Armamenti

Enciclopedia del Novecento (1975)

Armamenti

Bernard Burrows e Tom Goff

di Bernard Burrows e Tom Goff

Armamenti

sommario: 1. Armamenti ed evoluzione della guerra totale. 2. Armamenti e società: effetti politici ed economici. 3. Armamenti e progresso tecnologico. 4. Armamenti e guerra prenucleare. 5. Armamenti e guerre coloniali. 6. La rivoluzione nucleare: a) armi nucleari strategiche; b) armi nucleari tattiche; c) armi nucleari ed equilibrio convenzionale; d) ‛mini-nukes'; e) non proliferazione delle armi nucleari; f) pressioni per il disarmo nucleare. 7. Disarmo: a) sino alla seconda guerra mondiale; b) accordi sulla limitazione degli armamenti dopo la seconda guerra mondiale; c) riduzioni recproche di forze; d) controllo.  8. Conclusioni: a) il futuro della deterrenza; b) il futuro del commercio di armi; c) le prospettive. □ Bibliografia.

1. Armamenti ed evoluzione della guerra totale

In una possibile accezione, per armamenti si intende la totalità dei mezzi di cui uno Stato dispone per fare la guerra. Una tale definizione classifica come ‛armamenti' gli impianti industriali, le risorse naturali, il sistema stradale e la rete ferroviaria, e in genere qualunque cosa sia suscettibile di contribuire alla prosecuzione dello sforzo bellico. Nell'uso corrente, tuttavia, il termine ‛armamenti' designa per lo più il complesso di armi (armi e dotazione ausiliaria) coi quali le guerre sono effettivamente condotte. Esso si riferisce in particolare alle effettive parti dell'equipaggiamento, di modo che il ‛blocco' e la propaganda, sebbene possano correttamente ricevere la qualifica di strumenti bellici, non sono considerati come armamenti. Noi adopereremo nel corso di questo articolo la seconda definizione di armamenti, cioè intenderemo per armamenti l'‛arsenale' da guerra.

Il sec. XX è stato un secolo di mutamenti rapidi e radicali in pressoché ogni campo dell'attività umana. I progressi realizzati nel campo degli armamenti vanno annoverati tra i mutamenti più rilevanti. Questa realtà si è imposta nel modo più energico con l'avvento delle armi nucleari, che hanno rivoluzionato il sistema delle relazioni internazionali tra gli Stati e hanno reso la prospettiva di una guerra tra le grandi potenze troppo terrificante per essere presa in considerazione. E questo non è che il più evidente degli influssi esercitati dagli armamenti nel nostro tempo; ce ne sono stati altri, meno immediatamente visibili, ma di non meno vitale importanza.

Anche nei secoli passati si sono verificati, nell'arte della guerra, mutamenti quasi altrettanto profondi e importanti. All'introduzione della polvere da sparo nell'Europa occidentale si attribuisce un ruolo fondamentale nel determinare la fine del feudalesimo. In seguito, la superiorità negli armamenti rese possibile alle potenze europee la costituzione di enormi imperi mondiali, che hanno mutato il corso della storia umana. Sebbene il tipo di storiografia consistente in poco più di una cronaca di grandi guerre e battaglie sia stato superato da tempo, esso esprimeva tuttavia una verità essenziale. S'intende che anche i fattori politici, sociali ed economici hanno un'importanza vitale; ma le guerre, e quindi gli armamenti, possono influire in modo determinante sul corso della storia.

Il fatto che le basi economiche dello Stato determinano direttamente la capacità dell'industria bellica divenne evidente con le guerre mondiali. Si può però spesso parlare, a questo proposito, di un processo a due direzioni: negli anni trenta, per esempio, il ripristino della prosperità economica tedesca fu in parte dovuto al rafforzamento, controllato dallo Stato, dell'industria bellica. La grande macchina militare degli Stati Uniti è oggi resa possibile dalla potenza economica del paese; ma, a loro volta, diversi settori della sua economia dipendono dalle industrie degli armamenti, essendo il Dipartimento della Difesa responsabile di circa la metà di tutte le spese federali.

Fino a un centinaio di anni fa, i perfezionamenti dei mezzi bellici non erano cosa frequente; e, siccome i mutamenti avvenivano nel corso di generazioni o addirittura di secoli, i loro effetti erano spesso difficilmente percepibili. Oggigiorno il processo è assai meno graduale, e nuove invenzioni possono provocare in molti campi mutamenti di rilievo nel giro di uno o due decenni. Fino agli anni quaranta si credeva che il XX secolo fosse il secolo della guerra totale, in parte a causa delle dominanti ideologie di massa - democrazia, comunismo, fascismo - e in parte a causa della natura radicalmente nuova degli armamenti moderni. Per la prima volta, la sopravvivenza delle forze armate della nazione e la possibilità stessa di continuare le operazioni venivano a dipendere da un flusso costante e massiccio di rifornimenti, munizioni e rinforzi, che era assicurato dalla popolazione civile, in gran parte impegnata in un lavoro di importanza vitale ai fini bellici. L'industria, le comunicazioni e la popolazione civile diventavano così elementi importanti della macchina bellica nazionale, e con ciò stesso obiettivi legittimi di attacchi militari. La guerra non era più una questione di eserciti contro eserciti, ma di nazioni contro nazioni. Questo processo era cominciato al tempo della Rivoluzione francese; ma è nel sec. XX, grazie alla comparsa di nuove armi, come il sottomarino e il bombardiere, e in generale grazie all'altissima industrializzazione della società moderna, che esso ha potuto spingersi sino alle estreme conseguenze. Il sottomarino ha potuto colpire l'industria bellica, affondando le navi mercantili cariche di materie prime e di pezzi di ricambio; l'aeroplano ha potuto, per la prima volta, attaccare direttamente le fabbriche di munizioni. Se, per un verso, la possibilità di condurre guerre totali dipendeva dagli armamenti, per l'altro era la natura delle ideologie predominanti che dava la certezza che tutte le guerre importanti sarebbero state guerre totali.

Ora, l'esistenza di armi nucleari ha modificato questa situazione. La guerra nucleare totale non promette altro che la distruzione reciproca. Seri tentativi vengono fatti, dunque, per limitare la guerra prima che si arrivi al punto cruciale. Ma il rischio di una escalation, insito in una guerra che coinvolga due o più potenze nucleari è, cionostante, tanto grande che esse hanno costantemente evitato ogni serio confronto militare. Di conseguenza hanno assunto maggior rilievo forme indirette di conflitto. Dalla fine della seconda guerra mondiale, la sovversione, il terrorismo, la guerra di guerriglia, i colpi di stato e le guerre tra potenze minori, sono tornati in auge come mezzi attraverso i quali si esprime l'antagonismo tra le grandi potenze: la guerra totale è diventata troppo pericolosa.

2. Armamenti e società: effetti politici ed economici

A prima vista, ci si aspetterebbe di vedere gli effetti degli armamenti limitati quasi esclusivamente alla sfera militare. Non è assolutamente così, sebbene la loro influenza in altri campi possa essere meno evidente e più mediata. Anche l'ideologia marxista ortodossa sovietica è stata modificata in seguito all'accrescimento della potenza distruttiva degli armamenti. Marx, Engels, Lenin e Stalin sostennero tutti l'inevitabilità della guerra finché fosse esistito il capitalismo. Le guerre erano considerate desiderabili, nonché inevitabili, in quanto ‛levatrici' del progresso sociale. Nella Russia stalinista del secondo dopoguerra si sottolineava come la Rivoluzione russa fosse nata dalla prima guerra mondiale; come dalla seconda guerra mondiale fosse derivata l'estensione del comunismo all'Europa centrale e orientale e poi all'Asia; si faceva infine la fiduciosa predizione che una terza guerra mondiale avrebbe visto il mondo intero diventare comunista. Al XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica la teoria dell'inevitabilità della guerra fu esplicitamente ripudiata, quando Chruščëv presentò la sua teoria della coesistenza pacifica. Chruščëv annunciò che l'inevitabile trionfo del comunismo ‟non implicava affatto una vittoria che fosse il frutto di interventi armati [...] negli affari interni dei paesi capitalistici". In realtà, egli vedeva la coesistenza pacifica come l'unica alternativa alla ‟più rovinosa guerra della storia" (dal Rapporto del 14 febbraio 1965 al Congresso del PCUS). Nel 1960 questa nuova teoria fu ampliata: si affermò cioè che la guerra non solo non è inevitabile, ma non è neppure desiderabile: si ripudiava così l'idea che una terza guerra mondiale dovesse essere la benvenuta perché avrebbe implicato l'eliminazione del capitalismo. La drastica revisione dell'ideologia ortodossa era il diretto risultato dell'esistenza di armi nucleari e di missili intercontinentali, capaci di colpire l'Unione Sovietica direttamente dagli Stati Uniti.

In Occidente, un'evoluzione in certo modo analoga accompagnò il progressivo avvicinarsi della potenza nucleare sovietica alla parità con quella americana. La teoria della rappresaglia nucleare massiccia in caso di attacco contro l'Europa occidentale era sembrata idonea, nell'era semplicistica di J. F. Dulles e della guerra fredda. Essa rappresentava la ferma fiducia degli Stati Uniti nella propria potenza e nella propria rettitudine morale di fronte alle forze del male. La teoria della risposta flessibile, che ha sostituito quella della rappresaglia massiccia, indica la consapevolezza del fatto che l'America non è più sola nel mondo, che i pericoli sono reciproci, che la distruzione del nemico può significare la propria distruzione.

Nella sfera sociale, gli armamenti hanno avuto un effetto rilevante sulla composizione e sullo status delle forze armate, specialmente del corpo degli ufficiali. La crescente complessità e il continuo perfezionamento delle armi moderne richiedono a coloro che debbono maneggiarle capacità altrettanto specializzate. Il risultato è che l'ufficiale è diventato un professionista altamente addestrato, e il corpo degli ufficiali ha cessato di essere una riserva dell'aristocrazia e delle classi medie. L'istruzione e la capacità hanno sostituito la nascita e la ricchezza come criteri per accedere al corpo degli ufficiali. Nei paesi comunisti si è verificato un processo analogo. Qui era l'ortodossia ideologica - e non la nascita o la ricchezza - la principale qualità richiesta agli aspiranti al grado di ufficiale; in anni recenti, la capacità professionale è diventata invece un fattore sempre più importante. L'importanza da attribuirsi rispettivamente all'ortodossia ideologica e alla capacità professionale ha continuato tuttavia a essere materia di disputa, e ne sono risultate, specialmente nella Repubblica Popolare Cinese, aspre lotte politiche interne.

L'alto costo delle nuove armi si è spesso dimostrato superiore alle risorse delle imprese private, il che ha condotto a un crescente intervento statale in vari settori dell'economia. Ciò si è verificato anche negli Stati Uniti, dove l'intervento statale nell'economia è stato per molto tempo considerato come un'eresia. Il risultato è stato che, quasi ovunque, le industrie degli armamenti sono in maggior o minor misura controllate dallo Stato, anche nel caso in cui non siano effettivamente di proprietà statale. Un'altra conseguenza dell'alto costo degli armamenti moderni è che molti Stati non possono permettersi di realizzare le nuove tecnologie necessarie alla loro produzione. Questo si è verificato anche in certi Stati europei, che hanno ora cominciato a costruire alcuni tipi di armi su base cooperativa. Persino le due superpotenze, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, hanno risentito degli sforzi finanziari sostenuti per la realizzazione di nuovi tipi di armamenti, e appunto a ciò si deve, in parte, l'inizio dei colloqui SALT per la limitazione delle armi strategiche (Strategic Arms Limitation Talks).

Siccome la guerra moderna richiede un impegno totale, il XX secolo ha visto molti Stati sforzarsi strenuamente, nel timore di essere tagliati fuori dalle fonti esterne di rifornimento, di rendersi autosufficienti nei settori vitali per la prosecuzione di un lungo conflitto militare. Il petrolio esemplifica ottimamente il problema. Come risultato della guerra arabo-israeliana del 1973, i produttori arabi di petrolio hanno posto un embargo totale sulle esportazioni di petrolio verso gli Stati Uniti e l'Olanda, a causa dell'appoggio dato a Israele. Gli Stati Uniti erano, naturalmente, i principali fornitori di armi a Israele. Non soltanto la civiltà occidentale in generale dipende dal petrolio, ma in particolare gli establishments militari debbono fare assegnamento su grandi quantità di petrolio per mantenere in attività le forze aeree e di superficie. I programmatori militari e i produttori di armi hanno cominciato a prestare costante attenzione al problema di assicurarsi un sufficiente rifornimento di petrolio. I produttori di petrolio hanno acquisito così una nuova importanza nella politica mondiale. Nel giudicare l'efficienza dell'establishment militare di un paese, si dovrà prendere in considerazione il possesso di petrolio o il facile accesso ai rifornimenti.

Se gli armamenti diventano più variati, più numerosi e complicati, lo stesso si verifica per i materiali necessari alla loro costruzione, messa in opera e manutenzione; e per tutti i paesi diventa sempre più difficile rifornirsi di tali materiali, come ebbero modo di constatare le principali potenze durante la prima guerra mondiale. Per fare un esempio, nel 1914 la Gran Bretagna importava dalla Germania lenti per telemetri, materie coloranti per uniformi, magneti per mezzi di trasporto, tungsteno per l'acciaio e zinco per la fusione del ferro. Con lo scoppio della guerra, queste fonti di rifornimento furono chiuse e si dovette rapidamente trovare o creare fonti alternative. In maggiore o minor misura questo problema si pose anche agli altri belligeranti. L'urgenza della situazione costringeva i governi a potenziare e incoraggiare le industrie nazionali e le capacità scientifiche e tecnologiche, così da poter produrre localmente i materiali occorrenti o escogitare sostituzioni accettabili. Tali tentativi di raggiungere l'autarchia economica non furono, a loro volta, esenti da ripercussioni. Si ebbe anzitutto una grande espansione del controllo e dell'influenza dello Stato, attraverso i vari uffici governativi preposti alla coordinazione e direzione dei nuovi enormi sforzi bellici, e quindi la subordinazione di gran parte dell'industria e della ricerca scientifica alle necessità belliche dello Stato. Il processo si verificò anche nel senso inverso: l'industria e la scienza acquisirono cioè una maggiore influenza sugli organi di governo.

