ARIOSTO, Francesco, detto il Peregrino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 4 (1962)

ARIOSTO, Francesco, detto il Peregrino

Mario Quattrucci

Figlio di Princivalle, nacque a Ferrara intorno al 1415. Non sempre è facile distinguerlo dal suo omonimo Francesco Ariosto (1430-1499), di Rinaldo, sebbene nei registri estensi, per evitare confusioni, quest'ultimo venga spesso accompagnato dalla qualifica di "senescalco". Nel 1429 lo troviamo, ancora adolescente, ad Argenta, ove si rifugiò con il suo maestro Guarino da Verona, quando Ferrara fu colpita dalla peste. Due anni dopo iniziava gli studi di diritto canonico a Bologna, ove si addottorò in decretali il 12 agosto del 1440 .

Tornato a Ferrara, si sposò con Paola Gieri dalla quale ebbe tre figli: nessun documento prova che l'A. "fu uno dei primi che insegnasse Filosofia e Ragion Civile nell'Università della sua Patria", come molti studiosi hanno creduto sulla testimonianza del Mazzuchelli; del resto egli avrebbe potuto insegnare soltanto diritto canonico; fu invece promotore di lauree nello Studio di Ferrara. Subito dopo il matrimonio inizò quella vita errabonda che giustifica il soprannome di "Peregrinus" con il quale l'A. sempre si firmerà. Nel 1446 è commissario a Bagnocavallo e due anni dopo è già podestà in S. Felice sul Panaro; dopo esser stato a Modena, Abbazia e Len&nara, tiene la podesteria di Felina e Castelnuovo (1452-1455). Podestà a Montefiorino nel 1457, con lo stesso incarico risiede poi a Castellarano Strozza (1460 ). Dopo un breve soggiorno a Ferrara, è nuovamente podestà a Montecchio, fino al 1463. Da una lettera del 7 giugno 1464, di Nicolò Ariosto al marchese Ludovico Gonzaga, apprendiamo che in questo periodo l'A. è podestà di Montericco di Reggio.

Tornato a Ferrara, frequenta la "eruditissima Accademia Bentia", di cui erano animatori i fratelli Francesco e Soncino Benzi, medici illustri. "Nescio quid de te potius in scribendo admiror...", così gli scriveva Barnaba Percivalle, umanis ' ta di Recanati nel dicembre del 1467, quando l'A., podestà in Carpineto, sollecitava il suo giudizio circa l'operetta sugli oli di Montegibbio da lui redatta. Tornato nuovamente a Ferrara, il 29 marzo 1471 gli viene affidato l'ufficio di giudice del Comune, ma poco dopo lo troviamo podestà di Sassuolo (1472-1473). Retto il medesimo incarico a Portomaggiore fino al 1475, è successivamente capitano di Ficarolo. Dalla "formosissima scandiana arce" il 10 nov. 1478 scrive ad Eleonora d'Este, che egli nel 1480 accompagnerà a Mantova presso Francesco Gonzaga. Chiuse la sua lunga esistenza nel 1484, come si ricava dai registri della chiesa di S. Francesco, dove il suo corpo venne seppellito il 27 marzo di quell'anno.

Quasi sempre relegato lontano dalla sua "florentissima" Ferrara, I"A. dovette trascorrere una vita mediocre, certo non brillante come forse aveva sognato in gioventù; ma nello studio delle lettere latine e volgari trovò un conforto a quella "humile, vechiarella et afflieta sorte". La più antica composizione poetica dell'A. è una elegia latina, scritta in occasione delle nozze di una Giovanna Costabile e indirizzata a L. Sardi, medico e poeta (ms. Est. Lat.1080). Nello stesso manoscritto, oltre ad un'altra elegia in risposta a quella di Soncino Benzi in lode di una fanciura, vi, è una lunga poesia, anch'essa in metro elegiaco, interessante soprattutto per il suo soggetto letterario: In Chechae suburbanae delamentationem elegia.La pietosa storia ricalca quella ben più famosa della vergine Alda, a lungo erroneamente attribuita a suo fratello Malatesta. Sebbene i nomi dei protagonisti, Checca e Pierino, facciano supporre uno spunto realistico, questa elegia non è molto diversa da altre simili esercitazioni letterarie, non infrequenti nella poesia ferrarese dell'età di Leonello. Tutta una schiera di nuovi lirici si serviva allora di un latino condito di ricordi tibulliani e oraziani, privo di originalità e freddo nell'imitazione, e l'A. non sfuggì all'influenza di questo ambiente. I suoi versi appaiono dolci e soavi, ma impersonali nella imitazione classicheggiante. Sin da giovane egli rivela però uno spirito versatile: sa cantare di amore, ma è capace anche di comporre uno spettacolo scenico, In Isidis religionem elegia.

