DIAZ, Armando Vittorio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DIAZ, Armando Vittorio

Giorgio Rochat

Nacque a Napoli il 5 dic. 1861 da Ludovico e Irene Cecconi, in una famiglia (di lontana origine spagnola) di militari e magistrati.

Il nonno Antonio era stato "ordinatore di guerra" durante il regno di Ferdinando II; il padre fu ufficiale del genio navale nella marina borbonica e poi italiana; la madre veniva da una famiglia di magistrati e professionisti. Il padre, dopo aver lavorato negli arsenali di Genova e di Venezia (di quest'ultimo era stato direttore, con il grado di colonnello), morì nel 1871; la vedova con i quattro figli si stabilì a Napoli, sorretta dalle cure del fratello Luigi, avvocato, vivendo in modesta agiatezza.

Il D. compì gli studi elementari in varie scuole private, poi, già orientato alla carriera militare, frequentò la scuola tecnica pubblica, quindi l'istituto tecnico, traendone una solida cultura scientifica e la capacità di scrivere un italiano sobrio e corretto; molto tempo dedicò anche agli esercizi ginnici in palestra. Superati gli esami di ammissione all'accademia militare di Torino, vi prese servizio il 15 sett. 1879; sottotenente di artiglieria nel 1882, frequentò la scuola di applicazione di artiglieria e genio di Torino e nel 1884 fu assegnato con il grado di tenente al 10º reggimento di artiglieria da campo di stanza a Caserta. Vi rimase fino al 1890, alternando studio e lavoro con la partecipazione alla vita della buona società napoletana. Nel marzo 1890 fu promosso capitano e trasferito al 1º reggimento di artiglieria da campo stanziato a Foligno. Preparò e superò gli esami di ammissione alla Scuola di guerra, che frequentò nel 1893-95 classificandosi al primo posto della graduatoria finale del suo corso. Il 23 apr. 1895 sposò Sarah De Rosa, di una famiglia napoletana di avvocati e magistrati: un matrimonio nato all'interno dello stesso ambiente di buona borghesia napoletana, che si rivelò solido e felice, allietato dopo alcuni anni dalla nascita di tre figli.

Dal 1895 al 1916 la carriera del D. si svolse prevalentemente negli uffici del comando del corpo di stato maggiore, dove lavorò per un totale di circa sedici anni, lasciando Roma soltanto per diciotto mesi per comandare un battaglione del 26º reggimento di fanteria, dopo la promozione a maggiore nel settembre 1899, e per poco più di tre anni nel 1909-12.

A Roma prestò servizio soprattutto nella segreteria del capo di stato maggiore dell'esercito, T. Saletta e poi A. Pollio: un incarico che non lasciava spazio per studi personali o strategici, ma comportava un confronto quotidiano con la realtà dell'esercito (organici, bilanci, armamenti) e con il mondo politico romano. Si rivelò un lavoratore preciso e instancabile, capace di far funzionare al meglio i servizi dipendenti, affabile e diplomatico nei rapporti esterni; non ostentava interessi politici, ma era bene informato di quanto accadeva in Parlamento e nel paese e in grado di destreggiarsi con gli uomini politici e con gli addetti militari stranieri. Di statura mediobassa, tarchiato ma non pesante, con i capelli tagliati a spazzola e grandi baffi (più tardi ridotti a baffetti), elegante senza esibizioni, di poche e forbite parole, buon conoscitore del francese e sempre disposto a tornare al suo napoletano, autorevole ma non autoritario, esigente ma comprensivo, il D. era un ufficiale che lavorava molto e bene senza mettersi in mostra, sempre all'altezza della situazione, con una forza interna che si inseriva senza difficoltà nell'istituzione militare.

Tenente colonnello dal 1905, nell'ottobre 1909 il D. lasciò Roma perché nominato capo di stato maggiore della divisione di Firenze. Il 1º luglio 1910 fu promosso colonnello e assunse il comando del 21º reggimento di fanteria stanziato a La Spezia, dove seppe accattivarsi l'affetto dei soldati con un regime disciplinare generoso e un attivo interessamento alle loro condizioni di vita. Nel maggio 1912 fu destinato in Libia a sostituire il comandante del 93º reggimento di fanteria, caduto ammalato; e subito ebbe per i suoi nuovi soldati dimostrazioni di affetto e di fiducia relativamente rare nell'esercito del tempo, immediatamente ricambiate. Il 20 sett. 1912, nello scontro di Sidi Bilal nei pressi di Zanzūr, fu ferito da una fucilata alla spalla sinistra mentre conduceva le truppe all'attacco; prima di abbandonare il terreno volle assicurarsi del successo del suo reggimento e baciare la bandiera, lasciando poi ai soldati un ordine del giorno di elogio e ringraziamento. Fu rimpatriato con la croce di ufficiale dell'Ordine militare di Savoia.

Nel gennaio 1913, appena guarito, riprese servizio al comando del corpo di stato maggiore dell'esercito, come capo della segreteria di Pollio. Fu confermato in questa carica dal nuovo capo di stato maggiore L. Cadorna, poi, nell'ottobre 1914, promosso maggior generale assegnato al comando della brigata Siena e subito richiamato al comando del corpo di stato maggiore come generale addetto. Nel maggio 1915, al momento della costituzione del Comando supremo dell'esercito mobilitato, in cui era l'ufficiale più elevato in grado dopo Cadorna e il sottocapo C. Pollio, il D. vi ebbe la responsabilità del reparto operazioni, che però, malgrado il nome, non si occupava di operazioni (la cui direzione era accentrata nelle mani di Cadorna e della sua piccola segreteria), ma dirigeva l'insieme degli uffici e servizi del Comando supremo e quindi esigeva una visione complessiva della situazione dell'esercito. Diresse l'ufficio con efficienza e piena soddisfazione di Cadorna per oltre un anno, poi chiese di andare al fronte; il 27 giugno 1916 fu nominato comandante della 49ª divisione di fanteria e subito dopo promosso tenente generale.

