PUNICA, Arte

Enciclopedia dell' Arte Antica (1965)

Vedi PUNICA, Arte dell'anno: 1965 - 1996

PUNICA, Arte

G. Ch. Picard
G. Pesce
G. Garbini

L'arte p. rappresenta quella corrente artistica che fa capo a Cartagine. Di derivazione fenicia, essa si diffuse nell'area del vasto impero creato da Cartagine nel bacino del Mediterraneo, che comincia con la colonizzazione di Ebuso (Ibiza) nel 654 e prosegue quando le colonie fenicie d'occidente, con la decadenza di Tiro, si stringono in lega con Cartagine. Alla metà del VI sec. Malco combatte in Libia, in Sicilia, in Sardegna, e a lui succede Magone, che è considerato il fondatore di questo impero, estendentesi nella Spagna meridionale con Gades (Cadice) e Malaca (Malaga); nelle Baleari; in Sardegna con le stazioni di Nora, Sulci, Olbia, Tharros; in Sicilia con le colonie di Mozia, Panormo, Solunto, dominando tutta la parte occidentale dell'isola; in Africa con Sabratha, Oea, Leptis Magna, Hadrumetum, Utica, e le due Ippone (Biserta e Bona), le colonie più occidentali, e sulla costa marocchina Lixus e uria serie di stazioni commerciali. I Cartaginesi, uniti agli Etruschi, riescono a contrastare l'espansione focese nella prima metà del VI sec., e a mantenere, pur essendo sconfitti, le loro colonie nella Sicilia occidentale nonostante la lotta contro Gelone di Siracusa, culminante nella sconfitta cartaginese di Imera nel 480 circa. Durante il V sec. l'impero cartaginese si stendeva su circa 70.000 kmq con tre o quattro milioni di abitanti, dei quali poco più di un quinto di origine fenicia. Verso la fine del V sec. s'inizia l'accanita e dura lotta contro i Greci per il possesso della Sicilia, che si protrae per più di due secoli, e nella quale Cartagine impegnò le sue migliori energie. Gli storici greci che narrano questi avvenimenti costituiscono le fonti principali per le conoscenze delle vicende di Cartagine. La strenua resistenza dei Greci al nemico punico, più forte di loro, salvò la cultura classica, e nel III sec. questo compito passa ai Romani, culminando nella distruzione di Cartagine nel 146 a. C.

Il carattere sostanzialmente fenicio dell'arte p. assume una varietà di toni dai contatti molteplici con i varî sostrati e con le diverse correnti artistiche che agirono nel vasto impero cartaginese, e particolarmente con la corrente greca.

1. Architettura. - Pochi sono gli edifici punici pervenuti sino a noi. A Cartagine, oltre alle tombe, sono state trovate le rovine di alcune case, soprattutto sulla collina S. Luigi (J. Ferron-M. Pinard, in Cahiers de Byrsa, v, 1954, pp. 31-264; G. Picard, in Rev. Arch., 1957, 2, pp. 21-32), due piccoli templi (cfr. più avanti), tracce delle mura esterne (R. Duval, in Compt. Rend. Ac. Inscr., 1950, pp. 53-59; per i porti consultare l'ultimo lavoro di L. Baradez, in Karthago, ix, 1959, pp. 47-78). Gli scavi di Kerkuan sulla punta del Capo Bon, hanno portato alla luce una borgata punica senza dubbio distrutta nel 146 a. C., ma sono ancora praticamente inediti (P. Cintas, in Compt. Rend. Ac. Inscr., 1953, p. 522). Sono anche da considerarsi puniche le tombe costruite da architetti cartaginesi per prìncipi numidi (mausolei di Thugga, Suma del Krubs, Medracen, Tomba della Cristiana). I cippi e le stele votive, inoltre, ci presentano piccole riproduzioni di templi, e possediamo un discreto numero di elementi architettonici isolati (v. Monumento sepolcrale).

I Cartaginesi hanno fatto uso della tecnica a grandi blocchi a spigoli vivi (per esempio nelle tombe costruite nel VI sec. a Cartagine) e, nell'epoca ellenistica, di un tipo di muratura, costituita da pezzi di pietra legata da elementi verticali, che persisterà in Africa sino alla fine dell'èra antica. Facevano largo uso di muri di terra battuta e di mattoni crudi. In architettura non usavano mai il marmo, mentre si servivano spesso del calcare rivestito da stucco. Rimane incerto il problema della copertura, ma sicuramente il sistema più usato era quello a terrazza. All'epoca ellenistica il pavimento è fatto di cemento, talvolta incrostato da marmo: sono forse questi i pavimenta punica introdotti a Roma nel II sec. a. C.

Una stele di Hadrumetum rappresenta alcuni capitelli hathorici; un recente capitello di Utica sembra una forma degenerata del capitello lotiforme. Ma a partire dal V sec. i più diffusi sono il capitello eolico e quello ionico; i capitelli ionici dei cippi votivi del santuario di Tanit sono caratterizzati dalla curvatura del canale e dalla presenza tra il fusto e le volute di un kymàtion composto da un abaco ed un echino come un capitello completo. Si conoscono inoltre numerose varianti di capitelli ionici di fattura punica testimonianti influenze disparate, le più recenti delle quali sono, secondo A. Lézine, di origine italosicula. La base è attica, senza plinto. A. Lézine ritiene che l'ordine dorico sia stato introdotto posteriormente a quello ionico; il più antico capitello dorico, conservato al Museo del Bardo, proverrebbe dal santuario di Demetra costruito nel 396. Dal V sec. a. C. in poi l'"ordine punico normale" quale lo si vede per esempio nel mausoleo di Thugga, accompagna colonne ioniche con una trabeazione egiziana formata da un architrave e da una gola egiziana. Si conoscono però anche edifici con trabeazione greca; il più notevole è un naìskos di Thuburbo Maius, certo posteriore al 146 a. C., ma che possiede colonne ioniche dai capitelli diagonali il cui esatto equivalente è stato rinvenuto a Cartagine nel quartiere punico della collina S. Luigi; la trabeazione è composta da un architrave ridotto ad un'unica fascia su cui posa direttamente una cornice che è al contrario molto sviluppata. La copertura è rettilinea a terrazza. A. Lézine ha concluso a tale riguardo che i Cartaginesi non hanno mai adottato il tetto a doppio spiovente né il frontone triangolare; le stele a frontone e gli acroterî che rappresentano il tipo normale di ex voto nel santuario di Tanit dal IV sec. in poi, riprodurrebbero i tabernacoli situati nell'interno del tempio e non la cella stessa. Tale conclusione è stata invece smentita da una stele che mostra chiaramente una cappella a frontone che si eleva all'aperto su uno zoccolo sopraelevato, dietro l'altare del sacrificio (M. Hours, in Cahiers de Byrsa, i, 1951, xxviii, a). I mausolei del tipo di Thugga sono d'altra parte ricoperti da un tetto piramidale a quattro facce.

Il tipo più semplice di santuario punico, rappresentato da quello di Tanit a Cartagine, è costituito da un'area scoperta in cui gli ex voto dei sacrifici si accumulavano intorno alle fosse di cremazione (alle quali converrebbe dare il nome di tofet, secondo il suggerimento di J.-G. Février, in Journal Asiat., 1960, p. 167 ss.). Può però darsi che su quella stessa area sorgessero piccole cappelle; fin dall'VIII sec. su quella di Cartagine era stato costruito un santuario in miniatura comprendente una stanza chiusa, un cortile con altare e un muro a labirinto (P. Cintas, in Rev. Tun., 1948, pp. 1-31). Sin dalle origini, inoltre, Cartagine possedeva certamente templi veri e proprî con una o più cellae chiuse da una cinta di mura; sino al VI sec. queste cellae dovevano avere l'aspetto di tempietti egiziani molto semplici, come i cippi del santuario di Tanit che le riproducono. Sono state rinvenute due cellae dei secoli III-II, una a Salammbo, ad O del santuario di Tanit (L. Carton, Sanctuaire punique découvert à Carthage, Parigi 1924), l'altro Cad Amilcar (A. Merlin, in Bull. du Comité des Travaux, 1919, pp. 178-199).

Quella di Salammbo era rettangolare, divisa all'interno in due locali con in fondo una banchina protetta da un baldacchino, sulla quale si ergevano le statue del culto. In un piccolo tempio di Thuburbo Maius, descritto da A. Lézine, l'anticamera è sostituita da un pronao distilo di tipo greco; lo stesso si nota nel naìskos prima citato. La cella è solitamente sopraelevata su un podium con scala, ed è preceduta dall'altare dei sacrifici. Il santuario di Ba῾al e Tanit a Thinissut (Capo Bon) descritto da A. Merlin (Notes et Documents, iv, 1910) offre una pianta complessa, molto arcaica, nonostante risalga solo agli inizî dell'Impero: tre cortili adiacenti racchiudevano cappelle, ciascuna formata da un solo locale quasi quadrato; all'esterno della cappella principale erano ricavate nicchie che racchiudevano statue. Indubbiamente analoga a questa era la disposizione generale del tempio di Ḥatḥōr Miskar a Mactar, descritto da un'iscrizione neopunica della metà del I sec. d. C.; una cripta posta sotto la cella principale custodiva gli oggetti sacri. Nei templi più importanti il cortile era circondato da portici e dava accesso alle sale attigue (alloggi dei sacerdoti, sale dei banchetti). All'epoca imperiale queste piante si regolarizzano, sfociando nel tipo rappresentato dal tempio di Saturno a Thugga.

Le case della collina S. Luigi sono formate da stanze rettangolari contigue, ciascuna con l'accesso sulla strada e senza cortile interno; una delle case di Kerkuan però presenta un peristilio a quattro colonne. La casa a peristilio dell'Africa romana deriva dal tipo ellenistico, che fu introdotto nell'epoca punica e non fu praticamente influenzato dall'architettura italiana. Appiano attesta d'altra parte l'esistenza in Cartagine di case a più piani, anch'esse probabilmente di origine ellenistica. Le case di campagna erano spesso fortificate e meritavano piuttosto il nome di torri.

Ci si può fare un'idea dell'agorà di Cartagine dalle piazze pubbliche più antiche di Leptis e Mactar; si tratta di aree lastricate, di forma irregolare e senza portici.

L'architettura funeraria ebbe un grande sviluppo durante i secoli VII e VI; i morti sono seppelliti in caverne costruite a grandi blocchi a spigoli vivi internamente ricoperti di stucco; la copertura di lastre di pietra scaricate del peso per mezzo di blocchi equilibrati è mascherata all'interno da un soffitto di cedro. Più tardi la caverna venne intagliata nella roccia. Ma in epoca ellenistica fu introdotto il mausoleo turriforme, come quello raffigutato sulle pareti d'un ipogeo a Capo Bon. A questo tipo appartiene la tomba di Thugga; si tratta d'una torre quadrata a tre piani, ornata di sculture che rappresentano simbolicamente il viaggio del morto nell'aldilà. Il Medracen e la Tomba della Cristiana appartengono ad un'altra categoria, le rotonde massicce, di cui ci sono esemplari anche in Etruria; è difficile stabilire se questo tipo di sepoltura sia stato introdotto in Africa dai Punici o se non rappresenti invece una trasformazione dei tumuli funebri indigeni.

2. Scultura. - I Cartaginesi avevano una predilezione per la scultura: numerose statue ornavano gli edifici e le piazze pubbliche, come pure le case private dei ricchi; famosa era la collezione di Annibale (S. Gsell, Hist. de l'Afrique, iv, p. 205).

