ARNALDO da Brescia

Enciclopedia Italiana (1929)

ARNALDO da Brescia

Antonino De Stefano

Nacque a Brescia, verso la fine del sec. XI o sul principio del sec. XII. Fu chierico, e forse anche insignito di qualche ordine minore, ma non prete o canonico regolare. Nulla sappiamo di preciso circa la sua giovinezza e la sua attività pubblica nella città nativa. Coinvolto probabilmente nelle agitazioni pro o contro il vescovo signore, pro o contro il clero simoniaco e concubinario, egli dovette schierarsi dalla parte di coloro che lottavano contro le attività e gl'interessi mondani dei chierici. Denunciato dal vescovo di Brescia a papa Innocenzo II, fu condannato dal concilio lateranense secondo del 1139 ad abbandonare l'Italia. Recatosi in Francia, nel momento in cui più veemente infieriva la contesa fra san Bernardo e Abelardo, A. prese a viso aperto le difese di quest'ultimo, che, secondo Ottone di Frisinga, sarebbe già stato suo maestro. Il concilio di Lens, del 1140, condannò l'uno e l'altro insieme. Dopo la nuova condanna. A. si rirugiò indisturbato a Parigi, ove, sulla collina di S. Genoveffa, aprì una scuola, esponendovi liberamente le Sacre Scritture, e inveendo contro la vita mondana del clero e la cupidigia dei vescovi. In particolare, contro san Bernardo dirigeva i suoi più velenosi strali polemici; rinfacciandogli vanità e invidia per ogni persona che non appartenesse alla sua scuola e che emergesse per meriti letterarî e religiosi. San Bernardo, profittando dell'avvenuta riconciliazione tra il re di Francia Luigi VII e il papa Celestino II, ottenne che A. venisse espulso dalla Francia. A. si rifugiò in Svizzera, accettando l'ospitalità dei canonici agostiniani di San Martino a Zurigo, e godendo, in un primo tempo, della protezione del vescovo di Costanza. Le ostilità suscitategli dalla sua attività riformatrice e l'implacabile persecuzione dì san Bernardo indussero A. ad abbandonare anche Zurigo e a rifugiarsi presso il cardinale Guido del Castello, allora legato papale per la Boemia e la Moravia, che gli fu amico e protettore, sordo alle insistenti ed appassionate esortazioni di san Bernardo perché lo abbandonasse al suo destino. Presso il cardinale, A. conobbe Gerhoh, abate di Reichersberg, il quale lo raccomandò nel 1144 a papa Celestino II, antico discepolo di Abelardo e successore d'Innocenzo II.

