muri di cinta corrono i servizi (botteghe, magazzini, stalle) e le celle dei monaci, spesso scalate su più piani in lunghe file rivolte verso la corte. Un lato del rettangolo, sovente di fronte alla chiesa, è occupato dal refettorio (trápeza), che può anche costituire un corpo di fabbrica a sé (Grande Lavra). A sala longitudinale absidata, semplice o con transetto, talvolta diviso in due navate o con le pareti movimentate da nicchie, il refettorio costituisce a suo modo una tipologia architettonica palaziale di grande interesse, le cui origini rimontano ai triclinia imperiali di Costantinopoli (Krautheimer, 1965; Mylonas, 1987).Il ricco paesaggio architettonico greco registra, in una serie di monumenti che si datano a partire dal 1040 ca., la presenza di una terza originale famiglia architettonica: quella delle chiese a cupola, su trombe, con imposta ottagona. Strutturalmente si possono dividere in due classi; nella prima rientrano gli edifici più semplici, in cui l'ampia cupola va direttamente a poggiare sui muri perimetrali del naós a pianta quadrata; nella seconda rientrano gli organismi più complessi, il cui nucleo centrale è avvolto da una serie di vani sussidiari, sempre compresi in un perimetro quadrangolare.Il tipo semplice è pervenuto in pochi esemplari, di cui il più antico è il katholikón della Nea Moni a Chio. Fondato dall'imperatore Costantino Monomaco (1042-1055), esso è il frutto di un intervento diretto di maestranze costantinopolitane, responsabili sia dell'aspetto architettonico (da notare la muratura a mattone arretrato) sia della ricchissima veste decorativa di mosaici e sectilia. Da un doppio nartece (il più esterno biabsidato) si accede al naós su pianta quadrata, scandito verticalmente da colonnette gemine. Le pareti, articolate in tre ordini sovrapposti, sono modellate in basso da nicchie piatte a sesto ribassato, nella zona mediana da nicchie curve, più strette e profonde agli spigoli, coronate a loro volta al terzo ordine da otto trombe. Queste ultime creano la base ottagona su cui si imposta la larga e bassa cupola emisferica. L'alternanza di superfici rettilinee e ondulate, la ricerca di un effetto di elastica tensione parietale, negli archi che si piegano sotto il primo cornicione o nelle nicchie che si comprimono agli spigoli, conferiscono a quest'interno un'impronta 'barocca' estranea al geometrico rigore dello schema a croce inscritta. Dal prototipo metropolitano della Nea Moni prende le mosse nella stessa Chio una ben precisa discendenza architettonica che si dirama anche in un gruppo di chiese di Cipro (Bouras, 1977-1979).Il tipo complesso di chiesa greca a cupola su trombe può essere esemplificato attraverso due monumenti-chiave del sec. 11°, il katholikón di Hosios Lukas e quello di Dafni, ma ha una diffusione e una durata che - passando per la chiesa di Christianu (ante 1086), la Panaghía di Licodemo ad Atene (1044), la Santa Sofia di Monemvasia (inizio sec. 12°), S. Nicola sul lago Copais (metà sec. 12°) - arriva in età paleologa fino agli Haghioi Theodoroi di Mistrà (1290-1295).

Nell'ambizioso katholikón di Hosios Lukas, costruito certamente entro la prima metà del secolo, il quadrato centrale costituisce un alto e vasto vano unitario, individuato da un sistema di pilastri a L e coronato dalla cupola su trombe. Una cintura di vani sussidiari (navate, gallerie, pastofori), disposti su doppio livello e coperti da cupolette o crociere, serra all'intorno questo nucleo centrale. I quattro bracci della croce che si dipartono dal naós trapassano però a tutt'altezza navate e gallerie, fino ai muri perimetrali, schermati al piano terra solo da una triplice arcata. Il complesso intreccio di elementi alti e bassi, l'interferenza tra spazio centrale unico e vani collaterali studiatamente ridotti e suddivisi, il sottile gioco di schermi e fonti luminose esaltato dai mosaici e dalle crustae multicolori creano una dimensione interna suggestiva e percettivamente dinamica. L'esterno, che presenta una trama a cloisonné irregolare, ha una consistenza muraria leggera, soprattutto nell'ordine più alto, dove le ampie bifore e trifore lunettate disegnano sulle pareti il loro profilo ondulato.A Dafni, verso il 1080, questo stesso schema strutturale è interpretato già in forme nuove, tipiche poi della fase classica dell'a. mediobizantina in Grecia (fine sec. 11°-primi decenni del 12°). Nel paramento murario il cloisonné assume l'andamento di una tessitura regolare, con un solo mattone di incorniciatura e rari inserti cufici. All'esterno i volumi delle absidi, dei bracci della croce e della cupola si saldano nitidamente tra di loro, bilanciandosi con un superbo senso delle proporzioni. All'interno, a differenza di Hosios Lukas, la cintura di vani attorno al naós è a ordine unico, senza più gallerie, come è consuetudine nei monumenti più tardi del