Parecchie di queste opere provenivano dal saccheggio della Sicilia durante le guerre del V e IV sec.; Scipione Emiliano ne restituì una parte alle città derubate e portò il resto a Roma. Pare che a partire dal IV sec. alcuni scultori greci si siano stabiliti a Cartagine, aprendovi alcuni studi. Il solo nome di scultore punico che ci sia pervenuto è quello di Boethos il cartaginese, figlio di Apollodoros (v. boethos, 20) sulla cui origine greca non ci sono dubbi (Ch. Picard, in Karthago, iii, 1952, p. 110). Pausania gli attribuisce un Fanciullo seduto che si conservava ad Olimpia. Gli scavi hanno portato alla luce sarcofagi in marmo della fine del IV sec. e del principio del III, che furono senza dubbio eseguiti negli studî greci di Cartagine, come ha dimostrato J. Carcopino (Mem. della Pont. Accad. Rom. Arch., 1921, iii, Memorie, vol. i, parte ii, pp. 109-117). Alcuni sono a forma di vasca rettangolare, il cui coperchio porta una statua di divinità coricata; la figura distesa infatti non è il ritratto del morto, come è stato da alcuni ritenuto. Una di queste statue raffigura, ad esempio, Tanit, racchiusa tra ali di uccello, con una colomba dalla testa chinata in una mano, ed un portaprofumi nell'altra; il costume è punico, ma l'acconciatura - capelli inanellati e coperti da un velo - è greca. Nel sarcofago era posto lo scheletro d'una donna molto vecchia, di tipo negroide. Le altre due figure distese rappresentano probabilmente un dio, barbato e vestito d'una lunga veste orientale; nella mano sinistra tiene un portaprofumi e l'altra è invece alzata. La capigliatura abbondante e inanellata come la barba, così come l'espressione pensierosa del viso, ricordano il Dioniso come era allora raffigurato dai Greci. Il costume e l'atteggiamento invece sono caratteristici degli oranti e delle divinità puniche. Questi sarcofagi quindi si distinguono sia per la loro forma che per la loro decorazione, dai sarcofagi per mummie di tipo egizio o fenicio rappresentanti il morto. Altri sarcofagi hanno la forma del tempio greco, con tetto a doppio spiovente ornato da acroteri e delimitante due frontoni affrescati con motivi funebri: Scilla con i cani, grifoni, busti di divinità alate, inquadrate da tralci e da volute (queste pitture si sono purtroppo scolorite dopo la loro scoperta; Héron de Villefosse, in Mon. Piot, xii, 1905). L'orlo superiore e la base dei sarcofagi sono decorati da modanature e fregi d'ovoli, punte di lancia, foglie a forma di cuore, ecc. messi in evidenza da colori vivaci. L'architettura di questi templi in miniatura è dunque greca, ma la disposizione dei fregi e i soggetti dipinti sui timpani dei frontoni sono punici: si ritrovano infatti sulle stele del santuario di Tanit, come sui rasoi in bronzo dell'epoca.

Frammenti di sculture a tutto tondo risalenti al III-II sec. a. C. raffigurano una divinità, certamente Tanit, seduta su un trono fiancheggiato da sfingi. Essi sono troppo mutili perché si possa esprimere un giudizio sul valore dell'opera, ma si direbbe tuttavia che lo stile scabro e vigoroso, poco influenzato dalla scultura greca, avvicini questa statua alle opere dell'arte popolare, quali le stele funerarie (v. appresso; P. Cintas, in Compt. Rend. Ac. Inscr., 1958, p. 17 ss.). Conosciamo al contrario molto bene le opere di modesti artigiani che tagliavano, scolpivano e incidevano la pietra per soddisfare alle ordinazioni dei fedeli. Le più numerose, così come le più interessanti sono i piccoli monumenti votivi che commemorano i sacrifici molk, riesumati dalle aree sacre dedicate a Ba῾cai Ḥammōn e a Tanit. Il più antico e il più importante di essi è quello di Cartagine posto a Salammbo. È stato anche ritrovato quello di Hadrumetum (Sousse). I monumenti più antichi sono fatti di pietre piatte disposte come quelle di un dolmen, e contenevano l'urna cineraria; a partire dalla fine del VII sec. si trovano urne a forma di parallelepipedo, tagliate nella pietra arenaria e rivestite di stucco, con decorazioni di modanature e di festoni. Nel secolo seguente l'urna è direttamente sepolta sotto terra e un cippo di pietra arenaria in forma di naòs comprendente da uno a quattro betili si eleva sulla terra. Talvolta questi betili poggiano su troni che sino al V sec. rimangono senza alcuna decorazione; a partire dal V sec., invece, questi seggi si arricchiscono di braccioli scolpiti in forma di sfinge o di grifi, o recano decorazioni architettoniche, volute ioniche, cuscini di piume embricate, palmette, ecc. (Cat. Musée Lavigerie, II, tav. xvi). Così, a lato dei betili si vedono apparire idoli a forma geometrica (losanghe, esagoni, fusi ovoidali) che ricordano gli antichi simulacri divini egei, e idoli antropomorfi con le braccia sollevate, alla foggia cretese, o attaccate al corpo e con parrucche alla foggia egiziana. Alcuni cippi di quest'epoca sono come piccoli altari degradanti, posti su uno zoccolo prismatico decorato di modanature; nel centro della cavità dell'altare si trova una massa dai contorni mal definiti, che probabilmente raffigurava l'urna cineraria.

Verso la metà del V sec. si vede la prima scintilla di quella rivoluzione che sotto la crescente influenza greca porterà ad un rinnovamento completo della forma degli ex voto e degli idoli: nazìskoi, troni e altari vengono progressivamente sostituiti prima da cippi, obelischi o pilastri di stile ellenizzante in calcare duro di circa un metro di altezza, e poi, dal sec. IV in poi, da stele dello stesso materiale, dal frontone triangolare fiancheggiato di acroterî, la cui faccia anteriore porta una dedica a Tanit e a Ba῾al Ḥammōn e l'immagine, sempre incisa, della divinità poggiata su un altare terminante con una modanatura a gola, o dei suoi attributi. La forma dei simulacri divini viene allora definitivamente fissata nel "segno della bottiglia", che rappresenta l'idolo sotto una forma che ricorda quella di una bottiglia o di una canipana, sormontata da un disco solare e da una mezzaluna con le punte volte verso il basso, e nel "segno di Tanit", composto da un triangolo isoscele sormontato da una barra orizzontale dalle estremità rialzate e dal disco sormontato dalla mezzaluna, come una specie di schema geometrico degli antichi idoli cretesi dalle braccia sollevate. Dal sec. IV in poi una cappella fiancheggiata da colonne e coronata da un frontone triangolare, la cui architettura - spesso fantastica, di ispirazione alessandrina - è abbellita di decorazioni vegetali, foglie di acanto, viticci, ecc., custodisce le immagini sacre; eccezionalmente vi sono raffigurate scene di sacrifici, quale quella del sacerdote con il bambino tra le braccia. Questa riforma fa risaltare le diverse tendenze che caratterizzano l'arte p.: istinto conservativo, inerente a tutti i popoli coloniali, che mantiene in vigore antiche figure ereditate da un lontano passato egeo-cananaico, preferenza nettamente orientale per le forme geometriche più atte a tradurre lo slancio mistico verso la purezza proprio dei Cartaginesi, spinto di imitazione che li spinge ad adottare le nuove mode straniere, anche quando esse sono in contrasto con il gusto tradizionale. Accade così che sulle stele di quest'epoca si vedono decorazioni vegetali naturalistiche di ispirazione ellenica che inquadrano simboli divini astratti di origine egeo-cananaica. In quest'epoca, come pure all'inizio del secolo seguente, il disegno e l'incisione toccano un grado di perfezione che non sarà mai più raggiunto e che rivela senza alcun dubbio la mano greca.

Dal sec. III in poi simboli dionisiaci, cratere, foglie di edera, si mescolano alle immagini sacre tradizionali; l'architettura delle cappelle, il materiale del culto raffigurato accanto agli attributi del dio, hanno preso un aspetto del tutto greco; la qualità del lavoro però va continuamente scadendo: le decorazioni diventano sempre più pesanti, alle figure astratte si sostituiscono immagini antropomorfe più comprensibili agli umili, le scene di sacrificio diventano più frequenti: le stele non sono più che il prodotto di un'arte popolare ormai frusta e che ha perso la sua eleganza e il suo rigore geometrico, guadagnando però vigore e vita.

Statue grossolane, di circa un metro e 30 cm di altezza, e stele con un'immagine idealizzata del morto - donna velata, giovane imberbe e vecchio barbuto - situate in una nicchia dal frontone il più delle volte triangolare, vengono drizzate sulle tombe a partire dal IV secolo. Le donne portano i veli alla greca, gli uomini una lunga veste drappeggiata. Sono tutti raffigurati nell'atto di pregare, con la mano destra alzata e una lampada o un portaprofumi nella sinistra. Talvolta la nicchia è fiancheggiata da acroterî di stile ellenizzante; in alcuni casi il segno di Tanit è inciso sopra la nicchia; gli epitaffi sono rarissimi. Si tratta di opere artigianali, influenzate dall'arte greca, alquanto grossolane ma non prive di vigore.

3. Ceramica e terrecotte. - Se i punici sono stati artisti di poco valore, si dimostrarono invece abili coroplasti come testimoniano le maschere e le statue di culto in terracotta, rinvenute nelle tombe e nei santuarî.

a) Le maschere. Un'importante raccolta di maschere di terracotta, ottenute da matrici, ritoccate a mano e poi dipinte, raffiguranti volti umani in misura leggermente più piccola di quella naturale, furono scoperte nelle tombe antiche, anteriori al IV sec., e negli strati profondi del santuario di Tanit e Ba῾cal Ḥammōn a Cartagine, come pure nelle colonie puniche della Sardegna e delle Baleari. Le più notevoli rappresentano dèmoni rugosi e ghignanti, gli occhi e la bocca perforati, le guance gonfiate da verruche, la fronte e il naso decorati con emblemi divini modellati in rilievo, e con tatuaggi incisi. Queste maschere erano molto simili a quelle che venivano offerte come ex voto ad Artemide Orthìa, a Sparta, e che sono le riproduzioni di maschere di danza; le maschere greche però sono leggermente posteriori a quelle puniche e non hanno quindi potuto servir loro da modello, come ritiene P. Cintas. Le due serie di maschere hanno preso i loro tratti dai dèmoni assiro-babilonesi (Pazuzu, Khumbaba; v.), umanizzandoli, e da ciò proviene la loro rassomiglianza. Le maschere puniche tuttavia rimangono convenzionali e geometriche, mentre quelle laconiche sono molto più umane. Nel IV sec. questo tipo di maschera scompare a Cartagine e nelle sue colonie per far posto a maschere di satiri di stile arcaico, alcune delle quali sono grinzose e tatuate come le precedenti. Nelle Baleari sono state. anche trovate maschere teatrali di stile greco.

Un altro gruppo di maschere rappresenta figure maschili barbute. Una di queste, conservata al Museo del Louvre (VII sec.), dagli occhi forati come quelle dei dèmoni, presenta però tratti fini e regolari, dall'espressione serena; porta una parrucca a ripiani dipinta in nero. Due altre (sec. VI), conservate l'una al Museo Lavigerie e l'altra a quello del Bardo, hanno la barba ed i capelli inanellati, resi con cerchi impressi: i visi, fini ed ovali, sorridono impercettibilmente; gli occhi a mandorla non sono forati ma dipinti; un pezzo di stucco colorato di bianco e di nero fa da pupilla. Uno di essi porta anelli infilati nelle orecchie e nel naso: un'appendice forata fissata in cima alla testa serviva per appenderli. Per la loro acconciatura, per la finezza del tratto e per l'espressione, queste maschere hanno molto in comune con le figurine e con le statue greco-cipriote della stessa epoca, ed infatti esse derivano da prototipi egeo-cananei (maschere di Hazor, di Beisan) e ciprioti (maschere d'Amathunte, di Curium, Marion, Arsinoe, Idalion, ecc.). Le più antiche maschere a protome femminile (sec. VII ed inizî del VI) sono di stile fenicio egittizzante e portano un klaft come le figure dei sarcofagi e dei vasi canopi egizî. Nel corso del sec. VI questo tipo si ellenizza: i capelli, gettati all'indietro, sono coperti da un velo, il viso si allunga, gli occhi a mandorla sono obliqui, la bocca sorride; ma i gioielli, diademi ornati di vetri, anelli passati nelle orecchie e nel naso, rimangono orientali. Macchie di colore blu e rosso, son spesso disseminate sulla figura e sul collo delle protomi. A partire dal V sec. queste ultime riproducono i modelli rodî e portano il velo e la stephàne.