L'emancipazione femminile fu dovuta in parte allo sviluppo degli armamenti nel XX secolo. Durante la prima guerra mondiale, enorme fu il bisogno di uomini per l'esercito, ma altrettanto grande si rivelò il bisogno di manodopera per la produzione industriale. Se si voleva soddisfare entrambe queste esigenze contrastanti, bisognava che le donne lavorassero nell'industria e nei trasporti, mentre gli uomini servivano nell'esercito. Ciò spezzò le barriere tradizionali che in molti settori si opponevano all'impiego di donne, e il processo fu rafforzato dall'uso su larga scala di manodopera femminile, anche nell'industria bellica, durante la seconda guerra mondiale. Non può essere una coincidenza il fatto che le donne abbiano ricevuto in molti paesi il diritto di voto dopo la prima guerra mondiale; e molti e svariati sono stati i suoi effetti sulla struttura sociale della civiltà occidentale.

Diventando più complessi e raffinati, gli armamenti diventano anche più dispendiosi, e più difficile diventa perfezionarli e produrli. Sono cresciute le dimensioni dell'industria bellica: le società specializzate nella produzione di attrezzature militari occupano un posto notevole nell'economia nazionale dei paesi più avanzati, e forniscono molti posti di lavoro.

Si è verificata un'espansione del settore statale, poiché uno degli imperativi degli armamenti moderni è che forze addestrate e adeguate debbano essere disponibili in ogni momento. In passato, si poteva contare su un certo lasso di tempo per approntare forze dopo un attacco; gli armamenti moderni, invece, rendono un attacco di sorpresa così rapido e micidiale che potrebbe non esserci il tempo di mobilitare le difese di un paese per respingere un attacco. Questo mutamento è particolarmente evidente nel caso degli Stati Uniti, i quali una volta potevano sempre contare sui propri alleati d'oltremare e sullo stesso oceano come su una prima linea di difesa, dietro la quale sviluppare e dispiegare la propria potenza militare e industriale. I missili balistici intercontinentali con ogive nucleari hanno in realtà eliminato questa linea di difesa, cosicché, per la prima volta nella loro storia, gli Stati Uniti sono costretti a mantenere un poderoso apparato militare in tempo di pace.

Una delle conseguenze più importanti della rivoluzione moderna negli armamenti è il confondersi della sfera militare con quella civile. Sino alla seconda guerra mondiale, la guerra e la scienza militare erano prerogativa esclusiva delle forze armate. I civili fornivano i coscritti e gli ufficiali di complemento - e dunque di grado inferiore - in tempo di guerra, cioè quando l'esercito veniva potenziato. Oggi, come vedremo nel prossimo capitolo, gli scienziati civili svolgono un ruolo indispensabile non soltanto nella progettazione e nella produzione delle armi moderne, ma anche nell'elaborazione delle teorie tattiche e strategiche; da essi i militari debbono essere pronti a imparare, e debbono anzi acquisire essi stessi conoscenze scientifiche. E non si tratta soltanto di scienziati e di tecnici. È nato un nuovo genere di esperti civili, analisti dei problemi della difesa, professori di discipline militari e così via, che producono una gran quantità di libri su problemi militari. La teoria della deterrenza nucleare si è prestata in modo particolare a questa sorta di vaglio intellettuale, non essendo mai stata sottoposta, per fortuna, a una prova pratica. In tempo di guerra i politici sono sempre stati obbligati a diventare strateghi dilettanti. Oggi, però, la quantità di conoscenze da acquisire circa gli armamenti è assai maggiore che in passato, mentre assai minore è il tempo a disposizione dei politici per apprenderle attraverso l'esperienza. È quasi giocoforza dedurne che essi dovrebbero ricevere una preparazione particolare, come condizione per esercitare un'autorità sulle forze armate.

3. Armamenti e progresso tecnologico

Abbiamo qui a che fare con un processo a due direzioni. La produzione di armi suscettibili di essere usate efficacemente dipende dai progressi della ricerca scientifica e da un'industria tecnologicamente molto avanzata. Scienza e tecnologia d'altro canto hanno beneficiato della rapidità che ha caratterizzato lo sviluppo degli armamenti, e delle massicce risorse a essi dedicate. I progressi in campo militare hanno dato impulso a sviluppi scientifici che si sono rivelati importanti per scopi non militari.

In passato, lo sviluppo degli armamenti rimaneva di gran lunga indietro rispetto ai progressi compiuti in campo civile. Oggi è vero quasi l'opposto. È nelle attrezzature per la difesa che si compiono i progressi che sono poi ripresi e sfruttati nella sfera civile. Il motore a combustione interna, un prodotto del sec. XIX, era un'invenzione civile, usata poi in guerra come mezzo di propulsione di aerei, sottomarini, carri armati, ecc. Il motore a reazione, invece, divenne per la prima volta un progetto concreto solo durante la seconda guerra mondiale, in seguito agli sforzi e alle spese profusi in vista delle sue potenzialità militari. La prima guerra mondiale impresse una forte accelerazione all'evoluzione dell'aeroplano. Dal 1914 al 1918 l'aeroplano progredì dalla condizione di lento e goffo veicolo di limitatissime capacità a quella di mezzo capace di viaggiare per molte centinaia di miglia, a considerevoli altezze e a una velocità di quasi duecento miglia orarie. Progressi egualmente rapidi furono compiuti durante la seconda guerra mondiale, quando, con l'introduzione del motore a reazione, si raggiunsero velocità anche superiori alle 500 miglia orarie.

I razzi a lunga gittata con ogiva esplosiva furono, prodotti e usati per la prima volta dalla Germania, nella seconda guerra mondiale, per attaccare l'Inghilterra. Da essi sono derivati sia i missili odierni con propulsione a razzo - di gran lunga più potenti, in grado di trasportare ogive nucleari per migliaia di miglia - sia l'intero programma di esplorazioni spaziali. Verosimilmente, nessuno di questi sviluppi si sarebbe verificato, o in ogni modo non in così breve tempo, senza la pressione della guerra fredda e la conseguente importanza attribuita alla sicurezza militare e alla competizione tecnologica.

La tecnologia dell'automazione è in gran parte un prodotto del lavoro compiuto, durante la seconda guerra mondiale, sui dispositivi di comando del tiro nella contraerea. I servomeccanismi con autoregolazione, che tanta parte hanno nell'industria moderna, specialmente là dove sono in giuoco processi a catena, furono elaborati inizialmente per disporre e puntare automaticamente i cannoni antiaerei. I calcolatori elettronici odierni possono esser fatti risalire ai primi dispositivi di calcolo balistico usati per calcolare l'angolo di tiro e l'alzo dei cannoni antiaerei. Il primo vero calcolatore fu costruito nel 1947 per l'esercito degli Stati Uniti, con lo scopo di eseguire calcoli balistici.

Il radar è oggi usato in tutto il mondo per controllare il traffico navale e aereo, e persino per individuare gli automobilisti colpevoli di eccesso di velocità. Anch'esso è un'invenzione militare, adattata in seguito a usi civili. Nel 1934 il Segretario di Stato britannico per l'aeronautica istituì un comitato per fare ricerche circa il modo migliore di fronteggiare i bombardamenti. Il comitato prese in considerazione la possibilità di un ‛raggio della morte', e girò il problema a R. Watson-Watt, soprintendente del Dipartimento radio del Laboratorio Nazionale Britannico di Fisica. Watson-Watt giunse presto alla conclusione che il ‛raggio della morte' era irrealizzabile; suggerì però la possibilità di rilevare la presenza di aerei per mezzo delle radioonde, e fu così che si arrivò all'invenzione del radar.

Ma l'avvenimento scientifico di maggior rilievo in campo militare è rappresentato, naturalmente, dall'invenzione della bomba atomica e poi della bomba all'idrogeno. Esamineremo in seguito i drammatici effetti che queste armi hanno avuto sulla guerra. Qui è importante notare due cose. Le conoscenze fondamentali necessarie alla produzione di armi nucleari non avevano assolutamente alcun collegamento con scopi militari. Si trattava di una ricerca particolarmente ‛pura' sui misteri più profondi della fisica subatomica. Essa era cionondimeno suscettibile di utilizzazione militare e, sotto la pressione della guerra, della guerra fredda e del patriottismo, molti scienziati collaborarono attivamente al processo di trasformazione della ricerca di base in uno strumento militare di eccezionale potenza. Alcuni di loro erano profondamente consapevoli del dilemma etico implicito nel loro lavoro. Dovevano essi intraprendere ricerche, necessarie e desiderabili in base a criteri scientifici, ma che potevano condurre, com'era prevedibile, alla costruzione di mezzi di distruzione molto più potenti di quanto si fosse mai potuto immaginare in passato? Dovevano essi consigliare il governo di procedere alla produzione di queste armi? E, se non l'avessero fatto, non ne sarebbe derivato l'unico risultato che altri paesi avrebbero costruito le armi nucleari e le avrebbero, forse, usate in modo meno responsabile? Sono problemi, questi, destinati a essere oggetto di dibattiti senza fine.

4. Armamenti e guerra prenucleare

Prima dell'angosciosa decisione di costruire armi nucleari, gli statisti, e persino i generali, si erano nel complesso rivelati lenti ad adeguarsi ai nuovi sviluppi nel campo degli armamenti. La prima guerra mondiale dimostrò che anche le implicazioni della guerra ottocentesca non erano state pienamente assimilate dalla teoria tattica e strategica. Nel 1914, la tattica era ancora incentrata sul fucile, e mancava una chiara comprensione degli effetti che avrebbero avuto sulla guerra la mitragliatrice e l'artiglieria a tiro rapido, sebbene di esse si fosse già fatto uso in guerre precedenti. Si facevano ancora avanzare gli uomini in colonne e si ordinavano attacchi in massa, e si adoperò la cavalleria sino a che non dimostrò, in tali condizioni, la sua inutilità. E infine, la sola risposta che si trovò alla mitragliatrice e all'obice fu la sistemazione degli uomini in trincee sotterranee e il ricorso alla guerra di logoramento.

I progressi tecnici, quando arrivavano, venivano sfruttati in modo inadeguato e privo di immaginazione. L'importanza del motore a combustione interna e quella del telegrafo senza fili (quindi della radio) non furono valutate appieno. La prima innovazione tecnologica della prima guerra mondiale fu l'uso di gas venefici da parte dei Tedeschi; ma, usati su piccola scala, persero il loro valore di sorpresa e non conseguirono mai risultati decisivi. Il carro armato, inventato dagli Inglesi e usato per la prima volta nel 1916, si dimostrò finalmente in grado di superare lo stallo della guerra di trincea, imposta dalla mitragliatrice. Ma, ancora una volta, fu usato all'inizio su scala inadeguata. Il primo attacco di carri armati conseguì una sorpresa locale, ma non condusse ad alcun importante sfondamento. Ci vollero più di vent'anni per perfezionare la teoria del carro armato e per consolidare la resistenza meccanica dei carri stessi, prima ch'essi fossero in grado di ridare mobilità alla guerra con il Blitzkrieg e con le battaglie di carri del Nordafrica nella seconda guerra mondiale, e con quelle ancora più grandi nella guerra arabo-israeliana del 1973.

Ancora più importante, forse, di tutti questi mutamenti fu l'uso della terza dimensione a scopi militari. In precedenza, i combattimenti di qualche rilievo erano rimasti confinati alla superficie della terra e del mare, ma ormai i sottomarini e l'aviazione potevano operare al di sopra e al di sotto della superficie. Sottomarini e palloni erano stati usati in guerra già qualche tempo prima del sec. XX, ma fu solo con lo sviluppo del motore a combustione interna e col perfezionamento delle tecniche costruttive che si poté sfruttare realmente la terza dimensione.

L'aeroplano fu usato per la prima volta in un conflitto dagli Italiani nella guerra italo-turca del 1911, per lo più a scopo di ricognizione. E appunto per la ricognizione fu usato, inizialmente, durante la prima guerra mondiale, e solo in un secondo tempo in effettivi combattimenti. L'aeroplano permetteva di colpire direttamente i centri abitati e industriali, superando gli eserciti contrapposti. Il Regno Unito non era più immune da attacchi diretti. Tra le due guerre, la teoria dell'arma aerea fu elaborata da uomini come il generale G. Douhet in Italia e il generale B. Mitchell negli Stati Uniti. Tale teoria asseriva fondamentalmente che le guerre future potevano essere vinte in modo rapido e decisivo con bombardamenti aerei di vie di comunicazione, di centri abitati e industriali. L'aviazione del tempo, tuttavia, non era effettivamente in grado di assolvere i compiti che queste teorie le assegnavano. Persino nella seconda guerra mondiale, l'importanza di questa specie di bombardamento aereo si è rivelata discutibile. Molti danni furono causati alla Gran Bretagna dal Blitz aereo tedesco, e danni ancora maggiori furono inflitti alla Germania nelle fasi successive della guerra dai massicci attacchi aerei inglesi e americani contro le industrie, le vie di comunicazione e i rifornimenti di petrolio, che tuttavia inflissero perdite gravissime anche alla popolazione civile. Tutto ciò ebbe senza dubbio una certa parte nell'aggravare la penuria di merci e pezzi di ricambio di vitale importanza nelle fasi conclusive della guerra, ma non eliminò la necessità, perché si arrivasse alla vittoria, di una guerra di superficie di enormi proporzioni. Di più evidente efficacia fu l'uso che la Luftwaffe tedesca fece dell'aviazione tattica come di un'artiglieria mobile a sostegno di unità corazzate e di forze aviotrasportate. Ciò contribuì grandemente ai primi successi delle armi tedesche in Europa, nel Nordafrica e a Creta. Una dimostrazione dell'efficacia dell'arma aerea fu fornita dai Giapponesi con il loro attacco aereo alla flotta americana a Pearl Harbour, e con l'affondamento di due navi da battaglia britanniche al largo della penisola di Malacca nel 1941.