tipo. I rapporti spaziali sono dunque improntati a un concetto di alta leggibilità, sottolineata dall'eliminazione dei diaframmi. Anche la pianta, che a Hosios Lukas presentava un'articolazione interna più irregolare e spezzata, diviene a Dafni rigorosamente modulare.La chiesa a cupola su trombe angolari, così autorevolmente attestata in Grecia, è stata a lungo ritenuta il frutto di un rapporto con l'Armenia, ma - come ha dimostrato Mango (1973) - questo tipo architettonico deve essere giunto in Grecia mediato da alcune grandi fondazioni imperiali di Costantinopoli oggi perdute (chiesa del Salvatore alla Chalké, S. Giorgio di Mangana), il cui riflesso è visibile anche, in piccola scala, nella Panaghia Kamariotissa di Chalki (sec. 11°) nei pressi della capitale. Gli scavi (1922-1923) del più importante di questi edifici, il S. Giorgio di Mangana, voluto da Costantino Monomaco (1042-1055), hanno rivelato un'originaria pianta a croce greca inscritta, in cui il naós è individuato da quattro pilastri monumentali che si incurvano verso il centro, presupponendo in alzato una conclusione a trombe angolari. Questa caratteristica strutturale dell'interno, così come il profilo a fascio dei semipilastri delle pareti dell'atrio, sottintendono un contatto di prima mano con l'a. armena più recente, forse avvenuto attraverso Trdat, l'autore della cattedrale di Ani (988-1000), che fu chiamato a Costantinopoli per riparare l'arcone occidentale e la cupola della Santa Sofia, danneggiati nel terremoto del 989.L'universale diffusione del tipo metropolitano a croce inscritta è attestata anche all'interno dell'Anatolia, in zone legate fino ai secc. 9°-10° a una loro tenace tradizione autoctona, sia nella massiccia tecnica costruttiva lapidea sia nella fedeltà a planimetrie arcaiche. Caratteri costantinopolitani rivelano le poche costruzioni non rupestri che sono sopravvissute per il sec. 11°: la Çanlıkilise ai piedi dello Hasan Dağ (a S-O di Kayseri) e la chiesa di Üçayak presso Kirşehir. Entrambe presentano una pianta a quinconce contratto, ma con pilastri al posto delle colonne. La muratura laterizia con letti di malta eccezionalmente alti riecheggia la tecnica del mattone arretrato, rivelando decisamente il suo carattere d'importazione. La medesima tipologia spaziale si ritrova ampiamente diffusa anche nell'a. rupestre della Cappadocia, soprattutto nell'11°-12° secolo. In un caso almeno, quello della Elmalı Kilise di Göreme, lo strato più antico di pitture murali indurrebbe però ad assegnare la struttura forse alla seconda metà del sec. 9°, con una datazione che potrebbe contestare il ruolo di capostipite che comunemente si attribuisce alla Nea Ekklesia di Basilio I. Rispetto all'a. costruita, tuttavia, la traduzione rupestre implica generalmente un libero adattamento spaziale dei singoli elementi: le campate diventano tutte di uguali dimensioni e così pure le cupole, che in un caso vanno anche a coprire irrazionalmente i bracci della croce.Il prestigio politico e culturale di Bisanzio, così alto nei paesi slavi al tempo di Basilio II, ebbe un ulteriore incremento con la conversione al cristianesimo del principe Vladimiro I di Kiev (989). Fino ad allora non esistevano in Russia edifici in muratura, ma presumibilmente solo in legno e terra. L'introduzione dell'a. (e della pittura) bizantina si configurò quindi come un fenomeno d'importazione, veicolo di un programma politico che mirava alla creazione di veri e propri monumenti dinastici, modellati su quelli di Costantinopoli. A croce greca inscritta, con muratura in laterizio a corsi alternatamente arretrati e pavimentazione in opus sectile, fu la prima chiesa di Kiev, quella della Decima (Desjatina), annessa al palazzo di Vladimiro. Compiuta nel 996, ma distrutta dai Tartari nel 1240, è nota oggi solo archeologicamente. Jaroslav I il Saggio, che estese di ca. sei volte la capitale del principato, eresse tra il 1037 e il 1040-1050 la grande chiesa episcopale della Santa Sofia, destinata a divenire la sede del metropolita di Russia. Essa presenta un nucleo a croce greca e una struttura amplificata, a cinque anziché a tre navate, concluse a E da cinque absidi. Le navate esterne nord e sud e la zona di facciata a esse collegata sono sormontate da una tribuna. L'interno, scandito da dodici pilastri cruciformi, è coperto da una selva di cupole e rivestito di mosaici e affreschi. Alla fine del sec. 11° sull'ambulacro esterno fu inserita una nuova galleria, servita da due torri scalari d'accesso in posizione asimmetrica. Nonostante gli adattamenti alla situazione locale, l'edificio rivela caratteri non solo bizantini ma prettamente metropolitani, evidenti specialmente nella veste decorativa. È sintomatico come l'architetto risolva il problema delle grandi dimensioni imposto dalla committenza: abituato a lavorare in scala più piccola, egli di