A torto si è voluto vedere in queste maschere maschili e femminili, come nelle figure demoniache, ritratti dei morti, realistici o idealizzati: nelle tombe, l'età e il sesso delle maschere non hanno alcuna relazione con l'età ed il sesso del morto; capita infatti di trovare nella stessa tomba una maschera d'uomo ed una di donna. Maschere sono state anche rinvenute nel santuario di Tanit e Ba῾al Ḥammōn. È quindi errato apparentarle alle figure dei sarcofagi o dei canopi egizi, oppure alle maschere funerarie etrusche, che invece pare fissino i tratti del morto per l'eternità. Come le maschere demoniache, esse non sono che accessorî del culto, senza dubbio collegati alle pratiche di iniziazione.

b) Statue in terracotta. L'abilità dei coroplasti punici è testimoniata anche dalle statue religiose scoperte a Korba, a Capo Bon, le quali rappresentano Demetra, Kore e Plutone, e che risalgono alla fine del IV o al principio dei III sec. a. C. Queste divinità sono acconciate ed abbigliate alla greca; la finezza dei tratti, la leggerezza del drappeggio, la perfezione dell'esecuzione, le rendono degne delle contemporanee opere ellenistiche (G. Ch. Picard, Monde de Carthage, tav. 64 e 65).

Altre statue religiose sono state portate alla luce nel piccolo santuario alla periferia di Cartagine, sotto l'attuale stazione di Salammbo, distrutto nel 146. Una di tali statue, che certo raffigura Tanit, ci presenta la dea seduta su un trono, con i piedi poggiati su un leone. La sedia non è decorata, ma i montanti sono fiancheggiati da due piccoli personaggi rappresentanti i paredri della divinità. Il lavoro è pesante. Anche l'altra divinità è raffigurata in trono; i montanti del sedile sono ornati di bassorilievi con figure di sfingi dal capo coperto di kàlathos, di vittorie che portano il trofeo, una testa di Medusa, viticci vegetali e palmette di ispirazione alessandrina, di effetto molto felice (L. Carton, op. cit.).

In un piccolo santuario privato situato tra Amilcar e Sidi Bu Said, sono state rinvenute anche lastre di terracotta con bassorilievi, che dovevano essere la decorazione del trono d'un idolo; su di esse si vede una Vittoria dalle ali alzate, che reca una torcia ed una pisside, un gorgonèion, e figure alate uscenti da girali floreali. Una lastra rappresenta Scilla con i cani. Queste decorazioni in terracotta ricordano gli stucchi della Farnesina e le lastre Campana. La loro origine è certo alessandrina.

Nelle case e nel santuario di Salammbo sono state anche scoperte piccole colonne, frammenti di modanature e cornici in terracotta, sottolineate da fregi d'ovuli e punte di lance, o foglie a forma di cuore, dipinte in colori vividi, imitati dalle decorazioni architettoniche.

Dopo la caduta di Cartagine, la tradizione persisté nel paese e i santuarî rurali, quali quello di Thinissut (A. Merlin, Sanctuaire de Baal et de Tanit, in Notes et Documents, iv, 1910, p. 39 ss.) continuarono ad avere le loro statue in terracotta; alcune sono di stile orientale, quale Tanit leontocefala, le altre di stile ellenizzante, come la Minerva con l'elmo e la Nutrix seduta.

c) Figurine di terracotta e vasi. I ceramisti punici non cercarono mai di rivaleggiare con i loro confratelli greci nella fabbricazione di statuette: si trovano solo rare e tardive imitazioni di figurine greche, di qualità mediocre, destinate alla clientela troppo povera per potersi permettere l'acquisto di prodotti stranieri.

Tutti i vasi di lusso sono importati dall'Etruria e dalla Grecia nel V sec., dalla Sicilia e dall'Italia dal IV sec. in poi. Sul posto non venivano fabbricati che vasi correnti, senza alcun valore artistico.

4. Bronzi. - All'epoca dell'assedio del 146 tutte le statue di bronzo e i pezzi di vasellame importanti furono fusi per farne armi, così che non è stata trovata nessuna di quelle opere d'arte che erano l'orgoglio della città e delle collezioni private, come quella di Annibale. All'infuori d'una corazza campana della fine del III sec., rinvenuta in una tomba del Sahel (Cat. Mus. Alaoui, Suppl., ii, tav. x; G. Ch. Picard, Monde de Carthage, tav. 71), ci sono pervenuti solo i piccoli pezzi deposti nelle tombe. I più interessanti sono alcuni strani rasoi la cui forma di ascia indica un'origine micenea, mentre la loro estremità affilata, a forma di collo e testa d'uccello, oca o cigno, ci ricorda le appendici dei rasoi egiziani (A. Vercoutter, Les objets égyptiens et égyptisants du mobilier carthaginois, cap. viii; Ch. Picard, in Rev. Arch., 1959, p. 57 ss.). I più antichi di tali rasoi risalgono al VI sec.; sono piccoli e senza decorazione. Alla fine del VI sec. la lama si ricopre di decorazione a punteggiatura: zig-zag, palmette di stile cipro-fenicio, pesci, pelte, fiori e boccioli di loto. Alla fine del sec. V e soprattutto nel secolo seguente le piccole asce misurano fino a 12 cm di lunghezza e la decorazione è incisa con trattini: il collo dell'uccello si prolunga sino ad un'ala che si spiega nella parte alta della lama; al di sopra, figurano oranti con le mani alzate e vestiti all'egiziana o all'orientale, dèi rappresentati per mezzo di simboli - dischi solari e mezzelune, palme di Tanit, leone di Ba῾al, o più raramente la stella di Astarte - oppure con aspetto antropomorfo. Al principio del sec. IV lo stile dei rasoi è più spesso tendente allo stile egiziano: Tanit vi è rappresentata con i tratti di Iside, Shadrapa sotto quelli di Horus falcone o fanciullo; alcuni sono di tradizione fenicia: Reshef brandisce un'ascia doppia e regge la lancia, Shadrapa è seduto sul trono al di sotto del quale si vede un serpente con una lancia. Alla fine del sec. IV appaiono soggetti tolti dalla mitologia greca: Hermes con il caduceo, Eracle vestito della pelle del leone nemeo o in lotta con il toro, la Chimera, Scilla; Shadrapa, ora confuso con Dioniso, appare con l'aspetto d'un efebo con un serpente. L'appendice sottile dei rasoi non poteva servire da manico, e considerato anche che essi sono muniti d'un anello, si deve concludere che erano oggetti votivi e magici, destinati ad essere appesi; se ne trovano nelle tombe sia degli uomini che delle donne, ma solo in tombe puniche.

Dal sec. V in poi, quando Cartagine, tagliata fuori dal mondo orientale che la riforniva di manufatti, organizzò una sua propria industria, i lavoranti del bronzo si misero a foggiare oinochòai (Ch. Picard, in Rev. Arch., 1959, pp. 24-64). Il pezzo più antico ed anche il più interessante proviene da una tomba in muratura della collina S. Luigi e riproduce un modello rodio di stile arcaico: l'oinochòe ha un corpo ovoidale, il piede ad anelli, il collo cilindrico, il becco a trifoglio e l'ansa più alta del collo, è formata da tre tubi riuniti; il pezzo che attacca il collo all'ansa è ornato da una testa di Ḥatḥōr in rilievo, sormontato da un disco solare tra due urei, inciso. È difficile dire se questo vaso sia stato fabbricato in Fenicia, a Cipro o a Cartagine; le tombe del IV sec. però hanno rivelato molte anse di oinochòai fatte in questo modo, decorate degli stessi bassorilievi di tipo egizio (piccoli busti con klaft e pettorale, acconciati con una corona atef o portanti emblemi isiaci), accostati ad emblemi punici (dischi sormontati da mezzelune dalle punte volte verso il basso); vasi di questo genere erano dunque fabbricati anche a Cartagine.

Altre oinochòai che risalgono alla fine del V sec. e all'inizio del IV, riproducono modelli etruschi del secolo precedente: Schnabelkanne decorate di Ankertypuspalmetten. Il corpo del vaso è un tronco di cono, il collo cilindrico e corto, il becco trilobato con un beccuccio inclinato e molto sviluppato. Forma tozza, collo troppo corto, beccuccio sproporzionato distinguono le copie puniche dagli originali italici.

Nel IV sec. si trovano oinochòai di stile greco arcaicizzante, a corpo ovoidale o arrotondato, col collo cilindrico, il beccuccio a trifoglio e l'ansa curva, con o senza piede. Sono tutti ornati al punto d'attacco delle anse sul collo e sul corpo con bassorilievi ellenizzanti: teste di donne o di guerrieri con elmo, di stile severo, fanciullo accoccolato, sfinge dalle ali spiegate, maschere di satiro o di Gorgone, teste di serpenti, palmette cipro-fenicie, teste di ariete o teste di leone. Un bellissimo vaso conservato al Museo Lavigerie ha l'ansa formata da un uomo con barba, la schiena curva e le braccia alzate che reggono un altro uomo a cavalcioni sul collo; un'altra ansa rappresenta un uomo dalla schiena curva, che tiene dei leoni. Lo stile di queste opere, la loro eccellente fattura, le hanno fatte considerare come importazioni italo-siciliane, ma alcuni particolari insoliti - come la barba a ventaglio dell'uomo inarcato, il loro voluto arcaismo, l'effetto molto morbido della muscolatura - tradiscono la loro origine punica. Nella maggior parte dei casi perle e festoni incisi decorano i labbri del beccuccio; talvolta il corpo è ornato di orli incisi, mentre la stessa decorazione di perle e festoni si ritrova sul piede ad anelli. Tutti questi vasi sono stati ispirati da prototipi greci della Sicilia o dell'Italia meridionale.

Alla fine del III sec. le forme e le decorazioni si semplificano; lo stile dei rilievi, e in particolare quello delle maschere di satiri, non è più arcaico ma ellenistico.

5. Oreficeria. - I Cartaginesi si facevano sotterrare ornati di tutti i loro gioielli. Fino al sec. V i gioielli sono identici a quelli che si trovano nelle contemporanee tombe cipriote, ma è difficile dire se quelli cartaginesi erano importati o fatti sul posto. I pezzi più belli sono costituiti da collane d'oro ornate di pietre preziose. Una collana ha come pendente una mezzaluna di turchese su un disco di giacinto; dodici pendenti a forma di modio sono disposti simmetricamente da una parte e dall'altra del motivo centrale, quattro mezzelune semplici, due mezzelune su un disco, due pendenti circolari con umbone centrale, e due pendenti con una stella a nove punte in granulazione. La granulazione era molto apprezzata dai Punici, come dagli Etruschi; si trovano infatti anche medaglioni tutti d'oro, a forma di nicchia, eseguiti a granulazione e con un idolo dentro. Molto spesso il pendente ha la forma d'un tubo d'oro o d'argento ornato da una testa d'animale, o da una ghianda in cristallo di rocca con una cupoletta d'oro sopra: sono piccoli reliqularî nei quali si racchiudevano strisce magiche d'oro o d'argento. Meno sontuose ma più diffuse sono le collane d'amuleti in maiolica o in osso, importati dall'Egitto.

Fino al IV sec. gli orecchini sono molto semplici: hanno la forma di anelli arrotolati in spirale o semplici; alcuni hanno forma d'una croce ansata. Si trovano anche braccialetti, semplici cerchi o a spirale, e pesanti anelli da caviglia, anelli da dito dal castone piatto, ovale, decorato di figure incise di stile egiziano, sigilli, scarabei egiziani in maiolica girevoli tra le due braccia d'un anello d'oro, e infine, ma molto raramente, si trovano cilindri mesopotamici in diaspro. Nel sec. VII gioielli sono più numerosi e più belli, mentre nel V sec. l'oro diviene raro per sparire del tutto durante la crisi seguita alla sconfitta di Imera. Gli amuleti e gli scarabei non sono più importati. Alla fine del sec. V e soprattutto nel secolo seguente i gioielli riappaiono, e sono per lo più imitazioni di quelli greci: orecchini a forma di anelli forati e con pendagli costituiti da rosette e palmette. Le collane sono ornate di leggeri pendagli a forma di fior di loto o di palmette. Ma l'oro puro è raro e si tratta soprattutto di argento o bronzo placcato d'oro. Sigilli in corniola e in diaspro o persino in cristallo di rocca vengono ora incisi a Cartagine; dapprima i motivi egiziani si mischiano con quelli orientali, poi invece compaiono i motivi greci, che diventano i più comuni. I Punici si mostrano molto abili nell'arte della glittica e certe gemme possono sostenere il paragone con i migliori prodotti delle botteghe greche ed etrusche. Per i meno ricchi si inizia anche la fabbricazione di amuleti in ceramica e in osso, ad imitazione di quelli egiziani ma con soggetti prettamente punici, come il segno di Tanit.

