ARCHITETTURA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

ARCHITETTURA

Sandro Benedetti
Claudio Tiberi
Corrado Bozzoni
Francesco Paolo Fiore

(IV, p. 63; App. II, I, p. 129; III, II, p. 122; IV, I, p. 150)

Un tempo di grandi cambiamenti è quello attraversato dall'a. in questi ultimi quinquenni. Tre brevi giudizi di Ph. Johnson − contenuti il primo in una lettera a J. Joedicke del dicembre 1961, il secondo e il terzo in una conferenza tenuta alla Columbia University nel settembre 1975 − permettono di cogliere i termini del grande mutamento. "C'è una sola cosa assoluta oggi, ed è il mutamento. Non ci sono regole, assolutamente non si danno certezze in nessuna delle arti. C'è solo la sensazione di una meravigliosa libertà, di possibilità illimitate da esplorare, di un passato illimitato di grandi architetture della storia da godere... Lunga vita al mutamento"; "Il tempo dell'ideologia per fortuna è finito. Celebriamo la morte della idée fixe. Le regole non esistono più, esistono soltanto i fatti"; "Per qualche tempo ancora probabilmente non assisteremo più ad un periodo come negli anni Venti, alla nascita di uno stile architettonico basato su dei credo comunemente accettati, su poche, apparentemente semplici, verità".

Il senso di liberazione e di rinnovamento che pervade questi brani − insieme alla sottile nostalgia per qualcosa che si sente ormai lontano, la nascita dello ''stile'' razionalista, dello ''stile internazionale'' − sottolinea un fatto decisivo: la conclusione di quel ciclo che l'a. aveva inaugurato nei primi decenni del 20° secolo.

In queste parole Johnson − uno dei divulgatori più in vista del verbo modernista fin verso il 1950 − esprime, con distacco dalle sue precedenti posizioni, la critica a quel sistema di idee attraverso cui il Movimento Moderno aveva costruito la propria ortodossia artistica. Critiche che, soprattutto nell'Italia degli anni Cinquanta, avevano già avuto un'emergenza nel dibattito architettonico. Qui infatti s'era venuta maturando, attraverso la convinzione della necessità di un superamento delle posizioni modernistiche negatrici della continuità, con la lezione della tradizione storica dell'a., una prima riproposizione dei problemi architettonici. Donde un'attenzione particolare al tema della necessità di ristabilire una continuità col territorio formale prerazionalista, unita alla riscoperta dei processi formativi nella loro esplicitazione ottocentesca e illuministica. Essa trovava due momenti decisivi nel dibattito italiano: quello suscitato da E. Rogers e dai suoi collaboratori di Casabella, e quello centrato sulla rifondazione dei processi della composizione architettonica entro la vicenda della ''grande durata'' (quale si poteva ritrovare nello studio delle tipologie edilizie delle città storiche e nell'organicità delle strutture costruttive), sviluppato a Roma soprattutto dalle opere e dalla didattica universitaria di S. Muratori. Attorno al quale si era attivato un nutrito gruppo di architetti − G. Caniggia, P. Maretto, G. Marinucci, G. Cataldi, P. Portoghesi, G. Spagnesi, G. Miarelli, P. Marconi, S. Benedetti − che poi, anche se attraverso vie contrastanti, svilupperanno in vari modi quella lezione.

Critiche e aperture per un superamento del razionalismo, quelle maturate in area italiana, che, già presenti in più individualità allora affacciantisi alla ricerca attiva (si ricordi l'interesse vivo suscitato non solo in Italia dalle prime opere del cosiddetto Neo-Liberty di R. Gabetti e A. Isola, V. Gregotti, G. Aulenti, G. Canella e altri), erano state di fatto bloccate nella loro apertura culturale dalla rinvigorita ultima stagione modernista: quella degli anni Sessanta, legata alle tematiche delle megastrutture e della grande dimensione; ritenute atte a consolidare un controllo architettonico sulla grande scala territoriale.

Una puntuale denuncia della situazione di accademizzazione generata dal Movimento Moderno e della crisi in cui versava la ricerca, una denuncia con cui tra l'altro le critiche degli anni Cinquanta riemergono prepotentemente e si sistematizzano, è quella divulgata nel 1974 da P. Blake in un libro che raccoglieva tesi già da lui sviluppate qualche anno prima in vari saggi. Il lavoro − che già nella formulazione del titolo (La forma segue il fiasco) denunciava il fallimento di un aspetto decisivo del moderno, cioè l'impegno funzionalista di cui il libro parafrasava irridendo uno degli slogan più divulgati, ''La forma segue la funzione'' − sistematizzava una serie di critiche al Movimento Moderno, ormai divenuto una pratica architettonica a livello planetario omologante tutte le aree influenzate dalla cultura occidentale. "Il proposito principale di questo libro − diceva P. Blake nell'introduzione − è quello di mettere in discussione, di riesaminare, di fare giustizia di alcuni mostri sacri e di farne, con molto ritardo, la revisione critica".

Le critiche al razionalismo, a livello sia edilizio che urbanistico, toccavano punti nevralgici della sua procedura formativa: il funzionalismo, la ''pianta libera'', la ''purezza'', la tecnologia, il grattacielo, la ''città ideale'', la mobilità, lo ''zoning'', gli insediamenti residenziali, il mito della forma. Temi e miti spesso messi in qualche modo in discussione e superati dalla stessa ricerca dei capiscuola del Movimento Moderno. Così il motivo della forma generata dalla funzione, radicalmente contestato dalle ricerche di M. Van der Rohe sullo ''spazio universale'' ottenuto con sistemi strutturali capaci di contenere ogni genere di funzioni, e quindi del tutto indipendente da una specifica funzione; così quello della ''purezza'' distrutto, tra gli altri, dallo stesso Le Corbusier con le ricerche sulle forme ''brutali'' e grezze della sua ultima stagione; o quello della standardizzazione e della tecnologia, concentrato nella volontà di organizzare il cantiere con procedimenti industrializzati, di fatto non decisivi né per l'abbassamento dei costi né per la velocità di esecuzione, e bloccato dalla difficoltà di creare una vera standardizzazione dimensionale e qualitativa per un consumo di massa, in una realtà economica di libero mercato refrattaria ai tentativi di pianificazione centralizzata; così il mito della ''città ideale'' realizzato in vari modelli − dalle New Towns londinesi a Brasilia − sconfitto nei fatti dalle scelte della gente che preferisce, a queste città o parti nuove della città, i vecchi centri e che, rispetto ai ''vasti'' spazi monofunzionali del modello urbano razionalista, opta per la realtà complessa della ''strada'' e del conglomerato polifunzionale dei centri storici.

In termini di superamento di fatto delle procedure formative di stampo razionalistico vanno ricordati per lo meno due decisivi contributi: quello di L. Kahn e quello di R. Venturi.

Il primo, un maestro quasi coetaneo dei grandi del razionalismo, ma arrivato alla maturità creativa lentamente attraverso tutta la stagione razionalista ("Per cinque decenni − dirà J. Salk − egli ha preparato se stesso/ e ha fatto in due/ quello che altri desidererebbero fare in cinque"), è esploso creativamente sul finire degli anni Cinquanta. La sua opera sconvolge le procedure razionaliste rovesciandone l'ideologia meccanicistica e funzionalista in nome di principi ontologici. Nello spessore della verità di ogni singolo tema, Kahn concentra l'esercizio creativo: su di esso attiva la ricerca volta a esplicitare la qualità dell'oggetto: "da quello che lo spazio vuole essere, l'ignoto può essere rivelato all'architetto". Le sue idee di ''ordine'' di ''ciò che l'edificio vuole essere'', di ''silenzio e luce'', di ''umano'' e di ''istituzioni umane'', "al servizio dell'uomo... legate al bisogno di scoprire quali sono le cause della sua esistenza...", il suo concetto di luogo come espressione della condizione umana, di città come luogo di istituzioni, di strada come "sala di riunioni, salvo il fatto che non ha il tetto", determinano un rovesciamento di ottica d'importanza decisiva. "Rendete concisi i vostri piani e distribuite convenientemente le case ai bordi delle strade, ridate loro un aspetto umano". La metodologia creativa di Kahn, la sua fondamentale concezione formativa duale, tesa tra ''forma'' e ''design'', depositano entro il prevalente ottimismo implicito nel razionalismo germi di una ricerca dei fondamenti, che si traduce in modi nuovi quanto mai lontani da quelli già divulgati. L'oscillazione tra ''forma'', che è idea interpretativa dello spessore umano presente in ogni singolo tema architettonico, e ''design'' che è adeguamento della forma alle esigenze dell'uso concreto, rovescia la pratica funzionalista, per la quale invece la funzione avrebbe generato la forma. Una nuova attenzione verso la tradizione storica dell'a. − da quella medievale a quella tardo-antica, alle procedure compositive dell'accademia ottocentesca − da cui sa estrarre archetipi formali significanti, dimostra in opere di alto livello come possa essere realizzata creativamente una ricucitura con la continuità storica (rotta dal razionalismo tra le due guerre) senza abbandonare l'impianto di fondo del linguaggio razionalista. Parallelamente a questa riconquistata connessione, Kahn reinserisce nel processo formativo i significati simbolici profondi − connessi col valore di verità delle istituzioni umane, per le quali le singole a. sorgono − aprendo un orizzonte tutto nuovo rispetto all'ideologia dell'utile, prevalente nel funzionalismo razionalistico.

Da un versante diverso − sul fronte della scoperta del valore significativo contenuto nel banale quotidiano, lontana dal messianesimo profetico derivato da Kahn dall'ontologia dell'esistere − emergeva un altro decisivo contributo teso verso il cambiamento post-moderno: quello di R. Venturi.

Allievo di Kahn fino al 1958, passato negli anni Cinquanta per un lungo soggiorno italiano, Venturi ha modo di proporre con efficacia una caratteristica parabola di riflessione culturale. Essa si concreta soprattutto in due libri: Complessità e Contraddizione del 1966, e Imparando da Las Vegas del 1972, il cui sottotitolo, "Il simbolismo dimenticato della forma architettonica", esplicita chiaramente il campo della nuova attenzione formativa. Con la suggestione duale di ''complessità e contraddizione'', ritrovata nel grande patrimonio dell'a. storica, Venturi apre una breccia sul fronte della pura astanza, sulla ''non significanza'' dell'a. dei ''volumi puri sotto la luce'' di stampo razionalista, sull'esclusivismo dell'''aut-aut che caratterizza l'a. moderna ortodossa''. A cui è contrapposto il valore dei tanti ''significati latenti, resi possibili dalla tradizione del sia-sia''. "Un parasole − dirà − non serve in genere che al suo scopo" ma "questo modo di manifestare la chiarezza... delle funzioni non ha nulla a che vedere con un'architettura di complessità e di contraddizioni, che cerchi di integrare (sia... sia) piuttosto che escludere (aut... aut)". Con la riscoperta del ''territorio'' formale dell'oggetto banale e popolare − ancorché legata all'odierna società consumistica, in cosciente parallelo con l'analoga valorizzazione estetica svolta dalla pop-art americana − Venturi sottolinea fortemente come nelle forme architettoniche viva tutto un complesso sistema di ''convenzioni'' significative, che vanno recuperate e fatte elementi del modo formativo. "Le forme dell'architettura Moderna − dirà in Imparando da Las Vegas- sono state create dagli architetti e analizzate dai critici soprattutto per le loro qualità di percezione visiva a spese dei loro significati simbolici derivati da associazioni di immagini e di idee". Mentre invece "il simbolismo è essenziale in architettura e il modello derivato da epoche passate o dalla città esistente è parte del materiale di base, e la replica degli elementi è parte del metodo di progettazione di questa architettura". Dopo aver chiarito come nelle opere del Movimento Moderno esista un ''simbolismo non riconosciuto'' dato che "gli architetti moderni hanno sostituito un insieme di simboli (dell'eclettismo-storico-romantico) con un altro (del processo-industriale-cubista) ma senza rendersene conto", e dopo aver ancora sottolineato come la posizione degli architetti moderni ''radicali'' nasca da un disprezzo dell'a. che piace alla ''maggioranza-bianca-silenziosa'', e come occorra invece rinnovare l'aspirazione a un'a. per la "città di tutti i giorni... fatta di edifici modesti e spazi modesti con appliqué simbolici", conclude che "È giunta l'ora di rivalutare il pensiero un tempo terrificante di John Ruskin secondo il quale l'architettura è la decorazione della costruzione, ma dovremmo aggiungervi il monito di Pugin: va bene decorare una costruzione, ma non si costruisca mai una decorazione".

Queste linee di critica e di revisione a cui si è accennato, già emerse negli anni Cinquanta, s'impongono come tema centrale negli anni Settanta. Nell'orizzonte della cultura di questo decennio la nascita di uno spazio del dubbio circa la fede nei principi-base del Moderno, avvertibile a tanti livelli, crea un'atmosfera di disponibilità critica nuova, quale non era stata tra il finire degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, allorché le prime tematiche e le prime revisioni critiche erano state proposte.

