ARCHITETTURA

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

ARCHITETTURA (IV, p. 63; App. II, 1, p. 229)

Manfredo TAFURI

L'assunzione di motivi etico-sociali e politici come mezzo interno di controllo al fare architettonico non consente di separare il discorso critico su quest'ultimo dall'individuazione delle componenti contenutistiche implicite nell'atteggiamento e nel comportamento dell'architetto.

Il movimento moderno, nato dall'esigenza di riallacciare la prassi architettonica all'evoluzione della società verso sempre maggiori gradi di libertà, riconobbe, nelle resistenze che la società stessa poneva alla sua affermazione, la necessità di porsi come fattore determinante dell'evoluzione stessa. Le ragioni che si opponevano all'affermazione del movimento moderno, venendo a concentrarsi in un primo momento sul nuovo linguaggio formale nel quale si concretavano le nuove istanze, imposero ai difensori di queste un'impostazione teorica spesso inadeguata ad un effettivo approfondimento dei motivi più autentici della rivoluzione che si andava compiendo. Così, l'approfondimento ideologico evitò spesso di chiarire e puntualizzare i contenuti più generalmente politici che trovavano la loro espressione nelle opere dei maestri dell'anteguerra; si basò, quindi, su fondamenti talmente generalizzati da costituire, più che una effettiva metodologia critica, un'aspirazione verso non precisati modelli di ordinamento sociali. Ciò va messo in relazione con il fatto che la nascita del movimento moderno avvenne in paesi che stavano attraversando profonde crisi sociali e politiche, così che l'architettura venne considerata un elemento risolutivo per creare le basi del superamento delle crisi stesse. I rapporti sociali vengono dunque considerati come variabili dipendenti da componenti fisse, controllabili mediante un'operazione di tipo gnoseologico: la razionalità viene assunta come un parametro in certo modo sovrapposto alla realtà, più che come un fattore intrinseco alla realtà stessa.

Date tali premesse, era implicito in tale atteggiamento che comportamento politico e comportamento estetico tendessero a sintetizzarsi; la definizione del proprio programma civile veniva dunque tradotta tutta nel definirsi stesso della forma architettonica, si compiva così un'operazione sproporzionata nei confronti delle strutture che si affrontavano, nella quale l'inadeguatezza dei mezzi operativi non poteva pagarsi che col fallimento delle istanze più immediate e vitali.

Le involuzioni politiche dei paesi nei quali più viva era stata la lotta per la nuova architettura e la catastrofe della seconda guerra mondiale mettono in crisi l'intero sistema su cui le ideologie "razionaliste" avevano basato la propria azione.

Ma invece di cogliere le parti vitali del sistema stesso, e trasformarle positivamente in programmi e metodologie che accogliessero una critica più approfondita delle strutture del reale, da cui far scaturire i nuovi strumenti di lotta (in definitiva una "politicizzazione" precisa del fare architettonico), gli architetti, nel secondo dopoguerra, appaiono in generale scettici a tale riguardo (le crisi individuali confermano ciò) e tendono, parte a chiudersi nella soluzione delle problematiche individuali e particolari, parte ad accettare meccanicamente delle elaborazioni linguistiche, spesso scisse dai loro contenuti. Rinasce quindi per molti paesi un dialetto nazionale del movimento moderno, mentre l'accordo sul piano internazionale va scemando: la fine dei CIAM (Congressi internazionali di architettura moderna), che nell'anteguerra erano stati un mezzo validissimo di studio e di lotta comune, è dovuta appunto all'esaurirsi della carica vitale e della fede nella validità delle premesse ideali; la confusione dei linguaggi è documentabile nella ricostruzione del quartiere Hansa di Berlino, dove molti dei migliori architetti internazionali hanno dimostrato chiaramente il divergere delle loro esperienze.

Più validi contributi hanno invece portato quei paesi nei quali l'architettura moderna era stata introdotta dopo che le formulazioni generali avevano trovato una prima sistematizzazione. Le nuove istanze etico-sociali ed economiche, trovano infatti, per lo più, in tali paesi (i paesi scandinavi, l'Inghilterra, gli Stati Uniti, ecc.) delle realtà in evoluzione con le quali quelle istanze non si trovano in contrasto, né la loro imprecisione può incidere negativamente poiché le stesse strutture della società reagiscono in modo da creare nuovi stimoli e nuove esigenze positive, dando modo agli architetti di operare una scelta critica nei confronti delle esperienze del movimento moderno, così da superare le carenze di fondo sopra descritte. Ma ciò crea ulteriori difficoltà circa la comunicabilità delle esperienze in campo internazionale. Tale situazione accenna negli ultimi tempi, sebbene lentamente, ad evolversi in un modo che, allo stato attuale, può giudicarsi positivo: molti equivoci vanno infatti chiarendosi, anche a causa del precipitare di molte involuzioni generate dagli equivoci stessi (il neo-accademismo americano o il neo-eclettismo italiano ne sono un esempio), e si va così ricostituendo una nuova unità ideologica, criticamente fondata, che sappia superare in una sintesi effettiva i linguaggi particolari.