Tenne il comando della 49ª divisione per circa 10 mesi, sempre alle dipendenze della 3ª armata, sul Carso o nelle immediate retrovie. Sin dall'inizio dimostrò notevoli capacità professionali e molto impegno nella ricerca dei maggiori risultati con le minori perdite, predisponendo con grande cura l'azione dell'artiglieria e gli assalti della fanteria; e guidò con energia le sue truppe nei sanguinosi combattimenti a nord del San Michele, nel settore di Veliki, conquistando nell'offensiva autunnale l'altura di San Grado di Merna e nel marzo successivo la dorsale di Voltkoniak con una manovra aggirante.

Per i soldati ebbe sempre un'attenzione costante, controllando personalmente che fossero rispettati i turni tra trincea e riposo e nella concessione delle licenze, che tutto il possibile fosse fatto per assicurare un rancio adeguato e regolare, che nelle retrovie le truppe fruissero di qualche comodità. Non perdeva poi occasione di interrogare i soldati nelle sue frequenti ispezioni alle trincee e di incoraggiarli con poche e commosse parole. Dalla Libia aveva scritto che "tutto il segreto è nell'elemento uomo"; e ora ribadiva: "si comanda col cuore, con la persuasione, con l'esempio". Un atteggiamento che può parere retorico, come altri gesti del D., ma che in lui era spontaneo, oltreché piuttosto raro sul Carso, così come la sua riluttanza a punire i soldati per piccole infrazioni (non transigeva invece sull'obbedienza in combattimento ed era severo, anche se sempre cortese, con gli ufficiali). L'interesse per i suoi soldati e l'impegno con cui cercava di risparmiare le loro vite trovavano un limite nella sua convinta accettazione degli ordini superiori: il tenente G. Paoletti, suo ufficiale di ordinanza, testimonia che il D. condusse l'offensiva autunnale verso il San Michele con inflessibile energia, pur ritenendola destinata all'insuccesso. Le truppe in ogni caso risposero appieno alla sua fiducia, seguendolo senza cedimenti in tutta la sua azione di comando.

Il 12 apr. 1917 il D. fu promosso alla testa del XXIII corpo d'armata appena costituito e destinato ancora sul Carso con la 3ª armata. Le sue divisioni entrarono in linea ai primi di giugno nel settore di Castagnevizza e furono subito oggetto di un violento contrattacco austriaco, che respinsero; poi il 19-21 agosto, nel quadro dell'ultima offensiva italiana sul Carso, conseguirono buoni progressi a sud di Oppacchiasella, perdendo 8.800 uomini e facendo 4.400 prigionieri; infine in settembre mantennero le posizioni conquistate malgrado il ritorno offensivo degli Austriaci. Fu premiato con la croce di commendatore dell'Ordine militare di Savoia; una leggera ferita da palletta da shrapnel al braccio destro, nel corso di una ricognizione in prima linea il 3 ottobre, gli valse inoltre una medaglia d'argento, conferitagli sul campo dal duca d'Aosta suo superiore diretto come comandante della 3ª armata.

L'8 nov. 1917 fu nominato capo di stato maggiore dell'esercito, in sostituzione di Cadorna. Le modalità della scelta sono ben note nelle linee generali, anche se su singoli dettagli esistono versioni parzialmente contrastanti dei diversi protagonisti, mai del tutto composte. A fine ottobre, al momento della costituzione del nuovo governo, il presidente del Consiglio V. E. Orlando, il re e il ministro della Guerra generale V. Alfieri avevano concordato sulla necessità di sostituire Cadorna, considerato un ostacolo a un'autentica collaborazione tra governo e Comando supremo; la designazione del D. come successore era stata fatta dal re e da Alfieri e accettata da Orlando, ma rinviata al momento della stabilizzazione del fronte. Senonché il 6 novembre, nel convegno di Rapallo, gli Anglo-Francesi subordinarono l'invio di loro truppe in Italia all'esonero immediato di Cadorna, cui addebitavano l'ampiezza della sconfitta italiana, il disordine della ritirata e il cattivo funzionamento del Comando supremo; e allora il re e Orlando presero l'iniziativa di chiamare subito il D. alla testa dell'esercito, aggiungendogli come sottocapi i generali G. Giardino e P. Badoglio, su indicazione rispettivamente del re e di Orlando e L. Bissolati. Artefice primo della sua designazione era stato il re, che nelle sue visite al fronte carsico aveva appreso a stimarlo per le sue doti di comandante e la capacità di avere rapporti positivi con i soldati e con i superiori. Il D. apprese la notizia della sua alta nomina (del tutto inaspettata, per lui e per tutti) il pomeriggio dell'8 novembre; non esitò e si presentò al Comando supremo dicendo al tenente Paoletti: "Mi hanno dato una spada rotta, ma saprò riaffilarla". E diramò un sobrio ordine del giorno all'esercito: "Assumo la carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito e confido sulla fede e l'abnegazione di tutti".

Un bilancio del suo operato come comandante in capo dell'esercito italiano nell'ultimo anno di guerra non è facile, perché la tradizione e la bibliografia offrono soprattutto contributi celebrativi, consolidati dalle esigenze propagandistiche del regime fascista. Il D. e i suoi diretti collaboratori non lasciarono testimonianze né studi su questo periodo, mentre generali illustri come E. Caviglia e G. Giardino rivendicarono la loro parte nella vittoria con polemiche forzatamente reticenti e cifrate. I maggiori studiosi della guerra italiana, come P. Pieri e R. Bencivenga, hanno concentrato la loro attenzione sul periodo cadorniano; e la relazione dell'Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito è giunta ad affrontare l'ultimo anno di guerra solo a cinquant'anni dai fatti. In sostanza, mancano ancora studi di respiro sul Comando supremo del D., anche se disponiamo di pagine e giudizi interessanti e di buoni contributi di sintesi su singoli problemi, in particolare sulle grandi battaglie. Tutto ciò premesso, cerchiamo ugualmente di delineare il suo contributo alla vittoria, dando per noto l'andamento delle operazioni, la battaglia d'arresto sul Grappa e sul Piave nel novembre-dicembre 1917, la riorganizzazione dell'esercito, la vittoriosa resistenza sul Piave nel giugno 1918, l'offensiva finale di Vittorio Veneto.