In una didascalia finale, nello stile dei comici latini, si legge che questo dramma fu rappresentato nella sala del palazzo principesco, alla presenza della corte e della nobiltà, il 23 gen. 1444, in occasione del matrimonio di Leonello con Maria d'Aragona. Grande importanza riveste questo lavoro drammatico per la storia del teatro italiano, nel periodo di transizione tra la rappresentazione sacra e il fiorire della commedia classica. La prima delle due elegie che compongono la rappresentazione viene recitata da Carino, personaggio preso in prestito dal Mercator di Plauto, che si lamenta di trovare triste e abbandonata la casa di Iside, un tempo allietata dalle risa e dai giochi della gioventù: "Isis, ubi antiqui proceres? Ubi pulcher Iulius?". La fanci ulla, piena di mestizia, risponde nella seconda elegia: gli amici non verranno più alla sua casa, perché ella ha deciso di far penitenza, "Divirius venit nostras orator ad oras/Nuper et hie mundum temnere me docuit". Nel prologo l'A. avverte di rappresentare una "fabularn veridicam": questo non ci sorprenderebbe in un secolo ove le conversioni non furono rare.

L'Iside come opera d'arte vale poco, pur essendo senza dubbio un'operetta curiosa, affatto originale nella letteratura del Rinascimento, preannuncio sia pure precoce di quel gusto per lo spettacolo teatrale che farà di Ferrara una delle città più importanti della storia del teatro italiano. Classico lo scenario, plautini il prologo e l'epilogo: la rappresentazione riflette sinceramente il contrasto drammatico delle coscienze ansiose di vivere, ma tormentate dagli scrupoli religiosi. L'Isis ebbe un grande successo e fu in seguito dall'A. dedicata al duca Borso (cod. Lat. Est.1906), ma soltanto nel 1936 fu stampata a cura di G. Stendardo (in Archivum Romanicum, XX, Firenze, pp. 114-122).