fatto non ingrandisce oltre una certa misura (peraltro considerevole) la proporzione dei singoli elementi strutturali, ma procede per moltiplicazione di nuclei spaziali. In questo senso risulta dunque superfluo sapere se a Costantinopoli esistesse già, in età macedone, un analogo edificio a cinque navate scelto eventualmente a modello. Basti ricordare che una suggestiva terminazione corale a cinque absidi si poteva trovare nella chiesa di Costantino Lips e che pilastri in pietra profilati a fascio sono noti archeologicamente nel S. Giorgio di Mangana, senza dover necessariamente postulare per la chiesa di Kiev influssi caucasici od occidentali. La vasta attività edilizia promossa da Jaroslav a Kiev (palazzo episcopale, S. Giorgio, monastero di Santa Irene, porta d'Oro) richiese ovviamente l'addestramento di maestranze locali specializzate, educate da artefici bizantini. A esse si deve la costruzione delle altre chiese del sec. 11° realizzate nel principato, in cui il tipo-base importato, a croce inscritta, viene impiegato in diverse varianti (il Salvatore a Černigov, 1036 ca.; Santa Sofia di Novgorod, 1045-1050; ecc.). Nell'arco di tempo che va dal 990 al 1070 ca. si attua e si conclude l'unica grande 'trasfusione' (Mango, 1974) di forme bizantine in Russia. Da allora in poi venne messo a punto un vero e proprio stile nazionale, che (a differenza di quanto accadde nella pittura) non cercò più nessun tipo di aggiornamento sulle nuove ricerche condotte a Costantinopoli. Già quando il principe Andrea Bogoljubskij (1157-1174) volle superare Kiev, cercando di fare di Vladimir la prima città della Russia, non intese imitare più monumenti bizantini antichi o moderni. Le coordinate risultano ormai decisamente spostate verso l'Occidente, come dimostra la chiamata in Russia anche di maestri di provenienza tedesca, probabilmente renani (Lazarev, 1974; Faensen, 1982).Dopo la disastrosa sconfitta di Manzikert (1071), che segnò per i Bizantini la perdita della zona orientale dell'Asia Minore, il compito di ricostruire l'impero toccò alla dinastia dei Comneni (1081-1204). La base del loro potere era soprattutto nell'aristocrazia militare delle province, un elemento che indubbiamente consolidò nella società bizantina tendenze quasi feudali. Delle dimore della nobiltà, che le fonti descrivono vastissime, non resta nulla, ma si sa che non rifuggivano talvolta da lussuose connotazioni esotiche. È il caso del Mouchroutas, il grande edificio in stile selgiuqide costruito a metà del sec. 12° nel palazzo di Costantinopoli, provvisto di cupole decorate a muqarnas (stalattiti) e rivestito di maioliche policrome (Nicola Mesarite; Mango, 1972, pp. 228-229).Solo l'edilizia religiosa ha conservato una concreta testimonianza del mecenatismo dei Comneni e del gusto metropolitano nel tardo 11° e del 12° secolo. Dal punto di vista delle ricerche strutturali l'impulso sperimentale dell'età macedone è però definitivamente tramontato; gli architetti sembrano anzi respingere le tipologie più ricche di sviluppi elaborate nel secolo precedente (chiesa a cupola su trombe e imposta ottagona) per tornare ad adottare la struttura a quattro colonne del 10° secolo. Gli unici caratteri di autentica individualità si possono riconoscere nella maggiore ricchezza della veste decorativa, nell'agilità dei supporti, nella sfaccettatura multipla di cupole e absidi, nei partiti a nicchie che ne scavano e movimentano i paramenti esterni. Il monumento emblematico dello stile comneno a Costantinopoli è il grande monastero imperiale del Pantokrator (Zeyrek Kilise Cami). Perduti gli edifici annessi - un ospedale, un ospizio per vecchi e un bagno - restano le tre chiese giustapposte: a S il katholikón vero e proprio, dedicato al Cristo; a N la chiesa della Vergine Eleusa; al centro il mausoleo imperiale, definito heróon nell'atto di fondazione, dedicato a s. Michele. La prima costruzione si deve all'imperatrice Irene (1118-1124), le ultime due a Giovanni II (ante 1136). Nella chiesa meridionale, che è il più vasto e arioso esemplare a quattro colonne della capitale, il naós era originariamente fiancheggiato da due gallerie laterali, di cui resta solo quella sud, mentre quella nord deve essere stata smantellata al momento dell'erezione del contiguo mausoleo. Come suggeriscono i resti di crustae marmoree e lo straordinario pavimento in opus sectile, la decorazione originaria doveva essere sfarzosa. E ne accrescevano certamente la suggestione i vetri istoriati delle finestre, trovati frammentari, che hanno restituito (assieme a quelli della fase comnena della Kariye Cami) un aspetto del tutto inatteso del décor interno bizantino del 12° secolo. Benché gravemente compromessa nella raffinata tessitura laterizia, la fronte orientale del Pantokrator costituisce - con la sua selva di cupole e l'ondulato succedersi delle absidi - uno degli esiti più scenografici dell'edilizia comnena, dentro e fuori Costantinopoli.Nell'ultimo terzo del sec. 12°, il territorio nordoccidentale dei Balcani, a S di Belgrado, fino al confine greco e all'Adriatico, si unì sotto Stefano Nemanja (1168-1197) nel regno serbo della Rascia (fino al 1282). L'attività architettonica promossa dal sovrano rispecchia la duplice polarità storico-culturale del territorio: legato a Bisanzio anche per la professione di fede ortodossa, ma aperto fisicamente ed economicamente all'Occidente attraverso le città della costa dalmata. La prima fondazione voluta da Stefano, la chiesa di S. Nicola a Kuršumlija (1168 ca.), ad ampio vano unico cupolato, è un autentico edificio costantinopolitano di stile comneno, in cui la nitida muratura a mattone arretrato è impiegata come una sorta di marchio d'origine. Con una progressiva accentuazione del cubo centrale cupolato, l'aggiunta di portici laterali e un tendenziale allungamento, questo schema, dalla metà del sec. 12°, diviene tipico della scuola della Rascia. Un'altra fondazione di Stefano Nemanja, la chiesa della Vergine a Studeniča (post 1183), adotta qualche anno più tardi la stessa pianta di Kuršumlija, prolungandola con un profondo nartece, ma il risultato è del tutto nuovo. L'esterno in pietra squadrata con archetti pensili, lesene e portali strombati romanici cancella quasi integralmente le componenti bizantine originarie del tipo.Periodo tardobizantino. - Quando Costantinopoli cadde in mano ai crociati nel 1204, lo stato bizantino non costituiva più, di fatto, un organismo unitario: già dalla fine del sec. 12° si era avviato un processo di frammentazione interna in ducati 'feudali', cui la dominazione latina non fece altro che imprimere un'ulteriore accelerazione. Nei circa cinquant'anni di occupazione i grandi dell'impero mantennero grossi capisaldi nelle province, dove dettero vita a una serie di principati autonomi che riuscirono a sopravvivere per due secoli e mezzo, fino alla conquista turca: l'impero di Nicea, sotto i Lascaris e i Vatatze (1204-1261), nella punta occidentale dell'Anatolia; il despotato d'Epiro, sotto gli Angeli, con capitale ad Arta (1204-1318); l'impero di Trebisonda, sotto i Grandi Comneni, sulla costa meridionale del mar Nero (1204-1461); il principato di Morea, con capitale Mistrà, nel Peloponneso (1262-1460). Accanto a questi infine, dal 1261 al 1453, venne ricostituito, sotto la dinastia dei Paleologi, l'impero di Costantinopoli.Ben al di là degli angusti limiti territoriali del declinante impero greco, l'a. bizantina vive in questo periodo un'ultima e intensa fioritura che giunge a coinvolgere - grazie anche alla capillare diffusione della Chiesa ortodossa - un ampio ventaglio di aree 'satelliti': dalla Serbia alla Bulgaria, dalla Romania alla Russia, a Creta. Fortemente differenziato in senso regionale, il linguaggio architettonico di questo periodo, pur nel fedele allineamento a tradizionali schemi mediobizantini, risente in misura consistente di influssi esterni: da quelli islamici, georgiani e armeni, che toccano le zone di confine orientali, a quelli occidentali, 'franchi', che investono la Grecia e i Balcani, dove i Latini furono presenti non solo come effimeri conquistatori, ma più durevolmente come imperialisti commerciali.È qui che si trova il nucleo più cospicuo di edifici 'occidentali': castelli (Chlemutzi in Peloponneso e Bodovitsa alle Termopili del primo Duecento) e chiese (Santa Sofia di Andravida, il monastero cistercense di Zaraka, Nostra Signora di Isova, S. Parasceve a Calcide); queste ultime generalmente di impianto longitudinale, in aperto contrasto con il tipo 'nazionale' mediobizantino (Kitsiki Panagopoulos, 1979). Questo trapianto gotico in terra orientale non mutò certo strutturalmente il corso dell'a. greca, pur lasciando qualche eredità lessicale, talvolta adoperata come inserto esotico (impiego dell'arco acuto o della volta nervata); diede invece un impulso significativo a quel recupero della scultura figurata che costituisce uno degli elementi di più interessante novità della decorazione architettonica paleologa.Tra i principati bizantini dell'epoca dell'impero latino uno dei più dinamici fu certamente quello di Nicea, la cui postazione nell'Anatolia occidentale rappresentò forse il fattore di maggiore resistenza contro l'avanzata turca. Lungo il mezzo secolo che precede il ritorno a Costantinopoli (1261), una notevole prosperità economica permise a questa corte in esilio di promuovere, accanto a un'intensa attività nella conservazione e valorizzazione della cultura tradizionale (letteratura, retorica, raccolta e copia di manoscritti), anche una significativa attività in campo architettonico. Oltre alle fortificazioni di Magnesia, Smirne, Efeso e Priene, rimane in verità ben poco di quanto menzionato e descritto dalle