Il suo primo merito, senza alcun dubbio, fu la capacità di far funzionare il Comando supremo in modo adeguato alle esigenze e dimensioni della grande guerra. Cadorna aveva accentrato nelle sue mani troppo potere, mettendosi in condizione di non poter controllare i dettagli dei suoi piani e l'esecuzione dei suoi ordini e di non riuscire a capire la gravità dei problemi che ricadevano sul governo. Forte della sua lunga esperienza di ufficiale di stato maggiore e di una visione più aperta delle necessità del conflitto, il D. riorganizzò il Comando supremo, valorizzando il ruolo del sottocapo Badoglio e del generale addetto S. Scipioni, riordinando il lavoro degli uffici e attribuendo ad ognuno di essi responsabilità definite e concrete; tutto ciò senza clamore né scosse, conservando anzi quasi tutti i collaboratori di Cadorna e favorendo la nascita di un clima di squadra nel rispetto dei diversi compiti. Il nuovo Comando Supremo curò particolarmente lo sviluppo dei servizi informativi e potenziò il ruolo degli ufficiali di collegamento, che dovevano dargli notizie dirette sulla situazione dei vari fronti, senza però scavalcare i comandi d'armata, con cui furono curati rapporti molto stretti, in modo da superare distacchi e incomprensioni. Particolarmente felice fu la collaborazione con Badoglio (dell'altro sottocapo, Giardino, il D. si era elegantemente liberato promuovendolo), che si occupò soprattutto delle operazioni e del coordinamento tra gli uffici del Comando supremo, alleggerendo il D. di buona parte del lavoro di routine e conquistandone la piena fiducia (tanto che, come è noto, il D. ottenne per lui un trattamento di assoluto privilegio dalla ministeriale commissione d'inchiesta sul ripiegamento al Piave, che dovette rinunciare ad approfondire l'esame della sua condotta a Caporetto). Ciò non significa che egli abdicasse alle sue responsabilità di comandante in capo, ma che, come richiedeva la complessità della guerra, sapeva valorizzare l'opera dei suoi collaboratori, delegando loro importanti compiti esecutivi, di preparazione e di controllo, riservandosi però la decisione finale e l'intervento personale nelle situazioni di emergenza. Più che a Napoleone, modello inconfessato di tutti i comandanti della grande guerra, il D. può essere avvicinato a Eisenhower, un altro comandante capace di affrontare la complessità della guerra moderna appoggiandosi sul lavoro del suo stato maggiore.

Sin dall'inizio del suo comando si era proposto di curare di persona i rapporti con il re, il governo e il mondo politico; a ciò lo predisponeva la sua lunga esperienza prebellica e la sua convinzione della necessità di una collaborazione di tutte le energie disponibili. Con il re, che Cadorna aveva tenuto a distanza, ebbe contatti frequentissimi: si recava da lui a pranzo due volte la settimana e gli faceva visita anche più spesso quando c'erano novità. Con Orlando si incontrava tre o quattro volte al mese, al Comando supremo o a Roma, con lunghi colloqui che assicuravano unità d'azione nella difficile situazione. Il D. aveva accolto senza obiezioni la costituzione di un Comitato di guerra di sette ministri, in cui i capi di stato maggiore dell'esercito e della marina avevano soltanto voto consultivo; e riceveva, o andava a trovare nei suoi viaggi a Roma, ministri e uomini politici influenti (in particolare F. S. Nitti, ministro del Tesoro, che veniva dal suo stesso ambiente napoletano e molto si dava da fare per appoggiarlo), senza intromettersi nei contrasti interni alla maggioranza governativa, ma per illustrare le esigenze dell'esercito e il suo operato. Tutta questa disponibilità non implicava una eccessiva arrendevolezza alle istanze politiche: egli non discuteva il primato del governo e la necessità di un'ampia e continua collaborazione, anche per migliorare l'immagine del Comando supremo dinanzi al mondo politico ed al paese, ma non accettava ingerenze nel suo campo di responsabilità, con un'interpretazione più elastica, ma non meno netta di quella di Cadorna sulla distinzione di sfere tra potere politico e potere militare; come è noto, nel settembre 1918 egli respinse energicamente gli inviti di Orlando ad attaccare l'esercito austro-ungarico di cui si profilava la crisi, rivendicando a sé soltanto, la condotta delle operazioni, tanto da tenere inizialmente il governo all'oscuro della preparazione dell'offensiva cui si era infine deciso. Anche con gli alleati franco-britannici ebbe buoni rapporti: non era sensibile come Cadorna alla necessità di una condotta unitaria della guerra di coalizione e rifiutò sempre di sferrare offensive senza altro obiettivo che l'alleggerimento indiretto del fronte francese, ma seppe dare un'impressione positiva di sicurezza e volontà di collaborazione e stabilire proficui contatti a livello di stati maggiori.