Poco tempo dopo, cioè nel 1145, troviamo A. in Roma. E qui s'inizia il periodo più importante e più fecondo della sua vita. Egli trovò la città in piena effervescenza politica. Da un paio d'anni, i Romani, cacciato il pontefice e il suo prefetto e impadronitisi del Campidoglio, avevano instaurato un regime repubblicano e ridato vita all'antica dignità senatoriale, riorganizzando nel 1144 il senato con la nomina del patrizio. Ravvicinatisi per breve tempo a papa Eugenio, erano stati assolti dalla scomunica, avevano consentito che i membri del senato fossero nominati da lui, e che al posto del patriziato venisse ripristinata la prefettura anteriore; ma poi subito avevano stracciato il compromesso e costretto il papa a rifugiarsi a Viterbo. A. venne a Roma, forse al seguito del cardinale Guido del Castello, che poté essere anche suo intermediario e conciliatore con papa Eugenio. Ad Eugenio, che si trovava a Viterbo, egli aveva promesso obbedienza e soddisfazione alla Chiesa romana. Secondo la testimonianza di Giovanni di Salisbury, lo stesso papa avrebbe imposto ad A., come penitenza, di recarsi a Roma per visitarvi i luoghi santi e le chiese. Così egli entrò nella città eterna in abito di pellegrino, tutto dedito a compiere la sua penitenza, mentre ferveva nella città la lotta contro il pontefice. Dopo essere rimasto qualche tempo estraneo alle turbinose vicende cittadine, A. cominciò a mescolarsi alla vita pubblica, rivolgendo al popolo la sua parola e predicando alla folla. Si determinava intanto la sua dottrina, e attorno alla persona di A. si raccoglievano seguaci e discepoli. Ma anche in questo secondo periodo, la sua attività presenta un carattere esclusivamente religioso. Per quanto acri e violente fossero le sue invettive contro gli ecclesiastici mondanizzati, esse erano ispirate all'ideale evangelico, e miravano a riformare i costumi sul modello della vita apostolica. Tutti i cronisti contemporanei chiaramente ci attestano il contenuto prevalentemente ascetico delle sue predicazioni, anche quando queste cominciano ad investire l'alta gerarchia ecclesiastica, i cardinali, e infine il papa. Gli elementi politici, che entrano a farne parte, sono considerati pur essi nel loro aspetto religioso e morale. Così, se egli afferma che i beni terreni appartengono ai laici, e per essi al principe, è soltanto perché il Vangelo non permette agli ecclesiastici di possedere. Durante i primi anni di nuova vita del senato, il movimento religioso suscitato dalla predicazione di A. dovette pertanto svolgersi parallelo a quello del nuovo regime politico. Ma le due correnti che, sia pure da un punto di vista diverso, miravano a combattere gli stessi nemici, dovevano necessariamente finire con l'incontrarsi e, in una certa misura, col fondersi. Alcuni aspetti della dottrina arnaldiana, come quelli della povertà assoluta del clero e della separazione del potere spirituale da quello temporale, dovevano determinare un intimo legame di solidarietà fra A. e gli artefici della rivoluzione comunale. Le sorti di A. parvero confondersì con quelle della nascente repubblica romana, quando, in cambio della protezione che questa gli accordava a difesa della sua persona, nuovamente messa al bando dalla ehiesa e insidiata nella sua esistenza, egli apportava il contributo della sua cultura, della sua eloquenza, del suo prestigio e dei suoi seguaci, numerosi specialmente tra le file del basso clero. Questa sua solidarietà con il partito rivoluzionario e la sua esplicita adesione alla repubblica, che egli s'era obbligato con giuramento a difendere, lo resero ancora più pericoloso e più inviso ai pontefici. Anzi, quando il partito democratico sembrò vacillare, A. apparve il maggiore ostacolo alla riconciliazione tra i Romani e il pontefice. Onde questi ne volle la testa, e Federico I, nemico delle libertà comunali e indifferente di fronte a un novatore religioso, si affrettò ad offrirgliela, per averne in cambio la corona imperiale. E, benché il senato lo avesse preso sotto la sua diretta protezione e ne avesse garantita l'incolumità personale, quando nel 1154 i guerrieri di Federico I irruppero nella città, infliggendo una fatale sconfitta al partito repubblicano, i Romani, in quell'ora di smarrimenbo, di cui invano subito si pentirono, lasciarono che i Visconti, partigiani dell'imperatore, s'impadronissero di A. e lo consegnassero al prefetto ponntificio Pietro, il quale, in nome del papa, che era allora Adriano IV, lo condannò a morte. A. fu impiccato e poi arso; le sue ceneri, per impedire che il popolo le venerasse come reliquie di un santo, furono gettate nel Tevere.

Più che come agitatore politico, A. deve essere considerato come un riformatore religioso. I contatti suoi con la politica sono piuttosto un fatto contingente; e sono dovuti, se mai, a quello stretto nesso che legava nel Medioevo tutte le manifestazioni della vita sociale con la vita religiosa. Ma, nelle sue linee essenziali, l'attività arnaldiana rappresenta il primo grande fluire di quelle correnti riformatrici, pauperistiche ed evangeliche, che costituiscono la tipica fermentazione religiosa dei secoli XII e XIII e hanno come fondamento comune l'obbligo di osservare i consigli evangelici e di imitare e seguire letteralmente il tenore della vita apostolica.