Nella corte estense non era raro trovare singolari eruditi in filosofia e letteratura, che sapevano dilettare con un sonetto e trattare di medicina e di diritto: uno di questi è l'Ariosto. Egli si dedicò infatti anche alle ricerche e alle osservazioni naturali: fu il primo a rivelare al mondo scientifico l'esistenza del petrolio, descri vendo in un originale trattato le qualità e le virtù medicinali dell'olio minerale che scaturisce alle falde del Montegibbio, presso Sassuolo, nell'agro modenese. Dedicato al duca Borso il 15 dic. 1462, rimase manoscritto per molto tempo (cod. Est.XVI, H H, 63); fu pubblicato per la prima volta da O. Iacobeo: Francisci Areosti de Oloe Montis Zibinii, seu Petroleo Agri Mutinensi Libellus, Copenaghen 1690. In seguito fu riprodotto da B. Ramazzini in appendice al trattato De fontium Mutinensium admiranda scaturigine, Pataviae 1713. L'opera ha scarso valore nella storia della medicina: essa è però importante perché rivela alcuni aspetti tipici degli interessi culturali del-7 l'Ariosto. Nel 1463, quando Bórso affidò il governo di Reggio e Modena ai suoi fratelli Ercole e Sigismondo, l'A. compose una elegia enconnastica, "Partitus regni molem, celeberrime princeps" (cod. Est.x q. 7, 32). Ammiratore del "clarissimo Beato Eusebio", ricavò nel 1466 dalla lettura della sua opera De evangelica praeparatione un dialogo in volgare, nel quale due illustri personaggi della corte estense sono chiamati a ragionar di morale: Tractatus de Divina Providentia, ad Borsium Ferrariae Dominum (cod. Est. Lat.118).Nello stesso codice è conservato un suo lungo discorso volgare, nel quale immagina che la "venerabile Suor Idea" tenga un sermone cerimoniale sulla purificazione della Vergine alle sorelle del convento di S. Chiara: Sermo de Purificatione Beatae Mariae Virginis;traduzione per la maggior parte letterale del cap. V del lib. VIII della citata opera di Eusebio da Cesarea, è anch'essa un documento del bizzarro carattere dell'Ariosto. Da Carpineto, il 7 dic. 1469, egli indirizzava al papa Sisto IV una "devota et adhortatoria protestatio", con la quale esortava il pontefice a por fine ai mali della Chiesa e a promuovere la crociata contro gli infedeli (ms. Est. Lat.309). Nell'aprile del 1476 indirizzava ancora a Sisto IV De novi intra ducalem regiam Ferrariensium delubri origine (cod.cit.). In questa operetta latina, con una traduzione in volgare, sono riportati non meno di cinquanta miracoli avvenuti nella cappella, posta tra il Palazzo Estense e Castel Vecchio, consacrata alla Vergine da Ercole I. In essa è anche contenuta la traduzione volgare dell'A. di una elegia che A. Tassino dedicò come ex voto alla cappella. Due "historiole" completano l'elenco delle opere dell'A.: nella prima, in latino e in volgare, vengono descritte le cerimonie avvenute in Roma nel 1471 quando Borso ebbe da Paolo II la investitura ducale (ms. Chigiano I, VII, 26);essa è stata edita da E. Celani, La venuta di Borso d'Este a Roma l'anno 1471 (in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XIII[1890], pp. 361 e ss.). Nella seconda "historiola" l'A. descrive il viaggio a Mantova della duchessa Eleonora, il suo ritomo a Ferrara con Francesco Gonzaga, fidanzato della giovane Isabella, e le feste fatte in quella occasione nella città estense (ms. Est. Lat.499). Dalla lettera introduttiva ad Ercole I apprendiamo che l'A. aveva già descritto "quelli fructuosissimi e tanto laudandi sponsalicij" in un'opera malauguratamente andata perduta; la relazione sul viaggio di Eleonora, di cui rimane la sola versione latina, è la sua ultima opera.

"Francisco Ariosto, poeta festivissimo" lo chiama L. Carbone: difficile è tuttavia ritrovare questa piacevolezza nelle sue opere. Il suo latino non è certamente meno infelice di quello di tanti altri mediocri verseggiatori dell'epoca; più interessante è la sua prosa volgare: specie quando nel suo duro dialetto gli accade di scrivere qualche pagina gustosa che, come rileva giustamente l'Ascari, compensa l'infelicità di tanta sua prosa, che pur dovette costargli molta fatica.

Fonti e Bibl.: Francisci Ariosti iurisconsulti Ferrariensis Epistolae et Orationes, in Stephani Baluzii tutelensis Miscellanea novo ordine digesta, III, Lucae 1762, pp. 169-183; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, IV,Modena 1785, p. 208; Facezie di Lodovico Carbone ferrarese, a cura di A. Salza, Livorno 1900, p. 7; G. Pardi, Titoli dottorali conferiti nello Studio di Ferrara nei sec. XV e XVI, Lucca 1916, passim; Epistolario di Guarino Veronese, raccolto ordinato illustrato da Remigio Sabbadini, in Miscellanea di storia veneta, s. 3, XIV, Venezia 1919 pp. 256 s.; M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi documenti, II, Ginevra 1931, p. 371; G.M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I.2, Brescia 1753, pp. 1058 s.; N. Cionini, I podestà di Sassuolo, Pisa 1881, pp. 34 s.; G. Bertoni, La biblioteca estense e la cultura ferrarese ai tempi del duca Ercole I, Torino 1903, pp. 178-181; G.Carducci, La gioventù di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara, in Opere (Ediz. naz.), XIII, pp. 185-191; A. Della Guardia, La politia litteraria di Angelo Decembrio, Modena 1910, pp. 58-61; W. Creizenach, Geschichte des neueren Dramas, I, Halle 1911, pp. 576 s.; G. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara, Ginevra 1921, pp. 78-81, 87 s.; T. Ascari, Francesco Ariosto Peregrino, in Atti e Memorie della Accademia di scienze lettere ed arti, s.5, XI (1953), pp. 94-116.

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