Il sottomarino del sec. XX è il prodotto non di una rivoluzione tecnologica, ma di un'evoluzione verificatasi in un periodo di tempo assai lungo. Il primo sottomarino usato, senza successo, a scopi bellici fu costruito nel 1775 in America, durante la Rivoluzione americana. Sempre in America si ebbe la prima azione di guerra sottomarina coronata da successo: una nave fu affondata da un sottomarino nel 1864, durante la guerra di Secessione. Ma fu solo più tardi, con la produzione di efficienti motori a combustione interna e con altri progressi tecnici, che il sottomarino divenne uno strumento bellico realmente efficace. La guerra sottomarina senza restrizioni fu adottata dai Tedeschi nelle due guerre mondiali come reazione alla tradizionale tattica britannica del blocco; il che ebbe, insieme con l'uso dell'aviazione, il risultato di fare della popolazione civile un bersaglio di azioni militari.

Fu il sottomarino che, nella prima guerra mondiale, condusse la Gran Bretagna assai vicino alla sconfitta, finché non fu introdotta la tattica del convoglio. E, nella seconda guerra mondiale, fu con l'uso della flotta sottomarina che la Germania arrivò nuovamente a un passo dal mettere la Gran Bretagna fuori combattimento; anche il Giappone, che dipendeva in larga misura da materiali importati; ebbe a patire gravi danni dall'attività sottomarina degli Alleati.

Molti degli sviluppi importanti in materia di armamenti hanno riguardato non le armi, ma le attrezzature ausiliarie. Il radar fu una grande innovazione e, sebbene non fosse esso stesso un'arma, si può dire che abbia mutato l'intero corso della seconda guerra mondiale, determinando la sconfitta dell'aviazione tedesca nella Battaglia d'Inghilterra. Ebbe una parte di rilievo anche nella Battaglia dell'Atlantico, nella quale fu usato con successo per localizzare i sottomarini. Durante la seconda guerra mondiale fu costruita, utilizzando un piccolo dispositivo radar, la spoletta di prossimità (spoletta elettromagnetica) che, usata nelle granate antiaeree o fatta esplodere a un'altezza prestabilita al di sopra delle posizioni nemiche, conferì una nuova efficacia al fuoco dell'artiglieria di superficie e antiaerea.

L'aviogetto e il missile strategico con propulsione a razzo furono entrambi costruiti, per la loro utilità militare, durante la seconda guerra mondiale; ma, come l'aeroplano della prima guerra mondiale, non raggiunsero una piena efficienza che più tardi. Sempre durante la seconda guerra mondiale, come abbiamo già detto, furono messi a punto dispositivi di calcolo e meccanismi di controllo automatici, specialmente per dirigere il fuoco della contraerea. Se la prima guerra mondiale inaugurò la guerra meccanizzata, la seconda ha inaugurato la guerra elettronica. La prima guerra mondiale fece comprendere alle nazioni l'importanza della capacità produttiva ai fini della conduzione della guerra; la seconda ha dimostrato quanto sia vitale la tecnologia: sotto molti aspetti essa è stata una guerra tecnologica. Il successo dei bombardamenti strategici contro la Germania dipese dalla gara tra il radar e i dispositivi di disturbo del radar. Una competizione analoga si è verificata nella guerra del Vietnam e nelle guerre arabo-israeliane tra la capacità dei missili sovietici terra-aria (SAM: Surface-to-Air Missiles) di cercare elettronicamente il bersaglio e il sistema americano di contromisure elettroniche (ECM: Electronic Counter Measures), adottato dall'aviazione israeliana.

Possiamo dire che la ‛guerra tecnologica' tra le superpotenze ha sostituito la guerra fredda. Se la tensione si è allentata, è però in corso un nuovo genere di corsa agli armamenti. In passato, la corsa agli armamenti era soprattutto una questione di quantità, oggi è una questione di qualità. Entrambe le superpotenze hanno missili più che a sufficienza e, sebbene nessuna delle due possa seriamente prendere in considerazione l'idea di usarli, l'intero sistema delle loro relazioni s'impernia sull'equilibrio militare strategico.

Tutti questi sviluppi hanno fatto sì che la natura della guerra sia sotto molti aspetti mutata. La guerra tra le superpotenze è diventata troppo terribile per essere presa in considerazione. Perciò i conflitti militari tra potenze minori hanno assunto una nuova importanza, talvolta sotto la forma di conflitti tra nazioni satelliti delle superpotenze. Le guerre arabo-israeliane del 1967 e del 1973 hanno visto l'Unione Sovietica difendere gli Arabi, per promuovere i propri interessi, e gli Stati Uniti aiutare Israele, per ragioni di politica interna. Le guerre indo-pakistane del 1967 e del 1972 non furono patrocinate in modo così diretto dalle superpotenze; ma almeno la seconda fu importante perché coinvolse nello sfondo un triangolo di potenze costituito dalla Cina, dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica.

Un altro tipo di conflitto che ha assunto importanza nella competizione tra le superpotenze è quello in cui una superpotenza combatte contro un nemico fornito di sole armi tradizionali, il quale è però aiutato dall'altra superpotenza con armi, istruttori, consigli, denaro e rifornimenti. La guerra di Corea, la guerra del Vietnam e alcuni altri conflitti rientrano in questa categoria.

Anche la guerra non nucleare è oggi assai diversa da come è stata praticata prima del XX secolo. La guerra è oggi molto più rapida e più mobile, e non soltanto per la presenza dei carri armati e di altri veicoli bellici corazzati, ma anche perché sono stati interamente meccanizzati i sistemi logistici e di rifornimento, mentre le comunicazioni e il comando sono stati resi più rapidi dall'uso della radio e di altri strumenti molto raffinati. L'arma aerea ha avuto una parte in questo processo, con velivoli da bombardamento tattico, inclusi gli elicotteri, che sorvolano il campo di battaglia a grande velocità. Di pari importanza è l'uso di mezzi aerei per il trasporto, campo in cui gli Americani sono stati pionieri. Intere divisioni di paracadutisti sono state lanciate e rifornite dall'aria; nel 1941 i Tedeschi conquistarono Creta con i paracadutisti; ed un ruolo importante svolsero i paracadutisti nel 1944, nell'invasione della Francia da parte degli Alleati. Prima del sec. XX, lo spazio aereo non esisteva come dimensione militare; oggi è, insieme alla spazio interplanetario, un'area decisiva per i conflitti militari.

5. Armamenti e guerre coloniali

Una conferma dell'efficacia politica degli armamenti è costituita dalla facilità con cui, per mezzo di essi, i paesi più altamente sviluppati hanno potuto imporre il proprio dominio ai paesi meno sviluppati. Nell'intero corso della storia, è stato questo un fenomeno transitorio, ma le sue ripercussioni sono avvertibili ancora oggi, alla fine del sec. XX. La conquista di colonie in tutta l'Africa da parte degli Europei, nel sec. XIX, fu resa possibile in larga misura dalla superiorità degli armamenti e dall'organizzazione militare: il fucile contro la lancia, e poi la mitragliatrice contro armi da fuoco primitive. Questo processo era in gran parte compiuto già prima che il nostro secolo avesse inizio. Le più notevoli conquiste coloniali nel corso del sec. XX furono quelle della Libia (1911) e dell'Etiopia (1935-1936) da parte dell'Italia. Anche i Francesi estesero i propri territori centroafricani durante i primi anni del secolo. Ma anche nei territori precedentemente conquistati sia in Africa che in Asia, il mantenimento del dominio coloniale dipendeva in ultima analisi dal fatto che la potenza coloniale disponeva di armamenti quantitativamente e qualitativamente superiori a quelli di cui disponevano le popolazioni indigene. Tali armi furono usate assai di rado, e il loro uso occasionale per reprimere disordini politici suscitò critiche sempre più aspre sia all'interno che all'esterno della colonia, e forse in realtà affrettò la fine del sistema coloniale. L'uso di armi da fuoco da parte di truppe britanniche contro una folla di dimostranti indiani ad Amritsar in India nel 1919 contribuì senza dubbio a irrobustire il movimento politico, che doveva indurre gli Inglesi a ritirarsi dall'India ventotto anni dopo. Analogamente, il bombardamento francese di Damasco nel 1926 contribuì al movimento arabo di liberazione. Ma l'effetto si rivelò forse ancora maggiore nel territorio metropolitano, dove si venne a poco a poco alla conclusione che, se le colonie potevano essere mantenute solo con la forza delle armi, e queste armi dovevano essere usate contro la popolazione civile, allora si doveva rinunciare alle colonie.

Durante gli ultimi anni del dominio coloniale, dopo la seconda guerra mondiale, si sviluppò il fenomeno della guerriglia urbana, il quale è un altro esempio singolare del ruolo degli armamenti negli affari politici. In Palestina, a Cipro, ad Aden e ad Algeri forze britanniche e francesi relativamente grandi e dotate di armamenti enormemente superiori sono state impegnate e talvolta sopraffatte da movimenti di resistenza di gran lunga inferiori per armamenti e per numero di combattenti: situazione che ha provocato o affrettato la fine del dominio coloniale. Diverse ragioni hanno determinato tale processo: l'opinione pubblica mondiale, le circostanze economiche e così via; ma, sotto il profilo che qui ci interessa, c'erano due fattori essenziali di natura più tecnica. I guerriglieri avevano dalla loro la simpatia più o meno attiva di gran parte della popolazione locale, e i governi coloniali erano nel complesso restii a usare il proprio potenziale militare in rappresaglie su larga scala in seguito ad attacchi contro le proprie truppe. La compresenza di questi due fattori rendeva il problema pressoché insolubile per le autorità di governo. Un esempio più recente, sebbene in una situazione non di tipo coloniale, ci è fornito dall'Irlanda del Nord, con la differenza che in questo caso il movimento di guerriglia dispone di armi relativamente perfezionate. In circostanze del genere, il successo del governo dipende più da buoni servizi di informazioni, da buone comunicazioni e soprattutto dall'appoggio di una parte della popolazione, che dalla qualità e dal numero delle armi di cui dispone.

I paesi del Terzo Mondo non sono stati più fortunati delle potenze europee nell'affrontare sia campagne coloniali di tipo militare convenzionale sia la guerriglia urbana. Le operazioni militari condotte, negli anni sessanta, dall'Egitto nello Yemen si trascinarono a lungo e si conclusero in uno scacco, pur svolgendosi contro forze tribali armate molto meno bene. Questo piccolo conflitto fu anche tristemente noto, poiché si è sostenuto che le truppe egiziane facevano uso di armi chimiche di tipo sconosciuto. Molti Stati dell'America Latina hanno dovuto tener testa per anni a fenomeni molto rilevanti di guerriglia urbana tutto sommato con scarso successo.

Un istruttivo esempio contrario è fornito dalle occasioni nelle quali l'Unione Sovietica è stata minacciata da movimenti di rivolta contro il suo ‛impero' nell'Europa centrale. Il regime ungherese del 1956 fu rovesciato da forze sovietiche, che fecero abbondante uso, nelle città, di carri armati e di cannoni contro un movimento di resistenza male armato e in larga misura disorganizzato. L'uso della forza fu assai ampio e in gran parte indiscriminato, e l'azione improvvisa e inattesa. Ciò bastò per prevenire il formarsi di un movimento di guerriglia urbana in senso stretto. Analogamente, in Cecoslovacchia un amplissimo dispiegamento di forze - l'esempio di Budapest era certamente ancor vivo nella mente di tutti - fu sufficiente a provocare, nel 1968, il rovesciamento del governo relativamente liberale di A. Dubček e a soffocare, con modesti combattimenti, ogni opposizione attiva. A parte la quantità di truppe usate o disponibili, sono due i fattori che spiegano la differenza tra i risultati ottenuti dai Sovietici e quelli ottenuti nei casi dei quali abbiamo parlato sopra: in primo luogo, nessun aiuto giunse dall'esterno sotto forma di armi o denaro; e in secondo luogo, in questa specie di conflitti, il risultato è determinato assai più dallo stato d'animo e dall'atteggiamento politico delle autorità che dal livello degli armamenti dell'avversario. Se un governo è pronto a essere sufficientemente spietato e rapido, la guerriglia urbana può essere soffocata sul nascere. Le democrazie sono di rado, o mai, inclini a prendere iniziative del genere. Possono farlo i regimi autoritari, che non hanno da temere né ripercussioni interne né la propria opinione pubblica.

Una speciale menzione merita, a questo proposito, la guerra del Vietnam, che offre molte lezioni circa l'uso, e l'abuso, degli armamenti. Pur non essendo originariamente una guerra coloniale, essa rientrava però in questa categoria a causa dell'enorme differenza esistente tra i livelli di ricchezza, potenza e capacità tecnologiche dei due avversari: gli Stati Uniti e il Vietnam del Nord. Una volta ancora, la lezione generale che se ne ricavava era che la superiorità negli armamenti non è sufficiente a vincere questo tipo di guerre. L'eccezionale impenetrabilità del territorio e la simpatia, genuina o coatta, di gran parte degli abitanti per i guerriglieri, bastarono a impedire agli Americani il raggiungimento di un effettivo successo nel Sud. L'impiego massiccio dell'arma aerea contro obiettivi del Nord non conseguì risultati decisivi; il che conferma la tesi che abbiamo esposto sopra, e cioè che l'arma aerea non può da sola vincere le guerre. Gli Americani si astennero per varie ragioni dall'estendere la guerra di superficie al Nord: in parte per una generale remora politica a effettuare un'invasione, e in parte per il timore che un simile passo finisse con lo sconvolgere le relazioni con la Russia e la Cina. La guerra non fu quindi totale; certi limiti furono osservati, anche se molte atrocità furono commesse da entrambe le parti. Ancora una volta vediamo, nella sua forma estrema, il dilemma che questo genere di situazioni impone a un sistema democratico, una volta che si sia lasciato coinvolgere. All'inizio, la superiorità negli armamenti sembra sufficiente a garantire il successo; ma diventa a poco a poco evidente che, contro un avversario la cui forza è in larga misura politica, il successo non può essere ottenuto se non applicando i metodi della guerra totale, il che ripugna a un governo democratico, ed è probabilmente affatto incompatibile con i valori che la sua azione mirava a difendere.