Lo spazio del dubbio aveva come presupposto cosciente la crisi di due dei punti cardine del Moderno: il concetto di progresso e l'idea che la storia coincida con l'espandersi e il sempre più profondo affermarsi della libertà; due convinzioni strettamente fuse nell'ideologia delle avanguardie artistiche novecentesche. Quindi un venir meno di quell'ottimismo ideologico, che si era esplicitato sia nella declinazione marxista, come fede in una verità storica depositata nella classe proletaria e nella sua rivoluzione, sia nella declinazione scientista, come fede nel progresso quando la storia umana è guidata dalla pura razionalità scientifica. Un venir meno − G. Sasso parlerà di "Tramonto di un mito" − che ha preso corpo nei due versanti ideologici attraverso il rifiuto del cosiddetto ''socialismo reale'', e attraverso la critica ecologica allo sviluppo e l'esplosione della patologia dell'ingegneria genetica

Al tempo stesso il superamento di fatto di quel ''volgere le spalle alla tradizione'' e di quella rottura con la storia, implicito nelle avanguardie, veniva messo in crisi dal sentimento nuovo, emergente in più linee di ricerca, della necessità di un uso attivo della memoria.

Per questo quando J. F. Lyotard avanzava l'ipotesi, così particolarmente vivida, di un ingresso della vita della società in una fase ''post-industriale'' distintiva di questo volgere del secolo, questa veniva subito adoperata per parlare di una ''cultura dell'età post-moderna'' e adoperata dalla critica architettonica − soprattutto da Ch. Jencks − per caratterizzare la nuova temperie: quella di una nuova a. ''Post-Moderna''.

La riflessione di Jencks, uno dei critici più impegnati sul fronte della critica al Moderno in a., attaccava, già in interventi del 1977, ulteriori aspetti della ideologia del razionalismo radicale europeo: quali il tentativo di ''costruire'' il destino di un Uomo Moderno − si ricordino le ricerche di W. Gropius sul problema delle ''case alte uniorientate'', presentato come modello residenziale atto a ''sradicare'' l'uomo tedesco dalle abitudini residenziali tradizionali −, o ancora, sempre secondo Jencks, il riferirsi quasi ossessivo del razionalismo architettonico a pochi contenuti, la razionalità della macchina, il modello della produzione industriale, l'igiene ambientale, il mito della purezza, fortemente saldati alla speranza di una riforma sociale da attuarsi attraverso l'architettura. Le riflessioni del critico inglese portavano poi l'attenzione su alcuni temi caratterizzanti la nuova temperie post-moderna: sulla fiducia creativa riposta più nella trasformazione del linguaggio ''per contaminazione'' e commistione formale che per successive distruzioni e rovesciamenti; sulla disponibilità a riaprire un attivo dialogo con le tradizioni architettoniche pre-moderne, recuperando la pluralità di forme espressive e la citazione dei linguaggi architettonici depositati dalla storia: sull'emergere di un sentimento di connessione nel rapporto tra nuove costruzioni e ambiente entro cui esse venivano a collocarsi.

Evento importante di questa svolta, soprattutto quale strumento della diffusione del Post-Moderno, è la Prima Mostra Internazionale di Architettura, organizzata da P. Portoghesi nel 1980 alla Biennale di Venezia, e dedicata significativamente alla ''Presenza del Passato''.

Episodio centrale di quella manifestazione − che ricuciva attraverso gli omaggi a I. Gardella, Ph. Jonhson e M. Ridolfi la nuova temperie ai suoi primi sviluppi degli anni Cinquanta e alle due principali aree culturali in cui essi si erano manifestati, quella italiana e quella nord-americana − era la costruzione della ''Strada Nuovissima''. Un'idea espositiva nella quale Portoghesi faceva confluire l'esigenza di raccogliere opere delle figure emergenti nel dibattito Post-Moderno in parte già avviate a consacrazione da Jencks, con la creazione di un sistema espositivo che fosse significativa espressione architettonica nella linea delle ricerche Post-Modern: una sorta di ''strada'' composta di facciate architettoniche, dietro le quali erano illustrate le opere dei singoli espositori. Creando così uno spazio ''urbano'', ai due lati del quale si allineavano le ''facciate'' di C. Dardi, M. Graves, F. O. Gehry, O. M. Ungers, R. Venturi, L. Krier, J. P. Kleihues, H. Hollein, Ch. Portzamparc, A. Grenberg su un lato, e di R. Koolhaas, R. Bofill, Ch. Moore, R. Stern, F. Purini, St. Tigerman, del G.R.A.U., di G. Smith, A. Isozaki, M. Scolari sull'altro lato. Mentre la ''facciata'' dell'ingresso alla ''Strada Nuovissima'' era di Portoghesi con F. Cellini e C. D'Amato, e il portale dell'edificio delle Corderie di Venezia − entro cui era ospitata la Mostra − era intervento di A. Rossi.

La forza di provocazione culturale e di efficacia divulgativa della ''Strada Nuovissima'' risiedeva, oltre che nell'enfasi per ''riverbero'' dell'una sull'altra delle a. allineate nello spazio ''stradale'', in due decise critiche contro convinzioni centrali del Moderno: quella del concetto di ''strada moderna'', proposto da Le Corbusier all'inizio degli anni Venti, come spazio senza confini né perimetri, aperto, alberato, ove compaiono "masse di cristallo gigantesche più alte di ogni edificio... che sembrano piuttosto fluttuare nell'aria che pesare sulla terra", e contrapposto alla struttura tradizionale della città storica fatta di spazi perimetrati e definiti, la piazza e la strada, giudicati ''cacofonici'' e negativi; e quella dell'annullamento del valore formale della ''facciata'' nell'organismo architettonico. Contro queste due idee, centrali del razionalismo architettonico, la ''Strada Nuovissima'' riaffermava invece il carattere insostituibile della ''strada'' come struttura vitale per la città di oggi e riproponeva il valore espressivo della ''facciata'' come aspetto preminente dell'emblematicità architettonica.

Un'ulteriore manifestazione nel quadro di questi anni, avviata poco prima della Mostra di Venezia, ma sviluppata successivamente, è stata la vicenda dell'Internationale Berliner Bauausstellung (l'IBA) di Berlino che, iniziata sul finire degli anni Settanta, si è realizzata nel decennio successivo concludendosi nel 1987. In questo confronto di notevole importanza per il consolidarsi di una cultura di riprogettazione urbana, sono stati coinvolti da Kleihues − la personalità guida della manifestazione − molti degli architetti che hanno lavorato sulla linea di oltrepassamento del Moderno. Sulla viva suggestione delle proposte di ricostruzione di spazi urbani distrutti dalla guerra per la Stoccarda bombardata, avanzate da R. Krier e pubblicate nel 1975, e rilanciando la tradizione delle grandi esposizioni di a., che aveva avuto durante il 20° secolo in Germania e a Berlino già risonanti attuazioni − dalla Colonia degli Artisti di Darmstadt dell'inizio secolo all'Interbau di Berlino del 1957 − Kleihues, posto a guidare la Società di pianificazione preposta dal Comune di Berlino all'operazione architettonico-urbanistica, poteva iniziare dal 1978 il complesso processo dell'IBA.

Dopo aver combattuto, attraverso il dibattito culturale, una decisa polemica per definire con esattezza il significato della nuova iniziativa, Kleihues poteva stabilizzarne i fini in un'opera di riprogettazione entro il contesto urbano della città esistente. Finalizzava così l'operazione di ''abitare il centro'' e ''salvare la città distrutta'' attraverso una sua ''ricostruzione critica'', in cui convergevano − superando la concezione di separazione delle funzioni urbane di stampo razionalista − una visione integrativa della plurifunzionalità urbana, il recupero della città come valore simbolico, il valore − per la nuova operatività − della presenza e della complessità della rete viaria storica. Una ''ricostruzione critica della città'' vista subito come modo per intessere un dialogo attivo tra tradizione e modernità, onde abbandonare i settorialismi operativi dell'urbanistica razionalista e attuare un deciso ''ritorno alla strada'', assunto a modello spaziale dell'operazione.

Questo programma ha avviato un attivo confronto a cui hanno partecipato alcuni dei personaggi più in vista del dibattito internazionale, afferenti o meno alle tematiche post-moderne: da Ch. Moore, ordinatore dell'area del porto fluviale di Tegel, a O. M. Ungers, P. Portoghesi, A. Isozaki, A. Rossi, J. Hejduk, R. Krier, H. Hollein, G. Grassi, P. Eisenman, V. Gregotti, J. Martorell, R. Abraham, G. Böhm, C. Aymonino, J. Stirling, G. Valle, St. Tigerman, R. Stern, A. Siza-Vieira. Un aspetto importante dell'operazione berlinese è stato l'evidenziazione della tesi, proclamata anche alla Mostra di Venezia, della nuova vitalità artistica della rue corridor, nella costruzione dello spazio urbano oggi. La ricostruzione edilizia, vincolatasi al rispetto dei tracciati viari storici, che assumevano così la funzione di costante di ''lunga durata'' ai singoli interventi architettonici, unita a una sagace ''mescolanza'' di più funzioni urbane e alla definizione di una immagine della città ''a più mani'', ha connotato positivamente tutta l'operazione: anche al di là del livello qualitativo delle singole a. o di queste rispetto al livello espressivo dei vari architetti implicati.

A chiusura di questo quadro sintetico, sarà il caso di segnalare appena sommariamente, al fine di avviare una prima sistemazione sul complesso quadro risultante dal sovrapporsi tra tardi sviluppi del Moderno e nuove ricerche del Post-Moderno, le tre principali linee in cui sembrano iscriversi le più significative ricerche, ognuna delle quali poi articolata a sua volta in più modi. Una prima linea, entro cui è possibile riunire personaggi convinti in varia misura della vitalità ancora piena dei contenuti e dei portati del Moderno, è articolabile per lo meno in tre grandi fasce: coloro che perseguono aspetti di quella lezione, tendendo alla coniugazione di possibilità espressive ''latenti'' in essa, da P. Rudolph, a J. Johansen, a M. Safdie, a V. Gregotti; i ''figli critici'' di quella lezione, tesi all'esplorazione sofisticata di aspetti procedurali dello statuto formale del razionalismo, dalle ricerche di quelli che furono i Five architects agli attuali Decostruttivisti; i discendenti della radicalizzazione modernistica concentrata nell'accentuazione della mitologia macchinistica e tecnologica, la cosiddetta a. high-tech, da R. Rogers − autore con R. Piano del Beaubourg di Parigi − a N. Foster.

Una seconda linea è di coloro che, pur distaccandosi dall'enfasi modernistica, mantengono declinazioni formative essenzializzate di quella stagione, arricchite da procedure compositive di complessificazione, variamente desunte dalla lezione della tradizione culta o popolare del pre-moderno. Entro questo atteggiamento può raccogliersi gran parte degli architetti che hanno avviato e attuato in molti modi il distacco dal Moderno, sviluppatosi poi impetuosamente in questo ultimo quindicennio: L. Kahn, I. Gardella, J. Stirling, O. M. Ungers, A. Van Eick, R. Giurgola, R. Gabetti e A. Isola, G. De Carlo, C. Aymonino, G. Valle, M. Botta, A. Siza-Vieira.

Una terza linea, di coloro che puntano a un convinto allontanamento, oltre che dalle convinzioni, anche dalla figuratività del Moderno, attraverso i più diversi recuperi della grande tradizione storica pre-moderna: M. Ridolfi, S. Muratori, Ph. Johnson, R. Venturi, A. Rossi, P. Portoghesi, G. Grassi, Ch. Moore, M. Graves, St. Tigerman, H. Jahn, A. Isozachi, R. Stern, il G.R.A.U., M. Culot fino ad arrivare a esercizi eclettici, con le realizzazioni francesi di Bofill o le opere di T. Gordon Smith, o a perseguire un cosciente recupero archeologico dell'a. antica come clamorosamente propone L. Krier. Il quadro determinato dall'intreccio di queste tre linee si configura come particolarmente problematico, stante la profonda diversità che divide le due posizioni estreme. Donde la precarietà di ogni ipotesi circa la sua evoluzione nel decennio del fine millennio appena iniziato. Da un lato per l'evidente esaurimento degli stimoli progressivi, che il tardo modernismo accusa, dall'altro per la tonalità di facile eclettismo stilistico − una sorta di allegra dissipazione linguistica, o di moda stilistica − con cui alcuni attori del Post-Moderno riducono la diversità e la carica rinnovatrice.

La riscoperta e l'utilizzazione, nella nuova sintesi formativa, dei portati della memoria − che è uno degli aspetti più attivi della posizione post-moderna − in molti operatori si risolve in un giuoco di esasperato individualismo, che tende a ridurre gli spunti storici recuperati a ''oggetti'' manipolabili ad libitum, più che a ''presenze'' vive da cui far partire la nuova sintesi. Dimenticando quel necessario rapporto di attivo scambio, che sempre − nelle epoche pre-moderne − l'esercizio di memoria ha avuto dentro lo spessore della tradizione; la quale è sequela attiva, attraverso cui si compaginano vitalmente lettura e rinnovamento formale, organicità tipologica e connessione simbolica. Perché, come giustamente sostiene Feyerabend, "Le tradizioni storiche non possono essere comprese da lontano. Le loro asserzioni, le loro possibilità, i desideri dei loro partecipanti possono essere scoperti solo immergendosi in esse, ossia si deve vivere la vita che si vuole cambiare...".

