ARPA

Enciclopedia Italiana (1929)

ARPA (fr. harpe; sp. harpa; ted. Harfe; ingl. harp)

Ettore PANIZZA
Francesco Vatielli

Strumento costituito da una serie di corde d'ineguale lunghezza, tese secondo una regolare intonazione, contenute fra una cassa di risonanza e una mensola, e destinate ad essere toccate a vuoto col pizzico o, eccezionalmente, per mezzo di un plettro.

Storia. - L'arpa è antichissima, e la sua oscura origine è narrata da alcuni racconti leggendarî. Secondo una di tali leggende, Apollo, sorpreso dal suono che rendeva l'arco di Diana, vi aggiunse altre corde e così ottenne l'arpa; un'altra leggenda, d'origine giapponese, parla d'uno strumento (yamatogoto) formato di sei diversi archi legati uno vicino all'altro. L'etimologia non ci offre maggiori elementi per precisare l'origine dell'arpa, giacché il vocabolo è di data relativamente recente e con ogni probabilità d'origine germanica; il vocabolo harpa si trova le prime volte usato in un noto verso di un carmen di Venanzio Fortunato, e nel Satyricon di Marziano Capella.

Le raffigurazioni delle più vetuste arpe risalgono all'antico impero egiziano: queste arpe non erano ne grandi di dimensioni né ricche di suoni. La cavità della cassa era ricoperta da una pergamena. Gli Egiziani conoscevano già l'arte di fabbricare corde con minugia di gatto e di pesce. Le arpe del medio impero egiziano sono di formato più grande, ma conservano lo stesso numero di corde. In quelle raffigurate nei monumenti delle medesime dinastie si possono notare diversi ornamenti, e questa consuetudine di decorazioni si accentua negli esemplari appartenenti al nuovo impero; splendidi anche per preziosità di materiale sono quelli che si ammirano nelle tombe di Ramses III. Tali arpe erano capaci di undici a tredici corde. Pure a quest'ultimo periodo del nuovo impero appartengono arpe di piccolo formato che potevano essere di due sorta: le une curvilinee, le altre di formato angolare con un maggior numero di corde (ventidue).

Queste arpe erano probabilmente d'origine non indigena. Le arpe angolari infatti s'identificano con quelle usate dagli Assiri e dai Caldei.

La grande arpa degli Assiri è come un'arpa egiziana rovesciata. La cassa di risonanza è collocata in alto, la colonna, o giogo, è da essa distinta e con essa forma un angolo retto. La si sonava stando in piedi e attaccandola al corpo per mezzo di una cinghia; le corde erano da venti a venticinque e terminavano con una specie di frangia formata da nappe. Nel British Museum di Londra se ne conservano esemplari bellissimi. Il tipo dell'arpa assira si ritrova nella Persia, nella Turchia, nella Corea e nel Giappone.

Quanto agli Ebrei, troviamo due termini: uno, kinnôr, è propriamente l'arpa, l'altro, nebhel, indica uno strumento che doveva rassomigliare piuttosto alla lira o alla cetra dei Greci; ambedue avevano la cassa di risonanza in basso, e da essa partivano i due bracci dell'arco sulla cui sommità si rannodavano le corde.

L'uso della lira e della cetra tanto presso i Greci quanto presso i Romani rese quasi nulla, o almeno assai rara, la pratica dell'arpa. In Grecia e in Roma l'arpa assunse la forma triangolare (trigone che si vede in parecchie pitture vascolari. Una delle più interessanti è quella che mostra una donna in costume orientale seduta sopra uno sgabello, in atto di sonare con ambo le mani un'arpa finemente scolpita.

Nelle raffigurazioni dell'arte romana gli esemplari dell'arpa sono più piccoli e di forma rigidamente geometrica; e i loro modelli sono varî, analoghi tanto a quelli assiri quanto a quelli egizî dell'ultimo periodo. Una lacuna di parecchi secoli esiste nella storia dell'arpa durante il primo Medioevo fino a quasi tutto il sec. XII della nostra era. Gl'Inglesi e i popoli di razza celtica, Gallesi, Scozzesi, Irlandesi, vantano la priorità nell'uso dell'arpa, designata sotto nomi diversi: chrotta, rotta, cytara anglica, telyn, ecc., sempre però di forma molto vicina alla cetra.