La linea di sviluppo seguita dal movimento moderno in Inghilterra può essere assunta come dimostrazione di quanto osservato sopra circa la positività di una metodologia critica in atto in quei paesi che accolsero di riflesso le problematiche iniziali dell'architettura internazionale. Pianificazione economica e territoriale, paesaggio urbano e rurale, architettura, industrializzazione edilizia, non rappresentano nel panorama dell'architettura inglese problemi distinti o distinguibili: la coscienza dell'architetto ed il suo impegno sociale hanno contribuito a formare un linguaggio comune ad un buon livello qualitativo, basato sui problemi concreti posti dalla realtà del Paese. Lo sforzo compiuto nella ricostruzione, subito dopo la cessazione delle ostilità, si è basato su attenti studî dei molteplici problemi economici, politici e sociali, già impostati prima dell'inizio della seconda guerra mondiale e continuati durante lo stesso periodo delle ostilità (v. ad esempio il rapporto Barlow del 1940 sulla ridistribuzione della popolazione industriale nel territorio ed il rapporto Uthwatt del 1942). Nel 1944 P. Abercrombie e J.H. Forshaw presentarono lo schema di piano della grande Londra (nel 1943 il gruppo MARS, Modern Architecture Research Society, aveva elaborato un'altra soluzione alla quale fu preferita quella presentata da Abercrombie), che ben presto fu riconosciuto come uno dei pilastri dell'urbanistica moderna. Il piano, partendo dalle premesse economico-sociali contenute nei succitati rapporti, prevedeva un decentramento per unità satelliti autosufficienti (new towns), studiate in rapporto ad un programma di nuovi insediamenti industriali tali da creare un equilibrio ed una ridistribuzione di centri produttivi nell'intera nazione (v. gran bretagna: pianificazione urbanistica e edilizia; inghilterra: arte, in questa Appendice) A parte le giustificate critiche che sono state rivolte alle realizzazioni delle città satelliti (densità edilizia troppo bassa, con conseguente perdita del valore urbano, mancanza di centri adeguati ed inseriti nella struttura cittadina), bisogna riconoscere che la politica delle "new towns" ha condizionato e vitalizzato il pensiero urbanistico europeo, costituendo un'esperienza dalla quale difficilmente si potrà prescindere. Molte città satelliti sono state progettate da alcuni dei migliori architetti inglesi del dopoguerra (Harlow, arch. F. Gibberd; il centro commerciale di Stevenage, arch. L. Vincent.), come molti dei più interessanti complessi cittadini londinesi quali Golden Lane (P. Chamberlin, Ph. Powell), Pimlico (Ph. Powell e H. Moya) Roehampton (London County Council), una delle esperienze europee più riuscite. Ricerche positive sono state condotte anche nel campo dell'industrializzazione edilizia e del townscape, raggiungendo notevoli risultati. Degli architetti attualmente operanti in Inghilterra vanno citati F. R. S. Yorke, G. Rosenberg e C. S. Marsdall, lo studio Lyons, Israel e Ellis, il già citato F. Gibberd, autore di molti studî teorici sull'urbanistica e l'architettura lo studio Gollins, Melvin e Ward, M. Fry (già collaboratore di Gropius durante il soggiorno di questo in Inghilterra), Powell e Moya, Basil Spence e J. Stirling.

Gli architetti scandinavi occupano un posto particolare nella storia dell'architettura moderna: essi si trovano infatti di fronte ad un repertorio formale già elaborato e codificato dagli architetti d'avanguardia europei, e a istanze politiche e sociali che, mentre negli altri paesi non erano che espressioni di minoranze per lo più in contrasto con gli ordinamenti vigenti, trovano invece nell'ambiente scandinavo una rispondenza piuttosto puntuale nella natura stessa della società e dei suoi processi di sviluppo.