La tradizione non è ripetizione stanca di formule o di sintesi già consolidate, ma riassunzione e riproposizione creativa − una modalità del tutto diversa dalle procedure formative avanguardistiche della modernità − la quale attiva, attraverso i nuovi dati del tempo nuovo e della persona nuova, gli aspetti duraturi della ricerca formativa precedente. Attraverso cui il nuovo si lega al ''cuore antico'', arricchendosi di qualità significativa. Entro questa modalità formativa, che è atta a consentire un positivo assorbimento di quanto la modernità ha depositato di valido insieme al superamento post-moderno della sua mitologia, può indicarsi una possibile linea di percorso positiva per l'età di transizione, entro cui sembra essersi incamminato il tempo di questo nostro agire. Vedi tav. f.t.

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Storiografia

Antichità greco-romana . − Nella storiografia dell'a. antica, spesso, ma non sempre, in parallelo con quelle dell'arte in genere e della scultura in particolare, si sono via via configurate definibili linee di tendenza, ripetute e talora accentuate nell'ultimo decennio.

Crescente, accanto all'interesse per gli edifici, quello per il territorio e la città, dai momenti preistorici ai più recenti, e di conseguenza per le opere e i sistemi di fortificazione: numerosissimi gli studi sui complessi urbani per configurarne le fasi antiche (anche secondo programmi organici d'insieme), per definirne le forme e le vicende, spesso con approccio non soltanto figurale, ma più latamente sociologico; frequenti gli accertamenti topografici, a volte illuminanti e potenzialmente innovativi anche per a. notissime.

Meno vivace che in altri settori storiografici, ma presente, l'attenzione a fenomeni non riportabili, o non immediatamente, alle grandi aree culturali tradizionalmente definite, con ampliamento d'orizzonti e arricchimento di prospettiva storica: il complesso mondo italico rivela, nella scia di nuovi esiti di storia generale, caratteri e valori propri, liberandosi a poco a poco da giudizi fondati soltanto sul rapporto, di consonanza o dissonanza, con Roma; l'ambiente etrusco mostra sempre più chiara l'originalità propria che, nel rapporto con la Grecia, può aver non soltanto ricevuto, ma dato stimoli e spunti; quanto alla Grecia, l'arte può arricchirsi di senso e di valore nel più vasto contesto di complesse trame di relazioni non più limitate quasi esclusivamente all'ambito egizio e mesopotamico. Vivace e frequente, l'approfondimento degli orientamenti regionali, a costituire, accanto all'ampliarsi delle conoscenze, un più equilibrato riconoscimento di valori: e reca luci nuove anche all'età classica in senso stretto e al suo momento più intenso (tale ancora appare), che s'irraggia dall'Atene periclea: nel Partenone possono cogliersi spunti derivati dal mondo greco occidentale (Magna Grecia, Sicilia) o da modi cicladici del 60 e 50 sec. a.C. (Coulton; Korrès: Parthenon-Kongreß, Basel 1982), ma sono piegati sapientemente all'unità irripetibile, nuovi per un significato nuovo.

Per quanto concerne le vicende nel tempo, evidenti le conquiste conoscitive, anche nella scia dei risultati delle ricerche archeologiche. Per il mondo greco, appare sempre più chiara la necessità di autonoma considerazione dell'età del Bronzo, che sarebbe riduttivo vedere ancora come mero preludio dell'età nuova che dal medioevo ellenico giunge all'arcaismo e alla classicità (ma ciò non significa che l'età nuova possa trattarsi prescindendosi da quanto la precede, come purtroppo si è fatto con sostanziale incomprensione dell'a., ché perdono senso non soltanto l'atteggiamento di fondo della stirpe e le tradizioni, ma addirittura le scelte formali: basti pensare quanto gravido di futuro sia stato il cosiddetto Megaron B di Eleusi); oltre all'età classica, cui si dedicano sempre numerosissimi studi, si guarda con crescente attenzione a quanto la precede e la segue, e il periodo ellenistico in particolare (ma anche il 40 secolo a.C.) si rivela carico di valori propri e stimolante anche per l'ampliarsi della tematica monumentale dall'a. prevalentemente religiosa alle disparate manifestazioni di quella civile. Per il mondo romano, con qualche lentezza si sviluppa la considerazione delle peculiarità che oppongono i vari momenti del fabbricare e la conoscenza delle pertinenti situazioni di cultura.

Per le opere di carattere generale, va notato che è consolidata la prassi di dedicare indipendenti trattazioni alla Grecia e a Roma, segno di una feconda specializzazione degli studi (ma conserva stimolante vivezza il vecchio stringato quadro d'insieme di Robertson 1945). Restano ancora insostituibili strumenti di lavoro, nei rispettivi campi, il manuale di Dinsmoor (1950), anche se largamente superato dal punto di vista sia del metodo (non hanno più seguito le nozioni di avvio, culmine e decadenza delle arti), sia delle valutazioni, e quelli di Crema (1959) e di Boëthius e Ward-Perkins (1970). Si può prevedere crescente la fortuna di studi di singoli periodi a scapito di quelli complessivi (Winter 1984), ma di studi complessivi aggiornati si sente d'altra parte l'esigenza (Ridgway 1986), anche se, a dimostrarne il declino, stanno da una parte il non soddisfacente esito di alcuni recenti (per es., Sear 1982) e dall'altra un attardarsi, contro corrente, su posizioni superate (Gruben, nella scia dei non più recenti lavori di Dinsmoor 1950, Lawrence 1957, ecc., tratta, nel volume edito nel 1980, dell'età del Bronzo, esclusa nel 1962: v. Berve-Gruben 1962).

Se il quadro tematico non manca di fermenti, meno vivace appare quello dei metodi d'indagine, dei modi di far storia.

Nella scia di una tendenza generalmente diffusa, emerge il crescente interesse per l'accertamento di dati in qualche modo oggettivi, sicuri, sottratti alla relatività dell'interpretazione: accanto a un rinnovato e ampliato esame delle fonti antiche, si indagano le opere, notandone e vorremmo dire fotografandone i più minuti particolari, e si definiscono proprietà e caratteri di materiali e tecniche, spesso con l'ausilio della più avanzata tecnologia. L'arricchimento d'informazione è grande e può avviare una più aderente e fonda conoscenza, ma il più spesso o all'informazione si arresta la fatica dello studioso e il mezzo diventa fine, o dai dati 'oggettivi' si elaborano meccanicamente pretese formule 'oggettive' per stabilire cronologie, affinità stilistiche, attribuzioni di autore, e si elude il quadro coerente che accolga ogni aspetto di una cultura, compresi i guizzi di fantasia, le libere scelte, gli esiti imprevedibili che confondono la logica, e in rapporto con l'insieme lasci esprimere un giudizio sul particolare e ne illumini il senso. L'interesse esclusivo per la cronaca vanifica la storia. Nel panorama di una storiografia fondata su metodi pseudoscientifici s'inquadra bene il fiorire di studi condotti da un punto di vista esclusivamente tipologico, del resto favoriti dalla varietà dell'edilizia ellenistica e romana: il tipo fornisce un punto di riferimento sicuro, una sorta di legge che porta ordine in un insieme di fenomeni vario e, almeno al primo sguardo, altrimenti non dominabile; e poco importa che la legge sia più imposta che intrinseca alle a., a eludere un possesso concreto, ma più arduo e problematico, del reale. Frequenti, tese come sono anch'esse all'accertamento di dati 'oggettivi', le ricerche per scovare tracciati geometrici o rapporti proporzionali o criteri modulari che innervino il costruito e atte a illuminare un aspetto del processo creativo e lecitissime in via di principio (quando ovviamente non sfocino in pure fantasticherie per essere le verifiche soltanto grafiche, e non analitiche), ma assai spesso incerte o pericolose, poiché i presunti schemi si sottraggono al vaglio del contemporaneo stato delle conoscenze matematiche, o la presenza ordinatrice, da mezzo liberamente usato e piegato a una volontà d'arte in un coro di apporti, par divenire, essa sola, e causa e fine, e par generare essa, da sola, le fabbriche: la certezza astratta del numero impoverisce e rende quasi senza tempo e senza luogo, senza vita, l'immagine del passato, laddove il numero stesso ha una storia e può esser stato vivificato da un gesto di artefice. Dobbiamo, in sintesi, constatare che il "costante progresso per il più profondo senso storico ed estetico" che Becatti segnalava (in App. II, i, p. 228, s.v. archeologia), non sembra sussistere, almeno in vasti settori della storiografia architettonica. E vanno qui rammentati anche i numerosissimi studi dedicati esclusivamente alle tecniche e alle strutture murarie, i quali, pur conservando autonoma validità per la storia della scienza, sono anch'essi pericolosamente limitativi per la storia dell'a., se non si consertano con osservazioni di forma: abbondano soprattutto nell'ambito degli edifici romani, dove queste scarseggiano per una sorta d'incertezza, di limite tradizionale.

La predilezione per l'accertamento di dati in qualche modo oggettivi, o ritenuti tali, è generale tendenza d'oggi, e sottilmente si lega, nella storiografia dell'arte classica, con l'idea di bellezza oggettiva, valida in ogni tempo e in ogni luogo, propria del classicismo di fondo che, venato di apporti positivistici, ha perpetuato fino ai nostri giorni quello autentico d'origine, nato con Winckelmann, ma in simbiosi con un'ansia d'espressività, nel clima fervido del classicismo romantico: un'attardata presenza, che si rinvigorisce per un favorevole orientamento attuale del gusto e della prassi, che, superato il momento entusiastico del movimento moderno e la sua almeno apparente libertà, si piegano a un rinnovato ordine costrittivo, alla retorica disincantata del postmoderno e ai suoi significativi recuperi di fattezze antiche, ennesima manifestazione di un disagio endemico della civiltà dell'Occidente europeo. Il classicismo di fondo che permea la storiografia dell'arte classica (soprattutto quella di a.) si caratterizza, così come la tendenza nuova della prassi, per un distacco dai contenuti e per un interesse alle fattezze delle opere, dei quali proprio nel classicismo romantico si rintracciano le radici, fattisi via via più fondo l'uno e più esclusivo l'altro; e le fattezze, sottratte alla sintesi della forma (in cui le distinguiamo come figure dialetticamente opposte ai contenuti), disancorate dai perché del loro nascere (indicativo lo scarso peso dato in genere alle funzioni), mute per essere i fruitori sordi ai loro messaggi, possono avvilirsi in giochi sterili di neoclassica perfezione, di coerenza artificiosa. Per piegare i monumenti alle norme di tale perfezione, si forzano i dati a suggerire una storia senza verità, e restano in ombra l'ansia di storia vera, talora palesemente espressa e spesso confusamente avvertibile, e la consapevolezza (ovvia, si direbbe, ma di rado riscontrabile di fatto) che in tempi e luoghi diversi, in breve in diverse culture, gli uomini pensano e vivono e producono in modi diversi e che per intendere il passato è necessario aver coscienza di atteggiamenti umani non riducibili a uno solo e differenti anche radicalmente, all'occasione, dal nostro.

Ad esempio, per spiegare pretese 'anomalie' del Partenone (e si rammentano qui la dissimmetrica positura rispetto al basamento e il diverso diametro delle colonne nel pronaos e nell'opisthodomos) si è potuta evocare una precedente fabbrica cimoniana nello stesso luogo in gran parte costruita (ma ignorata dalle fonti) che, per essere stati il suo basamento e i suoi materiali riusati in quella definitiva, avrebbe costretto l'artefice a compromessi, a scelte infelici. Ma, come altri, pochi, ritengono, basta rifiutare il metro di giudizio estraneo, basta saper vedere la riuscita là dove veramente è, basta aprirsi alle voci del costruito, per intendere che il capolavoro pericleo (non importa ora quale sia stata la sequenza esecutiva e quali e quanti i possibilissimi mutamenti di disegno) è opera coerente così come appare, e i fronti ovest ed est, che del resto si legano a due distinte celle, si differenziano, per positura rispetto al basamento e per caratteri, per una consapevole volontà d'arte, per apparire l'uno tragicamente incombente e l'altro serenamente disteso, per suscitare, anche con le sculture, senso diverso, o la marea del divenire, turbata e presaga di dissolvimento, o la vitalità dell'essere, sicura e sottratta al tempo.

Alle carenze metodologiche sul fronte della storia si affiancano assai spesso lacune di sensibilità sul fronte della materia di storia: queste in qualche modo provocate o favorite da quelle, ché le ricerche limitate all'accertamento dei dati o le conclusioni meccanicamente dedotte da formule precostituite possono prescindere dall'intendimento dell'a., che resta, troppo spesso, ignorata. Gli archeologi, attenti al reperto, interpretano resti e li ricompongono in ricostruzioni non di rado fantasiose. Gli storici dell'arte, anche quando affrontano questioni di forma, avviliscono le fabbriche valutandole col metro delle altre arti visive. Ma l'a. ha da essere intesa nella sua specificità: i suoi artefici formano lo spazio, mentre per via di un confine murato ne articolano le parti e per via di modulazioni plastiche o pittoriche ne dicono e comunicano le qualità e il senso; i suoi storici debbono seguirli e partecipare alla creazione per una sensibilità comune, mentre compongono del passato un quadro coerente.