6. Avorî. - L'umidità delle tombe è deleteria per la conservazione degli avorî, per cui se ne sono trovati ben pochi: qualche pettine inciso con soggetti fenici o assiri nelle tombe del VII e del VI sec., una statuetta dedalica, qualche amuleto a forma di maschera e scatolette, di cui una decorata con una magnifica testa di Medusa di stile ellenistico, trovata ad Utica; inoltre decorazioni di cofanetti: amorini alati, sfingi, palmette, ecc., e manici di specchi ornati di palmette o volute ioniche.

7. Vetri. - Le vetrerie puniche avevano ereditato alcune tecniche dai Fenici. Nelle tombe antiche, ma soprattutto a partire dal IV sec. in poi, si trovano piccoli vasi per profumi in vetro opaco blu scuro ravvivato da bande di denti a sega in giallo vivo, bianco, ecc. La pasta di vetro serviva anche a fabbricare pendagli a forma di testa di ariete e di colomba, e, dal IV sec. in avanti, di maschere grottesche dal naso ricurvo e gli occhi sporgenti, identici a quelli trovati ad al-Mina, del VI secolo. Molto diffuse sono infine le perle di vetro decorate da motivi a nastro e da occhi multicolori. Nel IV sec. erano molto in voga le teste di spille in vetro che raffiguravano una testa di uomo barbato o di donna.

8. Legno. - La lavorazione del legno era molto apprezzata a Cartagine. Sono stati rinvenuti stupendi cassoni che servivano da sarcofagi e una piccola testa di Demetra in cedro dorato, eccezionalmente fine.

9. Uova di struzzo. - Le uova di struzzo divise in due servivano a formare coppe, che poi venivano decorate in maniera molto abile; alcune erano di ispirazione cipro-fenicia e portavano fregi di fiori e boccioli di loto, altre erano geometriche. Spesso veniva utilizzata solo la parte meno concava del guscio e la si trasformava in un volto, dipingendovi gli occhi e la bocca.

Le uova si trovano soprattutto nelle tombe antiche (M. Astruc, Traditions funéraires de Carthage, in Cahiers de Byrsa, vi, 1955, pp. 29-58).

Bibl.: P. Gauckler, Nécropoles puniques de Carthage, Parigi 1915; S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, specialmente il vol. IV, Parigi 1928; G. Lapeyre-A. Pellegrin, Carthage punique, Parigi 1942; G. Ch. Picard, Le monde de Carthage, Parigi 1956; C. e G. Picard, La vie quotidienne à Carthage au temps d'Hannibal, Parigi 1959. Per i materiali nei musei: Ph. Berger, Catalogue du Musée Lavigerie de Saint Louis de Carthage, I, 1900; A. Boulanger, Supplément, I, 1913; R. La Blanchère-P. Gauckler, Cat. du Musée Alaoui, 1897; P. Gauckler, L. Poinssot, L. Drappier, L. Hautecoeur, Suppl. I, 1910; L. Poinssot-R. Lantier, Suppl. II, 1922; C. Picad, Catalogue du Musée Alaoui, N. S., Coll. punique, I, 1954. Architettura: A. Lézine, Architecture punique, Parigi 1962. Scultura: M. Hours Miédan, Les repésentations figurées sur les stèles de Carthage; in Cahiers de Byrsa, I, 1950, pp. 15-76. Ceramica: P. Cintas, Céramique punique, Parigi 1950. Rasoi, gioielli, amuleti: P. Cintas, Amulettes puniques, Tunisi 1946; J. Vercoutter, Les objets égyptiens et égyptisans du mobilier funéraire carthaginois, Parigi 1945. Studî paticolari: F. von Bissing, Karthago und seine grieechischen und italischen Beziehungen, in Studî Etruschi, VII, 1933, pp. 83-134; R. Herbig, Das Archäologische Bild des Puniertums, Rom und Karthago, Lipsia 1943, pp. 139-177.

(G. Ch. Picard)

Arte punica in Sardegna. - 10. Inquadramento storico. - I) Periodo fenicio (dalle. origini a circa il 550 a. C.). Non si può precisare quando sia cominciata la colonizzazione fenicia in Sardegna, ma si può affermare che forse nel IX sec., certamente nell'VIII, Nora e Sulcis esistevano come comunità di gente cananea, se sono valide le date assegnate dagli orientalisti alla grande iscrizione norense e dal Pesce agli oggetti più antichi trovati nel tofet sulcitano. Presumibilmente in Sardegna, come altrove, per le esigenze della navigazione di cabotaggio e del commercio con gl'indigeni, le colonie fenicie nacquero come "stabilimenti" o "fondaci" e scali, ubicati presso gli approdi più adatti lungo la rotta dei metalli fra Tiro e Tarshish (l'Andalusia in particolare o piuttosto le miniere dell'Occidente in generale?): isolette, costiere, quali S. Simone (di fronte a Cagliari), S. Antioco, S. Pietro; penisolette frastagliate come il Capo di Pula, lunghi promontorî protesi come il Capo S. Marco.

II) Periodo punico arcaico (550-480 a. C.). I Cartaginesi occupano a mano armata le coste poi l'immediato retroterra dell'isola, forse per impedire ai Greci d'insediarvisi (o per scacciarli se vi avevano già messo piede). Nel VI sec. le colonie fenicie ci si presentano organizzate come parte dell'impero marittimo di Cartagine. L'eredità fenicia viene arricchita dal patrimonio culturale punico importato in Sardegna. I Puni trafficano con tutti gli altri popoli del Mediterraneo. Abbondano i vasi attici a figure nere nelle tombe sardo-puniche. La presenza di lussuosa suppellettile funeraria di stile orientalizzante e di raffinata fattura nelle tombe sulcitane, norensi e tharrensi denota benessere economico nella classe dei maggiorenti. In architettura è l'epoca degli "alti luoghi" di tipo cananeo, altari all'aperto con o senza cappella su terrazze sopraelevate naturali o architettoniche, megalitiche. Due tecniche murarie cronologicamente parallele sono quella a paramento pseudo-isodomo di blocchi a spigoli vivi e il muro a struttura microlitica, spesso "a telaio", sentito come uno scheletro di sostegno del rivestimento. Nell'arte figurata all'influsso dei modelli orientali s'aggiunge il gusto dello ionismo.

III) Periodo della "Riforma" cartaginese (480-409 a. C.). Sconfitta alla battaglia di Imera dai Siracusani, Cartagine si concentra in una politica di ricostruzione della propria potenza, che attua con importanti riforme in vari settori della vita pubblica, troncando, fra l'altro, i rapporti commerciali con i Greci. Perciò mentre per la Grecia il V sec. è uno dei più luminosi, al contrario per il mondo cartaginese è un periodo oscuro, caratterizzato in Sardegna dalla rarefazione di merce straniera importata (mancano, per esempio, vasi attici a figure rosse dallo stile severo al midiaco).

IV) Periodo dell'apogeo (409-238 a. C.). Restaurate le sue finanze Cartagine esce dal suo isolamento, assale la Sicilia greca e la sottomette quasi tutta, dopo circa 16o anni di guerre, nel 268. Questo nuovo contatto con i Sicelioti ed inoltre l'entrata dello stato cartaginese nella comunità economica dell'Egitto dei Lagidi aprono il mondo culturale punico ad una seconda ondata d'ellenismo, più efficiente di quella del periodo arcaico. La potenza di Cartagine, che tocca il suo vertice, si riflette per tutta l'area del suo impero, perciò anche in Sardegna, dove la facies punica di questo periodo è più complessa di quella dei tempi antecedenti e raggiunge talvolta un livello elevato, anche se l'originalità della pura tradizione semitica sia sovente soffocata dal prevalere dell'influenza ellenistica. In questo periodo, che si chiude con l'occupazione romana della Sardegna nell'intervallo tra la I e la II guerra punica, la concezione greca del muro come compiuta opera d'arte in sé entra nella coscienza del costruttore punico, che acquisisce così il sentimento dei monolitismo e della monumentalità. Contaminazione in grande stile di elementi della decorazione architettonica greca (colonne e capitelli, frontone triangolare con acroteri) ed orientali (pilastri e capitelli ciprioti, cornice a gola egizia). La scuola sardo-punica elabora una varietà di cornice, sensibilmente diversa dagli esemplari della Valle del Nilo: eliminato l'architrave, la cornice poggia col toro direttamente sui sostegni verticali, talvolta su interposto listello rientrante, ed è spesso sormontata da un vistoso fregio di urei. Nell'arte figurata tipi iconografici fenici sono rinnovati con accenti del linguaggio formale ellenistico e modelli sicelioti e italioti sono adattati al gusto ed alle esigenze religiose semitiche. Oreficeria, glittica, bigiotteria come pure la ceramica non hanno più la finezza dei prodotti arcaici, sono piuttosto grossolane (eccettuati rari esemplari): segno, forse, dell'avvento di un ceto di arricchiti.

V) Sopravvivenza della tradizione punica (dal 237 a. C.). Con la sconfitta di Ampsicora a Cornus (215 a. C.) fallisce lo sforzo dei Sardo-punici per scacciare i Romani e riunirsi a Cartagine. La Sardegna rimarrà, insieme con la Corsica, una provincia di Roma. Ma prima che la romanizzazione del paese sia un fatto compiuto passano secoli, durante i quali la tradizione culturale punica perdura vitale almeno nelle zone più appartate, sardo-punico rimane il fondo etnico locale (com'è dimostrato dalla presenza della scrittura neopunica) e puniche, perciò, culturalmente, anche se non più etnicamente, dovettero continuare ad essere le maestranze operanti, fino a quando costruttori, figurinai e altri artigiani immigrati dalla penisola italica non riuscirono ad imporre il gusto per l'arte romana. La più tarda iscrizione neopunica datata, quella di Bithia, menziona un imperatore Marco Aurelio Antonino e nomina ancora i sufeti. Questo ultimo periodo è il meno importante per la storia dell'arte p., specialmente per l'arte della figura, che non ha più niente di caratteristicamente punico. Oltre che nella scrittura, nella ceramica, nel piccolo artigianato e in qualche settore dell'oreficeria (per esempio orecchini giudaici tardo-romani), la punicità riecheggia talvolta nel dominio architettonico come fedeltà alla pianta di tipo semitico del tempio ed alla struttura muraria microlitica.