Il pubblico, educato dalla crescente affermazione dell'ordinamento socialista democratico, e che, nella graduale scomparsa delle differenze di classe, è potenzialmente pronto ad accogliere e fare proprie le tesi urbanistiche ed architettoniche del movimento moderno, ne influenza decisamente le caratteristiche. Non risultando più necessarie, infatti, le durezze politiche del linguaggio "razionalista", si tenta di piegare questo all'interpretazione delle caratteristiche ambientali e naturali; se non addirittura delle tradizioni locali.

Tale operazione dà in un primo tempo risultati assai notevoli, dimostrando la validità del movimento moderno e la portata della sua metodologia (si vedano ad esempio le prime opere di Arne Jacobsen in Danimarca, di A. Aalto in Finlandia, di S. Markelius e di E.G. Asplund, passato all'architettura moderna dopo un'inizio romantico-classicista, in Svezia). Il fenomeno però viene sempre più accentuandosi così che nel secondo dopoguerra si assiste ad un'involuzione nella tendenza che viene definita "neo-empirista" i cui principali esponenti possono essere riconosciuti nella coppia S. Bäckstrom e L. Reinins. Nel neo-empirismo si fondono varî motivi: dall'esigenza, cara ai popoli scandinavi, di un più diretto colloquio con la natura, della semplicità costruttiva, di un ritorno alle formule dell'architettura domestica tradizionale, alla necessità di esprimere, in modo adeguato ed indipendente, la solidità e la tranquillità della propria evoluzione sociale. Per questo i tentativi di imitazione che, specie in Italia, si sono verificati nel dopoguerra, non si possono che considerare del tutto inadeguati e frutto di un equivoco che oggi giustamente va declinando.

Grande influenza in Europa ha anche avuto l'urbanistica svedese, i cui indirizzi hanno seguito fino ad oggi le medesime caratteristiche dell'architettura neo-impirista: il piano di Stoccolam, la cui attuazione è stata permessa dalla sana politica fondiaria dell'Amministrazione dal 1908 ad oggi, e dalla nuova legge urbanistica del 1948, si basa sulla dispersione di nuclei satelliti nel territorio e nella natura, tendendo a far perdere alla città il suo carattere di organismo compatto ed unitario. Molti nuclei sono già stati ultimati fra cui il più interessante è senz'altro quello di Vållingby su piano di S. Markelius. Ma l'equilibrio dell'architettura scandinava è stato scosso negli ultimi tempi dal nuovo indirizzo seguito dalla recente produzione di A. Jacobsen in Danimarca.

Jacobsen infatti, cosciente delle trasformazioni ulteriori della società nel suo complesso e delle condizioni produttive che l'evoluzione economica e politica impone, ha affrontato dal 1952 in poi, il problema dell'industrializzazione edilizia e delle sue conseguenze nella qualificazione del linguaggio architettonico. Le sue recenti opere hanno una funzione di rottura con l'ambiente architettonico scandinavo, obbligato così a riconoscere come pressanti i problemi che in quelle opere vengono affrontati (vedi ad esempio il nuovo complesso direzionale di D. Helldenn nel centro di Stoccolma). Del tutto particolare è invece la posizione di Aalto: ogni dato viene da lui sottoposto ad una penetrante analisi che, conducendo sino alle estreme conseguenze ogni apriorismo in esso implicito, amplia all'infinito i limiti e le possibilità di intervento dell'architettura moderna. Tale metodologia da un lato rischia, proprio per il suo carattere di irripetibilità, di ridursi ad un individualismo senza rapporti con il mondo della produzione; dall'altro tende a superare i limiti stessi che si sottopongono a revisione, scadendo così da una critica positiva ad una deprecabile reazione. Aalto evita tali pericoli legando la propria progettazione ad un controllo che media l'esigenza di un approfondimento razionale della realtà fenomenica ed i mezzi individuali di interpretazione: la coscienza di operare su di una società particolare che per le sue intrinseche caratteristiche è al riparo dall'alienazione tipica delle società di massa, permette ad Aalto di offrire un concreto insegnamento, al di fuori del proprio repertorio personale, che acquista una validità proprio nei valori che esso afferma e nelle critiche che ne sono il fondamento. Le opere che Aalto ha realizzato dal dopoguerra ad oggi costituiscono così delle esperienze fondamentali e si legano idealmente alla linea didattica che da Klee giunge sino a Le Corbusier: particolarmente notevoli a tale riguardo le sistemazioni urbanistiche (piano regionale della valle di Kokemaki, piano regolatore di Rovanioemi, piano di Saynatsälo) e le recenti opere architettoniche, fra le più notevoli delle quali possono essere citate il palazzo per negozî ed uffici Rautatalo (1953-55), il palazzo per l'assistenza ai pensionati (1956), la casa della cultura (1956) in Helsinki e la chiesa di Jmatra (1959-60).