Fulcro dell'insegnamento di A. e scaturigine prima della riforma da lui predicata è la dottrina della povertà della Chiesa, in quanto tale povertà sta alla base di quella perfezione, quale venne formulata e praticata da Cristo e dai suoi discepoli. Secondo A., gli ecclesiastici che non vivevano in povertà assoluta non potevano essere considerati come veri seguaci di Cristo ne costituire la sua vera Chiesa. I vescovi, pertanto, non erano veri vescovi né avevano diritto all'ubbidienza dei fedeli. Il papa stesso, quando non vivesse secondo la norma evangelica, rinunziando al possesso dei beni temporali, non poteva essere ritenuto e ubbidito come un vero papa. Tutti i beni terreni appartengono alle autorità terrene e fanno capo al principe, da cui i laici ripetono il loro diritto. Partendo dal principio che non c'è vera vita cristiana senza la pratica della povertà assoluta, né gli ecclesiastici potevano possedere, né vescovi ed abati potevano godere di diritti feudali, né il papa poteva essere investito di dominio temporale. A. distingueva pertanto il potere temporale, spettante al principe, dal potere spirituale, esclusivamente morale e religioso, proprio del pontefice. Tutta la violenta predicazione arnaldiana è materiata dei concetti evangelici presi alla lettera, ma trae anche alimento dalla dottrina già largamente diffusa, cui l'atteggiamento di papa Gregorio VII pareva avesse conferito solenne autorità, secondo la quale l'ecclesiastico indegno - e tale era in prima linea il possessore di beni temporali - non avesse la virtù di operare il sacramento. Tuttavia, A., ispirandosi alle antiche consuetudini cristiane, ammetteva la legittimità delle decime, che dovevano provvedere il clero di un umile ma necessario sostentamento. Ottone di Frisinga accusa A. d'aver professato opinioni erronee riguardo all'eucaristia e al battesimo dei bambini. Poiché nel Vangelo l'eucaristia è presentata sotto l'una e l'altra specie, del pane e del vino, e il battesimo vi appare conferito solamente agli adulti, non è da escludersi che dalla prassi evangelica A., sostenitore dell'evangelismo integrale, abbia potuto derivare dottrine contrastanti alla tradizione ecclesiastica più recente. L'autore bergamasco del carme in onore di Federico I attribuisce ad A. la dottrina secondo la quale i fedeli dovessero confessarsi l'un l'altro, come appunto insegna l'apostolo Giacomo (V, 16), piuttosto che ricevere questo o altro sacramento dai sacerdoti indegni. Tali testimonianze piuttosto vaghe vanno controllate al lume del principio informatore di tutta l'attività religiosa di A.; ma, riferendoci ai tempi in cui operò e allo spirito da cui fu animato, difficilmente egli può essere considerato come un vero e proprio eretico. Comunque, i contemporanei notarono, di A. da Brescia, il grande ingegno, la singolare erudizione, la viva eloquenza di tribuno; ma non meno l'austerità dei costumi e la macerazione della carne. Egli "andò in giro predicando", così come il Vangelo comanda (W. Map, De nugis curialium). Poco o nulla egli ebbe a scrivere, certo nulla è pervenuto a noi. Fu soprattutto uomo d'azione. Come tale, S. Bernardo lo differenzia da Abelardo, uomo essenzialmente di pensiero. Nell'età moderna, di A. si è visto anche, e forse più, l'aspetto politico. L'Italia del Risorgimento ha celebrato in lui un assertore di pensiero civile, un restauratore di liberi ordini, strettamente collegato con la storia comunale e antipapale di Roma. Così specialmente la storiografia a tendenze neoghibelline.