Nel sec. XII si conoscevano nell'Irlanda due arpe di diverse dimensioni: l'una di piccolo formato usata dai missionarî e dai religiosi, l'altra di grande formato usata dai professionisti laici. L'arpa irlandese era tenuta sulle ginocchia del sonatore: e il corpo sonoro appoggiato contro il petto verso la spalla sinistra. Le corde si pizzicavano o con le unghie o con l'estremità del polpastrello. Esemplare magnifico per finezza e perfezione di lavoro è l'arpa che si conserva nel museo di Dublino, e che è conosciuta sotto il nome di Brian Born's Harp, poiché si credeva che fosse appartenuta al re Brian, ucciso in battaglia nel 1014. Pare invece che essa dati dal 1220 circa, e che fosse stata inviata dall'Irlanda nella Scozia come prezzo di riscatto di un bardo appartenente alla corte reale. Quest'arpa, che misura 72 cm. d'altezza, conteneva 30 corde. Gli ornamenti sono d'argento finemente cesellato e cosparsi di preziosi cristalli.

Giraldo Cambrense si profonde in molte lodi sugli arpisti irlandesi del suo tempo (sec. XIII); ne celebra la purezza del suono, l'agilità, l'esattezza delle graduazioni sonore e della misura.

L'arpa ebbe una grande parte nella vita irlandese: figurava nelle monete, negli stemmi gentilizî ed entrava anche nei proverbî popolari, uno dei quali, ad esempio, diceva: "Tre cose sono necessarie all'uomo: una donna, un giaciglio e un'arpa".

Lo strumento che i Gallesi designavano col nome di telyn era una specie d'arpa irlandese, ma di formato più grande e di linea più slanciata. L'arpa gallese primitiva aveva da dieci a diciassette corde poste tutte su di una sola fila, più tardi si ebbero fino a tre file di corde.

Esiste dell'autentica musica gallese per telyn, che risale al sec. XII, e che qualche secolo più tardi fu tradotta e in principio del secolo scorso pubblicata sotto il titolo di Myvyrian Archaiology of Wales: essa è tratta da un manoscritto che si conserva al British Museum di Londra.

Come nell'Irlanda, l'arpa aveva molta importanza anche nella società gallese. Il citato autore narra nella Descriptio Cambriae che coloro che andavano nelle città gallesi passavano le giornate conversando con le donne e godendosi il suono delle arpe, e che ogni famiglia o tribù del Galles metteva al di sopra di ogni scienza l'abilità nell'arte dell'arpa.

Delle arpe scozzesi, che somigliano esattamente a quelle irlandesi, ci sono rimasti due esemplari singolarissimi: la Queen Mary's Harp e la Lamont Harp. La prima (che è probabilmente anteriore al secolo decimoquarto e che appartenne già alla regina Maria di Lorena) si trova nel Museo di Edimburgo: conteneva 29 corde e nella forma corrisponde all'arpa irlandese di Brian. Lo stesso si dica della Lamont Harp, che è forse di un po' anteriore all'altra. Non meno celebri degli arpisti irlandesi e gallesi erano gli arpisti scozzesi; anzi, secondo l'opinione del Grialdo, essi li superavano.

L'arpa irlandese, come in generale quelle usate da popoli settentrionali, si propagò assai per tempo in tutte le nazioni. La troviamo nei paesi germanici usata dai Minnesänger, a datare dal dodicesimo secolo, nella forma di un'arpa di modeste proporzioni e di formato maneggevole contenente da nove a venticinque corde, conosciuta sotto il vocabolo di Harte o Harpfe; nei paesi fiamminghi e in Francia essa è usata dai jongleurs, dai ménestrels e dagli harpeurs specializzati, questi ultimi particolarmente prediletti dalle corti e dalla società aristocratica, e infine in Spagna e in Italia. Nel Sollazzo di Simone Prudenzani d'Orvieto (tratto da un manoscritto italiano del Trecento e pubblicato nel 1913) è rappresentato un personaggio che intramezza assolo per arpa e madrigali e ballate di maestri dell'Ars nova.