L'architettura finlandese è rimasta profondamente influenzata dalla poderosa spinta qualitativa provocata dalle ricerche aaltiane. Si è venuto quindi a formare in Finlandia un alto livello di produzione architettonica della quale il defunto Lindegren, A. Ervi, K. e H. Siren, J. Järvi, V. Rewell (quest'ultimo spesso involuto in ingiustificati formalismi come nel progetto per il nuovo Municipio di Toronto) sono gli esponenti più qualificati.

La pianificazione dei problemi riguardanti la ricostruzione nel dopoguerra fu in Francia impostata dal ministro della Ricostruzione e dell'Urbanistica, C.-E. Petit, che nel 1950 istituì una commissione per il Piano Nazionale. Ma la ricostruzione venne in pratica attuata settorialmente, al di fuori di una pianificazione generale. Il problema dell'accentramento delle attività commerciali, industriali ed amministrative di Parigi si è venuto così aggravando con gravi squilibrî per tutta la nazione, mentre i problemi edilizì delle città francesi ricevevano risoluzioni solo parziali. La ricostruzione di Le Havre è un caso limite ma tipico di tale impostazione: condotta a termine da A. Perret (dal 1947), segue un piano redatto dall'anziano maestro secondo una visione sostanzialmente accademica dell'organismo urbano, concepito come un pezzo unitario di architettura; essa rappresenta dunque l'estrema qualificazione della concezione ottocentesca della città, e nello stesso tempo è l'esperienza più completa di Perret nella sua identificazione di natura e struttura.

Se l'attività di Le Corbusier non ha rappresentato in Francia un modello didattico efficiente, essa contiene al momento presente un rigore ideologico di grande attualità, come mostrano le influenze esercitate in campo internazionale. Il tema dell'identificazione dei termini qualitativi e quantitativi viene riconosciuto da Le Corbusier come l'epicentro delle problematiche sociali ed economiche del nostro tempo: in tal senso il problema formale dell'architettura assume un aspetto decisivo. Il rigore metodologico con il quale tale assunto è stato sviluppato ha suscitato una continua serie di polemiche tendenti a denunciare una crisi ed un'involuzione in senso "barocco" delle sue poetiche e formulazioni teoriche iniziali. Considerando invece lo sviluppo dell'architettura di Le Corbusier come una continua ricerca di equilibrio fra le esigenze razionalizzatrici e pianificatrici e le tendenze irrazionalistiche della civiltà moderna, si giungerà a individuare una sostanziale continuità della sua esperienza.

All'interno di tale impostazione vengono a giustificarsi opere, come l'Unità d'abitazione di Marsiglia, o la Cappella di Ronchamp, dove l'elemento trascendentale e quello umano si fondono in un geometrismo di ordine superiore che contiene un messaggio di portata universale, o i recenti edifici del Campidoglio di Chandigarh, la nuova capitale del Panjab, (pianificata dallo stesso Le Corbusier) nei quali il linguaggio del maestro francese si piega ad una moderna concezione dell'interpretazione ambientale.

In Olanda, dopo una battuta di arresto avutasi negli anni immediatamente seguenti la fine della guerra, la spinta decisiva per il risveglio della cultura architettonica fu data dagli architetti J. Bakema e J. Van der Broek, che nel 1950 iniziarono la costruzione del Lijnbaan, nuovo cuore commerciale della martoriata città di Rotterdam (entro un discutibile piano regolatore di C. Van Traa), ponendo così le basi per una reinterpretazione in termini attuali della metodologia del movimento moderno. L'architettura corrente olandese ha così raggiunto attualmente un elevato standard edilizio, anche se solo di rado qualificato, all'interno di un'attenta pianificazione urbanistica delle città e dei territorî, pur non mancando tentativi di evasione dal manierismo modernistico, nel quale sono caduti i protagonisti del rinnovamento architettonico dell'anteguerra (G. Rietveld, W. M. Dudok, J.J.P. Oud). Tra gli architetti più notevoli oggi in Olanda vanno citati W. Van Tijen e H. A. Maskaant, autori delle prime case alte popolari in Rotterdam (il Bergpolder nel 1934 con J. A. Brinkmann e L. C. Van der Vlugt, ed il Plaslaan nel 1938). Recentemente hanno seguito in parte la tendenza involutiva già descritta (vedi l'edificio commerciale sulla piazza della stazione di Rotterdam terminato nel 1951), dando però validi contributi allo sviluppo urbanistico delle città olandesi, come dimostrano gli ottimi risultati conseguiti nella realizzazione di Vlaardingen, nucleo satellite di Rotterdam.