11. Architettura: a) Il tempio. I periodo: parti più antiche del tofet sulcitano e del tempio punico-romano di Nora e prima fase (ipotetica) del gran tempio tharrense. Di propriamente architettonico, poco o niente è rimasto. Piattaforme rocciose, recinte ma lasciate allo stato naturale. Nel tofet le urne erano interrate in crepacci naturali, che solcano la massa trachitica. L'altare o il rogo saranno stati al centro. Niente idoli antropomorfi ma tutt'al più betili ed ăshērōt. Questi santuari sono esemplari di "alti luoghi". Il senso originario di questa espressione biblica è di tempio semitico in generale, perché ubicato sopra un'altura naturale (anche questa oggetto di culto) o impostato sopra un basamento architettonico, alto sul livello del piano circostante. Oggi s'intende il tipo più semplice e povero ed insieme suggestivo di luogo sacro cananeo, il più vicino alle origini semitiche dal deserto. A questo periodo o al successivo vanno datati altri tre santuarî: il piccolo tempio al Capo S. Marco, quello a pianta di tipo "semitico" a Tharros e quello scoperto nel 1963 a Monte Sirai (in corso di scavo). La pianta del primo è rettangolare, divisa in tre ambienti diversamente larghi. Nel vano maggiore ipetrale, accessibile da uno dei lati lunghi e provvisto di quattro colonne pilastri, si trovava in situ un betilo. Uno dei due ambienti attigui era il Qōdesh Qŏ dāshīm o Sancta Sanctorum, coperto e contenente una mensa per offerte a piè d'una parete. Tecnica muraria di tradizione fenicia del II millennio: struttura a pietre irregolari di vario formato, cementate con malta di fango e rivestite di un sottile strato d'intonaco, esteso anche al pavimento. Il secondo edificio occupa una vasta area a pianta quadrata, orientata con gli angoli, limitata per tre lati da un'alta parete, intagliata nella roccia: il quarto lato, rivolto al mare, non è più definibile, essendo qui la zona tutta una tabula rasa. Al centro della parete principale e in assialità precisa avanza la traccia di un'edicola; altri due basamenti, forse mensa per offerte, sono alle estremità esterne delle pareti laterali. In un pozzo cilindrico è stato trovato un centinaio di vasi punici integri: offerte rituali? Nessun monumento architettonico possiamo assegnare al III periodo. Per il IV l'architettura punica è rappresentata da numerosi e cospicui monumenti. Accanto alla tecnica arcaica del muro a pietrame irregolare compaiono anche l'uso del monolitismo e l'imitazione, generalmente imperfetta, del muro greco isodomo. Un esemplare di tecnica strutturale di tradizione arcaica è l'"alto luogo" di Tanit a Nora; complesso quadrilatero orientato con gli angoli. Ne sussistono i muri di sostegno denudati, in apparecchio di grossi blocchi irregolari di granito e di andesite (appartenuti, forse, ad un antico nuraghe), cementati con malta di fango. Il loro notevole spessore è stato spiegato con la mentalità dei costruttori, che onoravano la divinità con la grandiosità della struttura. Il paramento esterno sarà stato rivestito di un sottile intonaco di calce e sabbia, ma nulla ne avanza. Questo monumento non è stato studiato ancora esaurientemente, perciò non possiamo pronunciarci circa la sua forma originaria: altare all'aperto o naòs a doppia cella? Dai dati di scavo non risulta essersi trovato materiale arcaico, bensì cocci campani ed un grande capitello ionico-ellenistico figurato. Tuttavia siamo propensi ad assegnare questo monumento ad epoca non più recente del II periodo. Il tofet sulcitano si presenta ora con una sistemazione architettonica a cortili di pianta rettangolare, inscritti l'uno nell'altro e definiti da poderosi muri a blocchi parallelepipedi di trachite ben squadrati e bugnati messi in opera senza coesivo. L'ingresso era all'angolo N-O. La molteplicità dei cortili dovette essere determinata dalla necessità di sempre maggiore spazio per nuove deposizioni. Nella stessa Sulcis il sentimento architettonico assurge quasi a lirismo, sulla vetta del Colle del Fortino, con la monumentalità della struttura ad enormi cubi trachitici di un "alto luogo" di sapore biblico: un grande altare a pianta rettangolare, orientato con gli angoli, edificato sui resti di un demolito nuraghe. Con i perfetti raccordi delle giunture senza coesivo contrasta l'aspetto grezzo della faccia a vista. Ciò può spiegarsi o con l'atavica ripugnanza semitica al modificare con l'artificio la forma naturale del luogo sacro o, più prosaicamente, con l'esigenza tecnica dell'intonacatura. Il trovamento di cocci nuragici (ovviamente pertinenti al nuraghe) ed etrusco-campani (III sec. a. C.) non risolve, neanche per questo "alto luogo" il problema circa la data da assegnarsi alla sua costruzione. Questa potrebbe essere anteriore al IV periodo. Non è impossibile che questo altare occupasse il centro di un vasto tèmenos, comprendente altre costruzioni coeve o recenziori, delle quali sono stati restituiti alla luce alcuni ruderi, come un portico a colonne e complessi architettonici di significato non ancora chiaro. Il tempio di Via Malta in Cagliari occupava una grande area rettangolare allungata, orientata con gli angoli, delimitata da un muro di cinta ad assise di grossi blocchi calcarei, ubicata in declivio. La parte a monte era occupata da un piccolo edificio a pianta di tipo greco con pronao tetrastilo e naòs, soprastante a un basamento di blocchi bene squadrati di tramezzano, giustapposti senza coesivo e senza seguire il sistema greco della messa in opera per punta e per taglio. Colonne a fusto liscio intonacato e cornice a sagoma anellenica. Nei tre lati secondari un boschetto con pozzo. Il lato frontale era delimitato da un muretto ad emiciclo. Si accedeva al naòs calpestando una lunga rampa d'accesso, lastricata con blocchi lapidei, interrotta a metà da una scalea semicircolare simile ad una cavea teatrale (forse bouleutèrion cioè luogo di riunione del consiglio municipale, che nel mondo punico era di regola incluso in un santuario). Come nel tempio egizio il devoto arrivava gradualmente al piccolo santuario, abitato dall'idolo. Analoga struttura si vede in un grande basamento ad apparecchio regolare di blocchi lapidei, al quale fu poi sovrapposta una terma romana in Nora. In questa città sul punto più alto dell'area primitiva gia menzionata del tempio punico-romano, s'elevava un tabernacolo in forma di edicola egittizzante, (un maabed simile a quelli del Libano). Ne avanzano la piattaforma di costruzione e l'architrave a gola egizia, decorata con urei e disco solare alato, scolpiti a rilievo in arenaria. Questo tipo di edicola (che probabilmente sostituì qualche arcaico esemplare ligneo) è compendiato in un modellino fittile dell'Età del Ferro trovato ad Alhizib, e ora nel museo di Gerusalemme giordana, databile al IV periodo. Ad E dell'"alto luogo" contenente questo maabed fu sistemata un'altra area, nella quale si trovava un naòs: ne sussiste per due lati parte dell'infima assisa di blocchi parallelepipedi rettangolari d'arenaria, perfettamente squadrati e connessi senza malta e con la risega dell'euthynterìa. Da alcune terrecotte votive di arte italico-ellenistica qua trovate si è dedotto che questo santuario era dedicato ad Eshmun-Esculapio. Il monumento nel quale, creando un insieme grandioso, confluiscono motivi artistici egizî greci e fenici, è a Tharros. Anche qui un lungo basamento parallelepipedo rettangolare, orientato con gli angoli, è sistemato a rampa, in cima alla quale s'elevava il naòs. Ma questo basamento è un solo blocco monolitico intagliato nell'arenaria. In tre delle sue fiancate sono scolpite semicolonne doriche e semipilastri duplici angolari scanalati. Nella dimensione dell'altezza questo immenso monolite era integrato con filari di blocchi della stessa pietra, dai quali sbalzavano scolpiti semicapitelli: dorici sopra alle semicolonne, eolico-ciprioti sopra ai pilastri-lesene. Niente epistilio né fregio a triglifi-metope ma, al posto di questi elementi canonici dell'ordine dorico, c'era una cornice a gola egizia. La fronte del naòs aveva semipilastri scanalati sormontati da capitelli ionici d'anta e una cornice a gola egizia con urei. Questo basamento occupa l'asse di un'area recinta da un tèmenos di poderosa struttura, del pari monolitica, con integrazione a grandi blocchi in apparecchio pseudo-isodomo. Il suolo roccioso dell'area sacra, tormentato dalle trincee del lavoro di cava, sarà stato coperto da uno strato di terriccio, forse un boschetto soltanto simbolico di ăshērōt. In un lato è scavato l'immancabile pozzo, qui munito di un pilastro al centro per sostenere la copertura lapidea. Questo edificio, che è quanto di più greco si conosca dell'architettura punica, potrebbe aver relazione con la presenza stabile in Tharros di greci massalioti, documentata dall'epigrafia per il IV sec. a. C. Databili anche a questo periodo sono la costruzione di un sacello scoperto a Tharros, con altare per le offerte e trono per il betilo, e quella del piccolo tempio di Bes a Bithia: pianta ellenizzante con pronao e naòs, orientata con gli angoli. Tra questo periodo e il successivo si datano gli strati superiori. del tofet di Tharros, scoperto di recente ed ancora in corso di scavo. Nel V periodo, forse per effetto della reazione romana dopo la battaglia di Cornus la parte superiore del tempio tharrense a pseudoportico dorico fu demolita e, più tardi, il grande basamento monolitico smontato fu sepolto da una colmata di rifiuti di cava, sopra alla quale fu costruito un nuovo santuario di tipo del tutto diverso, consistente in una vasta area a cielo scoperto e a pianta quadrata, pavimentata in calcestruzzo, intersecata da corridoi a rete labirintica. Nel lato sudorientale s'elevava un naòs tetrastilo e, davanti a questo, due altari, impostati su vespai, allestiti con materiale architettonico appartenuto al tempio distrutto. Al nuovo santuario appartiene un cisternone di tipo punico "a bagnarola" il più bell'esemplare di questa classe di monumenti finora scoperto in Sardegna. Sulla forma di questo nuovo tempio influì, forse per effetto dei rinnovati contatti mercantili col mondo libico, un tipo di santuario nordafricano rappresentato dall'esemplare algerino di el-Hofra (Costantina), di dimensioni assai più modeste. Questo periodo vide anche la sistemazione definitiva del tempio punico-romano di Nora. Da un cortile, pavimentato a mosaico in tessellato bianco-nero-giallo d'età antonino-severiana, si accede, montando per un'ampia scalea andesitica, ad una vasta aula quadrata, preceduta da un vestibolo, costruita con muri in bell'apparecchio di blocchetti lapidei, rivestiti di crustae di marmo colorato e pavimentata in opus sectile. Retrostante all'aula è un'abside allungata e divisa in due: forse non è che la parte sottostante di una grande edicola, il, cui piano superiore sopportava statue colossali (come, per esempio, nel tempio d'Iside in Pompei). Un'ala con ambienti a pianta quadrata si estende a N (magazzini, case di sacerdoti, cappelle?). Nei muri sono incorporati capitelli ionici d'arenaria, appartenuti a qualche demolito edificio dello stesso santuario. Questo deve aver conservato fino all'ultimo un aspetto orientale di vasto aggregato di cortili, cappelle, terrazze, caseggiati. Il sopravvivere di una tradizione costruttiva preromana s'intravvede nella struttura interna del teatro di Nora d'età flavia: invece delle arcate prescritte dai canoni vitruviani un terrapieno di pietrame sostiene la cavea e la facciata esterna a nicchioni. Sotto M. Aurelio o Caracalla furono apportati al tempio di Bes in Bithia restauri, ricordati in un'iscrizione neopunica. In età imperiale piena fu trasformato in peristilio il tempio di Tharros.

b) La casa d'abitazione. I più antichi esemplari di case puniche (assai rimaneggiate) sono stati scoperti a Nora sull'arenile del litorale rivolto a S-E. Pianta ortogonale ad uno o più vani accentrati intorno ad un atrio; struttura ad apparecchio irregolare di piccolo pietrame; frequente il tipo a "telaio". L'elemento coesivo è sempre la malta di fango. Qualche muro è tutto di fango. Pavimenti in battuto di argilla con buchi per infilarvi i peduncoli delle grandi anfore. Il materiale d'accompagno, trovato in questo quartiere, comprende frustoli di ceramica nuragica arcaica, cocci protocorinzi, qualche coccio attico a figure nere, vasi punici di tutte le epoche, frammenti di stucchi parietali del i° stile di Delo. La presenza di uno stradello, rettilineo e stretto come un budello, sembra testimoniare una lottizzazione dell'agglomerato urbano, adeguata a un piano regolare a scacchiera. Che la città fenicio-punica, in generale, sia nata sulla marina, dietro al porto, e si sia allargata gradualmente, attingendo le alture retrostanti, è un fatto che, già intuitivo in sé, è confermato dalla presenza, nella stessa Nora, di un altro agglomerato di case, sui fianchi della collina di Tanit e lottizzato in base ad un piano regolare con strade parallele. Queste case, rifatte in epoca imperiale, erano state costruite per la prima volta in un periodo della storia punica successivo a quello che aveva visto edificare le casette sull'arenile. Forse erano a più piani le case dell'altura di Tanit, di aspetto turriforme, come quelle esistenti a Cartagine ancora nel II sec. a. C. Considerato che in ogni sito di città punica in Sardegna si trovano anche ruderi di nuraghi, ciò pone il problema (non ancora affrontato) circa il rapporto topografico tra la sede indigena e l'agglomerato di abitazioni della gente venuta d'oltremare. Resti di case più evolute sono pavimenti musivi in tessellato monocromo bianco (Nora) o in coccio animato da motivi in tessere calcaree (Nora, Cagliari). Mancano dati di scavo che ci consentano di determinare la cronologia di questi pavimenti che, comunque, non sono più antichi del IV periodo. Altre case sussistono sulla collina di Bithia e un vasto quartiere è venuto alla luce durante i recenti scavi di Tharros. La loro prima costruzione è databile ad epoca ellenistica. Alcune sembrano avere la lolla cioè il cortile antistante come la moderna casa sarda di campagna. Con la nozione di casa e connessa quella dei dispositivi per il regime idrico. Il tipo più antico di cisterna punica in Sardegna ha pianta ovale. D'epoca successiva è quello a bagnarola, cioè stretto e lungo con i lati minori curvilinei, che si continuò a costruire anche nel V periodo. Cunette di scolo d'età ellenistica sono venute alla luce durante gli scavi in corso a Tharros, tagliate nella roccia, con spallette ad orli frastagliati, ch'erano integrate con copertura di blocchi lapidei.