Durante il Rinascimento, come l'arpa continuò a godere del maggior favore nelle corti dell'Inghilterra, della Francia e della Germania, così in Italia fu molto pregiata per la sua sonorità singolare e delicata e cominciò a far parte delle orchestre dei primi melodrammi. Nelle splendide e numerose corti nostre si facevano ammirare virtuosi e virtuose d'arpa, quali Orazio dall'Arpa, Iacopo da Bologna, Giovanni Battista Giacomelli, Adriana Basile, Laura Peperara, Tarquinia Molza.

Nella seconda metà del Cinquecento, il su nominato G. B. Giacomelli introdusse in Roma un'importante varietà d'arpa: l'arpa doppia, che aveva l'assai notevole vantaggio di rendere la scala cromatica completa. L'invenzione di questo strumento in realtà deve dirsi irlandese, e Vincenzo Galilei nel suo noto Dialogo della musica antica e della moderna (Firenze 1581) pare confermarlo pienamente; ma l'averla perfezionata e messa in onore è merito di maestri italiani. L' arpa doppia era formata da due arpe incrociate all'estremità superiore e collocate sopra una comune ampia cassa armonica in forma di piramide. Contava 58 corde di budello, delle quali ventinove erano distribuite alla sinistra e ventinove alla destra dell'esecutore. Nella sezione grave le prime sedici corde della parte sinistra formavano la scala diatonica, e quattordici di contro a destra corrispondevano ai relativi suoni cromatici: nella sezione acuta la disposizione era invertita. Per di più le corde rispondenti a re e a la si trovavano tanto da una parte quanto dall'altra, per rendere più facile l'esecuzione e più pratica la posizione delle mani. Quest'arpa, descritta dal Galilei, si trova anche raffigurata nel Theatrum instrumentorum (1620) del Praetorius. Essa doveva essere certamente uno strumento trattato da concertisti di quel tempo. Ma accanto all'arpa doppia persistevano arpe di modello più piccolo, cioè arpe semplici, dette anche comuni, a suoni esclusivamente diatonici.

Dobbiamo ritenere che la musica d'arpa di quest'epoca fosse più che altro affidata alla facoltà dell'improvvisazione, tanto nelle composizioni a solo, quanto nell'accompagnamento del canto, dove l'arpa fondava sul basso continuo la libera realizzazione armonica. Fanno eccezione a questa consuetudine l'introduzione e l'accompagnamento che il Monteverdi scrisse nell'atto 3° del suo Orfeo.

Nel Seicento l'arpa aveva un'estensione di quattro ottave a cominciare dal do2 Alcuni costruttori d'arpe, nell'intento di dare allo strumento la capacità di modulare i propri suoni, verso il 1660 escogitarono di fissare nella mensola dello strumento alcuni uncinetti che, fatti agire dalla mano del sonatore, permettevano di accorciare la corda e di farle rendere il semitono. Il sistema non era certo dei più pratici per il fatto soprattutto che nel momento dell'azione non si poteva suonare che con una mano soltanto. Ma sessant'anni più tardi (1720) il bavarese Christian Hochbrucker, pensò di applicare all'arpa un meccanismo a pedali che raggiungesse lo stesso scopo senza impegnare le mani dell'esecutore. Il meccanismo era naturalmente molto rozzo ed elementare. A cinque pedali situati alla base dello strumento corrispondevano altrettante leve doppie unite a tiranti che passavano entro la colonna. L'arpa era accordata in fa naturale, e i cinque pedali rispondevano alle note si, fa diesis, do diesis, sol diesis, re diesis.