L'enorme distruzione subita dalle città tedesche ha imposto alla Germania un ritmo di ricostruzione particolare le cui caratteristiche rimangono condizionate inoltre dalla struttura della nazione, alquanto modificata dopo la cessazione delle ostilità. Dopo un primo periodo di assestamento, le autorità hanno iniziato a varare piani di ricostruzione basati su studî tecnicamente accurati delle situazioni urbanistiche, ma che risentono dei difetti di un mancato approfondimento, da parte della società tedesca nel suo complesso, circa le funzioni, la storicizzazione e le prospettive del nuovo assetto nazionale uscito dal conflitto mondiale. D'altra parte, gli architetti tedeschi non emigrati nel 1933 hanno dimostrato, nella ripresa del dopoguerra, l'inadeguatezza dei loro mezzi espressivi (H. Scharoun, B. Taut, H. e W. Luckardt). Così l'industrializzazione edilizia, introdotta largamente in Germania negli ultimi tempi, si rivela atta a piegarsi ad esprimere contenuti e forme in aperto contrasto con le esigenze culturali che ne proclamavano l'alto valore sociale (vedi le posizioni del Bauhaus diretto da Gropius dal 1919 al 1928). La ricostruzione del quartiere Hansaviertel, su piano urbanistico di G. Jobst, W. Kreuer e O. Bartning (con la partecipazione per gli edifici singoli di molti architetti internazionali fra cui Gropius ed Aalto), dimostra sinteticamente quanto sopra si è detto. Un'interessante iniziativa è quella della fondazione di un nuovo Bauhaus nella città di Ulm, da parte di Max Bill ed Inge Scholl, inaugurato nel 1955: va notato però che l'ambiente dell'industria tedesca sul quale la nuova scuola vuole influire non è preparato ad accoglierne le sollecitazioni e gli indirizzi.

In Italia gli architetti più impegnati, nel clima del periodo immediatamente successivo alla Liberazione, ebbero chiaramente coscienza della necessità di un ridimensionamento del comportamento etico-sociale dell'architetto in seno alla società italiana di nuovo democratica. Ma, sia per la scomparsa dei principali protagonisti della polemica per l'architettuta moderna durante il ventennio fascista (R. Giolli, E. Persico, G. Pagano, G. Terragni), sia per la tradizione operativa e critica obiettivamente limitata che l'architettura ed il pensiero architettonico dell'anteguerra nel loro insieme avevano tramandato alle generazioni successive, la polemica risentì subito di un'impostazione generica e spesso superficiale.

Si assiste, quindi, al tentativo di legare le nuove istanze di politicizzazione dell'operare dell'architetto ad orientamenti di tipo formalistico; tipica in questo senso l'azione di Bruno Zevi che enuncia, in quegli anni la sua teoria dell'architettura organica e fonda l'APAO (Associazione per l'architettura organica). L'architettura organica veniva contrapposta alla architettura "razionalistica" d'anteguerra, accusata di non aver saputo sviluppare adeguatamente i contenuti impliciti nell'atteggiamento della nuova architettura nei confronti della realtà; nello stesso tempo cercava di sostituire al linguaggio "funzionalista" nuovi vocabolarî e metodi sintattici basati sull'interpretazione delle forme di F.L. Wright, o, più genericamente, su di una maggiore libertà formale. Il movimento organico vide presto fallire i suoi scopi, soprattutto perché si risolse in una deviazione della ricerca architettonica verso ingiustificati formalismi. Nello stesso tempo venivano trascurati i più pressanti problemi posti dalla ricostruzione. L'industrializzazione edilizia e la nuova struttura urbanistica delle città e dei territorî sono temi che solo pochi architetti hanno trattato, dando notevoli contributi, anche se prevalentemente teorici (F. Albini, G. Astengo, L. Cosenza, L. Piccinato, L. Quaroni, G. Samonà). Va a tale proposito ricordata anche l'azione dell'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), che ha svolto dal 1948 ad oggi una notevole azione in tal senso.