fonti. Il monumento forse più significativo di questa fase 'lascaride' (Buchwald, 1979) è - contrariamente a quanto normalmente accade - un edificio civile: il palazzo imperiale di Nymphaion (Kemalpaşa) presso Smirne (Kirilova Kirova, 1972). La nitida struttura parallelepipeda, di cui si conserva l'involucro, presenta un piano terra in pietra squadrata, forse in origine coperto a volte, mentre i piani successivi, largamente finestrati, hanno un paramento a corsi alternati di pietra e laterizio. Sono invece ridotti a rovine una chiesa con pianta a quattro colonne a Nicea e una basilica a tre navate e cinque cupole a Sardi.Dall'altro capo dell'Anatolia, sulle coste meridionali del mar Nero, anche i Grandi Comneni di Trebisonda proclamarono attraverso la promozione artistica quell'ideologia 'irredentista' (Cutler, Nesbitt, 1986) che accomuna tutti questi imperi in miniatura e che tende a legittimare con i monumenti (chiese-mausoleo e palazzi) l'aspirazione dinastica al ritorno nella capitale. La molteplicità di culture a cui Trebisonda fu aperta emerge ben chiara dalla chiesa di Santa Sofia, voluta dall'imperatore Manuele I (1238-1263), un edificio a cupola su quattro colonne di pianta piuttosto allungata. Le strutture più atipiche sono i tre portici a tribelon che aggettano dai lati nord, sud e ovest, certamente derivati dall'a. georgiana. Accanto alle colonne e ai capitelli antichi reimpiegati all'interno e all'esterno, compaiono nel portico occidentale capitelli lavorati a stalattiti d'autentico stile selgiuqide, come le vicine nicchie a forma di miḥrāb. Sulla facciata del portico meridionale l'oculo quadrilobato sembra invece d'ispirazione gotica, mentre il fregio scolpito della Genesi evoca l'esterno figurato della chiesa armena di Alt'amar. Tutti questi elementi indubbiamente eterogenei convivono pacificamente con gli affreschi dell'interno, squisitamente bizantini.Il despotato dell'Epiro, che fu il principale antagonista di Nicea nell'aspirazione al trono di Costantinopoli, ha lasciato numerosi monumenti di committenza dinastica. La Kato Panaghía presso la capitale, Arta, e la Porta Panaghía presso Trikkala, volute rispettivamente da Michele II (1231-1271) e Giovanni Ducas (1283), hanno in comune una struttura a tre navate con copertura centrale a botte innestata in una sorta di alto transetto voltato non sporgente. Il paramento esterno a cloisonné è rivestito da una dilagante decorazione geometrica con piastrelle e dentelli. Ma il monumento più originale dell'a. epirota è sicuramente la chiesa della Parigoritissa ad Arta (1283-1296). Essa rappresenta un'estrema e insolita variante del tipo a cupola su trombe angolari di Hosios Lukas e Dafni. Circondato su due piani da nartece, navate e gallerie piuttosto ampi, il naós - secondo un gusto tipicamente paleologo - è proporzionato al resto in modo da apparire vertiginosamente alto. Tre ordini sovrapposti di colonnine, che si affiancano agli spigoli, s'alzano su mensole aggettanti e vanno a sostenere le trombe su cui appoggia la cupola. L'esterno, quasi per una sorta di osmosi tipologica, assume invece un andamento rettilineo, tipicamente palaziale, con due ordini di bifore, ed è movimentato solo dall'emergere delle cupole. Come è consueto nell'a. tardobizantina, le facciate rivestono l'organismo interno senza rivelarne la struttura. L'apparato scultoreo, con mensole e archivolti figurati, nonché l'uso dell'arco trilobo sulle trombe, rivelano ampiamente l'apertura dell'Epiro verso l'Occidente.L'ondata di entusiasmo che dovette accompagnare la rinascita dell'impero bizantino, nell'ultimo terzo del Duecento, determinò a Costantinopoli, nel mezzo secolo successivo, una considerevole attività edilizia. L'ideologia retrospettiva della corte reduce da Nicea e la volontà di recupero del glorioso passato oltraggiato dai Latini esercitarono indubbiamente un certo peso sul tipo degli interventi intrapresi, che sono in gran parte restauri e ampliamenti di monumenti più antichi. A differenza di quanto avviene nella pittura e nell'illustrazione libraria, è difficile dire se anche l'a. sia stata guidata da un'idea di 'rinascita'. Per ciò che riguarda, per es., la scelta di certe tipologie edilizie, nella capitale e fuori, la mancanza di anelli monumentali intermedi non consente di dire con sicurezza quanto sia dovuto a un fenomeno di continuità e quanto a una ripresa deliberata (pro e contro il revival si vedano rispettivamente: Krautheimer, 1965; Mango, 1974).La chiusa aristocrazia metropolitana investiva le proprie risorse nella realizzazione di residenze e, soprattutto, di monasteri privati, che, per diritto fondazionale (ktetoréia), divenivano proprietà personali e monumenti famigliari. La destinazione funeraria degli ambienti sussidiari delle chiese diviene in questo periodo uno dei fattori distintivi dell'a. sacra, che vede