Da un punto di vista tecnico, la guerra del Vietnam ha dato la possibilità sia agli Americani che ai Russi di provare nuove armi; il moderno equipaggiamento usato dai Nordvietnamiti era infatti in gran parte fornito dall'Unione Sovietica. Nei limiti imposti da una valutazione esterna, due sono gli aspetti particolarmente interessanti. L'aviazione nordvietnamita era modesta, ma gli aerei americani in volo sul Vietnam del Nord incontrarono una durissima reazione di superficie, resa possibile dal numero e dall'efficacia dei missili terra-aria forniti dai Sovietici; ciò consentì agli Americani ampie occasioni di sperimentare, nel tentativo di ridurre l'efficacia delle armi sovietiche, le più recenti contromisure elettroniche. In secondo luogo, gli Americani fecero notevoli progressi nella progettazione di un nuovo genere di armi convenzionali dotate di una precisione mai raggiunta prima: l'artiglieria e le bombe ‛intelligenti', di cui parleremo ancora in seguito (v. sotto, cap. 6, § c). Sotto il profilo tattico, queste armi possono forse essere considerate un surrogato delle armi nucleari, soprattutto nel loro ruolo di distruzione di reti vitali di comunicazioni. È da prevedere che l'esistenza di armi del genere avrà effetti profondi sulla strategia militare in altri scacchieri.

6. La rivoluzione nucleare

a) Armi nucleari strategiche

L'invenzione e lo sviluppo delle armi nucleari ha rivoluzionato la scienza della guerra. Due bombe atomicbe furono la causa immediata della fine della guerra tra il Giappone e gli Alleati nel 1945. Da allora, le armi nucleari non sono mai state usate in guerra; ma la loro esistenza ha probabilmente impedito lo scoppio di una guerra di grandi proporzioni tra le superpotenze. Il rapporto - sotto il profilo militare - tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica è quello della deterrenza reciproca. Situazioni che, prima dell'avvento delle armi nucleari, avrebbero condotto assai facilmente alla guerra tra le due superpotenze, oggi non provocano ciò a causa appunto della deterrenza.

La bomba atomica e la sua erede, la bomba all'idrogeno o bomba termonucleare, furono ideate durante la seconda guerra mondiale. I fisici avevano raggiunto una più profonda comprensione della struttura della materia, alla ricerca non già dell'arma assoluta, ma della conoscenza per amore della conoscenza. Le circostanze drammatiche della guerra li indussero a servirsi delle loro scoperte allo scopo di liberare enormi quantità di energia. Per la prima volta, l'uomo era in grado di interferire nelle leggi fondamentali della creazione. Non c'è da sorprendersi che l'effetto fosse potenzialmente catastrofico.

Le armi atomiche usate contro il Giappone furono lanciate da bombardieri. In seguito sono stati realizzati mezzi di lancio sempre più perfezionati, come i razzi a lungo raggio, lanciati da terra, e i missili lanciati da sottomarini. Le rampe per missili a lunga gittata e testata nucleare - i missili intercontinentali (ICBM: Inter Continental Ballistic Missiles) - sono oggi dislocati in località fortificate, cioè in postazioni sotterranee protette, in grado di resistere a qualsiasi attacco, a meno di non essere colpite direttamente da un'arma nucleare. I sommergibili possono lanciare i loro missili in immersione, in modo da rimanere, celando la propria presenza, immuni da attacchi.

Tutto ciò ha aperto la strada alla teoria della deterrenza strategica. Sia l'Unione Sovietica che gli Stati Uniti sarebbero in grado di scagliare l'uno contro l'altro le rispettive armi nucleari, senza però alcuna speranza di impedire alla maggior parte delle ogive nucleari avversarie di arrivare quasi tutte vicino ai bersagli, causando così disastri inimmaginabili. Ma anche dopo un siffatto attacco di sorpresa, il paese colpito avrebbe ancora un numero di missili sufficiente per effettuare un'efficace rappresaglia, e distruggere così ampie aree del paese attaccante. Le perdite di entrambe le parti ascenderebbero a decine di milioni di morti, e le rispettive risorse economiche sarebbero annientate. Si potrebbe pensare che l'attaccare per primi dia un qualche vantaggio, giacché si distruggerebbe una certa quantità di missili nemici; senonché la quantità di armi è in realtà da entrambe le parti così grande, che i missili che rimarrebbero indenni dopo un primo attacco basterebbero da soli a procurare all'attaccante danni intollerabili.

Sinché ciascuna delle parti si rende conto che l'altra ha la possibilità di un ‛secondo colpo' cioè una sicura capacità di distruzione, entrambe saranno scoraggiate dall'iniziare un attacco con missili nucleari strategici. Questa situazione relativamente stabile potrebbe essere rovesciata in due modi: uno dei due paesi potrebbe cercare di accrescere la propria capacità di sferrare il ‛primo colpo' - aumentando il numero dei missili o introducendo perfezionamenti e innovazioni tecnologici - così da poter sperare di distruggere un numero tanto grande di missili nemici da rendere impossibile una rappresaglia efficace; oppure potrebbe costituire tali difese contro attacchi nucleari da impedire alla rappresaglia dell'avversario di raggiungere il suo obiettivo. Le difese consistono in missili, forniti anch'essi di ogive nucleari, che vengono lanciati per intercettare i missili in arrivo e distruggerli nello spazio o nell'aria prima che raggiungano il bersaglio. È il sistema noto abitualmente come Anti-Ballistic Missile System (ABM). È uno dei molti paradossi della situazione nucleare, che la costituzione di un sistema difensivo efficace diminuisca la stabilità dell'equilibrio esistente, rendendo possibile l'uso di armi nucleari senza correre il rischio di una rappresaglia immediata e catastrofica.

Lo scopo generale dei colloqui SALT per la limitazione delle armi strategiche, iniziati dall'Unione Sovietica e dagli Stati Uniti dopo il 1970, è di garantire che questo equilibrio non sia rovesciato, e anche, se possibile, di scoprire un modo di mantenere l'equilibrio con un basso livello di armamenti, e quindi di costi. La prima fase delle trattative terminò nel 1972 con un accordo che prevede limiti molto rigorosi alla costruzione di sistemi (difensivi) ABM e limiti temporanei alla quantità di armi offensive. La seconda fase, attualmente in corso (1974), si propone di raggiungere un accordo definitivo circa la limitazione delle armi strategiche, e di arrivare a una riduzione del loro numero. Potranno essere presi in considerazione anche fattori qualitativi, come per esempio il dispositivo che permette a un missile di portare più ogive e, nella versione più perfezionata, di orientare ciascuna ogiva su un bersaglio diverso (MIRV). Le trattative SALT sono di un'estrema complessità e il loro progresso è inevitabilmente lento. Esse costituiscono tuttavia un mutamento sorprendente e significativo nelle relazioni internazionali, e sono il frutto della necessità imperativa di raggiungere una comune intesa su una nuova filosofia della guerra, per allontanare un grave pericolo reciproco. Esse rappresentano la decisione di non consentire che le armi facciano le veci della politica, e un riconoscimento tardivo del fatto che una grande guerra tra potenze nucleari non può, oggi, condurre a una vittoria.

Le dimensioni del problema che le trattative debbono affrontare risultano dal semplice elenco dei missili posseduti dalle due parti nel 1973:

Tabella

L'Unione Sovietica ha inoltre circa 600 missili balistici i cui bersagli, non avendo tali missili un raggio sufficiente per raggiungere gli Stati Uniti, si presume siano costituiti dall'Europa occidentale e dalla Cina.

Gli armamenti nucleari strategici delle altre potenze nucleari sono, attualmente, a un livello molto inferiore. La Cina, ultima arrivata fra le potenze nucleari, forse ha oggi materiale fissile sufficiente per 200 armi, ma presto potrà disporne in maggiore quantità; ha in costruzione missili di vario tipo. Il Regno Unito ha 64 missili sottomarini. La Francia ha 32 missili sottomarini e 18 IRBM. È possibile che la Cina riesca ad accrescere le dimensioni della sua forza nucleare tanto da avvicinarsi a quella degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. Non ci sono indizi che la Francia o il Regno Unito abbiano una tale intenzione, nè del resto ne avrebbero le possibilità economiche. Il problema di una eventuale ‛forza nucleare europea' è stato molto discusso. Non sarebbe impossibile accrescere l'efficienza delle forze nucleari strategiche inglesi e francesi, se ci fossero accordi per consultarsi circa il loro uso e circa la produzione comune di materiali e di attrezzature e si potesse giungere a piani di impiego concertati.

Anche in questo caso si rimarrebbe tuttavia lontani dall'avere una sola forza europea unificata. È giudizio diffuso che una tale eventualità sia impossibile finché l'Europa occidentale non sia unificata politicamente, o non si dia una costituzione federale con un forte potere centrale. E ciò perché la messa in azione di una forza nucleare strategica deve essere, in certe circostanze, decisa in pochi minuti, e una decisione simile può prenderla solo un'autorità unica; un comitato non potrebbe prenderla per ragioni di tempo.

Alcuni esperti sostengono, soprattutto in Francia, che anche le modestissime forze nucleari strategiche a disposizione della Francia e del Regno Unito bastano a produrre un rilevante effetto deterrente anche nei confronti di una superpotenza. La probabilità di distruggere aree anche limitate e di infliggere perdite altissime, senza precedenti nelle guerre passate, convincerebbe qualsiasi possibile aggressore che i vantaggi ottenuti con un attacco non compenserebbero il danno. Contro questa tesi si deve però riconoscere che, in un conflitto nucleare strategico tra il Regno Unito e/o la Francia e una superpotenza, la distruzione nel Regno Unito o in Francia sarebbe pressoché totale, mentre i danni prodotti nel territorio della superpotenza sarebbero localizzati. È dunque egualmente possibile sostenere che la forza della deterrenza è maggiore contro le potenze minori.

b) Armi nucleari tattiche

Abbiamo preso in considerazione sinora le armi nucleari strategiche. Esse non sono però le sole esistenti. C'è una grande quantità e varietà di armi nucleari minori, designate in genere come tattiche. Non è facile definire la differenza fra le une e le altre. In pratica, la distinzione più utile è quella tra le armi destinate a essere usate sul campo di battaglia o nelle sue vicinanze (armi tattiche), e quelle destinate ad aree assai lontane dal campo di battaglia, e in particolare al territorio delle potenze nucleari stesse (armi strategiche). Normalmente, la potenza esplosiva delle armi tattiche è minore di quella delle armi strategiche; tale differenza, però, può essere controbilanciata dal maggior numero di armi tattiche prodotte. In un'area nella quale esplodesse un gran numero di armi tattiche, la differenza tra i loro effetti e quelli di un numero minore di armi strategiche non sarebbe considerevole.

Le armi tattiche possono essere lanciate da aerei, da missili a raggio relativamente breve e dall'artiglieria. Ci rimane ora da definire e valutare il ruolo che esse potrebbero svolgere nell'equilibrio delle forze tra i potenziali avversari secondo la teoria della deterrenza. Gran parte di quanto diciamo qui si riferisce in primo luogo alle relazioni esistenti tra la NATO e il Patto di Varsavia. Poco si sa del numero delle armi nucleari tattiche, e del loro possibile impiego, in altri scacchieri.

Si valuta che ci siano, nell'Europa occidentale, circa 7.000 armi nucleari tattiche, tutte custodite dalle forze americane. Alcune sono destinate a essere usate dalle forze americane in caso di guerra; altre sono destinate a essere usate dagli alleati europei degli Stati Uniti. Le forze dei paesi alleati posseggono i mezzi di lancio, cioè aerei, missili e artiglieria, e si addestrano al loro uso. Mentre le ogive nucleari dovrebbero essere concesse dagli Stati Uniti, gli alleati europei dovrebbero acconsentire all'uso delle armi nucleari da parte delle proprie forze. In certi casi, si presuppone che gli Stati nel cui territorio si trovino le ogive o i mezzi di lancio debbano anch'essi dare il proprio assenso.

Le forze francesi dispongono già, o disporranno assai presto, di armi nucleari tattiche.

Il numero di armi nucleari tattiche a disposizione delle forze del Patto di Varsavia è sconosciuto, come non si conoscono con certezza neppure le intenzioni dei paesi del Patto di Varsavia circa il loro uso in caso di guerra. Alcuni studiosi di quei paesi sono dell'opinione che, nel caso di una guerra di grandi proporzioni, si farà uso di queste armi sin dall'inizio. Ma si può anche ritenere, viceversa, che l'intenzione sia quella di far uso di armi nucleari tattiche unicamente in risposta al loro uso da parte del nemico.

Un'altra possibilità è che le potenze del Patto di Varsavia non vogliano essere le prime a usare le armi nucleari tattiche; ma, nel caso venissero a sapere che le potenze occidentali intendono farne uso, allora, senza attendere l'attacco nemico, si regolerebbero allo stesso modo.

Per quanto riguarda la NATO, i suoi piani sono più chiari, sebbene più complessi. Le armi nucleari tattiche sono considerate come un elemento essenziale della escalation della deterrenza. Se le forze della NATO sono attaccate con forze convenzionali e non sono in grado di resistere all'attacco unicamente con l'uso di armi convenzionali, in questo caso, piuttosto che arrendersi, si ammette l'uso di un numero assai limitato di armi tattiche. Lo scopo sarebbe duplice: ristabilire la situazione sul campo di battaglia, ma anche dimostrare che si è decisi, per difendersi, a far uso di armi nucleari, quando gli altri mezzi siano risultati inefficaci. Ciò imporrebbe, si crede, una pausa alle operazioni, dando così tempo agli sforzi diplomatici e politici di risolvere la crisi.

Questa teoria dell'uso limitato di armi a rendimento relativamente basso come prima fase di un'escalation nucleare ha preso il posto della vecchia strategia trip-wire, secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero usato l'intero arsenale delle loro armi nucleari, tattiche e strategiche, sin dalla prima fase dell'attacco, anche se limitato alle armi convenzionali. Questa strategia fu abbandonata, poiché i Sovietici avevano ormai la possibilità di sferrare un ‛secondo colpo'. L'uso della forza nucleare strategica americana si sarebbe risolto in un danno gravissimo a causa della rappresaglia sovietica. Possono esserci circostanze in cui il rischio deve essere corso; non però in seguito a un attacco convenzionale di non grandi proporzioni. Ciò significa che la fase nucleare tattica è necessaria per valutare la serietà dell'attacco e per rendere quindi, con la possibilità di una escalation graduale, più plausibile una decisione finale di rischiare un conflitto con armi strategiche.