c) Le tombe. A prescindere dai sarcofagi ad arca scavata nella roccia e da altri tipi non architettonici di sepoltura, quello che presenta interesse per l'architettura è il sepolcro ipogeico ad una o più camere, a profondità variante dagli 8 ai 10 m dal piano di campagna, accessibili mediante un pozzo a sezione rettangolare (Cagliari, Nora), o una scalinata incassata fra due pareti (Tharros, Sulcis, Monte Sirai), il tutto tagliato nella roccia. Di monumentale grandiosità sono gl'ipogei sulcitani: vani perfettamente squadrati, con nicchiette nelle pareti per deporvi lucerne, vasi, maschere, urne. Tacche e riseghe nelle pareti dei pozzi consentivano ai becchini di manovrare senza usare scale mobili. La porta della cella funeraria era chiusa con un blocco monolitico, ma il pozzo e la scalinata non avevano copertura: erano interrati e disterrati ad ogni nuova deposizione. Neanche di questa classe di monumenti si può seriamente stabilire una sequenza cronologica: si somigliano tutti, furono usati per più generazioni e, per la massima parte di essi, saccheggiati durante il secolo scorso, mancano dati di scavo.

d) Costruzioni militari. Platea di sostruzione della muraglia norense a struttura microlitica, simile a quella delle parti più antiche della cinta di Mozia, perciò databile al II periodo. Un tratto di muraglia norense, esterna al tempio neopunico, in apparecchio pseudo-isodomo, simile a quella di Lixus, in Marocco. Parte di muraglia sulcitana in località Monte de Cresia e muri tharrensi in opera quadrata, inclusi in un edificio termale romano, assegnabili al IV periodo. Sempre a Tharros, grandi merli ad orlo superiore arcuato, simili a quelli di Mozia. A Monte Sirai, resti di mura di tipo megalitico.

e) Costruzioni civili. Muri in bell'apparecchio isodomo forse appartenuti ad una stoà, nel quartiere delle case a Tharros, databili al IV periodo.

12. Scultura. - Immagini aniconiche. Le primitive immagini sacre furono aniconiche: un betilo (v.). Se ne trovano anche nella Sardegna punica, databili alcuni ad epoca arcaica, altri a tempi seriori. Sono pietre squadrate in forma geometrica: piramide, pilastrino unico o triplice rastremato in alto spesso sormontato dalla piramide e fregiato con i simboli astrali, pilastrino troncoconico ecc. Fra le immagini disegnative a rilievo e a mosaico è frequentissimo il "segno di Tanit".

Statue e rilievi. Le rappresentazioni aniconica e figurata durano parallele attraverso tutta la storia dell'arte feniciopunica. Il monumento più arcaico e di straordinario interesse è una stele del tofet sulcitano (fig. 639). In una edicola di tipo egizio sta sopra un plinto un dio barbato, di profilo ma con occhio di prospetto, costume orientale e lancia nella sinistra. Non è chiaro se la destra benedica o regga un attributo. Segni astrali in alto e in basso alle cornici e rami di palma ai montanti. Analogie con rilievi siriani e con sigilli palestinesi del I millennio inducono il Pesce a datare il rilievo sulcitano al I periodo del nostro inquadramento storico. Tale cronologia è confermata dall'essersi trovata la stele in uno degli strati più bassi. Una protome leonina d'influsso etrusco, grande al naturale in alabastro, conservata nel Museo Barracco, forse sostegno di trono di divinità; e una piccola stele tharrense in arenaria con eroe e mostro alato vanno assegnati al II periodo avanzato. Il Bes colossale di Bithia, I due Dèi Nani da Maracalagonis, il leone in arenaria dal grande tempio tharrense, la Sfinge in granito rosa dal vecchio orto botanico di Cagliari sono databili al IV periodo i due Dèi Nani da Fordongianus in arenaria vanno datati al V periodo (furono trovati nelle terme traianee). Ad epoca non più antica del IV periodo sono da assegnare il rilievo tharrense in arenaria col ballo tondo celebrato, con ellenistica scompostezza di ritmo, da donne nude intorno a un fallo; e la piccola base marmorea sulcitana del donario di Imilcone, con divinità puniche effigiate secondo tipi greci e con forme un po' tozze e massicce, che ricordano la sposa dei rilievi di arule fittili tarantine del V secolo. Le piccole stele lapidee dei tofet formano una classe di monumenti di rilevante importanza, perché è come un compendio dell'architettura e della scultura puniche di Sardegna. Un primo tentativo già fatto di determinare la cronologia va approfondito in base a molti nuovi esemplari, venuti fuori dal tofet di Sulcis scoperto nel 1959 e da quello di Monte Sirai scoperto nel 1963. I gruppi tipologici, che si collegano a modelli più arcaici, sono quelli del trono sopportante un betilo e del piccolo cippo a timpano arcuato, riecheggiante prototipi di grande formato egizi e fenici, i cui temi (serie punica) sono l'ariete di Ammone o il cavallo di Hadad incedenti di profilo sotto il duplice segno astrale. Nella maggior parte delle altre stele sono effigiati un betilo o una figura antropomorfa, stante e frontale, spesso come idolo sul plinto. È una dea nuda prementesi i seni o panneggiata in costume punico o greco con attributi varî, per lo più il tamburello, ch'essa porta con ambo le mani all'altezza del petto. La figura è sempre in un'inquadratura architettonica, riproducente in formato ridotto e con volume appiattito una facciata di naìskos egittizzante o ellenizzante o eclettica (colonnine ioniche o doriche o eolico-cipriote e cornice a gola egizia con o senza urei e sole alato). Gli esemplari con le colonnine doriche non sono più antiche di questo periodo, perché l'ordine dorico entra nell'arte punica non prima del 396. Queste stele imitano in formato ridotto veri monumenti architettonici (come la già ricordata edicola norense con gli urei) che dovevano essere visibili nei luoghi di culto del mondo fenicio-punico. Frequenti nel N dell'isola (per esempio presso il lago Barazza) si sono trovate grandi stele lapidee funerarie a timpano arcuato, spesso bifronti, con una faccia umana a bassorilievo in forma "primitiva" a contorni lineari. Qualche esemplare presenta una coppia di facce. Ritratti di defunti? Produzione di artigianato popolaresco databile al IV-V periodo.

Statuette in bronzo e strumentario d'interesse artistico nella stessa tecnica. Al I o II periodo sono databili: un dio barbato (dalla Nurra di Alghero) con alta tiara conica, torso nudo senza anatomia e ascelle arcuate, derivante da un tipo di guerriero della piccola statuaria greca geometrica; due elementi di torciere da S. Vero Milis e da Santa Vittoria di Serri, di tipo fenicio-cipriota, con colatoi umbelliformi e portafiaccola a tripode rovescio. Immagine del Sardus Pater (un Ba῾al effigiato nel retro di una moneta del propretore Attio Balbo del 59 a. C. e venerato in un santuario, che pare fosse al Capo della Frasca) è generalmente considerato un bronzetto da Genoni. Stante, barbato, in veste talare e tiara plumare, la sinistra protesa reggeva uno scettro, l'altra mano si leva a benedire. Il tipo di testa si riscontra nella scultura greca della fine del V o dei primi del IV sec., ma la veste velata e la turgidezza quasi muliebre del petto derivano da modelli orientali (cfr. grandi statue marmoree cipriote nel museo di New York). Altri otto bronzetti sono nella raccolta Dessì del museo sassarese.

Una cinquantina di rasoi in bronzo fuso, simili per misure e schema agli esemplari africani. La forma di alcuni manici evoca un rostro di pesce-spada o di pesce-forca piuttosto che il becco di un trampoliere. Solamente 4 esemplari sono decorati con figure graffite nei piani delle lame. Uno di questi, eccezionalmente grande (è lungo m 0,19 mentre gli altri non superano i 12 cm), ha il manico foggiato a testa di ibis. Il lunghissimo becco dischiuso ricorda le eleganti sintesi lineari di certi bronzetti nuragici e, in genere, dell'arcaismo greco, cui il Pesce ritiene coevo quest'oggetto. C'è una carica di vitalità in questa linea proiettata, che fa del modesto arnese una piccola opera d'arte. In una sola faccia della lama sono graffiti un piccolissimo capitello eolico, una palmetta fenicia e un rosoncino. Negli altri tre rasoi, databili al IV periodo, l'ornato graffito è in ambedue le facce della lama. In un lato, si vede una dea stante associata al suo betilo in forma di vaso-idolo sopra un altare rappresentato da una tràpeza. Nell'altro lato è una bizzarra figura magica con un testone gorgonico, duplice segno astrale al petto, un perizoma e, fra le gambe, un lungo fallo pendulo (cfr. statuette fittili con organi sessuali accentuati del tofet di Cartagine). È questo il più "punico" fra i rasoi trovati in Sardegna. Invece il terzo è il più permeato d'influenza greca. Il manico è configurato a due teste di cigno, la madre portante il piccolo: con classica nobiltà s'incurvano i colli. Lato a): una figura virile siede sotto un tralcio d'edera, che si stende con libero movimento, come nella ceramografia attica di fine V secolo. Lato b): un cigno dalle ali striminzite, che ricordano la maniera dei ceramografi attici della cerchia del Pittore della Gorgone (580-570). La coesistenza di due linguaggi di epoche diverse è ben spiegabile con l'eclettismo dell'arte punica. Nel quarto rasoio sono incise una Iside e una processione di figurine egittizzanti, simili a quelle delle striscioline auree ed argentee dei tubuli, ispirate dalla magia originaria della Valle del Nilo. In altri due rasoi l'ornato è realizzato col bulino. Nessuno di questi motivi trova riscontro nella serie dei rasoi cartaginesi. Gli esemplari del museo cagliaritano, dunque, sono prodotti di un artigianato locale il quale, pur nei limiti dello schema essenziale del rasoio punico, segue una propria tradizione di repertorio figurativo, indipendente da quello della metropoli.

Scultura in legno. Due statuette: un Osiride-mummia, trovata nello strato punico di un pozzo nuragico ad Olbia, ed un Bes da una cisterna romana di Nora. Benché non siano propriamente d'interesse artistico, tuttavia per la loro rarità vanno menzionate le bare di legno, i cui resti troviamo sempre più frequentemente negli scavi delle tombe sulcitane.

13. Suppellettile di piombo. - Nel tofet di Nora associati alle urne con i resti combusti erano altri vasi, contenenti oggetti di piombo, come tripodi con fusto a colonnina terminanti con un piattello, patere, scodelline, cucchiaini, spatolette, lucernette, una bipenne. Essendo minuscoli questi oggettini non potevano servire ad uso pratico ma erano simbolici. In tombe di Olbia e di Sulcis si sono trovate urne a scatola, simile a quelle di cartone da noi usate per le scarpe. Il piombo era metallo funerario per eccellenza. Lo stesso a Cartagine.