L'altro grande e indiscusso merito del D. comandante in capo fu il suo fattivo interesse per le condizioni dei soldati. In questo non era solo, perché nel 1918 era convinzione diffusa che il collasso di Caporetto fosse in gran parte dovuto alla stanchezza fisica e morale dei combattenti, che molto avevano dato e poco ricevuto; e infatti si moltiplicarono le iniziative per il miglioramento del regime di vita dei soldati e per una propaganda articolata e efficace. Un impulso decisivo, necessario per vincere le resistenze burocratiche a tutti i livelli, venne però dal D. stesso, che fece quanto era in suo potere per assicurare ai soldati un vitto curato e regolare anche in trincea, turni sicuri di riposo effettivo e di licenze, un maggior rispetto della vita e della salute anche in trincea (quindi alloggiamenti meno trascurati, qualche tentativo di igiene, un freno poi allo stillicidio di piccole e sanguinose azioni di scarso costrutto) e un'assistenza morale e politica non limitata alla pur benemerita attività dei cappellani. I risultati non furono dappertutto uguali (la tradizione agiografica certamente ne sopravaluta l'effetto), ma furono avvertiti dalle truppe e accolti con favore. Merito minore, ma non trascurabile, fu di saper evitare facili successi pubblicitari con l'ostentazione del suo interesse per i soldati: i suoi nuovi compiti gli impedivano di ispezionare personalmente le trincee e di interrogare i soldati, se non in via eccezionale, e il suo innato rispetto per l'ordinamento gerarchico dell'esercito lo indusse a limitarsi a dare le direttive generali che gli competevano, senza mettersi in mostra dinanzi ai giornalisti. Del resto tutto il suo stile di comando fu sobrio, come attestano i suoi proclami alle truppe.

Gli agiografi di Cadorna hanno posto in rilievo che fu l'accorciamento del fronte italiano (praticamente dimezzato con la ritirata sul Piave) a permettere al D. di assicurare alle truppe quei periodi di vero riposo e di costituire quelle riserve a disposizione del Comando supremo che negli anni precedenti erano state vietate dall'assillante esigenza di impiegare tutte le forze disponibili per guarnire il lunghissimo fronte. Parimenti è stato fatto osservare che due altri vantaggi di cui il D. fruì, ossia la forte produzione dell'industria bellica nazionale e le crescenti difficoltà dell'Impero austro-ungarico, erano il frutto dei lungimiranti sforzi del suo predecessore. Sono fatti indiscutibili (né li avrebbe negati il D., che credeva fermamente nella propria fortuna, con qualche concessione alla scaramanzia), così come è vero che nel 1918 il tempo lavorava ormai per gli eserciti dell'Intesa; ma bisogna anche ricordare che dopo Caporetto la posizione strategica dell'esercito italiano era molto più delicata (mancava lo spazio per un'ulteriore ritirata, soprattutto perché molti temevano le possibili reazioni interne); ed è un fatto che la ripresa del paese e delle truppe fu assai più lenta e contrastata di quanto non voglia la leggenda patriottica, che vede Caporetto come un "colpo di sprone" al cavallo di razza in difficoltà. Inoltre scarseggiavano ormai le riserve di uomini, cui Cadorna aveva potuto attingere con relativa larghezza: il D. non avrebbe potuto affrontare una battaglia di logoramento, perché la sua unica riserva era la classe del 1900, chiamata alle armi nel 1918, ma destinata a entrare in linea soltanto nella primavera del 1919. In ogni caso ci sembra priva di senso la contrapposizione polemica tra la strategia offensiva di Cadorna e quella difensiva del D.: assai più che dalla personalità dei comandanti in capo, l'andamento della guerra era deciso dal concorso di molte e diverse circostanze (a cominciare dal comportamento del nemico); e infatti l'asprezza dei contrasti personali non aveva impedito a Salandra, Sonnino e Boselli di condividere e appoggiare l'impostazione offensivistica di Cadorna, mentre Orlando e il D., dopo dieci mesi di piena collaborazione, si divisero nel settembre 1918 sull'opportunità dell'offensiva autunnale.

In sintesi, la scelta di una strategia difensiva era sostanzialmente obbligata fino al settembre 1918. Merito del D. fu di condurla con intelligente fermezza e di approfittare del rallentamento delle operazioni e della disponibilità di nuovi mezzi per riorganizzare l'esercito. Fu certamente positiva la proclamazione dell'inscindibilità della divisione, pedina base della condotta dei combattimento (così come il battaglione a un livello inferiore); semmai la decisione giungeva in ritardo (negli altri eserciti era stata fatta nel 1915) e non fu sviluppata fino ad arrivare alla divisione ternaria (cioè su tre reggimenti di fanteria, anziché sui quattro che la rendevano assai pesante). Positive furono anche la redistribuzione dell'esercito in sei armate di medie proporzioni e l'emanazione di nuove norme per le operazioni, che sulla base della dura esperienza prevedevano soltanto battaglie adeguatamente preparate e condannavano le azioni locali senza mezzi sufficienti e le costose offensive dimostrative (anche se poi il D. permise che il 24 ott. 1918 Giardino lanciasse la sua 4ª armata in improvvisati attacchi contro le munite posizioni austriache del Grappa, risoltisi in un massacro di fanterie privo di risultati concreti). Complessivamente insufficienti invece gli sforzi per un migliore addestramento delle truppe, anche perché all'efficienza degli ufficiali superiori forgiatisi nella guerra corrispondeva uno scadimento della media dei quadri inferiori, troppo giovani e inesperti. Deludente infine l'esperienza del corpo d'armata d'assalto, che cercava di replicare su grande scala, senza un adeguato potenziamento dei mezzi offensivi, l'eccellente rendimento negli assalti brevi della nuova specialità degli arditi.