espressamente moltiplicarsi, in ampiezza e numero, narteci, cappelle annesse (parekklésia), ambulacri, lungo le cui pareti trovavano posto gli arcosoli con i sarcofagi dei benefattori (Babić, 1969).A Costantinopoli il primo importante monumento emblematico di questo nuovo clima è la chiesa meridionale del monastero di Costantino Lips, fondata da Teodora, moglie dell'imperatore Michele VIII Paleologo, forse prima del 1282. Anziché intraprendere una costruzione ex novo, Teodora decise di ampliare un illustre complesso della prima età macedone, forse intendendo farne il punto di riferimento significativo di un'operazione di recupero cui è sottesa un'idea di continuità con il passato imperiale di Bisanzio. Lo conferma la stessa struttura a chiese parallele che il complesso venne ad assumere, con ogni probabilità a imitazione del monastero del Pantokrator, il mausoleo dinastico dei Comneni. Il nuovo edificio paleologo, che si salda al precedente incorporandone la cappella estrema del fianco meridionale e la torre scalare, ha una struttura a deambulatorio, che riprende modelli costantinopolitani del sec. 12° (S. Maria Pammakaristos e Kalenderhane Cami). La cupola su pennacchi è sostenuta da quattro pilastri, un tempo uniti da triplici archeggiature a colonne; le navate e il corridoio occidentale formano, all'intorno, un passaggio voltato continuo. Verso il 1300 il gruppo delle due chiese venne fasciato a S e a O da un lungo parekklésion, la cui destinazione è dichiarata dai numerosi arcosoli, aggiunti a quelli già ricavati nel nartece e nel deambulatorio interno. La zona in cui maggiormente si apprezza il timbro raffinato di questo edificio, oggi assai compromesso, è la parete esterna orientale, in cui le absidi sfaccettate e solcate da nicchie sono rivestite da un esuberante e coloristico arazzo decorativo a corsi di pietra bianca e rosso laterizio. Un intervento che muove da un'analoga intenzione restaurativa è quello promosso dal gran logoteta Teodoro Metochite (tra il 1316 e il 1321) nel monastero comneno di S. Salvatore in Chora (Kariye Cami), che a quel tempo versava in condizioni di grave abbandono, ma vantava - secondo Niceforo Gregora - addirittura una fondazione giustinianea. La chiesa antica venne ricoperta da una nuova cupola e fu ampliata a O e a S da nuove strutture: i due narteci e il parekklésion funerario, la cui abside andò ad aggiungersi, a E, a quelle preesistenti. L'esterno, un tempo siglato dai profili ondulati dei tetti, è tutto delicatamente pennellato di pietra e mattone, mosso da leggeri contrafforti a fascio, da nicchie, lunette e archi inflessi. L'interno, in cui forse è più sensibile la crescita asimmetrica degli spazi, è tutto giocato sul dialogo dei volumi alti e bassi di cupole e vele in un sottile trascorrere di luci e penombre sulla smagliante decorazione. L'irregolarità occasionale delle dimensioni diviene così un consapevole principio di stile (Ousterhout, 1987).Molti dettagli costruttivi e decorativi suggeriscono che la stessa maestranza altamente qualificata lavorasse nel 1310 o nel 1315 (Hallensleben, 1963-1964; Mango Hawkins, 1964) alla costruzione del parekklésion di S. Maria Pammakaristos (Fetiyeh Cami). Si tratta della cappella commemorativa del generale Michele Ducas Glabas Tarchaniotes, eretta, come ricorda l'iscrizione monumentale all'esterno, dalla vedova Maria. La struttura è quella classica mediobizantina a cupola su quattro colonne, con il naós preceduto da un nartece a due piani, coperto a sua volta da due cupole minori. Lo slanciato corpo a quinconce ha lo svolgimento articolato di una sorta di modello astratto, in cui vengano sperimentate, nelle dimensioni spaziali di una microarchitettura, le complesse potenzialità di un prototipo. Se mancasse qualsiasi monumento della Costantinopoli paleologa basterebbe questa piccola cappella, preziosa come una stauroteca, a ricreare nelle sue grandi linee il gusto e la cultura di un'epoca.Non datati, ma probabilmente un po' più tardi, sono alcuni edifici in cui emergono interessanti particolarità tipologiche. Il primo - che è il risultato di una diffusa modalità di intervento - è l'esonartece della Kilise Cami, aggiunto con andamento avvolgente a una chiesa a quattro colonne dell'11° secolo. Qui la facciata a portico, caratteristicamente irregolare nel ritmo delle aperture, presenta una soluzione affine alle contemporanee chiese di Salonicco (S. Caterina, Ss. Apostoli). Un secondo gruppo è costituito da cappelle di non grandi dimensioni a navata unica e di struttura compatta, che trovano interessanti concordanze con analoghi esempi bulgari. Oltre all'Isa Kapısı Mescidi, occorre ricordare il Boğdan Saray, una struttura longitudinale a due piani, voltata a botte in basso, cupolata in alto, che può forse essere stata anche un mausoleo annesso a un convento. Il tipo, senza precedenti