14. Coroplastica. - Durante il I e II periodo le influenze cipriota, egizia e greca si contendono il campo; poi la greca, specialmente la siceliota, prevale nel IV periodo. Nel V a questi influssi si sostituiscono il tardo-etrusco e l'italicoellenistico. Tipi più significativi: 1) testina virile policroma di tipo cipriota trovata nello strato inferiore del grande tempio di Tharros. 2) Dea (o mortale adorante?) nuda con le mani al petto, stilisticamente vicina alle statuette più arcaiche d'Ibiza (VII-VI sec.). 3) Dea stante panneggiata. Di derivazione siceliota è il raccordo fra testa e spalle mediante un'ampia massa di capelli; il tamburello, che l'immagine stringe al petto, è una variante punica, sostituita alla colomba, ch'era nel prototipo greco del 550-530 a. C. 4). Il tipo della dea nuda che si preme i seni (gesto magico della dea-madre nutrice del bestiame) è rappresentato da una statuetta norense del VI secolo. 5) Dea, conformata ad uno schema medio fra il tronco arboreo e la forma umana. Il tipo ha origine più antica di questo periodo, ma l'esemplare in questione, per una certa sensibilità plastica e lievemente chiaroscurale, non può essere stato plasmato prima del VI secolo. 6) Dea da Tharros diademata stante, in peplo con apòptygma e portante un fiore di loto e una corona. Tagli orizzontali, rigida frontalità. Il suo modellatore punico fu impressionato da qualche tipo siceliota del 550-530 a. C. 7) Dalla necropoli cagliaritana di Predio Ibba provengono immagini, ravvivate da colorazione rossa, di una dea assisa in trono. Databili alla seconda metà del VI sec., sono prodotti di ripetizioni e trasformazioni, che illanguidiscono il tipo, originario della Grecia orientale. 8) Maschere "orride" apotropaiche da Tharros e da S. Sperate, simili alle cartaginesi ed alle baleariche (v. sopra). I buchi agli occhi e agli orli inducono a credere che queste maschere s'applicassero a manichini di sostanza deperibile, ostentati nelle pompe funebri. Non è impossibile che i loro remoti prototipi avessero avuto una funzione magica in riti iniziatici, come presso popoli primitivi, conosciuti in epoca moderna. Greca è l'accentuazione vitale, sprizzante dal tormentato scavare nella massa plastica, che crea l'emergere dei pomelli e del naso, l'aggettare delle arcate sopraorbitarie, l'affondare della bocca. È l'influsso dell'espressionismo protoarcaico greco (cfr. mascheroni pregorgonici di Tirinto e maschere "orride" del santuario spartano di Artemide Orthìa). 9) Dalla stessa tradizione, caratterizzata dall'incisività, espressa con la forte tensione delle labbra arcuate e degli occhi inflessi e dei pomelli in risalto, scaturisce una bella protome di dea velata da Tharros (Collezione Gouin del museo cagliaritano). 10) Protomi di sorridenti dee diademate e velate, da Nora e da Sulcis, plasmate sotto l'influsso di reminiscenze di modelli ionici. Un esemplare, databile al 550-530, presenta caratteri rodî: capelli minutamente fini, plastica delicata e lineamenti sfumati, ma senza il sorriso ionico e senza tensione interna; insomma senza quella carica di vitalità, ch'è presente in tante coeve immagini del mondo artistico greco. 11) Maschera di dio barbato della seconda metà del V sec. (dallo stagno di S. Gilla (porto navigabile di Cagliari antica): i riccioli, che sembrano cesellati, ricordano i rilievi di due stele siceliote da Pachino e da Camarina nel museo siracusano. 12) Un satiro danzante con movimento sfrenato, plasmato a rilievo in una lastrina, fu ispirato da qualche modello siceliota o italiota del V sec. pieno. 13) In due protomi barbate dallo stagno di S. Gilla un elemento di espressionismo siceliota o italiota del V sec., quale la fronte solcata da una grande ruga e i larghi occhi con palpebre pesanti, è associato ad una bocca sentimentale, che ci obbliga ad abbassare la data di queste maschere alla metà del IV secolo. 14) Testina di dea conforme al gusto greco di fine V o principio del IV sec. ma raggelato da un'espressione di fissità tutta orientale, dovuta al coroplasta punico. 15) Dea in peplo con apòptygma e coronata di diadema adorno di rosette; nelle mani un cigno e una melagrana. Da un modello siceliota di circa il 400 a. C. 16) Dea della terra, panneggiata, con collana di semi (cioè suggerita dai veri monili con vaghi d'oro in forma di semi, amuleti atti a promuovere la fertilità della terra) e diadema in forma di modio. Da un modello siceliota del IV secolo. 17) Tympanistria da un prototipo siceliota del IV-III secolo. 18) Numerose immagini di Bes, fra cui un esemplare cagliaritano. La voluminosità del perizoma e la snellezza della tiara plumare denotano un'epoca tra la fine del IV e i primi decennî del III secolo. 19) Grande statua muliebre stante panneggiata, trovata a Cagliari presso il tempio punico di via Malta (Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco): fors'è una Demetra del IV secolo. Il coroplasta punico che la plasmò dovette essere impressionato da qualche peplophòros siceliota di fine V sec. (cfr. testoni muliebri sardo-punici, fra i quali uno dal porto cagliaritano; D. Levi, in Boll. d'Arte, xxxi, 1937, p. 206, fig. 16). 20) Maschera muliebre da Nora: capelli spartiti, grande diadema, espressione quieta e serena. Forma emigrata dal mondo artistico greco della Sicilia o dell'Italia meridionale. I lontani prototipi sono da ricercarsi nelle maschere greche della prima metà del V sec. 21) Testa muliebre con acconciatura a spicchi non più antica del IV né più recente del II secolo. 22) Al IV periodo va datata tutta una serie di bruciaprofumi, la cui tazza è sopportata da una testa muliebre; erano associati ad assi romani in un santuario rustico, sistemato fra le rovine del nuraghe Lugherras di Paulilàtino. 23) Al IV periodo sono pure da assegnarsi grandi mezze teste muliebri di profilo, simile a copiosi esemplari, trovati nelle coeve stipi votive etrusche ed italiche. 24) Fine del IV periodo: una testina di Etiope; una testa colossale di grifo dalle sopracciglia profondamente segnate, conformi a un linguaggio violento barocco ellenistico, lontano dalla concisione e asciuttezza arcaiche; una zampa dello stesso mostro, dal pelame impressionistico, rapidamente espresso a tratteggio. 25) A cavallo fra il IV e il V periodo sono da collocarsi le figurine campanate della stipe votiva di Bithia, ex voto di infermi guariti da una divinità salutare, prodotti di un artigianato, che usa un linguaggio popolaresco umile, da analfabeti, ingenuo e spontaneo, perciò talvolta espressivo (prodotti simili si sono trovati ad Ibiza). 26) Sardus Pater, statuetta da Nora. Testa di tradizione greca non più antica del IV sec. (tipo del Sardanapalo prassitelico); il corpo è un supporto di linguaggio primitivo popolaresco. 27) Due statue terzine: giovani nudi dormienti secondo il rito dell'incubazione, uno cinto da un serpente, trovati nel tempio punico-romano di Nora, insieme con quattro statuette di offerenti. Artigianato d'influsso italico del II-I sec. a. C. 25) Testa muliebre con capelli a fiamme, databile ad epoca non più antica della fine del III sec. a. C. 28) Statuetta di sacerdote di Tanit da Olbia, la cui testa ricorda certi ritratti della tarda arte etrusca del II-I sec. a. C.

15. Ceramica. - Al contrario dei vasi greci quelli fenici e punici non sono quasi mai ornati con disegni dipinti. Tipi arcaici: l'oinochòe piriforme a corpo articolato, labbro trilobato, alta ansa a nastro. La lèkythos panciuta con collo a fungo articolato mediante un anello, cui si raccorda una piccola ansa ad orecchia. Spesso questi vasi sono ingubbiati di un colore opaco rosso-mattone. Altri tipi sono l'olla a pentola; l'anfora a pancia troncoconica senza collo e con piccole anse ad anello in alto; il bruciaprofumi a coppa e sottocoppa; la lucerna monolichne di tradizione fenicia e la bilichne; l'askòs zoomorfo. Nel V sec. l'anfora s'allunga, assumendo forma a siluro peduncolato.

L'oinochòe, perduta l'eleganza arcaica, si presenta con una pancia a globo e con un collo basso e largo. Il cratere acquista forma ovoidale senza collo e con piccole anse in alto raccordate alla bocca, orlata con labbro a tarallo. Resta nell'uso la lucerna a due becchi. Nel IV periodo l'oinochòe assume eleganza ellenistica, con un corpo ovoidale, collo snello ed ansa sinuosa. A questo periodo è databile una coppia di anfore, trovate in una tomba di Cagliari, rarissimi esemplari a decorazione dipinta con motivi lineari rossi su fondo giallo chiaro ed iscrizione votiva; il tutto composto organicamente in una sintassi, che presuppone il senso greco dell'armonia delle forme. Tipi degli ultimi periodi: salvadanai non molto diversi da quelli ancora in vendita nelle nostre botteghe di terraglie, vasetti-biberons in forma di brocchetta o di melagrana, piattelli ecc.

16. Oreficeria. - I gioielli degli ultimi tempi del I e quelli del II periodo sono i più belli e suggestivi per l'esotismo orientale delle loro forme per la finezza della fattura e sono anche i meno difficilmente databili, a causa delle loro particolarità tecniche, la più vistosa delle quali è la granulazione. Tuttavia non essendo la granulazione una tecnica esclusivamente arcaica, ne consegue che questo particolare tecnico non può costituire un criterio assoluto per la determinazione cronologica. In generale al periodo dello stile orientalizzante si sogliono assegnare i complicati orecchini a molteplici elementi, gli orecchini a baldacchino, a baule, quelli a croce d'influenza assira, trovati solamente a Tharros (produzione locale?), i ciondoli da collana con leoncini, falchetti, piccole piramidi, i braccialetti a lamine articolate con cerniere e decorate a sbalzo con motivi di repertorî egizio e cipriota, i braccialetti a cerchio nel quale è infilata una sferetta, decorata con spirali e granuli, gli eleganti anelli foggiati a profilo delle corna della dea-vacca Ḥatḥōr e reggenti come castone girevole uno scarabeo. Agli ultimi tempi del I periodo è da assegnare un raro pendaglio con figura sbalzata su lamina argentea, rappresentante un Pòtnios theròn. L'orafo, che creò le penne da diadema, trovate nelle tombe 14 e 26 di Nora, sarà stato impressionato dalla visione di modelli ciprioti della prima metà del VI secolo. Non è impossibile che, verso la fine del I periodo e durante il II, l'importazione di questa oreficeria orientalizzante e ionizzante sia stata effetto dei contatti commerciali con i Focei di Massalia e con gli Etruschi, amici dei Cartaginesi ed aventi colonie in Sardegna (per esempio a Pheronia, oggi Posada). Meno facilmente databili sono i tubuli con coperchietto a testina di leonessa (la dea Sakhmis) o di falco (il dio Horus), contenenti lamine auree o argentate tagliate a striscia lavorata a sbalzo, con teoria di divinità, i cui prototipi di significato magico sono presenti in Egitto fin dalla XXII dinastia. Considerato che uno degli esemplari cartaginesi è databile al VII sec., anche i nostri potrebbero datarsi al I periodo. Ma dobbiamo badare al fatto che questi oggetti furono ripetuti per secoli. In ultima analisi questa classe di monumenti è ancora da studiarsi bene a fondo.

Al terzo periodo ed ai successivi sono da assegnarsi, fino a prova contraria, gli altri oggetti, grossolani e difficilmente databili: anelloni crinali a spirali lisce e con anima di bronzo, anelli digitali senza castone o con castone ad occhio o a disco, liscio o inciso con testine, guerrieri, palmette, simboli astrali, iscrizioni; collane con vezzi d'oro alternati a vezzi in pietre dure o in vetro, simili ad esemplari trovati in Italia e forse esportati da Cartagine.