Quanto al governo dei quadri, la contrapposizione tradizionale tra i siluramenti indiscriminati di Cadorna e la gestione umana e ragionevole del D. non sembra felice. Indubbiamente Cadorna non aveva avuto la mano leggera e nei molti esoneri da lui effettuati o avallati (217 generali, 255 colonnelli, altri 400 ufficiali superiori) si contano non pochi abusi o errori; ma l'eliminazione dei tanti ufficiali incapaci di adeguarsi alle durissime esigenze del conflitto era una necessità innegabile e i suoi effetti furono in sostanza positivi, tanto che il D. ereditò alti comandi (generali e colonnelli) complessivamente all'altezza della situazione, senza alcun dubbio più capaci di quelli del 1915 e non inferiori a quelli francesi o inglesi. Non ha quindi senso confrontare quantitativamente gli esoneri nei diversi periodi della guerra, perché avevano luogo in condizioni sempre diverse. In ogni caso gli esoneri di alti comandanti disposti direttamente dal D. o da lui avallati non furono pochi, anche se meglio accolti dall'opinione pubblica. In realtà la sua immagine tradizionale di comandante paterno e comprensivo è vera solo a metà: il suo fattivo interessamento per le condizioni di vita dei soldati, ad esempio, non implicava alcun allentamento della disciplina, né la sua consapevolezza della stanchezza delle truppe e della pesantezza dei sacrifici loro imposti comportava alcuna tolleranza verso gesti di protesta o rivolta. Nell'ultimo anno di guerra i tribunali militari continuarono a lavorare con il ritmo e i metodi dei tempi di Cadorna (mancano però statistiche disaggregate), anche se non furono reiterati gli inviti ufficiali a repressioni draconiane e non si ebbero più casi di decimazione di reparti.

Un giudizio complessivo dell'operato del D. come comandante in capo è certamente positivo. Non aveva l'inflessibile volontà offensiva e la personalità dominante di Cadorna, ma la sua prudente e serena fermezza, la sua comprensione della terribilità della guerra, quindi il suo interessamento autentico per le condizioni di vita delle truppe e la valorizzazione anche pubblica dei suoi subordinati, infine la sua capacità di collaborare con le forze politiche e di costruirsi un'immagine popolare senza cedimenti demagogici, ne fecero l'uomo giusto al posto giusto nella fase finale di una guerra logorante. Più della vittoriosa resistenza del novembre-dicembre 1917, in cui il Comando supremo ebbe limitate possibilità di incidere sul combattimenti, va riconosciuto al D. il merito di aver condotto l'esercito nelle migliori condizioni possibili alla battaglia decisiva del giugno 1918, che diresse con una combinazione di energia e prudenza (soprattutto nell'impiego delle riserve), riportando una delle maggiori vittorie difensive dell'intero conflitto. Fu indubbiamente lento a cogliere la precipitosa evoluzione della situazione internazionale nel settembre 1918, quando un'offensiva italiana diventava così necessaria da un punto di vista generale (l'Austria-Ungheria aveva avviato negoziazioni segrete per la sua resa) da giustificare rischi anche grossi in campo militare; ma poté recuperare con la battaglia di Vittorio Veneto, lanciata quasi all'ultimo momento utile contro un nemico sull'orlo del collasso, ma ancora temibile, e risoltasi nel clamoroso successo di cui la guerra italiana aveva legittimo bisogno (successo consacrato nel famoso "bollettino della vittoria", steso come di consueto dal colonnello D. Siciliani, e dal D. corretto, integrato e firmato). Fu ricompensato con il gran cordone dell'Ordine della Corona d'Italia (gennaio 1918), la nomina a senatore (febbraio 1918), la croce al merito di guerra (aprile 1918), il gran cordone dell'Ordine militare di Savoia (giugno 1918), il gran cordone dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro (giugno 1919, di moto proprio del re come per le decorazioni precedenti) e la promozione a generale d'esercito in data 4 nov. 1918.

Rimase a capo dell'esercito per un anno ancora dopo l'armistizio. Non fu un anno facile, per i grossi problemi concreti che si ponevano (la prima ricostruzione dei territori liberati, le occupazioni sulle Alpi e sull'Adriatico, la smobilitazione di quattro milioni di uomini) e più ancora perché la fine dello stato di guerra vedeva lo scatenamento di violente polemiche sull'esercito e dentro l'esercito. Nella primavera 1919 il D. seguì Orlando a Parigi, appoggiandone la politica espansionistica senza condividerla fino in fondo, perché una forte presenza italiana sulla sponda orientale dell'Adriatico non comportava difficoltà militari nell'immediato dopoguerra, quando gli Iugoslavi non disponevano ancora di forze organizzate di qualche consistenza (e quindi l'arresto della smobilitazione voluto dal governo in primavera mirava soltanto a impressionare l'opinione pubblica con una dimostrazione di forza), ma a lungo andare avrebbe rappresentato per l'esercito un peso insostenibile. Accolse quindi con favore la costituzione in giugno del governo Nitti con un programma di normalizzazione, designò personalmente il nuovo ministro della Guerra generale A. Albricci e collaborò pienamente alla smobilitazione dell'esercito condotta quasi a termine nell'estate. Le violentissime polemiche provocate tra luglio e settembre dalla pubblicazione dell'inchiesta ministeriale su Caporetto non potevano piacergli, per il loro carattere di critica radicale e di rifiuto della guerra italiana, ma non lo toccavano personalmente, perché le accuse si indirizzavano unilateralmente contro Cadorna e la sua gestione della guerra, risparmiando quasi sempre il periodo di comando del D. o addirittura esaltandolo acriticamente in odio al suo predecessore. Il dibattito fu chiuso in settembre con la riconciliazione di tutte le forze nazionali, concordi nel chiudere il processo al passato per meglio fronteggiare il tempestoso presente; e il collocamento a riposo di Cadorna, deciso dal governo non senza il consenso del D., assunse il significato di una condanna non giudiziaria, ma politica e morale dell'ex "generalissimo".