Dopo il Hochbrucker vi furono molti abili costruttori che cercarono di perfezionare il suo sistema, quali il Gàiffre, il Louvet, il Lépine, il Salmon, il Holtzmann. Ma soprattutto si distinsero il Nadermann e i Cousineau. Nell'esemplare costruito dal primo per la regina Maria Antonietta (esemplare magnifico per finezza di lavoro e per ricche ornamentazioni) gl'inconvenienti osservati nelle arpe precedenti (spostamento, cioè, del piano della corda mossa dal pedale) era ovviato dalla rotazione dell'asse del cavicchio sul quale la corda era posata. Ma questo meccanismo non rendeva certo lo strumento capace di mantenere a lungo l'intonazione. Nell'arpa dei Cousineau invece, la corda passava in mezzo a due bastoncini (béquilles) che per il movimento di pedale premevano su di essa accorciandola e determinando il suono cromatico.

Il meccanismo Cousineau fu ampliato nel 1812 da alcuni costruttori che munirono l'arpa di un sistema di quattordici pedali disposti in due file che erano però quanto mai difficili a far agire. Intanto Sebastiano Erard due anni prima aveva trovato una meccanica quanto mai ingegnosa e molto più pratica. Prese come punto di partenza l'arpa a semplice movimento accordata in do bemolle e la munì di un sistema a forchette: in esso al posto degli uncinetti e dei bastoncelli mise dei dischi di rame armati di due bottoncini fra i quali passava la corda. Era in sostanza un miglioramento dell'arpa Cousineau. Ma due anni dopo egli perfezionò ancora questo sistema a forchetta a movimento semplice, trasformandolo in movimento doppio. Invece di un disco ne mise due: il primo accorciava la corda d'un semitono; il secondo d'un altro semitono. 6ette pedali a due intacche e rispondenti rispettivamente a tutte le corde omonime mettono in azione questo sistema di meccanica, rendendo possibile con un pedale tre suoni: il pedale nella sua posizione normale dà la nota fondamentale; collocato nella prima intacca, la eleva di un primo semitono; collocato nella seconda intacca di un altro semitono. L'arpa attuale ha un'estensione di sei ottave e mezzo.

In questi ultimi anni Gustavo Lyon della Casa Pleyel ha costruito un'arpa senza pedali (arpa cromatica), capace di dare tutti i toni e i semitoni. Per contenere nel modello normale dello strumento una quantità così ragguardevole di corde, il Lyon pensò d'incrociarle, distinguendo con colori diversi quelle che rendevano un suono diatonico. Questo incrociamento è collocato nella regione media delle corde. L'arpa cromatica, liberandosi della complicata azione dei pedali dell'arpa Erard, mirava a rendere più facile e immediata l'esecuzione di certe musiche moderne estremamente variabili nelle modulazioni. Se non che la complicazione della diteggiatura, derivante dalla disposizione delle corde, rende troppo spesso difficile l'esecuzione anche di semplici passi, di accordi, di glissando, ecc.

Metodi. - I più rinomati sono quelli del Bochsa, del Godefroid e del Labarre, e fra gl'italiani quelli del Lorenzi e del Ruta. Recentissimo e interessantissimo il metodo dello spagnuolo Salzado, nel quale l'autore, espertissimo, addita tutte le più moderne e spesso nuovissime e originali maniere e possibilità della tecnica arpistica.

Sono molti i nomi di antichi sonatori e virtuosi d'arpa tramandatici in memorie e in cronache vetuste: così in parecchi romanzi francesi del sec. XII sono ricordati Faustonnet, Dancel, Perrin de Seng; arpisti celebri, come Gautier l'inglese, Baudenet Fresnel, Jean de Joudoigne, erano al servizio delle corti di Filippo l'Ardito e di Carlo d'Orléans; alla corte dei Savoia nei secoli XIV e XV si trovavano Donato da Venezia, Giovanni d'Ostenda, Giannino da l'Arpa, ecc.; alla corte d'Aragona un fiammingo Hanequi e un italiano Piero da Gaeta, toccadores de arpa. Di arpisti e arpiste celebri nelle corti del Rinascimento abbiamo già fatto menzione.