nella capitale, si trova già impiegato in Bulgaria con specifica destinazione funeraria tra la fine del sec. 12° e la prima metà del 13°, come dimostra la chiesa di Asen a Stanimaka (Assenovgrad).Tra le sontuose residenze civili del tempo, quella di Teodoro Metochite, descritta dal suo stesso possessore in un compiaciuto epigramma (Mango, 1972, pp. 246-247), fu distrutta nel 1328 alla caduta di Andronico II. Resta invece il Tekfur Saray (fine sec. 13° o primo decennio del 14°), un edificio rettangolare a tre piani, la cui gabbia vuota sovrasta le mura delle Blacherne. Il piano terra, a volte, era sostenuto da colonne; i piani superiori invece avevano solaio e copertura in legno. La facciata nord, verso la corte fortificata, è ariosamente scandita da un portico e da due ordini di ampie finestre centinate e, come quella posteriore, ostenta un bel ricamo decorativo a tasselli policromi, che ricorda da vicino il parekklésion della Fethiye Cami. Nell'impianto regolare compatto è stato giustamente ravvisato l'influsso di modelli occidentali, ormai largamente penetrati in Oriente (ala antica del palazzo di Mistrà, ca. 1260; residenza imperiale di Nymphaion presso Smirne). Ma la traduzione in greco di questo tipo architettonico importato non potrebbe essere, di fatto, più trasfigurante e autonomamente creativa, soprattutto ove si confronti il Tekfur Saray al Palatium Comunis che i Genovesi, in quegli stessi anni, costruirono nel quartiere di Galata (1316; Eyice, 1982).Descritta dai contemporanei come un vivace centro cosmopolita, Salonicco paleologa attraversa una fase di grande prosperità che la conferma, dopo la breve parentesi del regno franco, nel ruolo di seconda città dell'impero, tradizionalmente vicina alla capitale per cultura e orientamenti artistici. Un cospicuo gruppo di chiese, in gran parte monastiche, segna, dopo una lunga stasi, la ripresa architettonica tardobizantina, che con ogni probabilità ha il suo esordio in S. Caterina (ca. 1280-1300). Il nucleo dell'edificio, a quattro colonne, è avvolto su tre lati da un deambulatorio porticato, che fa da bassa cintura all'emergere del corpo centrale a cupola. Rispetto all'intera superficie della chiesa, il naós è molto ridotto e tutto proiettato in verticale, secondo un gusto proporzionale già tipicamente paleologo. Ma certi tratti della costruzione, quali il largo semicilindro dell'abside e il severo paramento laterizio con uniformi campiture a cloisonné, sono ancora arcaici. Nella chiesa dei Ss. Apostoli, che forse si può datare tutta al 1310-1314, la stessa struttura mostra un ulteriore sviluppo, con una più ampia comunicabilità degli spazi e l'aggiunta a O di un basso portico senza cupole legato al deambulatorio a U. L'elegante innalzarsi dei tamburi va a comporsi nella parete orientale con la calcolata articolazione delle absidi, in cui la lieve trama tessile del paramento laterizio veste i volumi eliminandone quasi ogni traccia di massività. A differenza di quanto avviene a Costantinopoli, però, la cintura di vani a U attorno al naós, con cappelle terminali a oriente, non sembra aver avuto una destinazione funeraria. Il ripetersi di una simile struttura non solo nelle chiese tipologicamente affini (S. Pantaleimone, il katholikón del monastero di Blatadon) ma, in forma semplificata, anche in edifici basilicali più piccoli, a copertura lignea (S. Nicola Orfano; chiesa dei Taxiarchi), ha indotto a ricercarne una ragione liturgica. Il rituale tessalonicese in età paleologa prevedeva infatti nella chiesa metropolitana - che dal sec. 13° al 15° fu la vecchia Santa Sofia - un lungo e complesso itinerario processionale, che non solo potrebbe spiegare la destinazione funzionale degli ambienti perimetrali, ma anche quella generica ripresa dell'impianto della Santa Sofia che si osserva in questo gruppo di edifici (Rautmann, 1989). L'attività costruttiva, che nella capitale praticamente s'arresta alla fine del terzo decennio, a Salonicco continua anche oltre la metà del secolo. L'edificio di maggiore spicco, anche per le grandi dimensioni, è la chiesa del profeta Elia, che dovrebbe datare a partire dal 1360. Si tratta di una struttura a triconco tipicamente atonita, simile al katholikón di Chiliandari, preceduta da un atrio quadrangolo (lité) e tutta giocata in alzato su articolazioni volumetriche insolitamente ampie e solenni.Nella declinante Bulgaria del secondo regno (1330-1393), una città soprattutto, Mesembria (Nessebār), spicca per una stagione di intensa attività architettonica, che sfrutta i positivi riflessi dell'incremento commerciale determinato dai Genovesi sul mar Nero. Le chiese di età paleologa, collocabili entro il primo trentennio del Trecento, presentano generalmente planimetrie ad aula unica e copertura mista a botte e a cupola, già radicate nella tradizione bulgara dal 12° secolo. I ricchissimi