Il D. non poteva approvare l'avventura fiumana di G. D'Annunzio, che metteva in crisi la tradizione di obbedienza e di apoliticità dell'esercito a lui affidato, in difesa di un espansionismo adriatico in cui non credeva; appoggiò quindi la linea di Nitti e inviò a fronteggiare la sedizione il suo braccio destro Badoglio, ma non si espose di persona, così come non partecipò, allora e in seguito, alle polemiche sull'amnistia che nel settembre 1919 cancellò la gran parte dei processi di guerra, varata con il suo consenso e sotto il suo controllo (ingiustamente nota come amnistia ai disertori). Andava maturando la sua decisione di lasciare il comando dell'esercito, non perché Nitti volesse liberarsi di una personalità autorevole o Badoglio manovrasse per scalzare il suo capo (come fu detto senza elementi concreti di prova), ma perché la posizione di capo di stato maggiore dell'esercito in tempo di pace era troppo inferiore a quella di comandante in capo in tempo di guerra e troppo esposta a condizionamenti e polemiche interne e esterne per giovare al suo prestigio di vincitore del Piave e di Vittorio Veneto. Influivano anche le sue condizioni di salute (sul Carso aveva contratto una bronchite cronica che lo avrebbe progressivamente condotto alla morte per enfisema polmonare a 66 anni) e il suo umano desiderio di fruire degli onori e degli agi della sua posizione; ma erano anche emozioni e esigenze collettive e spontanee dell'opinione pubblica ad spingerlo ad assumere il ruolo di simbolo della vittoria al di sopra delle parti.

Nel novembre 1919 ricevette il collare della Ss. Annunziata. Subito dopo, in occasione dell'entrata in vigore dell'ordinamento provvisorio dell'esercito varato dal ministro Albricci, lasciò la carica di capo di stato maggiore dell'esercito a Badoglio e assunse quella di nuova creazione di ispettore generale dell'esercito di carattere essenzialmente onorifico. Nell'aprile 1920 un nuovo ordinamento provvisorio dell'esercito, improntato a economie di gestione e riduzione di organici, soppresse la carica di ispettore generale. Il D. si ritrovò di fatto pensionato, anche se, per salvaguardarne la posizione, il governo gli riconobbe la corresponsione a vita del trattamento economico di cui godeva, nonché l'indennità di carica spettante al capo di stato maggiore dell'esercito, a titolo di riconoscenza nazionale. Fu questo episodio (e probabilmente la crescente ostilità degli ambienti militari verso il presidente del Consiglio che cercava di ridurre le spese militari) a determinare la rottura tra F. S. Nitti e il D.: quest'ultimo firmò in giugno un ordine del giorno senatoriale di sfiducia verso Nitti, che nel 1948 lo ricambierà scrivendo di essersi attirato la sua ostilità per avergli rifiutato il titolo nobiliare e le regalie finanziarie cui aspirava.

Non rimase a lungo senza una carica di prestigio: avallò infatti la riforma dell'alto comando dell'esercito, promossa dai più illustri generali in odio alla posizione di preminenza di Badoglio, che nel febbraio 1921 trasferì i poteri del capo di stato maggiore a un organo collegiale di nuova creazione, il Consiglio dell'esercito, di cui il D. assunse la vicepresidenza e la direzione effettiva (presidente era il ministro della Guerra, unico civile in mezzo ai generali della "vittoria"). Il Consiglio dell'esercito non diede buona prova: riuscì infatti a bloccare tutti i tentativi di ristrutturare l'esercito sulla base delle istanze del movimento ex combattentistico, ma non ad assumerne l'effettiva responsabilità, determinando un sostanziale immobilismo. Il prestigio del D. non ne fu scalfito; nell'autunno 1921 compì una trionfale missione di propaganda negli Stati Uniti e in dicembre fu innalzato alla dignità di duca della Vittoria, che ne consacrava il ruolo nazionale. Il suo tenore di vita rimase assai semplice: un appartamento in affitto a Roma e un piccolo ufficio al ministero della Guerra, la bella villa a Napoli donatagli dalla cittadinanza nel 1919 e una casa in affitto a Capri per le vacanze estive.

Non prese parte attiva alle lotte politiche del 1920-22, né appoggiò pubblicamente il crescente successo del movimento fascista. All'inizio dell'ottobre 1922, mentre la crisi politica precipitava, il presidente del Consiglio L. Facta lo convocò con Badoglio per essere informato dell'orientamento dell'esercito e rassicurato sulla sua obbedienza in caso di gravi disordini. "Diaz e Badoglio - telegrafò Facta al re il 7 ottobre - assicurano che esercito, malgrado innegabili simpatie verso fascisti, farà suo dovere qualora dovesse difendere Roma"; il che significava che il D., pur rivendicando l'unità e l'obbedienza dell'esercito, aveva consigliato una soluzione politica della crisi e non la repressione dello squadrismo fascista (che sembra invece Badoglio si dicesse pronto a dirigere). Secondo testimonianze lacunose, ma nella sostanza attendibili, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre il D. ribadì questo atteggiamento direttamente al re (non sappiamo se per telefono da Firenze dove si trovava o con una corsa notturna a Roma in automobile), sconsigliando la proclamazione dello stato d'assedio con la nota frase: "l'esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova". Subito dopo accettò di entrare nel primo governo Mussolini come ministro della Guerra (con l'ammiraglio P. Thaon di Revel come ministro della Marina): un avallo fondamentale per il governo fascista dinanzi all'opinione pubblica nazionale e internazionale, nonché una garanzia per la monarchia e per l'esercito, come fu sottolineato nelle prime uscite pubbliche del governo, in cui Mussolini cedette al D. il primo posto e i maggiori applausi.