Attualmente assistiamo, contemporaneamente al ripiegare di molti, anche fra i più qualificati, verso posizioni intimistiche che difficilmente sono giustificabili tenendo presenti le esigenze più urgenti della società italiana (il neo-realismo di M. Ridolfi, le ultime realizzazioni di I. Gardella e G. Michelucci, le esperienze cosiddette neo-liberty di gruppi di giovani architetti torinesi e milanesi, l'involuzione neo-accademica di S. Muratori a Roma), a tentativi più o meno riusciti di approfondimento e qualificazione della rivoluzione architettonica moderna, tentativi che si riassumono nell'attività di F. Albini e del gruppo BPR (L. Belgioioso, E. Peressutti, E. N. Rogers) a Milano, il primo con maggior rigore metodogico, i secondi con alcune deviazioni verso un decorativismo manieristico, di A. Libera, G. Vaccaro, C. scarpa (impegnato prevalentemente nel campo dell'architettura di interni) e di gruppi di più giovani architetti.

Un esame a parte meriterebbe l'opera di P.L. Nervi, che va approfondendo sempre più le sue ricerche strutturali, raggiungendo notevoli risultati; in modo simile, in campo internazionale, allo spagnolo E. Torroja ed al messicano F. Candela.

La Russia sovietica non ha più dato contributi positivi all'evoluzione dell'architettura moderna e, nonostante la riuscita introduzione in larga scala di sistemi di prefabbricazione e di metodi di pianificazione economica ed urbanistica, rimane ancorata all'equivoco demagogico monumentale che ne vizia pesantemente i risultati. Il Comitato Centrale del P.C.U.S. e del Consiglio dei Ministri, hanno denunciato l'accademismo stilistico del periodo staliniano, dando disposizioni basate su criterî più rigorosamente economici e funzionali; sinora non si può dire che tali disposizioni abbiano dato risultati apprezzabili.

L'architettura moderna in Spagna, introdotta nel 1928 dal gruppo GATEPAC, fu ridotta al silenzio dopo la guerra civile, similmente a quanto avvenne in Germania. Nel 1950 si assiste ad un tentativo di ripresa con la formazione del "Gruppo R" (Renovacion cultural y arquitectura), in Barcellona, al quale si unirono nel 1954 alcuni architetti madrileni. Il gruppo (a cui partecipano tra gli altri gli architetti J. Martorell, M. Valls, J. Sostres, L. Iñigo), nell'accettazione, talvolta meccanica ed acritica, del movimento internazionale, compie un'utile opera di popolarizzazione delle istanze morali e sociali dell'architettura moderna, producendo inoltre opere senz'altro valide in tal senso, come la nuova facoltà di Giurisprudenza dell'università di Barcellona.

Un interesse particolare riveste l'evoluzione dell'urbanistica e dell'architettura palestinese. I pressanti problemi del Paese, imponendo sin dall'inizio l'inscindibilità tra pianificazione economica ed urbanistica e architettura, evitarono evasioni e formalismi gratuiti: nel 1948 il Dipartimento Nazionale della Pianificazione inizia l'elaborazione del Piano Nazionale d'Israele (alla direzione del quale venne chiamato H. Sharon), ponendosi così in tale campo all'avanguardia delle nazioni europee. Un valido contributo alla diffusione dell'architettura moderna in Israele, svolto su di un piano di notevole qualificazione, viene dato attualmente dallo studio Rechter, Zarhy e Rechter, di cui ricordiamo la Scuola di Archeologia di Gerusalemme e l'Auditorium Mann in Tel-Aviv.

L'architettura moderna americana dal 1945 ad oggi ha seguito l'indirizzo già impostato fra le due guerre: dell'adeguamento, cioè, delle tesi generali del movimento moderno europeo alle particolari esigenze della cultura e della società americana. Adeguamento, tuttavia, che ha impresso alla produzione architettonica caratteristiche del tutto particolari, tali da risultare alla fine indipendenti dal complesso delle esperienze che possono individuarsi nella pur etorogenea produzione europea.

Mentre infatti da un lato risulta cambiato il rapporto tra architetto e committente, per cui la società nella sua trama di relazioni tende a divenire sempre più l'effettiva cliente e protagonista della produzione, dall'altro le contraddizioni implicite nella società stessa tendono a proteggersi da tale fenomeno, rifugiandosi in un soggettivismo che si esprime in modo assai evidente nello stato di crisi attraversato da alcuni esponenti della cultura americana. Questa situazione, non recente, per quanto solo recentemente sia venuta alla luce con particolare evidenza, è verificabile nella diversità stessa dei metodi di progettazione di due distinte correnti dell'architettura americana: la formazione, cioè di super-studî attrezzati, capaci di rispondere alla domanda di sempre maggior qualificazione tecnologica, in relazione anche alle dimensioni gigantesche della domanda (lo studio Skidmore, Owings e Merrill ne costituisce un esempio), contro studî di tipo tradizionale accentrati intorno alla personalità di singoli architetti (R. Neutra, W. Wurster e, come caso particolare, lo studio di Wright).