Questa evoluzione della teoria fornisce un chiarissimo esempio dell'influsso degli armamenti sulla strategia e anzi sull'intero processo decisionale ai più alti livelli di governo. L'esistenza di armi nucleari dà luogo a parecchie altre importanti conseguenze, alcune a prima vista paradossali.

c) Armi nucleari ed equilibrio convenzionale

Lungi dal ridurre l'importanza degli armamenti convenzionali, il problema delle armi nucleari, al contrario, ha accentuato l'importanza dell'equilibrio delle armi convenzionali e, sotto un altro aspetto, ha condotto all'invenzione di un nuovo genere di armi convenzionali più perfezionate e più micidiali. Come abbiamo detto, una rilevante superiorità di una della parti in fatto di forze convenzionali può comportare il pericolo gravissimo che si faccia uso di armi nucleari, le quali verrebbero appunto usate per rovesciare tale superiorità. Se tra le forze convenzionali che si fronteggiano nell'Europa centrale e altrove ci fosse un migliore equilibrio, minori sarebbero le possibilità del verificarsi di una situazione del genere. Occorre quindi che la deterrenza operi a livello convenzionale come a quello nucleare. Ciò è tanto più necessario in quanto è improbabile che la teoria dell'uso limitato di armi nucleari tattiche risulti pienamente accettabile, soprattutto per coloro che vivono nell'Europa centrale, dove, secondo questa teoria, le armi nucleari dovrebbero essere usate. Essa risulta oggi accettabile, probabilmente, soltanto perché c'è in fondo una diffusa incredulità popolare che si possa mai arrivare a una guerra nucleare. Se la tensione aumentasse, così da rendere nuovamente attendibile la minaccia di una guerra, ci si adopererebbe con maggiore determinazione a evitare almeno questo rischio di conflitto nucleare, assicurandosi cioè che un attacco convenzionale possa essere arrestato con mezzi convenzionali. Nuovi tipi di armi convenzionali possono aumentare in misura rilevante la potenza difensiva di forze convenzionali, e quindi rinviare, forse indefinitamente, il momento della decisione di usare le armi nucleari. Una prova del valore di talune di queste armi in battaglie convenzionali è stata fornita dalla guerra arabo-israeliana del 1973, nella quale i missili guidati causarono molte perdite tra i carri israeliani, e i missili terra-aria, in una versione assai facilmente trasportabile, fornirono una discreta protezione contro gli attacchi aerei. Altri tipi di nuove armi sono le cosiddette bombe ‛intelligenti' usate dagli Americani nel Vietnam. Queste ultime operano secondo un nuovo principio di guida basato sui raggi laser, e possono colpire obiettivi piccolissimi con un grado di precisione sinora sconosciuto. La loro efficienza, in difesa, è esemplificata dalla capacità di distruggere, con lanci singoli, ponti e altre vie di comunicazione, interferendo quindi seriamente, e con un costo minimo, nel movimento delle forze attaccanti.

d) ‛Mini-nukes'

Occorre ora parlare di un'altra invenzione, che tende a costituire l'anello di congiunzione tra armamenti nucleari e armamenti convenzionali. Si tratta della cosiddetta mini-nuke: arma nucleare con una efficacia molto minore di tutte quelle che, a quanto si sa, sono state prodotte sinora. È anche questa un'idea di origine americana. Si ritiene che armi di questo genere potrebbero essere usate unicamente come rinforzo della potenza di fuoco delle forze convenzionali, e che il loro uso non dovrebbe necessariamente dare inizio a un processo di escalation nucleare. Potrebbero essere tecnicamente ‛pulite', cioè con scarso fall-out radioattivo, e quindi con scarsi pericoli di fare vittime al di fuori dell'immediata area di impatto. Alcuni sostengono anche che, tenuto conto di queste caratteristiche, la decisione di concedere e usare queste armi potrebbe essere delegata ai comandi locali, senza passare quindi per tutte le fasi, sino al livello più alto, dell'approvazione politica, come invece si ritiene necessario per l'autorizzazione all'uso delle armi nucleari maggiori.

Queste argomentazioni sono tuttavia estremamente controverse. Si obietta che il passo dalle armi convenzionali a quelle nucleari riveste, e deve continuare a rivestire, la massima rilevanza politica. Una volta compiuto questo passo, non esiste un'altra soglia egualmente decisiva nell'intero processo dell'escalation. Inoltre, l'idea di considerare queste armi come rientranti in una classe diversa da quella delle armi nucleari vere e proprie dipende interamente dalla disponibilità dell'avversario a obbedire alla stessa idea, della qual cosa non si potrebbe mai essere sicuri. L'avversario potrebbe rispondere con armi nucleari più potenti, e l'escalation sarebbe allora già in atto. Per questa ragione, e per motivi di opinione pubblica connessi con la speciale natura e l'estrema pericolosità delle armi nucleari, sembra assai improbabile che si deleghi ai comandanti militari l'autorità di cominciare a far uso di mini-nukes, per quanto piccole e ‛pulite'.

e) Non proliferazione delle armi nucleari

La situazione nucleare è ricca di paradossi, uno dei quali è costituito dalle relazioni tra potenze nucleari e potenze non nucleari. Nel solo esempio rilevante di conflitto tra una potenza nucleare e una non nucleare - la guerra del Vietnam - il possesso di armi nucleari non assicurò vantaggi agli Stati Uniti: le armi non furono mai usate, e neppure fu mai avanzata la minaccia di usarle. Perché? Presumibilmente perché ci sarebbe stata, sia negli Stati Uniti che all'estero, una protesta pubblica e politica troppo violenta, e anche perché, se si fosse fatto uso di armi nucleari contro il Vietnam del Nord, si sarebbero nello stesso tempo acutizzati i problemi nucleari tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, con conseguenze imprevedibili. La deterrenza sembra essere efficace anche nel prevenire aggressioni nucleari contro terzi.

Da quest'unico esempio non è forse possibile dedurre che le armi nucleari non saranno mai usate contro una potenza non nucleare. Le situazioni più pericolose potrebbero sorgere d'altra parte al di fuori della cerchia delle superpotenze e delle altre attuali potenze nucleari. Una caratteristica comune delle situazioni di conflitto dopo la seconda guerra mondiale è costituita dall'ostilità tra coppie di Stati o gruppi di Stati, ostilità che di tanto in tanto sfocia in una guerra, com'è ad esempio il caso della Corea del Nord e della Corea del Sud, del Vietnam del Nord e di quello del Sud, di India e Pakistan, di Israele e dei Paesi arabi. Un caso analogo, che sinora non ha dato luogo a una guerra, è l'ostilità tra la Repubblica Sudafricana e la maggior parte degli altri Stati africani.

Nessuno di questi paesi è ancora in possesso di armi nucleari o, se lo è, è riuscito a occultare la cosa perfettamente. Molti di essi hanno però la competenza tecnica e, se non tutti, almeno la maggior parte hanno anche le risorse materiali necessarie alla produzione delle armi nucleari. In teoria non si può escludere che, in una situazione disperata - o nel timore di una situazione disperata - uno di questi paesi possa decidere di realizzare un sistema di armamenti nucleari, e possa essere tentato di farne uso contro un nemico tradizionale. Le possibilità di rappresaglia sarebbero meno certe e più deboli che nel caso di una superpotenza; inoltre, se è attendibile l'idea che una superpotenza si possa sentire costretta, come ultima risorsa, a usare le proprie armi nucleari anziché cedere su un interesse vitale, è almeno altrettanto attendibile che qualcuno di questi paesi in guerra possa decidere la guerra nucleare, se una simile decisione sembri l'unico mezzo per evitare la sconfitta o l'unico mezzo per conservare l'indipendenza.

È alla luce di una simile possibilità che bisognerebbe giudicare il Trattato di non proliferazione. I negoziati per il Trattato si svolsero nell'ambito della Conferenza di Ginevra per il disarmo, ed esso fu firmato il primo luglio 1968. Il Trattato prevede, fondamentalmente, che nessuna potenza nucleare possa consegnare armi nucleari a una potenza non nucleare, nè comunicare conoscenze atte a costruirne, e che nessuna potenza non nucleare possa procurarsi armi nucleari. Da una parte il Trattato è stato salutato come uno degli accordi più importanti sulla limitazione degli armamenti, e dall'altra denunciato come una congiura delle superpotenze per conservare in esclusiva lo status di potenze nucleari, ed essere quindi in grado di esercitare un'egemonia sul resto del mondo. È vero che le trattative principali si svolsero tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, ma non c'è ragione di nutrire sospetti sui motivi che indussero le due superpotenze, come molti altri Stati, ad accettare di buon grado la conclusione dell'accordo. L'acquisizione di armi nucleari da parte di altri Stati avrebbe necessariamente l'effetto di ridurre la stabilità della situazione internazionale, soprattutto considerando che le più probabili candidate allo status di potenze nucleari sarebbero quelle coinvolte in situazioni di aspro conflitto. È un fatto storico che gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica, la Cina, il Regno Unito e la Francia posseggono armi nucleari, mentre le altre potenze, nel 1974, non le posseggono. E d'altro canto la diversità tra Stati Uniti e Unione Sovietica da un lato e quasi tutti gli altri paesi dall'altro non deriva unicamente da questa circostanza. Esistono altri attributi che qualificano le superpotenze. L'acquisizione di un numero relativamente piccolo di armi nucleari non colmerebbe in misura significativa il dislivello - come mostrano i casi della Gran Bretagna e della Francia; accrescerebbe invece il pericolo di un conflitto nucleare.

Tra i più importanti non firmatari del Trattato di non proliferazione sono la Cina e la Francia. La seconda ha tuttavia dichiarato che la sua politica in materia di proliferazione nucleare sarebbe stata la stessa che se avesse firmato il Trattato. Quest'ultimo ha una parte importante nel problema discusso sopra, se cioè l'Europa occidentale - o nella forma della Comunità Europea, oppure organizzata, a scopi di difesa, su una base diversa - possa aspirare al rango di potenza nucleare. Questa tesi è sostenuta, talvolta, da coloro che credono che solo in tal modo l'Europa occidentale possa rendersi indipendente, in materia di sicurezza, dalla garanzia americana prevista dal patto della NATO. Attualmente, il contrappeso alla forza nucleare strategica sovietica è dato dalla forza strategica degli Stati Uniti.

Le forze nucleari inglesi e francesi non solo sono troppo modeste per fornire tale contrappeso; esse appartengono inoltre a due membri separati del gruppo di potenze europee occidentali e non già al gruppo in quanto unità, e non possono quindi essere considerate come ‛europee' a pieno titolo. Il Trattato di non proliferazione vieta non solo il trasferimento di armi nucleari ma anche del controllo di esse a potenze non nucleari. Il Regno Unito e la Francia, anche se desiderassero farlo, non potrebbero quindi affidare, in tutto o in parte, il controllo sulle proprie armi a un Consiglio Europeo o a uno Stato Maggiore Europeo o ad altri membri del gruppo. D'altro lato, però, esiste un'interpretazione non contestata del Trattato, secondo la quale uno Stato può ereditare le armi nucleari dei suoi predecessori; il che, si ritiene, si potrebbe applicare a uno Stato europeo occidentale formato da paesi in precedenza separati; e, sotto questo profilo, per Stato potrebbe intendersi anche una federazione di paesi, purché l'autorità, in materia di affari esteri e di difesa, sia esercitata dal centro e non a livello regionale.

La conclusione di queste considerazioni alquanto intrise di formalismo giuridico è che l'Europa occidentale potrebbe diventare una potenza nucleare soltanto se diventasse uno Stato unitario o federale.

f) Pressioni per il disarmo nucleare

Un altro elemento importante del Trattato di non proliferazione è costituito dall'impegno dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti a procedere a misure di disarmo nucleare. Questa clausola fu inserita, in parte, come compenso per le potenze non nucleari le quali, firmando il Trattato, avrebbero firmato la propria definitiva rinuncia alla possibilità di entrare nel club nucleare. Sembrò equo che, in cambio, i possessori dei due maggiori arsenali di armi nucleari convenissero di ridurli, diminuendo così in qualche misura la propria superiorità sulle altre potenze. La seconda fase dei colloqui SALT, di cui si è fatto cenno sopra, è il primo tentativo di avviare l'adempimento di questo impegno. Vedremo nel prossimo capitolo che gli accordi internazionali conclusi nel campo del disarmo si riferiscono in gran parte alle armi nucleari. La cosa non sorprende. Le armi nucleari hanno colpito l'immaginazione della gente come nessun altro tipo di armi aveva fatto in passato. Ciò si deve non soltanto all'immensa distruzione che causerebbero nell'area di impiego, ma anche all'opinione che, se lanciate in gran numero, le armi nucleari renderebbero inabitabile l'intero globo terrestre. La loro specifica pericolosità è stata riconosciuta a livello internazionie; lo testimonia l'azione congiunta dei governi per limitarne l'uso e la produzione, per ridurre il numero degli arsenali e per impedire che aumenti ulteriormente il numero di paesi che ne sono in possesso.

In certi casi, i movimenti popolari hanno chiesto molto di più. Specialmente in Gran Bretagna si è avuta per molti anni una campagna per il disarmo nucleare, che propugnava la rinunzia unilaterale da parte del Regno Unito alle proprie armi nucleari. Il movimento fece ricorso a marce e dimostrazioni, e il problema acquistò importanza politica quando un settore del Partito Laburista cercò di impegnare il partito ad adottare questa politica in caso di avvento al potere. Questo tentativo fu alla fine sconfitto, e il governo laburista del periodo 1965-1970 fece, più o meno, la stessa politica nucleare dei suoi predecessori.

7. Disarmo

a) Sino alla seconda guerra mondiale

Di due dei più importanti aspetti del disarmo abbiamo già trattato in questo articolo, e cioè dei colloqui SALT e del Trattato di non proliferazione (v. sopra, cap. 6, §§ a ed e). Dobbiamo ora parlare con maggiori particolari delle vicende del disarmo e della limitazione degli armamenti, degli altri risultati raggiunti, nonché dei problemi e delle prospettive attuali.