Gli arnaldisti. - Il moto arnaldiano ci appare come l'iniziatore e l'animatore di tutto l'evangelismo popolare del basso Medioevo. Ciò che rimase dopo la morte di Arnaldo, non fu l'effimera creazione della repubblica romana, cui egli portò il suo contributo, ma il suo insegnamento religioso e morale, che si diffuse attraverso l'Italia e fuori, e che rivivrà nei varî moti ereticali a tipo popolare laico ed evangelico che, attraverso i secoli XII e XIII, chiameranno le folle alla pratica dei precetti apostolici. La propaganda arnaldistica ebbe viva e diretta efficacia specialmente sul mondo degli studenti e dei chierici, sul popolo minuto e sul basso clero. Si possono dividere gli arnaldisti in due principali categorie: i discepoli propriamente detti, che accompagnarono il maestro nelle sue peregrinazioni, e i seguaci, che ne accettarono, vissero e diffusero la dottrina riformatrice. Si ha sicura notizia dei discepoli di Arnaldo durante il suo soggiorno a Parigi: essi si distinguevano per la voluta e praticata povertà, vivendo con il maestro di elemosine raccolte questuando di porta in porta. Appartennero probabilmente al circolo dei discepoli di Arnaldo anche quei chierici con i quali Gerhoh di Reichersberg sostenne, intorno al 1149, una disputa in Roma, alla presenza di papa Eugenio III. Giovanni di Salisbury afferma che Arnaldo fondò in Roma una setta, che esisteva ancora al tempo in cui egli scriveva (circa il 1163), chiamata secta Lumbardorum, e che forse bisogna intendere "setta dei poveri", secondo il significato che la tradizione letteraria francese dava alla parola "lombardo". Una lettera di papa Eugenio III ai Romani attesta la solidarietà del clero minore con la causa di Arnaldo. La prima condanna degli arnaldisti risale al concilio di Verona del 4 novembre 1184, alla presenza di Lucio III e di Federico Barbarossa. In questo e negli altri decreti di condanna sino a Federico II, gli arnaldisti vengono nominati come se formassero una setta distinta dalle altre che insieme venivano condannate. Presto però il moto arnaldistico dovette perdere la propria fisionomia e confondersi con i moti affini, e forse da esso stesso generati, ai quali trasmise sia il programma pauperistico sia l'opposizione alla gerarchia ecclesiastica.

Fonti: Ottone di Frisinga, De gestis Friderici I (Mon. Germ. Historica, Script., XX); S. Bernardo, Epist., 189, 195, 196, 330 (Migne, Patrol. Lat., CLXXXII); Joh. Salisb., Historia pontificalis (Monumenta Germ. Hist., Scripi., XX); Gesta per imp. Frid. barbam rubeam in partibus Lombardie et Italie (ed. E. Monaci, in Archivio della Società Romana di Storia patria, 1878, I, pp. 466-474); Günter, Ligurinus seu de rebus gestis Imp. Caesaris Frid. I (Migne, Patrol. Lat., CCXII); Boso, Vita Adriani IV (Watterich, Vitae poitif., II); Gerhohus, De invest. Antichristi (Mon. Germ. Hist.: Libelli de lite, III); W. Map, De nugis curialium (Mon. Germ. Hist., Script., XXVII, 65).

Bibl.: Guadagnini, Apologia e vita di Arnaldo, Pavia 1790; Bodmer, Arnold von Brescia in Zürich und Rom, Zurigo 1777; Oderici, Arnaldo da Brescia, Brescia 1861; Franke, Arnold von Brescia und seine Zeit, Zurigo 1825; Cantù, Gli eretici d'Italia, Torino 1865; De Castro, Arnaldo da Brescia e la rivoluzione romana, Livorno 1875; Clavet, Arnaud de Berscia et les Romains du XII s., Parigi 1868; Giesebrecht, Arnold von Brescia, in Sitzungsberichte d. K. Ak. d. Wissenschaften zu München, 1873, I, p. 139 segg.; Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, trad. R. Manzato, IV, Venezia 1873, p. 567 segg.; Vacandard, Arnaud de Brescia, in Revue des questions historiques, 1° gennaio 1884; F. Tocco, L'eresia nel Medioevo, Firenze 1884, pp. 231-256; R. Bonghi, A. da Brescia, 2ª ed., Città di Castello, 1885; G. Paolucci, L'idea di A. da Brescia nella riforma di Roma, in Riv. stor. ital., IV (1887), pp. 669-684; A. Hausrath, Weltverbesserer im Mittelalter, II-III, Lipsia 1895; A. De Stefano, Arnaldo da Brescia e i suoi tempi, Roma 1921; P. Fedele, Per la storia del Senato romano nel sec. XII, in Arch. d. Soc. Romana di Storia Patria, XXXIV, p. 35 segg.; Hampe, Arnold von Brescia (Kämpfer), Berlino 1924; Breyer, Die Arnoldisten, in Zeitschr. f. Kirchengesch., XII, p. 3; G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (secoli XI-XIV), Firenze 1924.

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