Lo sviluppo dell'architettura di Wright, nel quadro ora descritto, assume un valore autonomo proprio per le sue caratteristiche più peculiari: le opere costruite e progettate dal 1945 al 1959 confermano il distacco che Wright ha posto tra la sua azione e le complesse problematiche del mondo contemporaneo. L'atto del costruire riassume in sé, per Wright, tutto il suo impegno civile e politico che, in tal modo, è messo al riparo dai molteplici compromessi imposti dalla realtà storica. Wright così ha avuto modo di influenzare scarsamente l'abiente internazionale negli ultimi anni della sua attività, pur producendo opere notevolissime quali il Museo Guggenheim a New York o la Price Tower a Bartlesville, Oklahoma.

Differente è la posizione di Neutra che continua a svolgere la sua opera di interprete delle tradizioni individualistiche dell'architettura americana, agendo quindi su di un campo piuttosto ristretto, che però gli permette di studiarne a fondo tutti i problemi: introducendo in America il metodo psicologistico di A. Loos, suo maestro in Europa, pur senza accettarne l'eredità formale, egli affronta direttamente e volta per volta il cliente singolo, comprendendone a pieno le necessità fisiologiche ed intellettuali, ma a prezzo di una grave limitazione operativa.

Un'analisi dell'opera svolta da L. Mies van der Rohe negli S.U.A., ed in particolar modo della sua attività più recente, rispetto alle esperienze europee, dimostra la coerente continuità della sua tematica: la ricerca di una "nuova oggettività", che si esprimeva nell'Europa del primo dopoguerra attraverso l'approfondimento del linguaggio "neoplastico", si trasforma nel secondo dopoguerra in America nella didattica rigorosità della scarnificazione ed essenzializzazione delle connessioni architettoniche e delle forme, verificabile in tutte le sue opere dal 1940 in poi. I notevoli risultati raggiunti, proprio a causa dei limiti impliciti nell'assunto iniziale, non sono esenti da un formalismo classicistico che ne vizia il valore didattico; l'architettura di Mies, per tale ragione, tende a porsi come un'esperienza-limite, come sembrerebbe dimostrare l'involuzione accademico-espressionistica di Philip Jonhson, che sinora poteva considerarsi il suo migliore allievo.

Diversi insegnanti del Bauhaus si stabilirono in America dopo il 1933: oltre a W. Gropius e Mies, infatti, J. Albers, A. Schawinsky, L. Feininger, M. Breuer, L. Moholy-Nagy ed altri, emigrarono dalla Germania e diffusero in America i metodi e le esperienze del Bauhaus. L'influenza sulla produzione architettonica americana è notevole: le istanze più immediate per le quali Gropius lottava in Germania, dall'adeguamento della produzione industriale alle esigenze della nuova architettura, alla sintesi artigianato-industria, sino alla realizzazione di quell'"architettura integrata" che costituisce l'obbiettivo ultimo della sua didattica, sembravano trovare nell'ampiezza delle esperienze e nella dinamicità dei processi economici e sociali del mondo americano, le condizioni più favorevoli per la loro realizzazione. Ma tali condizioni solo superficialmente erano le più adatte ad accogliere l'insegnamento più profondo di Gropius; questi, infatti, pur adeguando la propria metodologia alle nuove componenti della realtà, non riesce a tradurre nella società americana le ideologie più progressive che avevano caratterizzato in Europa la sua posizione: la società di massa oppone la propria "alienazione" alle sue istanze di "integrazione". Dal 1946 Gropius sente il bisogno di penetrare più a fondo nella realtà in cui opera (analogo tentativo aveva compiuto nel 1941 unendosi a K. Wachsmann), fondando uno studio insieme a sette suoi ex-allievi (The Architects Collaborative: TAC). Egli compie quindi un ulteriore tentativo di natura didattica: le opere del TAC, pur senza risolvere compiutamente i problemi a cui abbiamo accennato, si mantengono su di un buon livello medio (possiamo citare fra le più notevoli il palazzo per uffici della Mc Cormick a Chicago del 1953, il nuovo "Boston Center" del 1953); negli ultimi tempi però si sta facendo evidente un'involuzione formalistica che, a quanto si può giudicare dai grafici, vizia il progetto per la nuova città universitaria di Bagdad, l'opera più recente del TAC, assai interessante sotto altri aspetti.

