Arianesimo

Enciclopedia Dantesca (1970)

arianesimo

Raoul Manselli

. Dottrina di Ario e dei suoi seguaci e continuatori.

Maturato non senza influenza di Origene e nella preoccupazione di affermare in maniera decisa e inequivocabile il monoteismo contro ogni rischio di interpretazione triteistica della Trinità, l'a. sottolinea energicamente la realtà di Dio come unico Essere senza principio, che è perciò il solo ad essere ingenerato ed eterno; è perciò indicibile, incomprensibile, senza eguale. Come tale egli è il creatore di tutte le cose per un atto della sua libera volontà né esiste creatura che non sia stata creata da lui.

Ne viene una conseguenza di fondamentale importanza, e cioè che Dio non può avere emanato nulla dalla sua essenza, ma ha solo creato nel tempo: " non sempre Dio fu padre... ma lo divenne dopo ". Infatti prima della creazione del mondo Dio volle porre un intermediario fra sé e il mondo stesso, una sostanza a sé o ipostasi, perché non poteva fare a meno di una potenza che rendesse possibile la creazione delle cose. A questo Essere, il primo creato, fu dato nella Scrittura il nome di Sapienza, di Figlio, di Verbo, ma Ario tiene a sottolineare che nulla v'è di comune tra la sua sostanza e quella di Dio e che non dobbiamo lasciarci fuorviare da termini come " generato da Dio " o " Figlio di Dio ": la prima espressione, infatti, vuol soltanto significare " creato " di cui è in tutto l'equivalente, mentre la seconda sta a indicare una filiazione adottiva.

Il Figlio, quindi, non ha nulla in comune con la sostanza del Padre, dal quale è completamente distinto e diverso, perché è, come si è già detto, una creatura. Come tale, e perciò in assoluta diversità dal Padre, il Figlio ha una volontà libera: avrebbe quindi potuto peccare ed essere buono o cattivo. Ma, avendo per un atto della sua volontà scelto il bene e avendo successivamente persistito nella decisione in modo immutabile, egli ha realizzato una perfezione tale, che non ha pari nella realtà creata. Appunto per questo egli primeggia su tutti gli esseri creati, è la creatura perfetta, dalla quale furon create tutte le altre cose, è l'essere che è venuto a trovarsi con Dio in un rapporto speciale, per cui avendo ottenuto la grazia di aderire prontamente al bene, ha progredito tanto sulla via della perfezione da meritare di esser detto " Figlio unigenito di Dio ", " immutabile " nella decisione della sua volontà e altri simili attributi.

Il Figlio, quindi, non può, in nessun modo, esser considerato della stessa sostanza del Padre, né ha nulla in comune con la natura divina. La sua scienza è perciò imperfetta, né può attingere l'infinita sapienza di Dio. Non va quindi posto sullo stesso piano, né può essere onorato e adorato come il Padre.

Proprio perché creatura, il Verbo, incarnandosi, non ha avuto bisogno di assumere un'anima, ma è entrato nella carne, assumendo tutte le manifestazioni di un essere umano, perciò è turbato e angosciato, fa delle domande, si sente abbandonato dal Padre, prega, non sa quando sarà il giorno del giudizio. In altre parole, il Verbo, entrato in un corpo umano, vi ha avuto la funzione dell'anima in un uomo, con tutti i limiti, quindi, della condizione umana. L'incarnazione del Figlio, perciò, non è motivata dalla redenzione necessaria al genere umano, ma è una prova a cui è stato sottoposto il Verbo, che opera per sé, non per la salvezza degli uomini. Ci salva, tuttavia, avendoci rivelato la dottrina di Dio e dandoci l'esempio di una realizzazione del bene nella libertà.

Accanto al Figlio, tra le realtà create, compare lo Spirito Santo, la cui posizione, nella dottrina di Ario, non è ben sicura, per mancanza di fonti certe e ben chiare, ma che, comunque, sembra essere creato dal Figlio.

Eran queste le idee di Ario, che vennero vivacemente dibattute e discusse al concilio di Nicea ove si combatterono la tesi ariana e l'altra, che era e rimase quella della maggioranza della Chiesa cattolica, di Cristo identico al Padre nella sostanza.