Fonte di arricchimento storiografico sono talvolta le ricerche condotte ai fini del restauro delle fabbriche, ma ancora una volta il limite metodologico e l'indifferenza all'a. reale possono generare, accanto a precisazioni preziose di dati, interventi controversi. È il caso del Partenone (per insistere su un unico esempio): accertamenti minuziosi e acuti ne hanno rivelato particolarità e caratteri prima non noti, ma rischiano di ridurlo definitivamente a copia falsata dell'originale i restauri tuttora in corso, fondati sulla discutibile idea che un tempio dorico, per essere costituito da blocchi litei avvicinati e sovrapposti senza leganti, sia identico a una macchina, e possa essere smembrato e ricomposto, e possano le parti danneggiate o mancanti essere sostituite, senza danno per l'autenticità (Korrès 1989). Così, la storiografia dell'a. può farsi complice di distruzione: dirà il futuro se si attarderà sulle posizioni attuali o si affermeranno le ancora sommesse consapevolezze nuove.

Bibl.: Per le tendenze della storiografia, F. E. Winter, The study of Greek architecture, in American Journal of Archaeology, 88 (1984), pp. 103-06; B. S. Ridgway, The state of research on ancient art, in The Art Bulletin, 68 (1986), 1, pp. 7-23. Per le bibl., ma anche per i riferimenti o i cenni a orientamenti storiografici, v. le voci archeologia (IV, p. 26; App. II, i, p. 228; App. III, i, p. 120) e critica: La critica d'arte (XI, p. 981; App. II, i, p. 730), e i paragrafi dedicati all'a. o all'arte in genere nelle voci sulle singole regioni e culture (per es. cretese micenea, Civiltà); in particolare per l'a. greca e romana v. grecia: Arti figurative (XVII, p. 854); grecia: Archeologia ed arte antica (App. II, i, p. 1085; IV, ii, p. 113); roma: Roma antica, Arte, Architettura classica (XXIX, p. 714); roma: Arte antica (App. II, ii, p. 739). Per il territorio e la città (opere generali): R. E. Wycherley, How the Greeks built cities, Londra 1949; R. Martin, L'urbanisme dans la Grèce antique, Parigi 1956; E. Egli, Geschichte des Städtebaues, i, Die alte Welt, Zurigo e Stoccarda 1959; A. Giuliano, Urbanistica delle città greche, Milano 1966; M. Coppa, Storia dell'urbanistica dalle origini all'ellenismo, 2 voll., Torino 1968; F. E. Winter, Greek fortifications, Toronto e Buffalo 1971; A. W. Lawrence, Greek aims in fortification, Oxford 1979; M. Coppa, Storia dell'urbanistica. Le età ellenistiche, 2 voll., Roma 1981; E. Greco, M. Torelli, Storia dell'urbanistica. Il mondo greco, Roma-Bari 1983; A. Garcia y Bellido, Urbanistica de las grandes ciudades del mundo antiguo, 2ª ed. accresciuta, Madrid 1985. Per l'a. greca (opere generali): D. S. Robertson, A handbood of greek and roman architecture, 2ª ed. ristampata con correzioni, Cambridge 1945 (e poi 1954); W. B. Dinsmoor, The architecture of ancient Greece, LondraNew York-Toronto-Sidney 1950; A. W. Lawrence, Greek architecture, Harmondsworth ecc. 1957 (The Pelican history of art); V. Scully, The earth, the temple and the gods. Greek sacred architecture, New Haven e Londra 1962; H. Berve, G. Gruben, I templi greci, Monaco-Firenze 1962; R. Martin, Manuel d'architecture grecque, i, Matériaux et techniques, Parigi 1965; Id., Architettura greca, Milano 1980; G. Gruben, Die Tempel der Griechen, Monaco 1980; H. Lauter, Die Architektur des Hellenismus, Darmstadt 1986; H. Knell, Architektur der Greechen, ivi 1988. Per l'a. romana (opere generali): D. S. Robertson, op. cit.; L. Crema, L'architettura romana, in Enciclopedia classica, sez. iii, Archeologia e storia dell'arte classica, vol. xii, Archeologia (Arte romana), tomo i, Torino 1959; F. E. Brown, Roman architecture, New York 1961; A. Boëthius, J. B. Ward-Perkins, Etruscan and Roman architecture, Harmondsworth 1970 (The Pelican history of art); Id., Architettura romana, Milano 1979; F. Sear, Roman architecture, Londra s.a. (ma 1982). Per le tecniche di costruzione: R. Ginouvès, R. Martin, Dictionnaire méthodique de l'architecture grecque et romaine, i, Matériaux, techniques de construction, techniques et formes du décor, Roma 1985. Per singoli edifici, in qualche modo richiamati: R. Carpenter, The architects of the Parthenon, Harmondsworth 1970; A. K. Orlandu, ῾Η ἀϱχιτεϰτονιϰ τοῦ ΠαϱϑενῶνοϚ, 3 voll., Atene 1976-78; AA. VV., Μελέτη ἀποϰαταστάσεωϚ τοῦ ᾽Εϱεχϑείου, ivi 1977; M. Korrès, Ch. Buras,Μελέτη ἀποϰαταστάσεωϚ τοῦ ΠαϱϑενῶνοϚ, ivi 1983; Parthenon-Kongreß Basel. Referate und Berichte 4. bis 8. April 1982, 2 voll., Magonza 1984; 2nd international meeting for the restoration of the Acropolis monuments, Parthenon, Athens 12-14 September 1983, Atene 1985; C. Tiberi, Note sulla teoria dell'esistenza di un Partenone cimoniano, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, vol. 60 (1987-88), pp. 189-220; M. Korrès, N. Toganidis, K. Zampas, Th. Skulikidis e al., Μελέτη ἀποϰαταστάσεωϚ τοῦ ΠαϱϑενῶνοϚ, II, i, Atene 1989; M. Korrès, Μελέτη ἀποϰαταστάσεωϚ τοῦ ΠαϱϑενῶνοϚ, II, ii, ivi 1989.

Medioevo occidentale. − Negli ultimi cinquant'anni gli studi di storia dell'a. medievale hanno conosciuto un ampio rinnovamento sia nei metodi, negli obiettivi e negli stessi temi d'indagine, sia attraverso i risultati delle molte ricerche specifiche che hanno precisato datazioni e fasi costruttive di singole opere o gruppi di edifici, modificando e talora rovesciando la lettura di figure, episodi o interi capitoli della materia. Tuttavia né gli aggiornamenti teorici, né tale lavoro analitico hanno tolto validità nelle linee sostanziali al quadro storiografico già tracciato negli anni Venti e Trenta, riflesso dalle grandi sintesi sugli sviluppi artistici regionali e nazionali (per l'Italia, di Toesca 1927), in quanto l'analisi dei linguaggi e dei processi formali, che costituisce la grande acquisizione della letteratura critica in quello scorcio di anni, rimane tuttora lo strumento più aderente, e comunque indispensabile, alla comprensione dell'a. romanica e gotica.

Le lezioni di H. Focillon, raccolte in volume proprio al termine di questo intenso periodo (1938), riassumono e reinterpretano il lavoro precedente, dalle ricerche degli archéologues alle tesi razionaliste di E. Viollet-le-Duc (rivedute in base alle obiezioni di Abraham 1934, e alle precisazioni filologiche di Aubert 1934), integrandone i risultati in una comprensiva visione storica, con nuove valutazioni degli aspetti tecnici e formali, che consentono di mettere in luce l'intenzione artistica delle singole realizzazioni, e i connessi problemi generali: come quello del rapporto, o contrasto, tra la tradizione artistica dell'Europa settentrionale e le ricerche innovative che nell'110 secolo caratterizzano la Spagna e la Francia a sud della Loira, tema svolto dallo stesso Focillon in un'opera postuma (1952) e ripreso dagli studiosi della generazione successiva, in particolare dai suoi allievi (Grodecki 1958); o come i temi della ''transizione'' dal romanico al gotico e degli sviluppi di questo linguaggio nella Francia settentrionale, secondo la linea di Chartres o di Bourges, ampiamente sviluppati dalla storiografia successiva (da ultimo Bony 1983). Le ricerche formalistiche del maestro francese promuovono ugualmente gli studi sull'ornamentazione romanica e gotica, che aprono la via all'interesse per l''immaginario' medievale, nei suoi riflessi simbolici e iconologici (Baltrušaitis 1955). Per queste ragioni, l'opera di Focillon, in cui all'a. è riconosciuto il ruolo di ''tecnica-guida'', che subordina e determina tutte le forze vive dell'arte medievale, può essere efficacemente assunta quale punto di partenza di un'essenziale rassegna degli studi in questo settore.

Sotto l'aspetto metodologico il rinnovamento della storiografia sull'a. medievale è da mettere in rapporto con la rinascita d'interesse per gli studi iconografici. A questo genere di ricerche aveva già dato nuovo sviluppo E. Mâle, raccogliendo le fonti letterarie relative alla liturgia e mettendole in rapporto con le manifestazioni artistiche; ma la nuova tendenza si rivolge piuttosto all'esame delle relazioni intercorrenti tra significato dell'immagine e cultura che l'ha prodotta nel suo complesso e nel senso più ampio, secondo il tipo di approccio definito da E. Panofsky.

Il metodo iconologico è stato applicato a diversi momenti e problemi di a. medievale, accentuandone ora le implicazioni simboliche (Sedlmayr 1950, Bandmann 1951, Smith 1956), ora i contenuti ideologici (Krautheimer 1942b) o i riferimenti alla produzione letteraria e filosofica dell'epoca e alla personalità dei protagonisti (Panofsky 1946 e 1951); nel saggio Introduction to an ''Iconography of Mediaeval Architecture'' (1942a) R. Krautheimer ne sintetizza gli obiettivi indagando gli aspetti di un edificio medievale più importanti agli occhi dei contemporanei, in particolare quelli relativi al suo significato religioso. Più recentemente, sviluppando la rilettura fatta da Panofsky del testo di Suger, abate di Saint-Denis, e muovendo dall'interpretazione di H. Sedlmayr della cattedrale gotica come simbolo della Gerusalemme celeste − ma contestando che tale operazione sia stata condotta dalla cultura medievale come rappresentazione visibile (Abbildung), immagine illusionistica, della visione apocalittica − O. Von Simson (1956) ha messo in rapporto l'invenzione dell'edificio gotico con la teologia del bello elaborata, sviluppando temi platonici e agostiniani, dall'ambiente di Chartres: lo strumento mediante il quale i costruttori adeguano l'edificio terreno alla bellezza divina vera e assoluta, è rappresentato dall'impiego di rapporti metrici corrispondenti a quelli degli accordi musicali perfetti. Sotto questo aspetto, gli studi iconologici si assimilano alle interpretazioni numerologiche e proporzionali dell'a., un genere che ha avuto ampio sviluppo, ma non sempre con risultati convincenti, talora per mancanza di una sicura impostazione storica, ma anche perché questi nu meri e figure, ove pure siano stati originariamente tenuti presenti dai costruttori, rimangono spesso inavvertibili nell'edificio concreto e non inci dono sulla sua configurazione; esemplare invece, per la corrispondenza tra esiti costruttivi e schemi di proporzionamento, è la ricerca sulla prima a. cistercense condotta da H. Hahn (1957).

Se il metodo iconologico ha condotto a risultati di grande importanza, per quanto attiene lo studio delle condizioni culturali all'origine di molte opere architettoniche medievali, costituendosi come indispensabile alla loro completa intelligenza, un limite di queste ricerche è nel fatto che il pensiero degli artefici riguardo al loro effettivo operare non è stato quasi mai trasmesso in modo diretto dalle fonti (e le stesse eccezioni, rarissime per il Medioevo, probabilmente non fanno riferimento alle vere ''intenzioni'', ma ricorrono a formule correnti o ritenute utili), sicché ad architetti e artisti vengono attribuiti contenuti desunti da altri campi dell'attività umana, invece di quelli rintracciabili o verificabili attraverso l'analisi delle loro opere. L'approccio sociologico in quanto tale, nelle sue applicazionni alla lettura degli edifici medievali, non ha dato luogo a risultati altrettanto validi e concordemente accettati: con l'a. gotica, per es., si è indicata l'espressione del sistema feudale, o al contrario di strutture socio-politiche nuove e anticipatrici del mondo moderno. La considerazione degli aspetti sociali comunque rappresenta una componente importante di studi che si avvalgono di metodologie complesse.

La proposta che viene da A. M. Romanini, nell'esaminare il rapporto tra storia dell'arte e dell'a., di una storia dell'arte medievale sostanzialmente in termini di Kulturgeschichte, trova applicazione nel campo degli studi di a., dove l'analisi degli aspetti materiali e sociali dell'opera (riflessi nei suoi processi di realizzazione e nelle trasformazioni successive) dà consistenza immediata a una valutazione dell'oggetto artistico come ''documento'' in termini di storia globale; ma con l'avviso, come osserva la Romanini stessa (1983 e 1984), che il valore documentario dell'edificio, in quanto oggetto artistico, può essere evidenziato soltanto attraverso una lettura rigorosamente specifica, e quindi attenta alle sue qualità formali.