paramenti esterni rivelano invece un'ascendenza spiccatamente costantinopolitana, come attestano le chiese del Pantokrator, degli Arcangeli, della Parasceve e di S. Teodoro, ma soprattutto S. Giovanni Aleiturgos. In questo edificio, che è fra l'altro un raro esempio bulgaro di pianta a quinconce, le compatte superfici, ritmate da arcate cieche, sono coperte sopra il basamento da un fitto e vibrante rivestimento policromo di pietra e mattone, che elabora e porta alle estreme conseguenze, in termini assolutamente antistrutturali, il sistema decorativo metropolitano.Nel Peloponneso meridionale, la Morea, tornata ai Bizantini nel 1262, ebbe per vari decenni governatori temporanei inviati da Costantinopoli. Solo dal 1348 divenne un despotato affidato a un principe della casa imperiale. La capitale, Mistrà, benché assai restaurata, costituisce un caso molto interessante di città paleologa, con un tessuto organico di mura, case, palazzi, chiese. Il nucleo centrale era, ed è, costituito da una vasta piazza circondata su due lati dalla residenza dei despoti, un complesso architettonico dall'impronta decisamente 'franca', con torre, portici, finestre a ogiva polilobate, realizzato in tre fasi dalla metà del Duecento alla metà del Quattrocento. Tra le chiese, la più significativa è senz'altro la Afendikò, che fu il katholikón del monastero di Brontochion (1310-1322), un edificio ambizioso che per un secolo fece scuola in Morea, dando vita a un vero e proprio 'tipo di Mistrà' (Hallensleben, 1969). La sua caratteristica distintiva è l'innesto di una struttura a croce greca con cupola al di sopra di una basilica a gallerie con navatelle voltate. L'idea, che ha un'origine molto antica, risale in ultima analisi alla Santa Irene giustinianea, ma con la sostanziale differenza che i quattro pilastri di sostegno della cupola qui non partono dalla quota pavimentale, ma dal livello dei matronei. È probabile che questa soluzione mista sia dovuta a un mutamento di intenzioni in corso d'opera (Hallensleben, 1969), ma non è certo che l'introduzione delle gallerie sia legata al cerimoniale costantinopolitano introdotto a Mistrà con la nomina di un governatore permanente (Delvoye, 1964). Certo è comunque che il committente Pachomios volle imprimere alla chiesa un esplicito timbro metropolitano con la muratura a corsi regolari (anziché cloisonné), con i rivestimenti interni di marmi, infine con il richiamo, seppure in scala minore, a un tipo architettonico illustre del passato.Sul finire del Duecento e per tutta la prima metà del Trecento, la Serbia di Milutin (1282-1321) e di Stefano Dušan (1331-1355) fu la grande potenza dei Balcani. Ma, a differenza della Rascia dei Nemanja, tornò a essere sotto il profilo artistico un'enclave bizantina. La chiesa di Nostra Signora a Prizren (1306-1307), costruita entro l'involucro di una precedente basilica, presenta uno schema cupolato a croce inscritta longitudinale, con quattro bracci coperti a botte e navatelle voltate. L'esterno, ravvivato cromaticamente da una tessitura a cloisonné, è tipologicamente interessante per il portico ad archeggiature che incorpora al centro un'altissima torre. Il quinconce allungato, che diviene una costante in ambito iugoslavo per tutto il Trecento, riappare nel 1312-1313 in S. Giorgio a Staro Nagoročino, una seconda fondazione di re Milutin, e tra il 1318 e il 1321 nell'ultima impresa da lui sostenuta, la chiesa del monastero di Gračanica. A differenza di Prizren e Staro Nagoričino, però, a Gračanica le forme bizantine sono interpretate in una chiave assolutamente nuova. L'architetto ha, in un certo senso, raddoppiato in altezza il nucleo strutturale: la cupola non poggia infatti direttamente sull'incrocio dei bracci voltati a botte, ma su una seconda croce più alta e più stretta, resa più acuta dal profilo ogivale dei timpani. Come la cupola maggiore anche le quattro minori s'innalzano sulla linea del tetto al di sopra di piedistalli cubici. L'edificio, che è una sorta di agglomerato rigidamente gerarchico di unità a torre, costituisce uno dei risultati più fantasiosi di tutta l'a. tardobizantina e porta alle estreme conseguenze il gusto per le proporzioni verticalistiche della Costantinopoli paleologa (Ćurčić, 1979). Ma tra le costruzioni volute da re Milutin occorre ricordare anche il katholikón di Chiliandari, il monastero serbo dell'Athos (1303), la cui raffinata qualità fa pensare a un progettista chiamato da Costantinopoli o da Salonicco. Realizzato con l'impianto a triconco tipicamente atonita, esso fece scuola, in quanto monumento nazionale serbo, nella successiva a. del regno, divenendo, nella valle della Morava, una sorta di modello normativo (Ascensione di Ravanica, 1375 ca.; Lazarica di Kruševac, 1377-1378 ca.; chiesa della Vergine a Kalenič, 1413-1417).

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