Il primo tentativo sistematico di limitare i bilanci di guerra e i livelli degli armamenti fu compiuto con la Conferenza di pace convocata dallo zar di Russia e tenuta all'Aia nel 1899. Un motivo importante che spinse lo zar a convocare la Conferenza consisteva nell'impossibilità finanziaria in cui si trovava la Russia di procurarsi una dotazione adeguata di artiglieria moderna. I soli risultati della Conferenza furono però due risoluzioni, nelle quali si auspicava una restrizione delle spese militari e si raccomandava ai governi di studiare la possibilità di un accordo sulla limitazione delle forze armate e degli stanziamenti militari. La seconda Conferenza dell'Aia ebbe luogo nel 1907, e fece poco più che confermare le risoluzioni della Conferenza precedente.

Il Trattato di Versailles, del 1919, imponeva drastiche restrizioni quantitative e qualitative alle forze armate della Germania. Secondo le clausole del Trattato, ciò mirava ‟a rendere possibile l'avvio, da parte delle altre nazioni, di una generale limitazione degli armamenti". In realtà, nessun'altra nazione fece seri sforzi per ridurre i propri armamenti al livello di quelli tedeschi, di modo che la Germania si adoperò tenacemente per sbarazzarsi delle restrizioni del Trattato di Versailles, che la mantenevano in una condizione umiliante di inferiorità militare.

Anche il Patto della Società delle Nazioni poneva il traguardo di un disarmo generale, e il Consiglio fu incaricato di tracciare programmi atti a raggiungerlo. Di conseguenza, una Commissione preparatoria per una Conferenza sul disarmo fu costituita dal Consiglio nel 1925. Durante le trattative, la preoccupazione della Francia fu di garantire la continuazione dell'equilibrio militare creato dal Trattato di Versailles, mentre la Germania era decisa a ottenere che le si consentisse una condizione di parità con le principali potenze. Nel settembre 1932 la Germania dichiarò che, se non avesse ottenuto soddisfazione su questo punto, si sarebbe ritirata dalla Conferenza, e così fece infatti l'anno successivo. L'ultimo incontro della Commissione generale della Conferenza ebbe luogo nel 1934, data alla quale nessun risultato sostanziale era stato raggiunto. Migliori risultati furono ottenuti nelle discussioni concernenti gli armamenti navali. Le maggiori potenze navali organizzarono nel 1922 una Conferenza, che portò alla Convenzione di Washington per la limitazione degli armamenti navali. Fu raggiunto un accordo sul numero di navi di linea consentito a ciascuna potenza (e si mandò alla demolizione un certo numero di navi da battaglia antiquate), ma non sul numero di incrociatori, cacciatorpediniere e sommergibili. La Conferenza navale di Ginevra, del 1927, tentò di raggiungere un accordo su questi punti tra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone, ma non ebbe successo. La Conferenza navale di Londra, del 1930, si ripropose ancora una volta questo problema, e fu raggiunto un accordo tra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone, al quale si riconosceva una posizione più favorevole di quella prevista dalla Convenzione di Washington. La Francia e l'Italia non si associarono al Trattato di Londra, perché la Francia voleva mantenere la superiorità navale sull'Italia, cosa che quest'ultima non poteva accettare.

Una Conferenza navale tenuta a Londra nel 1935-1936 vide la fine di questi accordi, avendo il Giappone richiesto la parità con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, i quali rifiutarono. Dalla Conferenza uscì tuttavia un accordo tra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Francia sul tonnellaggio massimo del naviglio pesante. Anche la Germania e l'Unione Sovietica firmarono questo Trattato nel 1937. Nel 1935 si era concluso un negoziato navale anglo-tedesco, che concedeva alla Germania una forza navale pari al 35% della Royal Navy. Alla Germania era anche consentita una forza sottomarina pari a quella britannica, purché il tonnellaggio totale non eccedesse il limite del 35%.

b) Accordi sulla limitazione degli armamenti dopo la seconda guerra mondiale

Dopo la seconda guerra mondiale, riemersero gli stessi temi: le trattative per il disarmo, questa volta sotto l'egida delle Nazioni Unite, e le restrizioni della produzione tedesca di armamenti, questa volta volontariamente accettate dalla Germania al momento della sua entrata nell'Unione Europea Occidentale nel 1954.

In questo periodo, il primo accordo relativo al disarmo è il Trattato dell'Antartico (dicembre 1959), secondo il quale nell'Antartico non può essere costituita alcuna base militare, né possono aver luogo esplosioni nucleari. Tranne questo, nessun risultato positivo seguì alle prolisse discussioni generali sul disarmo dell'Assemblea Generale dell'ONU; nel 1961 un nuovo passo fu compiuto con l'apertura della Conferenza di Ginevra per il disarmo sotto gli auspici dell'ONU, cui avrebbero dovuto partecipare 18 nazioni (ma una, la Francia, non partecipò). La Conferenza ha continuato a riunirsi da allora, e può vantare alcuni risultati reali. Il primo fu il Partial Test Ban Treaty dell'agosto 1963, che fu negoziato, fondamentalmente, tra le tre potenze nucleari del tempo: gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica e il Regno Unito. Esso fu concluso, in larga misura, per venire incontro alla diffusa ansietà popolare per l'inquinamento dell'atmosfera e dei prodotti agricoli da parte del fall-out radioattivo delle esplosioni sperimentali. Il Trattato stabilisce che i firmatari impediranno, preverranno e non porteranno a termine esplosioni nucleari sperimentali o una qualsiasi altra esplosione nucleare nell'atmosfera, nello spazio, subacquea o in qualunque altro luogo in cui possa verificarsi una caduta di residui radioattivi al di fuori del territorio dello Stato in cui ha luogo l'esplosione.

Quest'ultima clausola consente tacitamente la continuazione di esperimenti nucleari nel sottosuolo, purché non si verifichino infiltrazioni; e infatti esperimenti del genere sono stati da allora effettuati dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica. Gli esperimenti sotterranei non erano stati inclusi nella proibizione, data l'impossibilità di accordarsi sui mezzi per scoprire se esperimenti siffatti fossero stati effettuati clandestinamente. Dovremo parlare ancora di questo punto, quando esamineremo il problema del controllo (v. sotto, § d).

La Francia e la Cina non hanno firmato il Partial Test Ban Treaty, e hanno di tanto in tanto effettuato esplosioni nell'atmosfera dopo che le altre potenze nucleari si erano astenute dal farlo. Gli esperimenti francesi sono stati effettuati in un'isola nell'Oceano Pacifico e hanno suscitato una notevole indignazione nei paesi che si affacciano su quest'oceano. Il tasso di contaminazione radioattiva dell'atmosfera è, cionondimeno, diminuito in misura rilevante dopo la conclusione del Trattato.

Vennero poi le proibizioni dell'uso nucleare o militare dello spazio interplanetario. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò nell'ottobre 1963 una risoluzione, nella quale salutava le dichiarazioni con cui gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica manifestavano la propria intenzione di non collocare armi nucleari nello spazio e invitava tutti gli altri paesi a fare altrettanto. Nel gennaio 1967 fu firmato un trattato più ampio, il quale stabiliva la libertà di esplorazione e di accesso allo spazio, alla Luna e agli altri corpi celesti, ma unicamente a scopi pacifici. Furono proibiti, nello spazio, la costituzione di basi militari e lo stazionamento di ordigni portatori di armi nucleari o di altri strumenti di sterminio. Pochissimo tempo dopo, nel febbraio 1967, fu stipulato tra i paesi dell'America Latina un trattato, che vietava l'uso, il possesso e la fabbricazione delle armi nucleari. Le potenze in possesso di territori nell'America Latina, incluse per fortuna le potenze nucleari occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, rispettivamente con Portorico, la Guiana Britannica e la Guiana Francese), si sono associate a questo divieto.

Questo è stato il primo tentativo, e sinora l'unico coronato da successo, di stabilire una zona di disimpegno nucleare in un'area abitata del mondo. Si è spesso suggerito che zone analoghe dovrebbero essere create altrove, ad esempio in Africa, nei Balcani e nell'Europa settentrionale, ma tali suggerimenti non hanno ancora portato a nulla.

Nel febbraio 1971 è stato firmato un trattato che bandisce la collocazione di armi nucleari sul fondo marino al di là delle acque territoriali (12 miglia dalla riva). Un interessante aspetto del trattato sta nel fatto di prevedere in modo esplicito la possibilità di controllo in caso di sospetta violazione.

Nell'aprile 1972 è stata firmata una Convenzione sulla proibizione e distruzione delle armi batteriologiche. I firmatari s'impegnano a non sviluppare, non produrre, non ammassare riserve, non acquistare o conservare: a) agenti microbici o altri agenti batteriologici o tossine di specie o in quantità tali da non essere giustificati da scopi di profilassi, di protezione o altri scopi pacifici; b) armi, attrezzature o mezzi di lancio destinati all'uso di tali agenti o tossine per scopi ostili o in conflitti armati. S'impegnano anche a distruggere tutti questi agenti, a non cederli ad altri paesi, e a non aiutare nè incoraggiare la loro produzione. Prima della conclusione della Convenzione, si discusse molto se mettere al bando le armi chimiche, come i gas venefici. Ci si accordò alla fine di non farne nulla, non perché qualcuno desiderasse conservare il diritto di usare armi del genere, ma per la difficoltà di scoprire e controllare le eventuali violazioni. Era opinione generale che grandi quantitativi di armi chimiche fossero in possesso di vari paesi, mentre si riteneva che non si fossero ancora prodotte quantità rilevanti di armi biologiche.

c) Riduzioni reciproche di forze

Altre trattative sul disarmo cominciarono nel 1973, sebbene non nel quadro della Conferenza di Ginevra e, in un primo tempo, esse furono conosciute nei paesi occidentali con la denominazione di trattative MBFR (Mutual and Balanced Force Reductions). Dopo l'inizio dei negoziati, il termine ‛bilanciate' è scomparso. Lo scopo di queste trattative, che furono proposte dai paesi della NATO nel 1968, è di arrivare a una riduzione delle forze della NATO e di quelle del Patto di Varsavia, che si fronteggiano in Europa; esse considerano soprattutto l'area centrale, che costituisce la zona di demarcazione tra le due alleanze. La preparazione delle trattative e le discussioni iniziali sono state di un'estrema complessità, e i negoziati si protrarranno verosimilmente per parecchi anni. Alcuni dei problemi principali sono evidenti. Le forze delle due parti non sono organizzate ed equipaggiate nello stesso modo. Una divisione non comprende gli stessi effettivi in entrambi i casi; e diversi sono in ciascun caso gli armamenti in dotazione. Da una parte troviamo più armi di un certo tipo, dall'altra più armi di un altro tipo. In che modo quindi si può stabilire un'equivalenza? Ognuna delle due parti afferma la superiorità dell'altra. La NATO sostiene che il Patto di Varsavia ha una indubbia superiorità in Europa centrale, soprattutto in fatto di carri armati; inoltre, forze fatte ritirare in Russia possono fare ritorno al fronte più facilmente di forze che si ritirino negli Stati Uniti: il Patto di Varsavia dovrebbe quindi effettuare riduzioni proporzionalmente maggiori. Il Patto di Varsavia afferma che una complessiva superiorità numerica sta dalla parte della NATO, che ogni guerra tra le due alleanze è destinata necessariamente a diventare una guerra globale, e che è necessario basare le riduzioni sulla quantità complessiva sia di uomini che di armamenti, incluse le armi nucleari attualmente presenti in Europa. Si disputa poi se le riduzioni debbano riguardare unicamente o essenzialmente le forze degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, o se si debba includere anche le forze degli altri paesi delle due alleanze: e, in questo secondo caso, permane il disaccordo circa l'identità di questi altri membri.

Queste trattative sono strettamente, anche se non formalmente, legate alla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, iniziata anch'essa nel 1973. Le due serie di trattative non sono espressamente collegate, e sono condotte in luoghi diversi; ma è evidente che l'una influenza l'altra. Infatti se si arriverà a un accordo sulla riduzione delle forze, ciò rafforzerà il sentimento di fiducia reciproca e faciliterà la cooperazione: e d'altro lato, se si rafforzerà il sentimento di fiducia, sarà più facile giungere a una riduzione delle forze.

Le trattative per la riduzione reciproca delle forze possono essere considerate come il corrispettivo convenzionale dei colloqui SALT: corrispettivo che consente ai membri minori di ognuna delle due alleanze di partecipare a un importante progetto di disarmo, che era stato sinora diretto dalle superpotenze. Le pressioni a partecipare alle trattative provengono da due fronti. L'opinione pubblica di molti paesi non accetta il permanere di una grave minaccia di guerra. Si sono vissuti in Europa 25 anni di pace; si è formata una generazione per la quale la guerra è argomento di conoscenza storica e non di esperienza personale. Del denaro speso in armamenti e in eserciti c'è urgente bisogno per il miglioramento delle condizioni sociali. Inoltre, il costo e delle attrezzature e degli uomini cresce rapidamente, più rapidamente del saggio generale di inflazione, sia perché le armi vengono perfezionate, e occorre quindi un miglior addestramento per usarle, sia perché uomini addestrati possono ottenere salari più alti negli impieghi civili. Per mantenere le forze armate almeno ai livelli correnti di relativa efficienza, i governi hanno quindi bisogno di più denaro, mentre l'opinione pubblica spinge verso la diminuzione delle spese per la difesa. Le riduzioni reciproche sembrano essere un'attraente soluzione del problema, nell'ipotesi che si possa mantenere lo stesso livello di sicurezza con livelli più bassi di impegno militare.