Si è fin qui rivolta l'attenzione ai contributi di studiosi, che sebbene abbiano dedicato, in modo talora prevalente o addirittura esclusivo, la loro produzione a ricerche di storia dell'a., appartengono come formazione e militanza alla categoria degli storici dell'arte; accanto ai quali, senza entrare nel merito della legittimità di una distinzione tra storia dell'a. e storia dell'arte, vanno ricordati quelli degli storici dell'a.-architetti, il cui operare è caratterizzato non tanto dal riferimento a determinate metodologie, quanto dall'uso di specifici strumenti (dal rilievo alla restituzione grafica di progetti o di edifici scomparsi, e dall'analisi delle strutture, condotta anche attraverso il restauro, all'impiego preferenziale di particolari tipi di fonti, come disegni antichi, catasti, libri di cantiere), e soprattutto da una costante attenzio ne alla complessa ''realtà'' dell'a. (che è, ma non è solo, la sua concreta essenza spazio-strutturale) nell'intero processo formativo che va dalla progettazione alla realizzazione.

Tra questi storici architetti, eredi di un'illustre tradizione che risale, in epoca moderna, a Viollet-le-Duc, a C. Boito e a G. Giovannoni, vanno inclusi K. J. Conant, cui si devono le indagini su un tema centrale dell'a. romanica come quello dell'abbazia di Cluny, e H. E. Kubach, autore con W. Haas dei restauri del duomo di Spira. In Italia, dove la tradizione degli studi storici di a. è particolarmente viva, si devono ricordare tra gli altri: P. Verzone per i suoi studi sull'a. preromanica e romanica nell'Italia settentrionale (1942); P. Sanpaolesi, che ha indagato i monumenti medievali pisani (1974) e fiorentini; G. De Angelis d'Ossat, maestro della ''scuola romana'' di storia dell'a., per i suoi contributi sulle influenze bizantine nell'a. romanica (1942) e sull'a. ravennate (1962). In questo gruppo si distingue l'opera di R. Bonelli, per la particolare e continua attenzione ai temi medievali e per l'impegno metodologico rivolto a fondere gli strumenti dell'analisi architettonica con le idee dell'estetica e della critica contemporanea. L'indagine diretta delle strutture e un rigoroso rilievo grafico sono alla base degli studi monografici di G. Rocchi (S. Francesco di Assisi, 1982; cattedrale di Firenze, 1988), che raggiunge per questa via risultati innovativi.

Per quanto riguarda i campi di ricerca, al tradizionale oggetto d'indagine dello storico di a., rappresentato dall'edificio studiato sotto ogni aspetto (o dalla serie di edifici assimilabili e confrontabili), gli studi recenti hanno affiancato ulteriori temi, o sviluppato specifici settori, che in qualche caso hanno raggiunto l'ampiezza di attività disciplinari autonome: la prevalente attenzione rivolta negli ultimi anni ai dati materiali della costruzione (conseguente forse all'eccessivo verbalismo di certa storiografia precedente, ma che spesso assume il carattere di un programmatico ''neo-filologismo'', con il rifiuto di far seguire all'analisi qualsiasi forma di giudizio), ha avuto quale riscontro positivo il nuovo vigore assunto dalle ricerche sulla tecnica edilizia medievale, in parte trascurate nel trentennio precedente, in sintonia con il rapido sviluppo dell'''archeologia medievale''.

Per questo filone di studi rimangono esemplari le analisi condotte, mediante indagini di tipo archeologico, da R. Krautheimer (Corpus basilicarum christianarum Romae, 1937-77) e i contributi pionieristici sulle strutture murarie antiche e medievali degli studiosi facenti capo al Centro di studi per la Storia dell'architettura di Roma. Caratterizzati da un taglio non analitico ma sintetico, e ovviamente dipendenti da diversi tipi di fonti (per il periodo gotico un'ampia analisi delle fonti contemporanee e successive è in Frankl 1960), sono gli studi sull'organizzazione del cantiere, sui materiali, su metodi e strumenti della progettazione e della costruzione, e più in genere sull'attività delle maestranze e degli architetti. Il settore ha avuto un notevole sviluppo fuori d'Italia, con i lavori di Du Colombier (1953), Booz (1956), Aubert (1960-61), Harvey (1971 e 1972), mentre da noi, dove l'unico cantiere per il quale sia stata presa in esame la documentazione completa è quello del duomo di Milano, questo campo di ricerca conosce solo ora una ripresa d'interesse, insieme con l'avvio, in alcuni casi (Siena: Riedl e Seidel 1985; Orvieto: AA.VV. 1988), di sistematiche ricerche archivistiche. Nuovi studi sono rivolti alla tecnica costruttiva delle volte e delle cupole medievali, condotti anche mediante l'impiego di sofisticate analisi sperimentali (Mark 1982), e attraverso l'introduzione di indagini storiche in discipline come la Meccanica dei solidi e delle strutture e la Scienza delle costruzioni, sicché il campo relativo alla storia delle tecniche e delle scienze del fabbricare si presenta oggi quanto mai vivo e attuale.

Altro settore che ha conosciuto un ampio sviluppo e rinnovamento dei metodi e degli obiettivi della ricerca è quello sulla storia della città medievale. Con l'analisi morfologica delle planimetrie urbane e la definizione di sistemi di classificazione tipologica, questa disciplina è andata progressivamente assumendo, a partire dagli anni Quaranta, un ruolo autonomo rispetto alle ricerche di storia politica, economica, giuridica e sociale sullo stesso tema. I risultati di questo lavoro, per l'Italia dovuto soprattutto a L. Piccinato (1943), sono riassunti nell'opera di P. Lavedan e J. Hugueney (1974); ma l'inevitabile schematismo proprio a tale impostazione, che ha comunque il merito di aver posto a disposizione degli studiosi un ingente materiale iconografico, mortifica i caratteri sostanziali dell'urbanistica medievale, poiché la concezione urbana di quel periodo è essenzialmente il frutto dell'aggregazione minuta, multipla e varia, di elementi edilizi e spaziali irriducibili alla sola dimensione planimetrica. Per motivi analoghi, perché strutturalmente inadatta a recepire i caratteri di originalità e particolarità delle singole composizioni spaziali, non dà risultati pienamente soddisfacenti, sul piano della lettura critica della città medievale, neppure l'analisi delle tipologie edilizie elaborata da Muratori (1959) e dalla sua scuola, in particolare con gli studi di Caniggia su Como (1963).

Nella seconda metà degli anni Sessanta, appaiono le prime ricerche condotte in chiave di lettura iconologica della ''figura urbana'' da parte di E. Guidoni e altri: l'idea alla base di questi lavori è quella d'interpretare il modello planimetrico, "intersezione con il terreno dell'organismo urbano", come forma simbolica della società storica che lo ha prodotto. Ma così ancora una volta si torna alla considerazione di un'immagine esclusivamente bidimen sionale; in più, se il metodo, riferito a casi particolari, dà luogo a ''letture'' efficaci (Guidoni 1965: piazza del Campo di Siena equiparata alla forma stilizzata del manto della Vergine), non altrettanto convincente risulta quando una medesima figura sia applicata a situazioni diverse, senza tener conto di esigenze pratiche, disponibilità di aree o variabili locali, che non potevano non influire sulle scelte adottate, come nella localizzazione dei conventi mendicanti entro l'ambito cittadino. L'interpretazione iconologica si dimostra comunque indispensabile, e precede il giudizio critico sui valori dell'esperienza complessiva rappresentata dalla città, nella lettura degli impianti urbani, per i quali il valore simbolico conferito all'atto progettuale emerga con immediatezza dall'analisi della loro struttura; in altre parole quando significato e forma si compenetrano intimamente e il significato può essere dedotto dalla forma in modo diretto e reciproco. È il caso de L'Aquila, studiata da G. Spagnesi (1972), che rilegge la configurazione di ogni episodio urbano, verificandola alla luce dei mutamenti ideologico-culturali espressi dalla storia politico-sociale della città. Per la storia urbana e per i criteri di composizione spaziale usati nel Medioevo, preziose indicazioni vengono anche dagli studi recenti di R. Krautheimer e G. De Angelis d'Ossat. Nel volume del primo su Roma medievale (1980), città e territorio sono intesi come organismo vivente, in cui l'insediamento civile prende forma, e i monumenti sono assunti a protagonisti operanti di una storia dell'a. che diventa sinonimo di storia nel senso più ampio. Concentrando invece la sua analisi su un tema particolare, De Angelis d'Ossat (1986) chiarisce le leggi visuali e geometriche, che regolano le successive fasi di realizzazione del complesso episcopale pisano. Ma i risultati accattivanti di tali lavori, più che esemplificazioni di metodo generalizzabili, sono il frutto dell'acutezza ermeneutica, della straordinaria capacità di orientarsi in campi disciplinari diversi e della pluridecennale frequentazione degli argomenti trattati da parte degli autori.

Con questa considerazione siamo ricondotti all'ultimo aspetto di questa rassegna della storiografia sull'a. medievale: resta da dar conto infatti delle principali linee di ricerca e di alcune almeno tra le acquisizioni più significative conseguite dagli studi in questo cinquantennio, nel quale non sono mancate trattazioni sistematiche e di carattere generale, estese all'intero periodo dal secolo 80 al 150, o a settori comunque ampi di tale arco di tempo, ma che ha visto in genere l'attenzione indirizzata verso fatti e fenomeni omogenei, e perciò limitati, con una conseguente caduta d'interesse per le sintesi più ampie e per il dibattito sulle partizioni storiografiche tradizionali (carolingio, ottoniano, ''secolo dell'anno mille'', romanico, gotico, tardo-gotico, ecc.), considerate meramente strumentali.

Tra le opere di taglio maggiore conviene tuttavia ricordare i due volumi dedicati all'a. del Medioevo occidentale nella Pelican history of art, di K. J. Conant per il romanico (1959) e di P. Frankl per il gotico (1962); cui si affiancano, nella stessa collezione, le sintesi su argomenti complementari o temi più specifici, di R. Krautheimer (1965) per l'architettura bizantina, di G. F. Webb (1956) per quella inglese, di J. White (1966) sull'arte e l'a. italiana dal 1200 al 1400. Questo tipo di trattazioni sintetiche, dal classico testo di A. W. Clapham (1936) a quelli recenti di H. E. Kubach (1972) e di J. Grodecki (1976), può essere integrato con le sezioni dedicate all'a. medievale nelle maggiori storie universali dell'arte, come la Propyläen Kunstgeschichte (a cura di H. Fillitz, 1969; di O. Von Simson, 1972; di J. Bialostocki, 1972). Sulla storia della città nell'ambito di un'ampia iniziativa sistematica in corso di pubblicazione, si segnala il contributo di V. Franchetti Pardo (1982). I volumi della serie La nuit des temps, dedicata all'a. regionale romanica in Francia, che assegna un ruolo importante alla documentazione fotografica, hanno ora un corrispondente italiano nella collezione Italia romanica. Per quanto riguarda le opere di sintesi sull'a. del Medioevo in Italia, è disponibile un volume recente sull'a. religiosa nell'110 e 120 secolo (Brucher 1987), mentre sono ancora insostituibili, per l'ampiezza dell'indagine, quelli sulle costruzioni due- e trecentesche di R. Wagner-Rieger (1956 e 1957). Ma, in una prospettiva storica, è opportuno ricordare i due saggi di G. C. Argan (1936 e 1937), che al loro apparire contribuirono all'aggiornamento in senso critico-visivo delle ricerche di a. medievale; fondamentale, per l'inquadramento delle costruzioni dell'110 secolo nel contesto delle esperienze europee, è stata la sintesi di H. Thümmler (1939), così come, per gli ampi riferimenti alla cultura architettonica d'oltralpe, lo studio di W. Krönig sulle chiese medievali a sala (1938).

Passando ai contributi di taglio specifico o monografico, le conoscenze relative all'a. carolingia sono state incrementate a partire dagli anni immediatamente seguenti l'ultimo conflitto mondiale, anche grazie ad alcune importanti e fortunate campagne di scavo, come quelle condotte da S. Mk. Crosby e poi da J. Formigé nell'abbazia di Saint-Denis, e da H. Bernard a Centula (rotonda di S. Maria); alle indagini sui ''palazzi'' carolingi (Aquisgrana, Paderborn, Ingelheim, Ginevra); o, per l'Italia, ai ritrovamenti nella chiesa di S. Sofia di Benevento: in realtà gli esiti di molte di queste ricerche non sono stati accolti concordemente dalla storiografia specialistica, ma hanno contribuito ad arricchire il dibattito, che si è fatto assai vivace in occasione della grande mostra Karl der Grosse (Aquisgrana 1965), tappa fondamentale per gli studi disciplinari. Ulteriori novità sembrano poter venire ancora dagli scavi di H. R. Sennhauser a S. Gallo, dove intanto W. Horn ed E. Born (1979) hanno studiato la ben nota pianta dell'abbazia e prodotto un modello dell'intero complesso. Le più recenti riletture dell'a. carolingia (Hubert 1968; Heitz 1980; D'Onofrio 1983) hanno ripreso e precisato alcuni temi fondamentali: quello dell'imitazione del mondo antico e del revival paleocristiano (con le sue connotazioni religiose e politiche); l'idea spaziale presente nei grandi monasteri e nelle residenze imperiali (per cui impropriamente si è parlato di concezione urbanistica); soprattutto le variazioni apportate al modello dell'edificio sacro (basilicale o centrale), tra cui il principale elemento di novità è pressoché concordemente riconosciuto nel Westwerk (corpo occidentale della chiesa, con facciata serrata da torri scalari: il pianoterra poteva assolvere funzioni diverse, sulle quali non esiste un accordo totale tra gli archeologi, mentre la tribuna superiore, aperta verso l'interno in una loggia, era generalmente destinata all'imperatore e ai notabili). Per questa connessione con la presenza di un'autorità politica, affiancata o contrapposta a quella religiosa, del Westwerk sono state date letture in chiave simbolica, soprattutto a opera della storiografia tedesca, che ha particolarmente sviluppato queste tematiche in rapporto alla posizione dominante assunta nell'immagine della chiesa, o all'eventuale presenza di altri volumi turriti equivalenti sul presbiterio, come poi nelle cattedrali renane dei secoli 110 e 120 (Kaiserdome).