La tesi ariana, sconfitta a Nicea, giovandosi anche di forti appoggi politici, continuò ad agire in seno alla Chiesa, subendo vari ritocchi e trasformazioni che verranno qui soltanto accennati rapidamente.

Se nel concilio di Nicea un potente amico di Ario, Eusebio di Nicomedia, pur condividendone le idee, cercò, almeno verbalmente, di attenuarne la portata, queste vennero invece esasperate intorno al 350 d.C., da Aezio e più tardi da Eunomio, che spinsero alle più radicali conseguenze la differenza di sostanza, che già Ario aveva indicato a proposito di Dio Padre e del Figlio. Superando la tesi sostenuta a Nicea che il Figlio avesse una sostanza simile a quella del Padre, Aezio ed Eunomio sostennero, infatti, che andasse respinta anche questa somiglianza e che si dovesse invece affermare una differenza totale fra le due sostanze. Ne venne che anche dei gruppi ariani rifiutarono questa radicalizzazione dell'a., e si distinsero così in varie correnti: mentre alcuni, con a capo Acacio di Cesarea, rimasero fedeli alle posizioni di Ario, altri, con Basilio d'Ancira, riconobbero che la sostanza del Figlio è in tutto e per tutto simile a quella del Padre, mentre riluttavano ad accettare, in ogni modo, la divinità dello Spirito Santo.

In questi contrasti, che ebbero profonda efficacia sul mondo cristiano del IV secolo e che scesero anche fra la gente più umile, venne formandosi e maturando la necessità di esprimere in coerenza ad accettare, in ogni modo, la dottrina circa la divinità dello Spirito Santo.

D., che ricorda Ario (v.), non ha, come sembra, una conoscenza dell'a. che vada al di là di una generica affermazione di avere, come Sabellio, distorto la Sacra Scrittura. Accetta, inoltre, dall'interpretazione storica dell'Apocalisse (v.), corrente anche in ambiente gioachimitico, l'indicazione che l'a. segni l'inizio della quarta età della Chiesa, quella delle eresie e della formazione della teologia patristica: nella processione mistica del Purgatorio (XXXII 118-123), infatti, D. vide avventarsi contro il fondo del trïunfal veiculo una volpe / che d'ogne pasto buon parea digiuna; la affrontò Beatrice che la volse in tanta futa / quanto sofferser l'ossa sanza polpe. Pur essendo la volpe (con richiamo al Cantico dei Cantici) concordemente usata dai commentatori medievali della Bibbia per indicare l'eresia in generale, pur tuttavia proprio per Gioacchino da Fiore e i suoi seguaci la più grave fra tutte, e quella che più paurosamente aggredì la Chiesa trionfante dalle persecuzioni, è appunto l'arianesimo.

Bibl. - Oltre alla bibliografia già indicata alla voce Ario, si vedano la ben nota storia del dogma di A. Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Tubinga 19315, II 263-288, che esprime il punto di vista protestante e considera l'impostazione della formazione dogmatica come influenzata dal pensiero greco; X. Le Bachelet, Arianisme, in Dict. de théologie catholique, I, coll. 1779-1863; W. Schneemelcher, Arianischer Streit, in Religion in Geschichte und Gegenwart (3a ediz.), I, coll. 593-595; M. Simonetti, Studi sull'A., Roma 1956. Per l'interpretazione della volpe come simbolo di eresia, basterà rinviare, come esempio, a s. Bernardo, Sermones super Cantica Canticorum, LXIII-LXVI, in S. Bernardi Opera, II, Roma 1958, 161-188. Che questa volpe significhi soprattutto l'eresia ariana è detto, sulla scia di Gioacchino da Fiore, da Pietro di Giovanni Olivi, per cui si veda G. Salvadori, La mirabile visione del paradiso terrestre di D., Torino s.a. (ma 1913), 128-129, e R. Manselli, La " Lectura super Apocalipsim " di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull'escatologismo medioevale, Roma 1955, 196-198. L'Olivi è stato poi, in gran parte, quanto al prologo ove si parla appunto dell'A., ripreso alla lettera dall'Arbor Vitae crucifixae Jesu di Ubertino da Casale, come è dimostrato da R. Manselli, Pietro di Giovanni Olivi ed Ubertino da Casale, in " Studi Mediev. " s. 3, VI (1965) 95-122.