Per finezza di fattura si distinguono dai prodotti precedentemente nominati due pendagli aurei da collana a lamine sbalzate. L'immagine effigiata nell'uno è il busto di una dea nuda che si preme i seni. È un sincretismo fra la punica Tanit e l'egizia Ḥatḥōr. Asiatico è il gesto, egizia è la complicata acconciatura: una pesante parrucca "a tegole" con tenia e sormontata da due corna di vacca terminanti in urei discofori, delimitanti una corona fascicolata. Nell'altro pendaglio, configurato a testa di Ḥatḥōr, le corna sono di ariete egiziano cioè a cavatappi; al centro della corona fascicolata c'è una figurina di Horus infante con la Corona Bianca. Egizio è ognuno di questi motivi, ma non egizio è il modo di associarli e non egizî sono i riccioli spiraliformi sulle tempia. Gli orafi fenicio-punici che crearono questi gioielli non poterono copiare, dunque, determinati modelli, ma liberamente composero insieme singoli elementi dei repertorî iconografici egiziano e asiatico e crearono immagini originali. L'assenza della tecnica della granulazione e la ricerca di effetti chiaroscurali inducono a datare questi due oggetti al IV periodo piuttosto che alla fase orientalizzante prearcaica, come generalmente è stato affermato.

17. Scarabei. - Dei monumenti di questa classe, per la massima parte provenienti dalle tombe di Tharros, le immagini incise nel piano della pancia del coleottero si distinguono in tre serie: a) Prodotti egizî con figure d'Osiride, Iside e Horus, Bes, barca solare, falco di Horus; Iside alata con un faraone è in un esemplare della XXVI dinastia (700-650). b) Prodotti fenici o punici di stile egittizzante o assirizzante (per esempio un dio troneggia davanti all'albero sacro, Bes come pòtnios fra due leoni) o eclettico (come i due diaspri con personaggio che atterra un vinto asiatico: lo schema dell'aggruppamento e l'arma del vincitore sono egiziani, ma la tiara e la veste dello stesso sono di foggia assira). Di solito la composizione è iscritta in una linea marginale ed ha un esergo ombreggiato con tratti incrociati. Gli scarabei delle serie a e b si datano ai due primi periodi. c) Scarabei fenici o punici di stile ellenizzante. La pietra più usata è il diaspro verde, che si trova allo stato naturale nell'isola, e ciò fa pensare che questi oggetti fossero lavorati nei centri punici di Sardegna. Fra i temi mitologici sono preferiti Eracle e Bes-Sileno. A soggetti di genere e a figure di animali sono ispirati gli altri oggetti di questa classe. Sono più recenti di quelli delle serie a e b: cominciano a comparire alla fine del VI sec., poi diventano via via prevalenti ed esclusivi. Stile duro e piatto, ben diverso dal fresco plasticismo delle coeve creazioni della glittica greca. Le forme, imitanti quelle dello stile severo greco, durano in voga fino al IV sec. pieno (illusoria sarebbe per ciò l'idea di datare questi scarabei in base al metodo del confronto stilistico); la data di qualche esemplare di "stile severo" scende fino al III sec. a. C. Le immagini bizzarre e grottesche sono presenti nel IV periodo.

18. Ossi intagliati e vetri. - In questa classe di monumenti, che sono simili a quelli delle altre zone del mondo punico, basta menzionare singoli esemplari fra i più cospicui. Arcaiche sono le lastrine in osso intagliate con figurette di animali; erano state applicate a un cofanetto ligneo, trovato nella necropoli di Nora, forse di produzione cipriota. Al IV periodo si data un volatile, anche in osso, appollaiato su di un palmizio, trovato in una tomba sulcitana, forse manico di specchio o decorazione di spigolo di scrigno. Al I periodo va assegnata una graziosa statuina-balsamario in maiolica smaltata di provenienza ignota. Rappresenta una divinità muliebre dell'acqua del Nilo: nuda, accosciata alla maniera delle schiave egizie con un vaso fra le gambe, la testa coperta di parrucca a volute e questa sormontata da un'alta corona di canne, il cui vertice fa da boccaglio. Sull'avana chiaro del nudo spiccano in scuro la parrucca, le armille e numerosi tocchi virgoliformi ai capezzoli, alle spalle e al dorso, che sono quanto sussiste dell'originaria forma zoomorfa di rana di questa dea o ninfa dell'acqua fluviale. Altri esemplari si sono trovati in Egitto, a Rodi, a Cartagine, a Cerveteri (in quest'ultima area associati a ceramica protocorinzia). Produzione del sec. VII-VI. Al IV periodo appartengono la bella collana olbiense in pasta vitrea, i cui vaghi di parata sono testine policrome dei cosiddetti Barbableu, riecheggiamento, forse alessandrino, di qualche remoto idolo assiro, qui usate con funzione apotropaica; e un'elegante brocchetta in pasta vitrea verde, a pancia e piede troncoconici, spalla a calotta, collo corto, labbro a becco trilobato, ansa ricurva massiccia scanalata.

Gli amuleti sono del tutto simili a quelli di Cartagine. Di scarso interesse sono i modesti frammenti di uova di struzzo (da non potersi paragonare agli esemplari iberici e cartaginesi assai più notevoli).

19. Monete. - Cartagine non batté moneta prima della fine del V sec. quando, iniziata la campagna in Sicilia, dovette pagare i mercenarî, secondo l'usanza greca, in moneta anzi che in natura. Le prime monete sono coniate da artisti greci a Panormos, onde il loro puro stile greco. Più tardi, e a decorrere dalla fine del IV sec., lo Stato cartaginese, non potendo provvedere di moneta tutti i suoi municipî, lasciò che questi emettessero proprî nummi di bronzo riservandosi il monopolio della coniazione in oro e in argento. Così ebbero origine zecche anche in Sardegna, i cui prodotti però non presentano speciale interesse artistico.

20. Conclusione. - Eccezion fatta per le opere di architettura e di scultura lapidea, per gli orecchini tharrensi a croce, per gli scarabei in diaspro, e per le terrecotte di Bithia e per le monete suddette, certamente fatti in Sardegna, degli altri monumenti non possiamo sapere quali furon lavorati nell'Isola e quali importati. Comunque ciò sia avvenuto, anche in Sardegna, come negli altri paesi del mondo punico, ci troviamo di fronte ad un artigianato, che crea forme, risultanti da una coordinazione armoniosa di elementi, derivati - direttamente o per interposto tramite - dalle arti di altri popoli. Lo studio in profondità di quest'arte sardo-punica comincia appena, onde non possiamo ancora capire se, accanto alle componenti asiatica, egiziana, cipriota, ionica, etrusca, siceliota, alessandrina, ve ne sia anche una nuragica; e del pari non sappiamo ancora quanto altro di punico sia entrato nel mondo culturale nuragico, oltre agli effetti degli stimoli (gia intuiti da studiosi d'oggi) che provocarono l'esplosione del fenomeno dei bronzetti protosardi e la concezione degli ultimi nuraghi a blocchi parallelepipedi (v.nuraghe; sarda, arte).

Bibl.: G. Pesce, Sardegna punica, Cagliari 1961: (altra bibl. generale v. sopa a pag. 551). Inoltre si veda: P. Mingazzini, Il santuario punico di Cagliari, in Studi Sadi, X-XI, 1952, p. 115 ss., per la statua fittile conservata nei Musei Vaticani; Leone Barracco: W. L. Brown, The Etruscan Lion, Oxford 1960, p. 116. Placchette norensi in osso: L. Pollak, Die archaischen Elfenbeinreliefes, in Röm. Mitt., XXI, 1906, p. 316; G. Pesce, Achitettura punica in Sardegna, in Boll. Centro Studi di st. d. archit., XVII, 1961; id., Il tempio punico monumentale di Tharros, in Mon. Ant. Lincei, XLV, 1960; A. Lézine, architecture punique, in Recueil de documents, Publications de l'Université de Tunis, S. I, V, 1960. Gli ori del museo cagliaritano sono stati esposti alla mostra degli ori antichi in Torino 1961; se ne tratta nel relativo Catalogo. Sulle gemme bibliografia ottocentesca citata da A. Taramelli, Guida del mus. naz. di Cagliari, Cagliari 1915; dal punto di vista storico-artistico v. A. Furtwängler, Gemmen, p. 108 ss.; quelle tharrensi emigrate a Londra sono edite da H. B. Walters, Cat. of the Engraved Gems in the Brit. Mus. (Londra 1926); Rasoi: G. Pesce, I rasoi punici di Sardegna, in Boll. d'Arte, IV, 1961.

(G. Pesce)

21. Artisti punici. - Si dà qui un elenco dei nomi di artigiani punici menzionati nelle iscrizioni, divisi per località.

Cipro (Kition):

Arzaba῾al: v. cipro, p. 643; Ḥagay (ḥgy): fonditore (C.I.S., I, n. 67); Milkyaton: v. cipro, p. 643.

Sicilia (Mozia):

Matar (mtr): ceramista ricordato da un'iscrizione funeraria (C.I.S., I, n. 137).

Sardegna (Cagliari):

Akbor (῾kbr): architetto ricordato dall'iscrizione dedicatoria di un tempio (J.-B. Chabot, Punica, in Journ. Asiat., S. ii, X, 1917, pp. 5-11).

Tunisia (Cartagine):

Abadon: ceramista il cui nome compare su uno stampo in latino: ex officina Abeddonis (Rép. épigr. sém., n. 120); ῾Abdmelqart (῾bdmlqrt), figlio di Shafaṭ: bronzista ricordato da un iscrizione votiva (C.I.S., I, 330); ῾Akboram, 1° (῾kbrm), figlio di Ḥanniba῾al; architetto di un duplice santuario ad Astarte e a Tanit del Libano, ricordato da un iscrizione dedicatoria, databile tra il 300 e il 150 a. C. (Rép. épigr. sém., 17) ῾Akboram, 2° (῾kbrm), figlio di Ba῾alshillek; fonditore ricordato da un'iscrizione votiva (Rép. épigr. sém., n. 6); Arish, 1° ('rsh), figlio di Bodashtart; artigiano ricordato da un iscrizione votiva (C.LS., I, n. 326); Arish, 2° ('rsh), figlio di Yatonba'al; orefice ricordato da un'iscrizione votiva (C.I.S., I, n. 328); il Corpus considera, con poca verosimiglianza, come orefice il nonno di Arish, Mosef); Arish, 3° ('rsh), figlio di Shafaṭ; fonditore, ricordato da una iscrizione votiva (C.I.S., I, n. 3014); Bodashtart (bdshtrt), figlio di Mosef; orefice, ricordato da un'iscrizione votiva (G.I.S., I, n. 327; il Corpus considera orefice non Bodashtart, bensì il padre Mosef; cfr. Arish, 3°); Ḥanniba῾al (ḥnbl), figlio di ‛Abdadon; bronzista, ricordato da un'iscrizione votiva (C.I.S., I, n. 332); Ḥimilkat, 1° (ḥmlkt), figlio di Arish; artigiano, ricordato da un iscrizione votiva (C.I.S., I, n. 325); Ḥimilkat, 2° (ḥmlk), figlio di Gerashtart; orefice, ricordato da un'iscrizione votiva (C.I.S., I, n. 329).

Tunisia (Thugga):

Abarish (῾brsh), figlio di ῾Abdashtart; scalpellino che collaborò all'erezione del mausoleo di Ateban, datato alla metà del Il sec. a. C. (J.-B. Chabot, op. cit., XI, 1918, pp. 259-79); Anakan (᾿nkn), figlio di Ashay; carpentiere che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.); Ḥanno (ḥn'), figlio di Yatonba῾al; fu uno dei due costruttori del mausoleo eretto da Micipia nel 149 a. C. a Masinissa (op. cit.); Mangi (mngy), figlio di Warsakan; scalpellino che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.); Masdal (msdl), figlio di Nanfasan; carpentiere che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.); Niptasan (npṭsn), figlio di Shafaṭ, fu uno dei due costruttori del mausoleo di Masinlssa (op. cit.); Pafay (ppy), figlio di Babay; fonditore che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.); Shafaṭ (shpṭ), figlio di Bilel; fonditore che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.); Ṭaman (ṭmn); scalpellino che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.); Warsakan (wrskn); scalpellino che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.); Zizay (zzy); scalpellino che collaborò al mausoleo di Ateban (op. cit.).

Algeria (Costantina):

Ba῾alyaton (blytn); fonditore, ricordato da un'iscrizione votiva databile al Il sec. a. C. (A. Berthier-R. Charlier, Le sanctuaire punique d'el-Hofra à Constantine, Parigi 1955, p. 79, n. 93).

(G. Garbini)

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