Gli studi sull'a. francese dell'110 e 120 secolo sono stati caratterizzati dal moltiplicarsi delle indagini filologiche, favorite dall'attività di restauro che ha interessato molti monumenti medievali. I temi centrali della ricerca, per la straordinaria importanza degli edifici esaminati, hanno riguardato soprattutto la storia della costruzione e il ruolo di Cluny; i modi e tempi di definizione del tipo di chiesa cosiddetta di pellegrinaggio; il problema dell'impianto ''benedettino'' e della sua diffusione. Ma altre questioni particolari, relative a soluzioni tecniche, modalità costruttive, singoli elementi della decorazione o della plastica muraria, tipi planimetrici o strutturali, hanno ugualmente attratto l'interesse degli studiosi, che ne hanno precisato origini e cronologia con accurate e laboriose ricerche. Ora, a parte la riserva che tal genere di studi rappresenta soltanto la premessa di un catalogo ragionato dei monumenti e non ne realizza una comprensiva lettura critica, si deve osservare che la validità delle indagini filologiche specifiche è limitata ai casi in cui la ricerca sia rivolta a un aspetto essenziale (determinante l'immagine), o ricondotta a una valutazione complessiva dell'edificio, mentre gli studi applicati agli elementi costruttivi e architettonici più semplici, o alla pura tipologia della pianta, hanno portato a conclusioni devianti, che costituiscono il limite di questa, sotto certi aspetti pur meritevole, letteratura.

Le ricerche di K. J. Conant su Cluny iii (1968) e il dibattito seguito (Salet 1968), che riflette in ultima analisi la diversa interpretazione circa la natura preminentemente creativa e figurativa, e comunque legata a un preciso Kunstwollen, o viceversa strutturale e pratica, dei processi di copertura a volta della chiesa romanica, trovano un'eco nei risultati delle indagini sui monumenti lombardo-padani, nelle divergenti posizioni di chi, valutando non determinante il problema delle coperture e sperimentalmente intercambiabili le soluzioni adottate, tende a unificarli in una comune area culturale (Peroni 1969), e di chi invece li contrappone, individuando una scuola ''emiliana'' identificata nella personalità di Lanfranco, il costruttore del duomo di Modena, sulla base della scelta programmatica di una copertura lignea, come alternativa alla problematica e alla poetica romanica della copertura a volta (Quintavalle 1964-65 e 1973; Salvini 1966). Gli studi più recenti sulla chiesa modenese (AA.VV. 1984 e 1989) hanno abbandonato l'impostazione così data al problema; ma, alla radice di questa e, generalizzando, di altre diversificate interpretazioni dei monumenti medievali, è l'accento portato, nella lettura, sulle caratteristiche spaziali e sulle qualità strutturali in termini di forma visiva specifiche dell'a., rispetto all'uso di metodologie proprie ai valori della plastica figurativa e architettonica o alla rigorosa ma esclusiva considerazione degli aspetti filologici: tra i compiti attuali e prossimi della storiografia dell'a. medievale è sicuramente quello di estendere il confronto e l'integrazione dei risultati di questi diversi approcci.

Nuove indicazioni di ricerca provengono anche dalle indagini archeologiche. Un esempio è offerto dalle risultanze degli scavi condotti nelle sottostrutture del duomo di Firenze che hanno portato in luce l'impianto dell'antica cattedrale di S. Reparata, e rivelato le successive trasformazioni della chiesa paleocristiana, prima in epoca carolingia e poi nell'110 e 120 secolo; ma gli interrogativi aperti dalle nuove scoperte superano le risposte finora offerte dai dati archeologici e ne impongono la rilettura in direzione del rapporto con i monumenti lombardi e con i modelli cluniacensi. Risultati meno spettacolari, ma ugualmente importanti, hanno avuto gli scavi di A. Pantoni a Montecassino e a S. Vincenzo sul Volturno, che hanno contribuito a rinnovare l'interesse per l'arte medievale nell'Italia meridionale, tenuto vivo, dopo le ricerche di K. J. Conant e H. M. Willard (1935) sull'abbazia desideriana, e dopo i contributi di H. M. Schwarz (1942-44) e di S. Bottari (1939 e 1948) per le relazioni con il romanico d'oltralpe, dagli studi di G. de Francovich e della sua scuola. Sull'a. nelle regioni meridionali, si segnalano l'ampia sintesi di A. Venditti (1967), che esplora il versante dei rapporti con il mondo bizantino, e i contributi particolari di M. D'Onofrio (1974 e 1981) e di G. Carbonara (1979) per la Campania e i territori limitrofi, di P. Belli d'Elia (1975 e 1987) sulla Puglia, di C. Bozzoni (1974) sulla Calabria, di G. Di Stefano (1956) e di W. Krönig (1965) sulla Sicilia, che insieme a numerosi altri lavori di taglio monografico testimoniano la vitalità di quest'area di ricerca varia, articolata e complessa.

Per l'a. della seconda metà del 120 e del 130 secolo, in rapporto all'affermazione e al diffondersi del linguaggio gotico, si è già avuta occasione di ricordare alcuni studi importanti, ai quali è opportuno aggiungere almeno quello di H. Jantzen (1957) sulle cattedrali dell'Ilede-France, che ribadisce il concetto di ''diafanità'' della parete in terna, già definito dallo stesso studioso fin dal 1928 come criterio interpretativo dello spazio gotico, accanto a quello di ''strutturabaldacchino'' proposto da Sedlmayr nel 1933; cui si aggiungono la diagonalità della visione e l'effetto di ''tessitura'' (suddivisione di un'entità spaziale che rimane però unitaria), in cui Frankl (1962) individua l'effetto dell'introduzione del costolone. Originali per l'impostazione metodologica rivolta all'individuazione delle singole personalità artistiche che segnano la storia della cattedrale gotica sino alla fase iniziale del rayonnant, sono i numerosi contributi di R. Branner (1960, 1962, 1965), al quale si deve la definizione nell'area parigina di un particolare "stile di corte di san Luigi", le cui cifre stilistiche diventano in seguito patrimonio comune a tutto il gotico europeo. A un gotico diverso si sono indirizzate le indagini di W. Gross (1948), ma il mutamento di atmosfera individuabile intorno ai primi anni del 140 secolo, che ha origine con il manifestarsi di una nuova sensibilità spaziale in Linguadoca, in Catalogna e in Italia (specialmente nell'Italia centrale), assume i caratteri di un fenomeno di portata europea, per l'azione degli Ordini Mendicanti, che fanno proprie le nuove concezioni e le diffondono nella Francia settentrionale, nei paesi germanici e anche in Inghilterra. Quale risultato di queste indicazioni di ricerca è entrata in crisi, nella storiografia specializzata, la tradizionale ipotesi di una diffusione dell'a. gotica secondo autonomi sviluppi nazionali derivanti dall'adattamento dei modelli francesi alle tradizioni locali e confluenti in costanti a radice etnica specificamente individuabili (Sondergotik).

A una comune radice gotica si è cercato quindi di ricondurre anche l'a. italiana del Duecento e Trecento, che era stata ritenuta nonché estranea (Argan 1937; Toesca 1950), addirittura in contrasto con quella cultura. Ma soltanto il già citato studio della Wagner-Rieger ha affrontato il problema in modo sistematico e in una visione globale, che tuttavia risente di uno schema interpretativo essenzialmente rivolto a puntualizzare i confronti con esempi stranieri. Per il resto hanno ricevuto un'adeguata attenzione solo alcuni episodi eccezionali, come il S. Francesco di Assisi (Schöne 1957; Hertlein 1964; Cadei 1988 e 1989) e il Santo di Padova (Dellwing 1975; AA.VV. 1981), o ben circoscritte aree culturali, come le chiese mendicanti venete (Dellwing 1970) e l'a. gotica lombarda (Romanini 1964).

D'altra parte l'eccettuarsi della ricerca artistica italiana, e in particolare toscana (Paatz 1937), nel contesto europeo, ha sicure giustificazioni, quando si ponga mente ai suoi esiti quattrocenteschi, e trova ancora riscontro nella decisione di dedicare a essa, isolatamente, uno dei quattro volumi destinati all'illustrazione del mondo figurativo gotico della collana L'univers des formes (trad. it., Il mondo della figura), in corso di pubblicazione. L'originalità della vicenda architettonica del Due-Trecento in Italia è stata messa definitivamente in luce da Bonelli, nel saggio sul duomo di Orvieto (1952), individuandone il carattere nel tema dello spazio interno continuo e dilatato, unito e crescente, che consegue il superamento della superficie piana perimetrale e della sua ''gotica'' bidimensionalità. Questi valori spaziali, espressione di un nuovo sentimento di religiosità applicato all'esperienza terrena, caratterizzano le grandi chiese degli Ordini Mendicanti, sulle quali negli ultimi anni si sono avuti nuovi contributi da De Angelis d'Ossat (1982), dallo stesso Bonelli (1982 e 1985), dalla Romanini (1978) e dai loro allievi; analoghi valori si rintracciano nelle opere architettoniche riferite ad Arnolfo di Cambio, per il quale è ormai caduta l'attribuzione del duomo di Orvieto (Carli 1965), ma la cui attività è stata al centro di rinnovato interesse dopo la monografia (1969) e i successivi studi dedicatigli dalla Romanini, e con il riproporsi della discussa questione del progetto originale di S. Maria del Fiore (Kreytenberg 1974; Toker 1983; ma cfr. Rocchi 1988). A proposito del duomo fiorentino, e più in generale della cultura architettonica del Trecento, è opportuno ricordare anche i contributi rivolti a determinare e chiarire l'operosità in questo campo di Giotto (Gioseffi 1963; Trachtenberg 1971) e dei pittori-architetti del tardo 140 secolo (Bruschi 1978 e 1979), che costituisce una premessa alla rivoluzione prospettica di Brunelleschi; i rapporti di quest'ultimo con il mondo medievale e gotico sono stati oggetto di specifiche indagini da parte di H. Klotz (1970) e di A. Cadei (1971). Con questi lavori la storiografia dell'a. trecentesca italiana assume la forma, quasi inedita per gli studi di a. medievale, della monografia rivolta all'esame di una ben definita personalità, o di personalità artistiche messe a confronto, e si salda con quella relativa alle esperienze del secolo successivo.

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Età moderna. − Affiancandosi alle tendenze storiografiche generali, anche la storiografia dell'a. degli ultimi cinquant'anni ha dibattuto il coincidere di età moderna e Rinascimento, nel cui ambito l'Umanesimo non sarebbe più considerato mera e distinta fase originaria. Ha inoltre enfatizzato l'essenza del Rinascimento, riconosciuta anche in a. nel suo rivolgersi all'antico come fonte d'ispirazione, permettendone una più netta distinzione dal Medioevo, con il quale si sono però riconsiderati i legami, come nell'opera di riferimento di E. Panofsky (1960).

La periodizzazione del Rinascimento coincidente con l'età moderna, talora adottata (Benevolo 1968), non ha tuttavia sostituito nella storiografia architettonica la tradizionale periodizzazione storico-artistica risalente a J. Burckhardt (1867), e dopo di lui a H. Wölfflin e A. Venturi, che avevano visto in successione Rinascimento, Barocco, Rococò, Neoclassicismo (cfr. le voci ai voll. XXIX, p. 355; VI, p. 210; XXIX, p. 534; XXIV, p. 555). Anche perché il mantenimento delle distinzioni tradizionali ha permesso alla storiografia architettonica del dopoguerra di collocare più facilmente gli approfondimenti settoriali cui essa si è dedicata e che sono il supporto delle sue nuove proposte interpretative, sempre meno comprimibili in contenitori convenzionali, ma allo stesso tempo sempre più bisognose di riferimenti riconoscibili. Gli storici architetti si sono distinti nell'inserire nell'analisi le proprie specifiche capacità di lettura e comprensione non solo di forme e strutture, ma anche di processo e fasi della costruzione, sino a proporre letture originali capaci di incidere sul più largo quadro storico.