Una notevole influenza sull'architettura americana, ed in particolare sui progettisti che hanno affrontato il problema dell'edilizia dei centri direzionali delle città, ebbe nel 1950 la realizzazione del palazzo delle N. U. a New York. Uno schema di massima era stato approntato da I. e Corbusier nel 1947: W. K. Harrison e M. Abramowitz, chiamati poi a realizzare l'edificio, accettano l'impianto proposto schematizzandolo al massimo e propongono una soluzione basata sull'indifferenziazione delle grandi superfici vetrate: la soluzione dei processi costruttivi di esecuzione e la ripetizione modulare degli elementi, rispondenti alle necessità produttive dei cicli industriali, ha immediatamente un grande successo. Nasce così una tendenza verso un'architettura sempre più meccanicizzata che, mentre offre con la Lever House in New York (1952) dello studio Skidmore, Owings e Mewill e con il centro tecnico della General Motors in Detroit di Eliel ed Eero Saarinen, dei positivi risultati, entra presto in crisi. Di tale crisi sono sintomatiche opere come la sala per concerti del Lincoln Centre a New York di Harrison ed Abramowitz, il progetto per la Banca Lambert a Bruxelles di Bunshaft (per lo studio Skidmore e associati), gli ultimi progetti di Edward Stone e di Philip Johnson. Le involuzioni accademiche e stilistiche nelle quali sono cadute le tendenze più recenti dell'architettura americana non sono separabili da uno stato di involuzione più generale della società che esse esprimono: gli architetti riflettono confusamente l'insufficienza ideale della società di massa senza coglierne però le componenti positive; così il rifugio nell'accademismo modernistico, nelle sue contraddizioni, può contribuire ad evidenziare la crisi della società nata dalla civiltà capitalistica.

L'indirizzo essenzialmente formalistico e l'adozione degli elementi sintattici del linguaggio di Le Corbusier caratterizzano dal 1930 ad oggi l'ambiente architettonico brasiliano; anche qui però, come osserveremo anche per quanto riguarda l'architettura moderna giapponese, va notato che l'adozione del linguaggio più manifestamente ed immediatamente aderente alle ideologie progressiste ha un valore di positiva rottura e di una volontà di rinnovamento sociale che va al di là dei contributi particolari alla qualificazione formale dei singoli edifici. Lo sperimentalismo implicito nell'atteggiamento degli architetti brasiliani permette un'applicazione spregiudicata delle elaborazioni, così da aprire spesso nuovi orizzonti e campi d'azione inesplorati all'evoluzione dell'architettura moderna. Ciò si può verificare, ad esempio, nelle ricerche di architetture paesaggistiche di R. Burle Marx e nella esaltazione dello spazio urbano del quartiere Pedregulho a Rio di A.E. Reidy, assai più che nelle involuzioni formali di Brasilia: il piano di Lucio Costa infatti, pur non mancando di spunti interessanti, nell'evidente simbolismo della sua forma a croce simmetrica, fa propria la concezione accademica della città, concepita come un'architettura unitaria amplificata e rende gratuiti i funambolismi statici e formali di O. Niemeyer, autore dei principali edifici.

L'architettura giapponese del dopoguerra si è impegnata nella soluzione dei complessi problemi posti dalla grave situazione sociale ed economica del Paese, nel quale le vecchie istituzioni feudali vanno rapidamente trasformandosi. Il panorama generale della produzione architettonica è orientato verso un manierismo occidentalizzante, di marca prevalentemente lecorbusieriana, non di rado però intelligentemente interpretato. Tra le opere più notevoli possono essere citate: il Municipio di Haijama dello studio Junzo Sakakura ed associati, gli appartamenti Harumi a Tokio di Kunio Maekawa, la Prefettura di Kaegawa ed il parco della Pace in Hiroshima di Kenzo Tange e, più recente, il palazzo comunale di Tokio che è l'opera più riuscita dello stesso Tange. Nelle architetture citate l'insegnamento di Le Corbusier appare come un mezzo estremamente valido per contribuire all'evoluzione in senso democratico del Giappone ed alla rottura con i compromessi sociali impliciti nel vocabolario formale e nelle poetiche tradizionali. Vedi tav. f. t.

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