Si tratta di un'ipotesi di vasta portata: un'ipotesi che non dipende solamente dal livello delle forze. La sicurezza dipende anche dalla valutazione che si dà sia della deterrenza, sia dell'appoggio fornito dalle alleanze. I rapporti reciproci tra queste variabili non sono pienamente chiariti, nè sono entrati nella coscienza pubblica. Se esiste la parità nucleare tra le superpotenze - e il sistema nucleare è quindi in un certo senso congelato - ciò significa forse che aumenta il rischio di una guerra convenzionale, oppure che le alleanze basate sulla garanzia nucleare fornita da una superpotenza non sono più valide? O significa che le potenze nucleari vigileranno con la massima attenzione affinché non nascano situazioni suscettibili di far precipitare una crisi nucleare (come certamente gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica hanno convenuto di fare con l'Accordo per la prevenzione della guerra nucleare del 22 giugno 1973); e quindi che, a prezzo dell'accettazione di un'autorità esercitata dalle superpotenze nel dirimere le difficoltà e gli imprevisti, anche quando siano coinvolti altri Stati, si può contare su un periodo di sicurezza? Non tutte le potenze medie e piccole sarebbero liete di accettare una tale condizione, e la loro insistenza sul carattere multilaterale della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa e sulle riduzioni reciproche di forze è un aspetto della loro reazione contro l'eventualità di un predominio delle superpotenze.

d) Controllo

Infine, bisogna dire una parola sul problema dell'ispezione o controllo, che si è presentato in numerose trattative sul disarmo, e in molti casi ne ha per lungo tempo ritardato i progressi. In questo contesto, ‛controllo' significa trovare un metodo o una tecnica che convinca ciascuna delle parti impegnate in una trattativa di disarmo che le altre manterranno gli impegni presi di ridurre le forze o di non perfezionare certi tipi di armi. Per lungo tempo, i negoziatori occidentali ritennero necessario insistere sul fatto che si doveva effettuare un controllo diretto da parte di gruppi comprendenti tutte le parti, con libertà di movimento in tutti i territori interessati. Questa teoria era rifiutata dall'Unione Sovietica e dai suoi alleati, che sentivano un controllo internazionale come incompatibile con la loro concezione della sovranità. Il risultato più notevole di questo disaccordo è stato il fallimento delle trattative tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica sul bando di tutti gli esperimenti nucleari, inclusi quelli sotterranei. Come abbiamo riferito sopra, il Test Ban Treaty si riferisce agli esperimenti nucleari nell'atmosfera, e fu possibile raggiungere l'accordo circa la loro proibizione, perché tali esperimenti possono essere scoperti a distanza, ricorrendo a metodi che non richiedono la presenza di osservatori nel territorio interessato. Si sostenne che non era possibile scoprire in modo infallibile, a distanza, gli esperimenti sotterranei, e che, nell'assenza di un'ispezione in loco, era inutile accordarsi sulla loro proibizione, non essendoci modo di assicurarsi che non avvenissero segretamente.

Come abbiamo già osservato, la difficoltà del controllo è stata una delle ragioni principali del fallimento di un accordo sul bando delle armi chimiche. Si può anche supporre che la stessa circostanza abbia avuto un certo influsso sul trattato che vieta la collocazione di armi nucleari sul fondo marino. Il bando ha infatti applicazione solo al di fuori delle acque territoriali, dove è possibile procedere a un ispezione e a un controllo senza violare la sovranità territoriale.

Il problema del controllo può avere una parte anche nella determinazione dei tipi di accordo che si possono utilmente stipulare nei colloqui SALT. È tacitamente ammesso che gli attuali mezzi nazionali di sorveglianza - presumibilmente fotografie scattate da satelliti siano sufficienti a fornire un controllo adeguato rispetto a dati piuttosto elementari come il numero e le dimensioni dei missili balistici intercontinentali; tali mezzi possono però non essere adeguati rispetto a dati meno macroscopici, come la presenza e la natura di sistemi automatici di rientro montati su missili. A meno che non si trovino nuovi metodi, o si verifichi un tale accrescimento della fiducia reciproca da rendere accettabili limitazioni non sorvegliate, ciò può significare che certi tipi di riduzione degli armamenti, o la rinuncia a certi sviluppi tecnici, non potranno essere concordati nelle future sessioni dei colloqui SALT con la stessa facilità con cui si sono realizzati gli accordi passati.

Il problema del controllo potrebbe avere implicazioni anche nei confronti delle trattative per le riduzioni reciproche e bilanciate delle forze (MBFR). Una delle questioni da decidere in queste trattative è se le unità ritirate dall'area considerata - cioè anzitutto il fronte centro-europeo - possano essere avviate verso altre aree o debbano essere congedate. Se è il congedo che si vuole, sarebbe assai difficile verificare, senza un'ispezione nel territorio dello Stato interessato, se esso abbia avuto effettivamente luogo.

8. Conclusioni

a) Il futuro della deterrenza

È verità lapalissiana che il sec. XX ha visto mutamenti più rapidi di qualsiasi altro secolo, specialmente in tutto ciò che riguarda la scienza e la tecnologia. Gli armamenti hanno condiviso pienamente questo ritmo vertiginoso di progresso. Alcune delle armi più spettacolari hanno tuttavia conosciuto un declino di efficacia e di influenza quasi altrettanto rapido della loro evoluzione. Lo sviluppo degli armamenti è sempre stato caratterizzato dalla ‛competizione' tra attacco e difesa. Inventata una nuova arma, presto o tardi si scopriva una nuova difesa contro di essa; poi ecco un'altra arma sopraffare quella difesa, e così via. Nel XX secolo ci sono stati notevoli esempi di questo avvicendamento, che ha avuto un ritmo più rapido che in passato. La nave di linea, il carro armato e l'aeroplano da combattimento raggiunsero tutti il loro apogeo nei primi tre quarti del secolo, e tutti hanno già iniziato, o portato a termine, un rapido processo di decadenza. La corazzata dei primi anni del secolo sembrava l'arma navale definitiva, la nave da battaglia con cannoni più potenti e con corazza migliore di qualsiasi altra nave. Le principali potenze navali misuravano la propria forza relativa in base al numero di queste navi già in loro possesso o in costruzione. I programmi di costruzioni navali hanno spesso determinato interi periodi delle relazioni internazionali, e influito sullo scatenamento delle guerre. Poi cominciò la decadenza. Già nella prima guerra mondiale la nave da battaglia fu minacciata dal sommergibile, e poi, nella seconda, dall'aviazione. La portaerei prese in certa misura il suo posto, pur essendo ancora eccessivamente vulnerabile all'attacco dei sommergibili, dell'aviazione e in seguito dei missili. Sotto molti aspetti, la nave da battaglia del 1974 è il sommergibile a propulsione nucleare, che trasporta missili nucleari a lunga gittata. Anziché partecipare agli spettacolari duelli descritti in modo così romanzesco dagli storici navali, esso ha un ruolo meno glorioso, quello cioè di rimanere in disparte e non farsi localizzare a meno che e sino a che non debba lanciare i suoi missili su bersagli che non può vedere, e su direttive della sua base, posta a qualche migliaio di miglia di distanza.

Analogamente, il carro armato fu utilizzato all'inizio come corazzata terrestre in risposta alla potenza della mitragliatrice, che dominava le battaglie di fanteria nella prima guerra mondiale. In questa guerra fu usato in modo tatticamente sbagliato, e non ottenne quindi il successo decisivo che le sue possibilità tecniche avrebbero potuto assicurargli. Esso diede il massimo rendimento con gli attacchi del Blitzkrieg tedesco nella seconda guerra mondiale, e con le grandi battaglie di carri sul fronte russo e nell'Africa del Nord. Tali battaglie sono state probabilmente superate, per numero di carri coinvolti, dai combattimenti nel Sinai nella guerra arabo-israeliana del 1973. Questa guerra, però, ha anche segnato, per la supremazia del carro armato, l'inizio della fine. Sinora, la teoria militare classica aveva sostenuto che l'unico modo efficace di sconfiggere un attacco di carri era di poter disporre, per la difesa, di un numero di carri maggiore. Già qualche tempo prima del 1973 questa tesi era stata sottoposta a una critica sempre più aspra. Si affermava che una più ampia dotazione di armi leggere anticarro e uno schieramento più disperso delle forze destinate a usarle potevano arrestare un attacco di carri con altrettanta efficacia e con perdite molto minori. La validità di questa tesi è stata infine provata nel Sinai dall'esperienza dei missili guidati anticarro. Questi missili sono di peso e dimensioni così ridotti che è stato possibile trasportarli e lanciarli dalla prima linea della fanteria; e, quando sono stati usati in modo appropriato, hanno assolto il loro compito in modo impressionante. Naturalmente, i carri continueranno a essere necessari; ma, per la prima volta dal 1916, sappiamo di poter disporre di una contromisura economica ed efficace, e ciò avrà un effetto profondo sulla futura tattica e strategia, sino a che non sarà trovata una risposta al missile guidato anticarro.

Appare forse ancora azzardato affermare che la parabola discendente dell'aeroplano in quanto mezzo bellico sia già cominciata. L'aeroplano esordì nella prima guerra mondiale, in una forma rozza ed elementare. Il suo ruolo nella seconda guerra mondiale è più dubbio di quanto l'opinione corrente inclini a credere. Certo, i cacciabombardieri a breve raggio e i bombardieri picchiatori diedero un contributo rilevante al Blitzkrieg e alle battaglie di carri. Il bombardiere a lungo raggio con bombe convenzionali diventò l'arma fondamentale per la distruzione indiscriminata e causò enormi perdite tra i civili, e pesanti, sebbene circoscritte, perdite di materiali e impianti. Ma i suoi effetti sul morale dei civili, che era visto inizialmente come il principale obiettivo da colpire, furono assai incerti, e in alcuni casi persino controproducenti. Nel lungo periodo fu almeno altrettanto decisivo - per il futuro dell'aeroplano come arma - il fatto che la seconda guerra mondiale vide la nascita del sostituto del bombardiere, cioè di missili a lungo raggio con i quali i Tedeschi attaccarono l'Inghilterra. Nonostante i fantastici progressi tecnici avutisi dopo la seconda guerra mondiale nella progettazione e nell'equipaggiamento degli aerei, il bombardiere, come veicolo con potenza distruttiva a lungo raggio, è stato virtualmente sostituito dal missile.

Per l'uso sul campo di battaglia, l'aviazione tattica è minacciata dal costante perfezionamento dei missili terra-aria, che ora possono essere trasportati sino alle postazioni della fanteria. Anche questa verità è stata dimostrata nella guerra arabo-israeliana del 1973, quando molti aerei israeliani furono abbattuti dai missili terra-aria forniti all'Egitto e alla Siria dall'Unione Sovietica. A meno che non si possano sviluppare adeguate contromisure elettroniche, che mettano gli aerei in grado di sfuggire ai missili, sembra proprio che i giorni dell'aviazione come arma tattica siano contati.

Nel suo ruolo di ricognizione, l'aviazione sembra già largamente superata da fotografie inviate da satelliti. Fa un effetto curioso ripensare oggi allo scompiglio suscitato nel 1960 dalla missione sull'Unione Sovietica di un aereo U2 americano da ricognizione, quando pensiamo che satelliti sia degli Stati Uniti che dell'Unione Sovietica sono continuamente in orbita sui territori dei due Stati scattando fotografie, senza che nessuno pensi a protestare.

Un'ascesa e declino ancor più rapidi si sono verificati nel caso dei gas venefici. Furono usati con effetti micidiali, ma non decisivi, nella prima guerra mondiale, e mai più in seguito, fuorché nella forma assai mitigata di gas lacrimogeni, usati non tanto in guerra, quanto per sedare tumulti popolari. Le armi biologiche, che di tanto in tanto hanno suscitato apprensioni esagerate, non sono per fortuna mai state usate, e sono ora bandite da un trattato firmato nel 1973. Una possibile eccezione a quanto abbiamo affermato è costituita dall'uso di defoglianti fatto dagli Americani nel Vietnam, sebbene questi fossero destinati, più che a danneggiare direttamente le forze nemiche, a eliminarne i ripari, esponendole quindi ad altre forme di attacco.

Quali insegnamenti possiamo trarre, per il futuro, da questi pochi esempi presi dalla storia di tipi particolari di armamenti? Lasciando da parte la fantascienza, le armi del futuro prevedibile - diciamo di questo scorcio di secolo - sono rappresentate dall'intera famiglia delle armi atomiche, dai missili a lungo e breve raggio in tutte le loro applicazioni, dalle armi convenzionali (che guadagnano in precisione grazie a nuovi sistemi di comando, come quello basato sul laser) e dal sommergibile (sia come portatore di missili che come mezzo di blocco). Tutte queste armi saranno migliorate e diversificate, specialmente i missili guidati, che sono già sulla via di diventare l'arma dominante dei campi di battaglia.

Il problema vitale, da cui dipende il futuro del mondo, è se le armi nucleari saranno mai impiegate. Abbiamo l'esempio delle armi chimiche, usate per breve tempo sotto la forma di gas venefici nella prima guerra mondiale, e mai più usate in seguito, perché troppo orribili e perché non davano, a chi prendeva l'iniziativa, la sicurezza di avvantaggiarsi. Le armi nucleari hanno effetti enormemente più spaventosi; e, come abbiamo già detto, la certezza della rappresaglia elimina, in una guerra nucleare, anche i vantaggi di una ‛vittoria' Possiamo allora sperare, in primo luogo, che la funzione deterrente delle armi nucleari continuerà a impedire la guerra tra le superpotenze e tra le potenze nucleari in genere? E, in secondo luogo, che il numero delle armi sia nucleari che convenzionali sarà progressivamente ridotto da accordi sulla limitazione degli armamenti?

Sulla lunga distanza si fa strada un dubbio. Se è così ovvio che le armi nucleari non possono essere usate senza una reciproca - e forse universale - distruzione, e se non saranno usate per molti anni a venire, e quindi il fatto di non usarle diventerà un'abitudine accettata, è allora possibile, in tali circostanze, che esse conservino il proprio effetto deterrente? O diventeranno invece prestigiosi pezzi da museo di un'efficacia meramente potenziale, simili alle riserve auree custodite per molti anni nei sotterranei di Fort Knox, che non hanno mai avuto un effetto diretto e attivo sugli scambi mondiali e neppure sulla prosperità dell'America?