L'abbandono, da parte della nuova storiografia, della ricerca di un'astratta unità dei periodi stilistici e l'accettazione della dialettica storica all'interno della storia dell'arte e dell'a., insieme al decadere dello studio per generi artistici o per mere classificazioni tipologiche, ha tuttavia mutato i confini di detti periodi, ridefiniti quanto a contenuti e quindi quanto a limiti temporali. Il mutamento più consistente riguarda le connessioni tra Rinascimento e Barocco: il Barocco era infatti visto nascere nella prima metà del sec. 160 da K. Gurlitt, A. Muñoz, A. Riegl, H. Wölfflin, a stretto contatto con quello che lo stesso Wölfflin (1888) aveva definito come classicismo di Leonardo e Raffaello, e riconosciuto per es. da G. Giovannoni (cfr. vol. XXIX, p. 361) già nella Sacrestia nuova di S. Lorenzo di Michelangelo. Tale visione è stata decisamente rinnovata dall'estendersi dell'applicazione da parte della critica architettonica della categoria del Manierismo (Friedlaender 1912, Panofsky 1930, Gombrich 1934-35, Wittkower 1934), sostituita a quella del Barocco per tutti i fenomeni del sec. 160 successivi ai primi anni Venti, ponendone in discussione la coincidenza con le tendenze anticlassiche (Haydn 1950, Battisti 1962) e sperimentali del tempo. Mentre gli approfondimenti critici successivi (Smyth 1962; Lotz 1963; Tafuri 1966; Shearman 1967) hanno cercato di definire i limiti del Manierismo, A. Hauser (1964) ne ha proposto un ulteriore ampliamento sulla base di valutazioni sociologiche e psicologiche, accolto con successo, ma insieme foriero di una rapida crisi, vista la sempre meno sufficiente definizione delle categorie critiche così applicate all'a. e alle altre arti. A distanza di un decennio da quel dibattito appassionato, l'abbandono del termine Manierismo sembrò infine necessario e altrettanto è sembrato più recentemente (Pinelli 1981), per ammissione dello stesso Gombrich (1984). Torna così in uso la suddivisione del Rinascimento in semplici periodi − primo, medio, tardo − o, ancor meglio, in parti di secolo e decenni. Il confine tra Rinascimento e Barocco ne sembra definitivamente spostato intorno agli anni Venti del Seicento, a Roma, a partire dal passaggio problematicamente individuato all'interno dell'opera del Maderno (Hibbard 1971) e come arte della capitale dei papi. Esso sarà poi più generalmente individuabile, per seguirne gli esiti sino al Settecento, con specifiche espressioni e a partire da diversi momenti del Seicento nelle altre capitali d'Europa (Argan 1964), sino alle tarde espressioni Rococò (Blunt 1972), considerate ora epigoni del Barocco, ora espressioni autonome dell'arte francese o tedesco-meridionale. È stata nel frattempo abbandonata ogni valutazione sovratemporale del Barocco, quale già proposta da E. D'Ors (1936).

Anche perciò ci si affida qui a una suddivisione della materia per secoli, meno equivoca ed equivalente, nelle grandi linee, al succedersi delle più profonde trasformazioni riconosciute dalla storiografia recente nell'età moderna. Si terrà poi maggior conto della storiografia dedicata all'a. in Italia, tenendo comunque presente che, al di là dei singoli approfondimenti specialistici, le questioni storiche aperte dalla recente storiografia hanno interessato archi temporali ben più ampi di un secolo ed estesi ben al di là dei confini nazionali, anche se raramente al di là di quelli d'Occidente.

Quattrocento. -La scena del dopoguerra si apre con il successo dello studio sull'a. dell'Umanesimo di R. Wittkower (1949), rivolto a una lettura iconologica dell'a. del Rinascimento. Tale metodo di analisi, proprio della scuola di Warburg che irrompe così nel cuore della cultura architettonica italiana, è similmente volto all'analisi sia di personalità come L. Ghiberti (Krautheimer 1956) che di correnti culturali e artistiche, come il neoplatonismo fiorentino (Chastel 1959), e sospinge le ricerche seguenti a studiare il rapporto tra a. e fonti antiche, scritte o costruite, al fine di valutare, anche in a. e con la maggiore attendibilità possibile, derivazioni iconografiche e rapporti di dipendenza rivelatori della cultura del tempo, come anche nel citato studio su rinascenze e Rinascimento del maestro degli studi iconologici, E. Panofsky (1960).

In risposta a tali stimoli, negli anni successivi vengono editi o riediti i più importanti trattati con specifici commenti volti a coglierne i contenuti architettonici, e non più meramente letterari, a partire dal De re aedificatoria di L. B. Alberti (1966), si affrontano i problemi teorici del tempo nell'avvicinarsi all'a. romana antica e tardoantica (Burns 1971), viene reso più sistematico lo studio di disegni, taccuini e altri codici dall'antico verificando i rapporti tra originali e copie e ricostruendone con più attenzione i nessi con le a. realizzate piuttosto che solo con gli altri generi artistici similari, sino a giungere a opere collettive (1984-86; 1985; 1989) nell'ambito di un quadro d'insieme già in forte rinnovamento (Heydenreich e Lotz 1974). Mentre ancora si attende una valida e completa traduzione italiana del trattato di Vitruvio dopo quella parziale di S. Ferri (1960) che rinuncia alle parti ritenute tecniche, vengono realizzate traduzioni complete e studi comparativi vitruviani (AA. VV. 1984) in altre lingue.

Affrontando una trattazione dell'a. più vicina alle altre arti e ponendo in più stretta connessione i centri del Rinascimento italiano quattrocentesco (Chastel 1965), viene anche superato il giudizio di produzione provinciale per i centri al di fuori della diretta influenza fiorentina, o per quelli a essa originalmente connessi, come Roma (Tomei 1942, Magnuson 1958) e Napoli (Pane 1937 e 1975-77, Hersey 1969, Thoenes 1971). Gli studi rivolti alla concretezza degli episodi architettonici e urbani, contribuiscono tuttavia al passaggio dalla trattazione della ''città ideale'' (Rosenau 1959), magistralmente reinserita in un contesto storico da E. Garin (1965), a quella dei casi più interessanti ed emblematici, come quello di Ferrara (Zevi 1960), mentre per Firenze (Goldthwaite 1980; Preyer 1981) maggiore attenzione è rivolta dalla critica anche agli aspetti economici, sociologici e della committenza, in sintonia con le ricerche storico-artistiche (Gombrich 1960, Baxandall 1972). Nell'ambito del rinnovato studio dei rapporti con l'antico, uno specifico contributo degli storici architetti si dà nella ripresa dell'esame degli ordini architettonici e delle proporzioni, come nel caso del convegno dedicato a Brunelleschi nel 1977 che, per la valida compresenza di contributi pure fondati su diversi metodi, presenta un interessante aggiornamento del quadro della critica italiana. Già prevalentemente rivolta a studi monografici su personalità (Marchini 1942, Morisani 1951, Luporini 1964) od opere (Rotondi 1950), fondati sulla prevalente base di analisi figurali e linguistiche, la critica architettonica va ora mostrando tentativi più maturi per giungere a contributi storiografici più completi e meglio fondati proprio a partire dall'analisi di forme, rilievi, disegni e documenti legati alle diverse fasi e alla costruzione finale dei monumenti.

Viene ripreso anche l'interesse per le macchine, nei loro usi e significati legati all'a., come nel caso dell'opera di F. Brunelleschi, di M. Taccola (Praeger e Scaglia 1970, 1972) e di Francesco di Giorgio Martini (Fiore 1978), sino ai nuovi studi sulla costruzione e la statica della cupola del duomo di Firenze (Mainstone 1977, Saalman 1980, Di Pasquale 1980) che aggiornano quelli di P. Sanpaolesi (1941) anche se non si sono ancora raggiunti risultati definitivi e si accendono polemiche interpretative sui processi costruttivi e sulla staticità della cupola.

Fuori d'Italia, l'a. del 15° secolo resta prevalentemente legata alla cultura gotica, e il problema storiografico del passaggio tra Tardo-gotico e Rinascimento viene visto nella maggior parte dei casi nel secolo successivo.

Cinquecento. -I temi attinenti al rapporto con l'antico vi sono ricercati in connessione con i risultati acquisiti per il Quattrocento. Al centro delle valutazioni sul passaggio tra i due secoli in a. sono gli studi su Bramante o a partire da lui, ove la visione di G. Giovannoni di un classicismo bramantesco protrattosi senza scosse nel Cinquecento è rinnovata da R. Bonelli (1960) e dalla sua valutazione di Bramante come non-artista, così come dal successivo studio della sua intera opera compiuta da A. Bruschi (1969), che ne esalta l'approfondito esame storico delle a. anche mediante letture grafiche, oltre che da un importante convegno (Atti 1974), tra i primi di una lunga serie di convegni e mostre destinati ad aggiornare le conoscenze, grazie a sforzi collettivi e internazionali, ponendo a fondamento comune una nuova attenzione alla filologia intesa come approfondito studio dei monumenti e dei documenti di insieme. Tali sforzi andranno accentuandosi a partire dal fervore critico emerso dapprima intorno a Michelangelo (Tolnay 1951, Ackerman 1961, AA.VV. 1964, De Angelis d'Ossat 1965), anche alla ricerca di nuovi elementi per contribuire alla definizione del Manierismo in architettura. Altrettanto è accaduto a proposito di A. Palladio (Pane 1961, Ackerman 1966 e contributi nel Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio sino al centenario del 1980, Magagnato 1980), di G. da Vignola (Walcher Casotti 1960, Ackerman e Lotz 1964), di G. Alessi (Atti 1975) e altri comprimari sulla scena architettonica cinquecentesca, mentre si sono arricchiti di nuovi punti di vista gli studi su Raffaello (Shearman 1968, Ray 1974, Frommel, Ray e Tafuri 1984), B. Peruzzi (Frommel 1961, Atti 1987), Antonio da Sangallo il Giovane (Atti 1986), Giulio Romano (AA.VV. 1989), S. Serlio (Atti 1989), che hanno più recentemente rinnovato giudizi e cronologie della prima metà del secolo, approfondendo al contempo la lettura delle opere architettoniche nel loro contesto storico-artistico.

Importanti apporti sulla base di una robusta filologia sono stati contemporaneamente dati da ricerche rivolte espressamente alla conoscenza di singole opere (Ackerman 1954, AA.VV. 1981, Thönes 1987) o insiemi di opere (Lotz 1964, Frommel 1973), senza escludere l'analisi di contesti complessi, siano essi spazi urbani (Lotz 1977) o vicende di a. e strategia urbana connesse alla storia generale (Tafuri 1985, Calabi e Morachiello 1987). La ricerca sulla storia della città ha ricevuto a sua volta una nuova e necessaria attenzione da parte della storiografia architettonica, anche tramite la creazione di nuovi periodici sull'argomento, e ha contribuito ad allargare l'ambito di ricerca ai centri italiani ''minori'' e a incrementare l'attenzione per l'a. militare, indagata in quanto destinata a definire in nuove forme, non più lasciate nel campo separato degli studi specialistici, i limiti fisici delle città (Marconi 1968, De La Croix 1972, AA.VV. 1973 e 1978, Adams e Pepper 1986) in parallelo anche con gli interessi espressi dalla storiografia della tecnologia e della scienza.

Anche fuori d'Italia la storiografia architettonica ha ampliato il suo campo, rivolgendo particolare interesse alla ''scuola'' di Fontainebleau nell'ambito del Rinascimento in Francia (Blunt 1953), all'a. Tudor e al ritorno medievaleggiante di fine secolo in Inghilterra, alla diffusione delle maestranze e delle forme italiane nell'Europa orientale e in Spagna, sulla quale sono finalmente in corso necessari aggiornamenti (AA.VV. 1987).

Seicento. - Abbandonato il giudizio negativo sul Barocco, ma insieme arrestata la proliferazione del termine troppo facilmente esteso ad altri momenti, ricondottene le origini architettoniche a Roma e legatene le istanze portanti a quelle della Chiesa controriformata, la storiografia dell'a. ha reso nel dopoguerra numerosi contributi volti a chiarirne le componenti quali classicismo, naturalismo, scientismo, alla luce dei diversi risultati architettonici in Europa, conducendo la stessa lettura di spazialità e volumetrie ben al di là di quella proposta da Wölfflin e approfondendo nei vari casi l'interagire di a., cultura e religiosità del tempo (Atti 1955, Atti 1972).

Per l'a. barocca italiana è divenuto fondamentale, nella connessione con le altre arti, il quadro d'insieme di R. Wittkower (1958) cui si uniscono quelli su G. L. Bernini (Fagiolo Dell'Arco 1967, Lavin 1980) e, segnatamente per l'a., i contributi d'insieme di A. Griseri (1967), oltre a quelli di P. Portoghesi (1966), ove anche la fotografia assume una sino allora inedita capacità descrittiva dell'a., e di R. Krautheimer (1982) su Roma. Il nucleo romano del Barocco è stato inoltre approfondito da studi sugli scritti teorici (G. P. Bellori, 1976), sull'a. effimera e festiva degli apparati come occasione di sperimentazione delle a. da realizzarsi stabilmente (Fagiolo Dell'Arco e Carandini 1977-78), sulla ''cultura materiale'' dei cantieri a partire da rinnovate indagini documentarie (Del Piazzo 1968) e sui monumenti (AA.VV. 1983), ricerca, quest'ultima, che mostra un nuovo campo di interesse e modalità di indagine degli storici architetti, da attuarsi anche attraverso rilievi di dettaglio mirati alla conoscenza delle soluzioni costruttive. Nell'esame delle singole personalità, la straordinaria fortuna critica del Caravaggio nell'ultimo cinquantennio ha contribuito a stimolare anche nuovi studi su F. Borromini (Argan 1955), la cui opera è stata approfondita da più punti di vista (Portoghesi 1964 e 1967, Atti 1970-72, Bruschi 1978, Blunt 1979, Connors 1980) e specificamente, per la lettura delle singolari soluzioni d'impianto architettonico e di dettaglio, grazie al contributo determinante degli storici architetti. La figura di Borromini è stata spesso contrapposta, ma nelle tendenze più recenti meglio accostata, a quella degli altri maggiori protagonisti, quali Pietro da Cortona (Nöhles 1970, AA.VV. 1978), Bernini (Atti 1984), o entrambi (Brandi 1970), oltre che legata direttamente a G. Guarini (Atti 1970) e alla diffusione del nuovo linguaggio architettonico nell'Europa settentrionale (Sedlmayr 1956, Hempel 1965, Hager 1968, Norberg Schultz 1971 e 1972). Numerosi studi sugli altri centri italiani ne hanno distinto la diversa temperie da quella romana, come nel caso delle a. veneziane di B. Longhena (Atti 1982), o di quelle meridionali (Strazzullo 1968, Manieri Elia e Calvesi 1970, Blunt 1968 e 1975, AA.VV. 1984).