La principale preoccupazione del D. come ministro della Guerra nei primi diciotto mesi del Governo Mussolini fu il riordinamento dell'esercito, in modo da porre fine alla confusa situazione creata dal sovrapporsi della smobilitazione, dei tentativi di riforma e modernizzazione e della resistenza passiva delle alte gerarchie. Il nuovo ordinamento dell'esercito, che il D. varò nel gennaio 1923 con una celerità permessa dai pieni poteri ottenuti dal governo Mussolini e poi tradusse in atto nel giro di un anno, rappresentava un sostanziale ritorno all'anteguerra, come risulta dalle scelte qualificanti: una vasta intelaiatura di comandi e reparti, con 30 divisioni quaternarie, 125 reggimenti di fanteria, alpini e bersaglieri e 53 reggimenti d'artiglieria (rispettivamente 25, 116 e 51 nel 1910); la ferma di diciotto mesi, invece dei dodici decisi nel 1919, anche se ciò comportava una drastica riduzione del contingente annualmente incorporato; l'ampliamento del corpo ufficiali, salito a 18.400 uomini contro i 13.500 del 1910 (con 3.400 ufficiali superiori e generali contro 1.900) per fronteggiare la sovrabbondanza di quadri dovuta alle promozioni di guerra; la rinuncia a sviluppare l'armamento dei battaglioni di fanteria, l'arma chimica, i carri armati e i servizi automobilistici, e invece la conservazione di una nutrita rete di comandi, distaccamenti, magazzini, depositi e stabilimenti (fu ridotto soltanto il numero degli operai degli stabilimenti, licenziati in blocco nel giugno 1923 e riassunti a condizioni inferiori dopo una selezione politica).

L'ordinamento del D. ebbe indubbiamente il merito di porre fine ad una situazione di incertezze e di dare soddisfazione alle aspirazioni degli ufficiali in servizio; non seppe però tenere sufficiente conto delle esperienze del conflitto e delle aspirazioni degli ambienti di ex combattenti, che auspicavano un maggiore coinvolgimento del paese nella preparazione bellica, e invece conservò organici troppo ampi per le disponibilità finanziarie, tanto che al 1º apr. 1924 l'esercito contava solo 125.000 uomini, con compagnie di 69 uomini assorbiti per tre quarti da servizi e presidi caratteristici di un esercito di caserma. E infatti l'ordinamento, esaltato acriticamente dalla stampa, si rivelò subito inadeguato alla situazione e, fallito il tentativo di riforma radicale del ministro A. Di Giorgio nel 1925, lasciò il posto nel 1926 all'ordinamento Badoglio-Cavallero, che meglio contemperava tradizioni, esperienze belliche e disponibilità finanziarie.

Altre decisioni del D. come ministro della Guerra meritano di essere ricordate. Innanzi tutto l'avallo concesso alla costituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che raccolse tradizioni e uomini dello squadrismo per la difesa del governo fascista con una dipendenza personale da Mussolini, rompendo il monopolio della forza armata e il ruolo di tutore dell'ordine che l'esercito aveva tradizionalmente avuto e difeso. Secondo ogni evidenza, il D. accettò la Milizia come un prezzo da pagare al fascismo e manovrò per diminuirne il ruolo militare, rifiutando l'equiparazione dei suoi ufficiali a quelli dell'esercito e l'impiego bellico dei suoi reparti; negli anni seguenti la Milizia avrebbe perso peso politico e militare, pur continuando a esercitare un'influenza negativa sulla preparazione bellica nazionale. Concesse inoltre a Mussolini una drastica riduzione del bilancio dell'esercito per favorire il conseguimento del pareggio anche a scapito dell'efficienza dell'ordinamento da lui varato; e non si oppose alla costituzione di un'aeronautica indipendente, che pure nasceva non da una meditata scelta di politica militare, bensì dalla ricerca di successi propagandistici del regime fascista.

All'inizio del 1924 il D. maturò la decisione di lasciare il governo, perché pensava di avere ormai portato a termine il riordinamento dell'esercito e perché il lavoro d'ufficio (cui si era dedicato con la consueta efficacia) diventava pesante per la sua salute. Rinviò le dimissioni a dopo le elezioni di aprile per non indebolire il governo, poi il 30 apr. 1924 lasciò il ministero della Guerra al generale A. Di Giorgio, scelto col suo consenso. Fu subito nominato vicepresidente del comitato deliberativo della Commissione suprema di difesa. con compiti vasti quanto indeterminati (e in definitiva non mai esercitati) di impulso e coordinamento della preparazione bellica nazionale e tenne questa carica fino alla morte.

Negli anni seguenti il D. continuò a dividere il suo tempo tra l'ufficio romano, la villa di Napoli e le vacanze a Capri. Il 4 nov. 1924 fu nominato maresciallo d'Italia insieme a L. Cadorna: verso il suo antico capo aveva sempre mantenuto un ostentato distacco, ma ora (pur reclamando il primo posto nell'Annuario militare) non si oppose all'affiancamento dei due nomi, solennemente sancito nella cerimonia di conferimento dei bastoni di maresciallo svoltasi a Padova il 14 giugno 1925. Nella primavera 1925 si schierò con gli altri "generali della vittoria" nella battaglia senatoriale contro il riordinamento dell'esercito proposto dal suo successore Di Giorgio, risoltasi con il ritiro del provvedimento e le dimissioni del ministro. Poi diradò i suoi impegni per il lento aggravarsi della bronchite cronica contratta sul Carso.

Morì a Roma il 29 febbr. 1928.