Venendo a secoli più a noi vicini, meritano uno speciale ricordo Madame de Genlis ed Elia Parish-Alvars nato a Londra, e che il Berlioz definiva il Liszt dell'arpa, non solo per la straordinaria abilità della sua tecnica e per il fascino delle sue interpretazioni, ma anche per i meriti che gli spettano come creatore della moderna tecnica del suo strumento. Francesco Giuseppe Dizi, dopo un'avventurosa esistenza, aiutato benevolmente dall'Erard, divenne professore d'arpa delle principesse reali a Parigi; il marchese d'Alvimare fu concertista particolare di Napoleone I e maestro dell'imperatrice Giuseppina; il De Marin, celebratissimo nell'alta società del Secondo Impero in Francia, rifugiatosi in seguito ad una condanna a Londra, percorse poi come concertista molti paesi d'Europa e d'America; Carlo Bochsa e i due fratelli Giulio e Felice Godefroid, oltre che esecutori famosi, furono rinomati autori di composizioni per arpa.

Singolarissima è la schiera dei professori d'arpa del conservatorio di Parigi: primo, il Nadermann, a cui succedettero i due Prumier (padre e figlio), il Labarre, il Hasselmans, il Tournier. Fra gli arpisti italiani odierni nomineremo Tedeschi, Grossi, De Dominicis, Molher, Magistretti ecc.

Uso orchestrale. - Nel suo uso primitivo l'arpa servì quale istrumento solista e anche accompagnatore. La sua funzione di strumento orchestrale fu agevolata dalle trasformazioni apportate dall'Erard.

Certamente lo strumentatore, nello scrivere per arpa, deve tener presente il meccanismo dei pedali e ricordare che l'arpa è uno strumento diatonico e non cromatico; perciò, differenziandosi la sua tecnica da quella del pianoforte, dovrà evitare i passaggi cromatici troppo rapidi.

Ettore Berlioz fu uno dei primi a trarre dall'arpa effetti nuovi in orchestra. Dopo di lui essa acquistò ancora importanza, e oggi è parte integrante di una partitura. I più svariati effetti si possono ottenere con i suoi accordi arpeggiati, tanto soli, quanto accompagnati da altri istrumenti.

Oggi molto si usa dell'arpa la sonorità nelle note basse: citiamo un passo di Debussy, notevolissimo per il suo effetto d'una festa lontana; si noti l'impasto dell'arpa con i timpani e i pizzicato dei violoncelli e contrabbassi.

Per indicare il suono armonico è necessario, come si vede dall'esempio seguente, collocare sopra o sotto la nota che si desidera armonica, un piccolo zero.

Un bell'esempio:

L'ultimo mi basso (+) non esce, ma è stato scritto certamente per conservare la linea melodica.

Nell'orchestra moderna, specialmente impressionistica, l'arpa ha funzioni non solo di ripieno nelle sonorità vellutate, ma anche di parte reale e spesso di legame, specialmente per mezzo dei glissando più o meno rapidi.

Scrivendo accordi a suoni reali (non armonici), sarà bene attenersi a una disposizione ampia.

I trilli sono di buon effetto se eseguiti con le due mani.

Un effetto che avvicina l'arpa alla spinetta si ottiene sonando vicinissimo alla cordiera. Si usa anche frequentemente, per imitare il suono della chitarra, introdurre attraverso le corde dell'arpa una piccola lista di carta. Il suono si altera, e le vibrazioni della corda, urtando contro la carta, producono un lieve fruscio che rievoca la sonorità del suddetto strumento. Una speciale piccola arpa (imitante il liuto) è anche stata introdotta da Wagner nei Maestri Cantori (serenata di Beckmesser). Nelle opere teatrali l'arpa è spesso impiegata sul palcoscenico per accompagnare le voci (v. Trovatore, Aida, Crepuscolo degli Dei). L'opera in cui l'arpa ha una parte di maggiore importanza che nelle altre, è il Tannhäuser di Wagner, ove però il suo uso continuato finisce col generare monotonia.

Molta musica è stata scritta per arpa sola, trattata come strumento da concerto. (V. Tavv. CXI-CXII).

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