Il vasto quadro europeo vede emergere gli studi sul neopalladianesimo inglese (Wittkower 1974), e in particolare su Inigo Jones (Summerson 1966) e Christopher Wren (Whinney e Millar 1957, Downes 1982), su François Mansart (Braham e Smith 1973), ma anche su Louis Le Vau, Salomon de Brosse, Claude Perrault e il diffondersi del classicismo in Francia, mentre per Spagna, Portogallo e domini americani si apre un altro vasto campo di studi che riprende, per le a. di oltroceano, le premesse del Cinquecento (Kubler e Soria 1959).

Settecento. - La sovrapposizione di linee e tendenze tardo-barocche, rococò, neoclassiche e illuministiche rende evidentissime, nel secolo, le diversificazioni dell'a. tardo-barocca e rococò nella dimensione internazionale, che vede l'ingresso definitivo dell'America settentrionale nel panorama dell'a. d'Occidente, e la contemporanea perdita del primato nelle costruzioni da parte dell'Italia e Roma, malgrado proprio qui prenda il via la più forte reazione, con il neoclassicismo di Winckelmann e nuove polemiche, al proseguire delle precedenti scelte formali. La storiografia più recente ha tentato di chiarire i singoli processi architettonici in connessione con i rivolgimenti generali che preparano l'avvento dell'età contemporanea, accumulando anche una prima serie di studi monografici, sinora mancanti, che permettono una prima ricostruzione degli avvenimenti architettonici in Italia (Matteucci 1988).

Roma e l'Italia meridionale danno ancora contributi al Tardo-barocco con F. Fuga e F. Juvarra, che proseguirà la sua più importante attività a Torino (Pane 1956 e 1973, Viale 1966, Carboneri 1979, Millon 1984), affiancati da un non piccolo numero di architetti attivi a Roma, sui quali la storiografia sta affinando indagini su nuove basi documentarie; a Napoli, ove opera L. Vanvitelli (AA.VV. 1973, De Seta 1982); e nella stessa Torino con B. Vittone (Portoghesi 1966) e B. Alfieri (Bellini 1978). Si aggiungano a questi studi alcuni quadri generali su Lombardia (Mezzanotte 1966, Patetta 1978), Venezia e il Veneto (Brusatin 1980), l'Italia centrale sino agli interventi di G. Valadier (Marconi 1964), come nella sintesi di R. Gabetti (1982).

Il dibattito che si accende in Europa (Honour 1968) tra tradizione barocca e classicismo oltre che sul primato delle origini romane o greche, vede a Roma tra i più creativi protagonisti G. B. Piranesi (Wilton Ely 1978), sul quale si sono moltiplicati i contributi critici che ne hanno ricondotto i fili al dibattito europeo, e soprattutto francese (Atti 1978), sospingendo un ritorno d'interesse, nell'ultimo trentennio, anche per l'a. neoclassica. Esso era infatti per lo più limitato alla sua lettura quale premessa del ''movimento moderno'' (Kaufmann 1933 e 1955), con particolare riguardo agli architetti francesi cosiddetti ''della rivoluzione'', oggetto di numerosi studi di dettaglio e ora meglio inseriti in un quadro d'insieme (De Montclos 1969, Kalnein e Levey 1972, Braham 1980, AA.VV. 1980) malgrado il dibattito storiografico sulla rivoluzione francese e le sue componenti resti aperto anche dopo i contributi legati al centenario del 1989. In Inghilterra l'a. neoclassica è connessa con il palladianesimo (Summerson 1953, 1980, Fleming 1962), insieme a quella degli Stati Uniti ove al termine del secolo e nel successivo si procede alla revisione dei modelli inglesi (Ackerman 1964) e della Germania, con la preminente attività di K. F. Schinkel (Pevsner 1968), non senza che già si guardi al recupero del gotico (Germann 1972).

Età contemporanea. - Nel caso dell'a. contemporanea la questione della periodizzazione si fa significativa nell'evidenziare i diversi metodi e punti di vista in merito all'origine dell'a. ''moderna'', che E. Kaufmann fa risalire alla rivoluzione di fine Settecento; ugualmente l'origine è vista da H. Sedlmayr (1948), ma è anche collocata alla metà del sec. 18° (Collins 1965, Giedion 1941, Hitchcock 1958) con l'emergere della civiltà dei lumi, sino a essere ricercata alla fine del Seicento (Rykwert 1980, Frampton 1980). Tenendo conto degli esiti della rivoluzione industriale, essa è però collocata intorno alla metà dell'Ottocento dal fondamentale lavoro di N. Pevsner (1936), largamente seguìto anche dalla storiografia italiana (Zevi 1950, Benevolo 1960, De Fusco 1974) che, frutto della rinnovata attenzione alla storia da parte degli architetti in Italia, ha tentato con successo la costruzione di un ampio e più specifico quadro di riferimento. Più recentemente e ancora in Italia si è negata l'esistenza di un problema unitario in merito alle origini del ''moderno'' in a. e se ne sono invece rintracciati molti e non complementari inizi escludendone l'Art nouveau (Dal Co e Tafuri 1976, Tafuri 1980), cosicché, abbandonata la definizione di ''moderna'' per l'a. delle avanguardie artistiche del sec. 190 e per quella dei suoi eredi a favore di una più ampia definizione dell'a. di tale periodo come a. contemporanea, la storiografia dell'a. si è meglio posta in accordo con le periodizzazioni storiche generali (Tafuri 1968, Sandri e Scalvini 1984).

Ottocento. - Il secolo ha goduto di nuovo interesse nella storiografia recente non più solo nel caso delle a. considerate anticipatrici degli sviluppi ''moderni'', ma anche del contemporaneo contesto architettonico e urbano, tanto da vedere smentito in più casi il giudizio negativo espresso da A. Venturi e da tanta parte della critica legata al rinnovamento del ''movimento moderno'' nei confronti dell'a. neoclassica ed eclettica che lo caratterizza. Allontanatosi nel tempo il giudizio etico dei protagonisti del ''movimento moderno'' (Giedion 1956) contro i revival romantici, ritenuti falsi stilistici, se ne è infatti andata affievolendo insieme la condanna e la fiduciosa ricerca di un nuovo ''stile'' genuino, da sostituire, in quanto tale, ai precedenti.

Si sono di conseguenza affacciate nuove ricerche di base necessarie alla riproposizione di un quadro di insieme (Hitchcock 1958, Patetta 1975) che comprendesse l'intero panorama architettonico del secolo, mentre si è abolita la rigida successione tra prosieguo del Neoclassicismo nell'Ottocento, che l'Hitchcock definisce "classicismo romantico" (adottando il termine coniato dalla critica tedesca), e nuove espressioni di Neogotico, Neoromanico, e Neorinascimento. Anche in Italia (Maltese 1960, Borsi 1966, Meeks 1966, Argan 1970, De Fusco 1980, Restucci 1982) il Neoclassicismo e l'Eclettismo sono visti in composizione piuttosto che in successione a partire da una netta linea di demarcazione, come anche negli studi monografici su G. Jappelli nel Veneto e a Venezia (Atti 1982), A. Antonelli a Torino (Rosso 1989), E. e G. B. F. Basile a Palermo (AA.VV. 1980, Samonà 1988) e soprattutto sulle trasformazioni delle città italiane (Sica 1977 e serie Le città nella storia d'Italia, a.c. di C. De Seta), con particolari contributi su Milano (Grandi e Pracchi 1980), Bologna (Gottarelli 1978), Firenze (Borsi 1970, Fanelli 1973) e Roma (Insolera 1962, Accasto, Fraticelli e Nicolini 1971, Spagnesi 1976, AA.VV. 1984). Nuovi studi sono inoltre apparsi sui restauri stilistici, che vennero eseguiti spesso in connessione con la riconfigurazione o i completamenti del volto urbano (Conti 1981), e sulle a. legate alla produzione industriale, denominati di ''archeologia industriale'', fenomeni entrambi collocati tra la fine di questo secolo e il secolo successivo.

Per l'Europa, nuovi studi si sono concentrati sul Neogotico vittoriano dopo quello di K. Clark del 1929 (fra i molti: Jordan 1966, Summerson 1970) e sulla reazione delle Arts and Crafts di W. Morris (Bradley 1978, Manieri Elia 1985) a partire da I. Ruskin in Inghilterra, sullo storicismo in Germania (Wagner Rieger e Krause 1975), sull'insegnamento e la progettazione di a. (Drexel 1977) oltre che sui restauri di Viollet-le-Duc (AA.VV. 1980) in Francia. Importante capitolo è inoltre quello sviluppato sulle trasformazioni urbane delle città capitali.

Degli Stati Uniti sono state considerate innanzitutto le espressioni autonome (Hitchcock, Winston e Scully 1970), ricondotte al rapido e originale sviluppo delle città (AA.VV. 1973) e poste in rapporto con le a. dei primi maestri, come Richardson (Hitchcock 1936), e soprattutto con quelle di abitazione (Scully 1955), la cui lettura risente però ancora oggi di consunte classificazioni stilistiche.

Novecento. - La più recente storiografia ha apportato approfondimenti filologici sull'a. di questo secolo imponendo in più occasioni un metodo rigoroso laddove l'estrema vicinanza temporale degli eventi lo aveva rinviato. La ricerca ha stimolato di conseguenza un gran numero di pubblicazioni di disegni e scritti inediti o testi a stampa non più facilmente reperibili dei maggiori maestri, da O. Wagner (1988) a L. Sullivan (Condit 1964, Szarkowski 1956, Manieri Elia 1970) a F. L. Wright (Storer 1974, Pfeiffer 1982-88), A. Loos (1962, 1981), Mies van der Rohe (Schultze 1985), a Le Corbusier (1937-66, AA.VV. 1976, Colli 1982, Bosman 1987), sul quale si ricordano anche i più recenti esiti delle celebrazioni centenarie del 1987. Lo studio delle diverse ''scuole'' ha poi permesso di meglio valutare la consistenza delle varie componenti, facendo emergere punti di vista nuovi anche rispetto alla trattazione dell'a. del secolo così come proposta e aggiornata in questa Enciclopedia (cfr. la voce architettura: IV, p. 63; App. II, i, p. 229; III, i, p. 122; IV, i, p. 150) alla quale ci si riferisce per la fondamentale bibl. precedente.

L'approfondimento della ricerca anche in Italia ha condotto a conoscere meglio sia autori che situazioni dell'inizio del secolo (Bossaglia 1974, AA.VV. 1980, Nicoletti 1982), e a interrompere il silenzio, non più accettabile nella costruzione di un quadro storico complessivo, sull'a. al tempo del Fascismo (Patetta 1972, De Seta 1972, 1981 e 1982, Ciucci 1989) della quale si sono apprezzati gli specifici valori. Parallelamente a quanto in corso in Europa e negli Stati Uniti, si sono andate costituendo raccolte di disegni e documenti di architetti contemporanei anche in Italia, come l'Archivio Albini (Milano), l'Archivio del Progetto (Parma), l'Archivio Piacentini (Firenze), l'Archivio Michelucci (Pistoia), l'Archivio dell'Accademia di S. Luca (Roma). In merito all'attività del dopoguerra, una nuova organizzazione della materia si è affacciata per il design (Fossati 1972) oltre che per l'a. (Gregotti 1969, Belluzzi e Conforti 1985, Tafuri 1986) e l'urbanistica (Secchi 1984), sino ai recentissimi tentativi di cogliere il senso dell'attualità (Ciucci 1989) nell'insorgere di nuove problematiche interne alla disciplina e dei tentativi di superare il linguaggio dei maestri del ''movimento moderno'' e dell'International style (Hitchcock e Johnson 1932). Tali mutamenti si sono talora basati su sintesi rassicuranti che hanno troppo facilmente accomunato sotto il termine di ''postmoderno'' alcune a. che si sono poste su strade nuove ma profondamente diverse (Jenks 1977 e 1987, Smith 1977, Portoghesi 1980 e 1985). Piuttosto che distinguerle, la critica presentatasi come ''postmoderna'' si è volta a esse, e a quelle storiche, come a un corpo solo, da ritenersi definitivamente stabilito e univoco, e ciò al fine di trarne più facilmente memorie e forme da utilizzare nella progettazione del nuovo, tanto da suscitare numerose obiezioni e da meritare la qualifica negativa di ''ipermodernismo edonistico'' (Tafuri 1986).

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