Molti settori dell'opinione pubblica si sentirebbero forse confortati se si dovesse finire con il considerare le armi nucleari in questa luce, simili a mostri preistorici, di cui non ci fosse più bisogno in un'età più razionale, e se fossero conservate, se mai, soltanto per venire incontro alle vedute reazionarie dei militari di professione. È certo da augurarsi che le trattative sulla limitazione degli armamenti possano continuare tra le maggiori potenze nucleari, diventando un elemento quasi permanente delle loro relazioni, e che questo contatto continuo le metta in condizione di guardarsi dalle possibili fonti di conflitto, e stabilisca, in generale, relazioni improntate a una maggiore razionalità. Stiamo parlando tuttavia di Stati e società con assetti interni e con obiettivi assai diversi. A meno che non si verifichino mutamenti considerevoli nella natura umana, ci sarà sempre la possibilità che l'uomo si comporti in modo irrazionale. La capacità di distruggersi reciprocamente può essere un ostacolo potente a un comportamento irrazionale. Se non vi fosse tale capacità, o se si arrivasse a credere fermamente che le armi nucleari non saranno mai usate, in nessuna circostanza, maggiori rischi nascerebbero dalle manovre inevitabilmente competitive delle grandi potenze, che cercano di estendere la propria influenza nel mondo o, come esse dicono, di preservare la propria sicurezza. Se si arrivasse a credere che il peggio che potrebbe accadere, in seguito a un errore di calcolo nelle mosse di questa competizione, sarebbe un conflitto non nucleare, nessuna delle due parti potrebbe essere sempre tanto cauta da non rischiare di andare al di là dei limiti tacitamente accettati da entrambe. Il mondo quindi, osservando questa competizione e meditando sugli strumenti con i quali è condotta, si augura due cose che alla lunga possono diventare incompatibili: cioè che le armi nucleari non debbano mai essere usate e che cionondimeno la paura del loro uso trattenga i loro possessori da azioni avventate, suscettibili di provocare un conflitto.

Forse lo schema migliore per trovare una soluzione a questo dilemma è quello basato sui seguenti presupposti. Noi viviamo, ancora oggi, in un periodo in cui la deterrenza è efficace e in cui le cause di tensione sono assai numerose. I dialoghi attualmente in atto, se continuati con successo, possono limitare e ridurre il numero delle armi nucleari e dunque ridurre infine il livello della deterrenza. Essi dovrebbero però nello stesso tempo, anche se unicamente attraverso la crescente abitudine al dialogo, ridurre le cause di tensione e creare meccanismi per tenere sotto controllo le crisi che possano verificarsi. Se i due processi possono essere mantenuti più o meno paralleli per un certo numero di anni, potremo finalmente giungere a un'epoca in cui, grazie alla riduzione degli armamenti e all'abitudine a non usarli, la minaccia nucleare non sarà più, com'è oggi, il mezzo di dissuasione fondamentale e in cui si saranno accresciuti gli interessi comuni e saranno diminuite le cause di conflitto.

E questa, forse, una visione utopistica; ma, per realizzarla, ci sarà bisogno non di visionari, ma di freddi realisti, per i quali l'equilibrio degli armamenti non sia fine a se stesso (in tal modo si perpetuerebbe la corsa agli armamenti), ma un passo necessario, nelle attuali circostanze, sulla via della pace.

b) Il futuro del commercio di armi

Un altro grande problema che riguarda gli armamenti e il futuro del mondo è rappresentato dal diffondersi delle armi perfezionate e della tecnologia militare dai paesi più progrediti a quelli meno progrediti. Abbiamo già accennato all'argomento del propagarsi del possesso di armi nucleari, discutendo del Trattato di non proliferazione. Non esiste però alcun accordo internazionale che proibisca la vendita di armi convenzionali; e si tratta infatti di un commercio fiorente. Il futuro del commercio di armi merita di essere preso in seria considerazione da tutti coloro che vi sono implicati come acquirenti o come venditori, per i suoi effetti sulla stabilità mondiale, sulle relazioni con il Terzo Mondo e sul ruolo delle superpotenze. Due implicazioni contraddittorie sono immediatamente evidenti. Poiché le tendenze della progettazione di armi vanno verso maggiori perfezionamenti e maggiori costi (ciò non è in contraddizione con lo sviluppo di nuovi e più facilmente trasportabili missili anticarro e antiaerei, atti a essere usati dalla fanteria; più piccolo è l'equipaggiamento, più è probabile che dipenda, ad esempio, da complesse tecniche di miniaturizzazione), i paesi sottosviluppati, anche se tentano di costituire proprie industrie degli armamenti, dipenderanno sempre, per certe attrezzature e tecnologie specializzate, dalle forniture dei paesi progrediti. Se queste forniture sono liberamente disponibili, ciò incoraggerà certi paesi a iniziare una corsa agli armamenti con i propri vicini e rivali, usando a questo scopo risorse che si sarebbero potute usare a fini più produttivi, e accrescendo i rischi di una guerra. D'altra parte, se le forniture saranno negate, si sottolineerà e si perpetuerà il divario tra i paesi progrediti e quelli meno progrediti, giacché questi ultimi, oltre alle altre ragioni di inferiorità economica e tecnologica, si troveranno anche in una condizione di permanente inferiorità militare.

Un altro aspetto vitale del problema è l'effetto del commercio di armi sugli schieramenti internazionali. La fornitura di armi e di attrezzature militari da parte di una superpotenza a un paese meno sviluppato può stabilire un rapporto da protettore a protetto. Se ognuna delle due superpotenze rifornisce Stati o gruppi di Stati rivali, come abbiamo visto negli ultimi venti anni nel Medio Oriente, ne deriva una proiezione della competizione tra le superpotenze in un'altra area, con il risultato di aggiungere ai rapporti delle superpotenze l'ulteriore attrito delle rivalità locali.

Queste considerazioni sembrano far pendere il piatto della bilancia verso il rifiuto della fornitura e verso l'accettazione della conseguente discriminazione tra Stati progrediti e Stati meno progrediti, come il minore dei due mali. Sarà politicamente difficile procedere in questa direzione. Non c'è dubbio che, per compensare la diminuzione di aiuti e forniture in campo militare, i paesi progrediti dovranno ridurre i propri armamenti e, nello stesso tempo, aumentare i propri contributi in aiuto allo sviluppo dei paesi più poveri. Ciò implica forse che le superpotenze debbano assumere maggiori impegni per il mantenimento della pace? È un interrogativo che ci proponiamo di prendere in considerazione più avanti.

Oltre agli Stati Uniti e all'Unione Sovietica, i principali esportatori di armi sono il Regno Unito e la Francia. Anche alcuni altri paesi europei minori vendono attrezzature specializzate. Timidi esordi dell'idea di una limitazione della vendita di armi si sono visti in certe transazioni condotte dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Il governo britannico si è rifiutato di vendere i suoi carri armati più perfezionati (i Chieftains) agli Stati arabi e a Israele. I Francesi hanno venduto alla Libia i Mirages, a condizione che non fossero usati nella guerra arabo-israeliana e si sono indignati quando si è asserito - ma la Libia ha negato - che la condizione non era stata osservata. Ora, si può sensatamente dubitare del fatto che, se in questo conflitto, o ad esempio in quello tra l'India e il Pakistan, non si fossero forniti a entrambe le parti armi e assistenza tecnica, queste guerre ricorrenti non avrebbero potuto aver luogo o si sarebbero limitate a scaramucce di frontiera del tipo tradizionale? Il guaio è che prima l'una e poi l'altra delle potenze fornitrici di armi sentono che il loro protetto diventa più debole e che quindi debbono fornirgli altre attrezzature più progredite. È un'altra specie di escalation.

È un problema aperto e non del tutto pertinente all'argomento di questo articolo, se l'impegno da parte di un paese più potente - nella maggior parte dei casi una superpotenza - a difendere un paese più piccolo possa adeguatamente e vantaggiosamente sostituire la fornitura di armamenti. Possiamo esaminare brevemente il problema mettendo a confronto le situazioni esistenti in Europa e in Medio Oriente. Gli alleati europei degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica non dispongono, per molte ragioni, di tutte le specie di armamenti di cui dispongono le superpotenze. Ciò è ben noto in riferimento alle armi nucleari, ma gli esempi non mancano neanche nel campo delle armi convenzionali: i satelliti da ricognizione, gli aerei a grande autonomia e le portaerei sono forse i più evidenti. Per quanto riguarda le armi nucleari, i paesi europei sono scarsamente inclini a procurarsele (con l'eccezione della Francia e del Regno Unito). C'è però da considerare che l'impegno americano per la sicurezza, tramite la NATO, deve aver contribuito a persuadere le potenze europee occidentali ad accettare sia il Trattato di non proliferazione sia l'intesa sulla ‛doppia chiave', secondo la quale le ogive nucleari destinate a essere usate, in caso di guerra, dai membri europei della NATO, sono conservate in mano americana. Per quanto riguarda le armi convenzionali, gli Americani protestano continuamente perché le potenze europee occidentali non curano in modo adeguato la qualità delle proprie forze, confidando eccessivamente sull'America per la loro difesa. Si sostiene in altre parole che i membri europei della NATO sono lieti di accettare una garanzia americana come sostituto di un livello superiore di armamenti. Nell'Europa orientale, gli argomenti e le motivazioni sono forse diversi, ma i risultati sono assai simili.

Nel Medio Oriente, invece, non ci sono specifici impegni sovietici a difendere gli Stati arabi o impegni americani a difendere Israele, ma soltanto un'intesa generale sul fatto che nessuna delle due superpotenze consentirà che i propri protetti abbiano a soffrire, oltre un certo limite, le conseguenze di una sconfitta. In tali circostanze, vediamo che tutti gli Stati implicati nutrono un appetito insaziabile di armamenti e che, pur se talvolta con riluttanza, le superpotenze sono disposte a fornire la maggior parte di ciò che viene richiesto. Ora, un maggiore impegno renderebbe possibile risparmiare almeno una parte di queste enormi spese, o rischierebbe soltanto di portare le superpotenze a un confronto reciproco più diretto? Ovvero, proprio nel timore di una simile eventualità, un impegno maggiore avrebbe condotto le superpotenze a chiarire più urgentemente i propri rapporti reciproci, così da garantire una soluzione del problema mediorientale sin dalle sue fasi iniziali?

Interrogativi analoghi potrebbero essere formulati a proposito delle ostilità ricorrenti tra India e Pakistan, salvo che qui la situazione è complicata dalla presenza di interessi cinesi. È difficile immaginare un sistema di impegni per la difesa, che risulti compatibile con il rapporto triangolare di Unione Sovietica, Cina e Stati Uniti e sia nello stesso tempo in grado di garantire la stabilità e, quindi, di consentire agli Stati in questione di spendere meno per gli armamenti e di avere perciò a disposizione maggiori risorse per altri urgenti necessità.

c) Le prospettive

Possiamo ora tentare alcune osservazioni conclusive sull'influsso che gli armanenti potranno esercitare in futuro sulle relazioni internazionali e sull'assetto mondiale in generale.

Una superpotenza è definita tale in primo luogo per i suoi armamenti. Non è questa, come potrebbe sembrare a prima vista, una concezione esclusivamente moderna. La falange macedone e la legione romana erano elementi di vitale importanza per la posizione di superpotenza, raggiunta per breve tempo da Alessandro, e in modo più duraturo da Roma. La marina britannica contribuì potentemente alla Pax Britannica del sec. XIX. Oggi le disparità sono più nette. L'enorme potenza distruttiva delle forze nucleari strategiche degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica divide questi due paesi dagli altri. È possibile che la Cina raggiunga in futuro una posizione analoga. Come abbiamo visto, però, non è soltanto il possesso di armi nucleari che pone le superpotenze in una categoria speciale. Esse sono anche i principali fornitori di armi convenzionali agli altri paesi. La loro decisione di fornire o non fornire armi, o di offrire in loro vece un impegno per la difesa, può influenzare in modo decisivo le relazioni e persino l'esistenza futura di molti altri paesi. Il possesso della capacità tecnologica e industriale necessaria alla produzione di nuovi e più efficienti armamenti dà alle superpotenze, e in misura considerevolmente minore alle altre potenze industrialmente avanzate, la possibilità di scegliere tra una varietà di opzioni che incidono sul futuro del mondo. Continueranno queste potenze a competere nella corsa agli armamenti o cercheranno di limitarli e ridurli attraverso accordi, come oggi gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica stanno cominciando a fare? Soddisferanno liberamente le richieste di armamenti da parte degli altri paesi, oppure, anziché fornire quantità illimitate di armi, si assumeranno maggiori responsabilità per la sicurezza dei propri protetti? Oppure, infine, si associeranno nel rifiuto o nella limitazione delle forniture, ma nello stesso tempo si uniranno nel comune tentativo di eliminare le cause profonde di tensione, e quindi la necessità di procurarsi armi?

I dati fondamentali della situazione sono, naturalmente, le dimensioni, le ricchezze naturali e l'organizzazione, orientata in senso tecnologico, delle superpotenze. Esse hanno scelto di esprimere, in larga misura, la propria superiorità in termini di armamenti. È da sperare che l'importanza di questo elemento diminuisca, sia nelle loro relazioni reciproche che nelle relazioni col resto del mondo. Nel frattempo, questa situazione carica le superpotenze di tormentose responsabilità, e pone la maggior parte degli altri paesi di fronte a una sgradevole alternativa: o spendere eccessive quantità di denaro per proteggersi da soli; o cercare la protezione di un altro paese (in molti casi ci si è appena liberati dalla dominazione straniera); o accettare, per le proprie controversie locali, soluzioni imposte da un'autorità esterna. È però possibile porre il problema in una forma alquanto più ottimistica. In fin dei conti, persino nell'euforia del 1945, il mondo doveva, per la conservazione della pace, confidare nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, composto dalle cinque grandi potenze. Esso non ha mai lavorato in modo soddisfacente, perché due di esse raramente, se pur mai è accaduto, sono state capaci di mettersi d'accordo. Se i pericoli dello sviluppo e della diffusione degli armamenti dovessero ora spingerle verso una concezione delle loro responsabilità mondiali improntata a maggiore collaborazione, maggiori sarebbero le possibilità di cominciare a realizzare l'intento originario che presiedette alla costituzione delle Nazioni Unite. Alcuni paesi potrebbero protestare, affermando che in tal modo verrebbe limitata la loro libertà di farsi la guerra; ma molti altri si sentirebbero sollevati, al pensiero di sbarazzarsi del peso gravoso degli armamenti.

(V. anche guerra).

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