Schopenhauer, Arthur

Enciclopedia Dantesca (1970)

Schopenhauer, Arthur

Gianfranco Morra

Filosofo tedesco (Danzica 1788 - Francoforte s. Meno 1860). Discreto conoscitore della nostra lingua, lo S. lesse la Commedia, ma non riuscì a intenderne appieno l'originalità e il significato.

Le sue reazioni nei confronti degli scrittori italiani sono indicate con precisione nei Parerga und Paralipomena (1851): " Fra tutti i poeti italiani prediligo il mio amato Petrarca. Nessun poeta al mondo l'ha mai superato per profondità e intimità di sentimento e per l'espressione immediata che sull'istante afferra il cuore. Perciò i suoi sonetti e canzoni mi sono incomparabilmente più cari delle frottole fantastiche dell'Ariosto e degli orribili mostri di Dante. Il flusso naturale del suo discorrere che scaturisce direttamente dal cuore agisce su me ben diversamente dalla povertà di parole studiata, anzi affettata, di Dante " (Metafisica del bello e estetica, § 229; traduz. ital. Torino 1963, 1135).

Almeno due ragioni non consentirono allo S. un pieno intendimento della Commedia: in primo luogo il pregiudizio diffuso nell'epoca romantica della superiorità (‛ umana ' e ‛ corporea ') dell'Inferno sulle altre cantiche; in secondo luogo la sua Weltanschauung indonichilista, per la quale l'essere coincideva rigorosamente con il male. L'Inferno è reale, perché è la riproduzione del Weltschmerz (mentre nel Paradiso troviamo solo una sterile e noiosa scolastica in versi): " Donde ha preso Dante la materia del suo inferno, se non da questo nostro mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bello e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti ad una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta. Perciò non gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache, gli ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, da differenti santi " (Die Welt als Wille und Vorstellung, I, § 59; traduz. ital. Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari 1928, 404).

Non deve stupire, date le premesse pessimistico-eudemonologiche del sistema, che lo S. consideri tutto l'Inferno come una " apoteosi della crudeltà " e che veda in " Domeneddio " un raffinato e inaudito desiderio di vendetta: " Confesso sinceramente che la grande fama della Divina Commedia mi sembra esagerata. In gran parte, senza dubbio, essa è dovuta all'eccezionale assurdità dell'idea fondamentale, a causa della quale nell'Inferno ci viene presentato, con crudezza, il lato rivoltante della mitologia cristiana; per una certa parte, anche, all'oscurità dello stile e delle allusioni. Tuttavia sono estremamente ammirevoli la concisione e l'energia dell'espressione, che spesso giunge alla laconicità, e ancora più la forza impareggiabile della fantasia di Dante. Grazie ad essa egli conferisce alla descrizione di cose impossibili una verità evidente, che è perciò affine a quella del sogno; infatti, dato che non poteva avere esperienza di queste cose, sembra che le avesse dovute sognare, perché potessero essere ritratte in modo così vivo, preciso e intuitivo " (Parerga, cit., p. 1135).

Anche l'interpretazione che lo S. dà del titolo è certo schopenhaueriana, ma non dantesca: " Il titolo dell'opera di Dante è assai originale e appropriato ed è difficile mettere in dubbio che esso abbia un senso ironico. Una commedia! Davvero, ciò sarebbe il mondo " (p. 1136).

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