Fonti e Bibl.: Il D. non lasciò opere a stampa, salvo alcuni interventi parlamentari e il discorso celebrativo La battaglia del Piave, tenuto alla Scala di Milano il 14 giugno 1923 e pubblicato in opuscolo. Né curò di raccogliere un archivio di interesse pubblico, tanto che, per quanto ci risulta, non esistono fondi documentari a lui intestati. Anche le carte private che G. Artieri poté vedere per il lavoro sotto citato sono sostanzialmente di interesse privato. Le non molte biografie sono di scarso livello scientifico, non prive di informazioni e testimonianze utili, come di errori e forzature, sempre in una prospettiva celebrativa centrata sull'esaltazione del suo ruolo dal Piave a Vittorio Veneto e sul suo appoggio al primo governo Mussolini: ricordiamo A. Baldini, D., Firenze 1929; G. Marietti, A. D., Torino 1933; R. Corselli, A. D., Milano 1937; G. Artieri, Il re, i soldati e il generale che vinse, Rocca di San Casciano 1951 (con lettere inedite fornite dalla famiglia). Cfr. inoltre V. Varanini, Per il duca della Vittoria, Piacenza 1928: un breve profilo che ne ricostruisce la carriera sulla base dello "stato di servizio", quindi senza le imprecisioni che affliggono le successive opere dello stesso autore, le biografie già citate, e addirittura l'opuscolo A. D., Roma 1935, curato dall'Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito.

Per la vita del D. fino al 1914 abbiamo utilizzato in primo luogo l'ampio saggio di A. Consiglio, La giovinezza di A. D., in Nuova Antologia, 1º e 15 sett. 1935, pp. 48-73 e 188-219. Inoltre lo "stato di servizio", cortesemente fornitoci dall'Ufficio storico dell'esercito, da cui abbiamo ricavato le tappe successive della sua carriera militare. Da vedere anche l'opuscolo La brigata Cremona, Pisa 1910, e A. Abbolito, Ai soldati d'Italia, Napoli 1930, che riporta un gruppo di lettere del D. dalla Libia (1912), assai interessanti per la documentazione del suo atteggiamento verso i suoi soldati. Per il periodo 1915-17, oltre alle biografie citate, si vedano in primo luogo le opere dell'Ufficio storico per il ruolo del D. nel Comando supremo 1915-16 e per l'azione delle unità da lui comandate: Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito, Le grandi unità nella guerra italo-austriaca 1915-18, Roma 1926; Id., Riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-18, Roma 1924-31; Id., L'esercito italiano nella guerra italo-austriaca 1915-18, Roma 1927 e ss. Inoltre V. Varanini, L'esercito della vittoria, Milano 1930, per l'azione del XXIII corpo d'armata nell'ultima offensiva sul Carso; Tenente X, Il generale D. prima e dopo Caporetto. Note di un testimone, Firenze s.d., per alcune note sulla personalità e lo stile di comando; A. Tosti, Condottieri dei nostri tempi, Milano 1939. Per l'ultimo anno di guerra le vicende del D. si confondono con quelle dell'esercito e della guerra italiana. Mancano studi specifici sul Comando supremo 1917-18, per cui dobbiamo rinviare alle opere dell'Ufficio storico dell'esercito e alle biografie già citate, nonché agli studi d'insieme sulla guerra; si vedano in particolare le rassegne della produzione storica e memorialistica in P. Pieri, L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino 1965, pp. 203-16; A. Monticone, La storiografia militare ital. e i suoi problemi, in Atti del Primo convegno nazionale di storia militare, Roma 1969, pp. 99-122; P. Alatri, La prima guerra mondiale nella storiografia ital. dell'ultimo venticinquennio, in Belfagor, 1972, 5, pp. 559-95; ibid., 1973, 1, pp. 53-96; G. Rochat, L'Italia nella prima guerra mondiale, Milano 1976. Tra le testimonianze dei contemporanei, si vedano in particolare G. Giardino, Rievocazioni e riflessioni di guerra, Milano 1929-30; E. Caviglia, Le tre battaglie del Piave, Milano 1935; O. Malagodi, Conversazioni della guerra, Milano-Napoli 1960. Meno interessanti le memorie di F. S. Nitti e V. E. Orlando. Utili testimonianze sull'ambiente del Comando supremo del D. in A. Gatti, Caporetto. Dal diario di guerra inedito, maggio-dicembre 1917, Bologna 1964, e F. Parri, Vittorio Veneto. Quella curiosa battaglia, in L'Astrolabio, 10 nov. 1968. Tra gli studi più recenti segnaliamo A. Monticone, Nitti e la grande guerra, Milano 1961; P. Melograni, Storia politica della grande guerra, Bari 1969; P. Pieri-G. Rochat, P. Badoglio, Torino 1974; e le accurate messe a punto di L. Mondini, Orlando, il Comando supremo e Vittorio Veneto, in Il Risorg. in Sicilia, n. s., IV (1968), I, pp. 3-17; Id., Vittorio Veneto, in Il Risorg., XXI (1969), 1-2, pp. 63-80; Id., L'armistizio e le sue conseguenze, in Storia e politica, XII (1973), 3, pp. 391-410. Per il dopoguerra rinviamo all'unico studio complessivo di G. Rochat, L'esercito ital. da Vittorio Veneto a Mussolini 1919-25, Bari 1967. La bibliografia sul periodo dimentica o sottovaluta i problemi militari; tuttavia utili integrazioni si possono trovare nei seguenti lavori (sempre ad Indicem): A. Gatti, Tre anni di vita militare ital., Milano 1924; A. Valori, La ricostruzione militare, Roma 1930; F. S. Nitti, Rivelazioni, Napoli 1948 (ora in Scritti politici, VI, Bari 1963: vedi in particolare pp. 407-13, per i rapporti col D. nel 1920); Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito, L'esercito ital. tra la prima e la seconda guerra mondiale, Roma 1954; P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, Milano 1959; A. Repaci, La marcia su Roma. Mito e realtà, Roma 1963; R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-25, Torino 1966; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari 1974; V. Gallinari, L'esercito ital. nel primo dopoguerra, Roma 1980. Notizie sulla vita privata del D. si possono ricavare dalle biografie già citate e da F. Rosso, A. D. dopo la marcia su Roma, Firenze 1934.

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