Artide e Antartide

Il Libro dell'Anno 2007

Roberto Azzolini

Artide e Antartide

«I am hopeful that Antarctica in its symbolic robe of white will shine forth as a continent of peace as nations working together there in the cause of science set an example of international cooperation»

(Richard Byrd)

La ricerca polare del CNR

di

26 febbraio

A Strasburgo, Londra e Washington viene presentato il programma di ricerca interdisciplinare che, in occasione dell’Anno polare internazionale 2007-2008 promosso dall’International Council of Scientific Unions e dalla World Meteorological Organization, impegnerà in 228 progetti 50.000 scienziati di oltre 60 paesi. Fra le ricerche in Artide e Antartide un ruolo significativo rivestono quelle italiane condotte dal CNR.

Perché i poli

Fino a un passato non lontano, che si misura nello spazio di una generazione, si riteneva che gli eventi naturali sfavorevoli all’uomo, come alluvioni, desertificazioni, epidemie, disastri geologici, sensibili variazioni climatiche, piogge acide ecc., fossero casuali, o rientrassero nella variabilità naturale del clima che oscilla attorno a un punto di sostanziale equilibrio. Solo recentemente si è andata formando la convinzione che certi fenomeni naturali, atmosferici e meteoclimatici siano connessi a situazioni non casuali, con effetti duraturi, magari irreversibili, e rappresentino cioè una tendenza evolutiva destinata a cambiare la qualità della vita della nostra e delle future generazioni. L’insieme di questi effetti, che vengono definiti cambiamenti globali o global change, dipende in modo significativo dall’azione umana che, attraverso lo sviluppo demografico e industriale, produce conseguenze in grado di modificare profondamente e stabilmente gli equilibri climatici biologici e idrogeologici del pianeta. Il problema del global change è complicato dal fatto che la conoscenza degli effetti di lunga durata indotti dalle attività umane è ancora incompleta, così come è imperfetta la capacità di prevederli, essendo poco note la natura, le origini, le cause e le leggi che governano tali effetti e le loro interazioni. La situazione dello stato dell’ambiente globale, le previsioni aggiornate sulla base dei nuovi risultati scientifici, le indicazioni su come si può intervenire per mitigare i fenomeni negativi previsti sono riassunte nei rapporti redatti ogni sei anni dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). L’ultimo rapporto è stato definito nei primi mesi del 2007 e fornisce la più aggiornata valutazione dei cambiamenti del clima del pianeta e della loro evoluzione futura. L’umanità è di fronte a una sfida. Impellente è l’interrogativo posto dai cambiamenti globali, soprattutto da quelli climatici, i cui cicli di variazione naturale possono essere sempre più modificati dall’attività umana, in termini di entità e impatto sulla produzione di risorse alimentari e sulla frequenza e intensità dei disastri naturali. Per rispondere all’esigenza di sviluppare le conoscenze scientifiche sulle modificazioni in atto nel pianeta, la comunità scientifica internazionale ha avviato, sin dai primi anni 1990, programmi multidisciplinari di ricerca (per esempio l’IGBP, International Geosphere Biosphere Programme), richiamando l’attenzione di tutti i governi sulla necessità di affrontare congiuntamente lo studio integrato su scala globale dei processi riguardanti l’ambiente, la sua evoluzione e i meccanismi che ne regolano gli equilibri interni. Il contributo della scienza polare – che si estende dal limite esterno dell’atmosfera alle profondità dei bacini oceanici, in termini di tempo coprendo un intervallo che va dai miliardi di anni della storia geologica alla variazione estremamente rapida della luce dell’aurora australe e in termini di dimensioni spaziando dalla scala infinitesima dei microbi a quella continentale della calotta glaciale – è cruciale per la comprensione di come il sistema Terra operi a scala globale. Le conoscenze che possono derivare dalla ricerca nelle aree polari per qualunque previsione e salvaguardia dell’ambiente globale futuro sono determinanti. I programmi di ricerca nelle aree polari sono pertanto un elemento qualificante e strategico sul fronte della protezione dell’ambiente, verso la quale anche l’Italia ha assunto impegni internazionali.

Tanto sono fondamentali le aree polari per la formazione del clima globale e per la comprensione dei suoi cambiamenti che la comunità scientifica internazionale ha avviato, a partire dal marzo 2007, l’Anno polare internazionale (IPY, International Polar Year), uno straordinario sforzo di ricerca internazionale coordinata, che avrà lo scopo di approfondire il ruolo delle regioni polari e di formare una nuova classe di giovani ricercatori in grado di comprenderne i fenomeni e le loro interrelazioni e di individuare le priorità di intervento per la loro preservazione. L’Antartide e l’Artide, seppure con le dovute distinzioni, costituiscono il motore dell’intero sistema climatico terrestre, il cui funzionamento è legato a un delicato rapporto fra ghiaccio e oceano che consente a queste aree di innescare una circolazione oceanica e atmosferica in grado di ridistribuire l’energia solare fra le varie aree geografiche del pianeta. Il ghiaccio terrestre e marino funziona come uno specchio riflettente che restituisce all’atmosfera una parte della radiazione solare incidente. Le distese ghiacciate di Antartide e Artide costituiscono oltre il 98% dell’intera massa di ghiaccio del pianeta. È estremamente probabile che il riscaldamento del pianeta che si sta registrando in questi ultimi decenni porterà, anche in tempi dell’ordine di due generazioni, a una sensibile riduzione dell’estensione, sia media annua sia stagionale, dei ghiacci marini. La diminuzione della superficie ghiacciata riduce la capacità delle regioni polari di riflettere la radiazione solare, aumentandone l’assorbimento e, di conseguenza, favorendo ulteriormente il riscaldamento dell’atmosfera. Ciò a sua volta genera una serie di conseguenze, tutte dirette a produrre un aggiuntivo squilibrio del clima. Infatti, una minore estensione dei ghiacci determina una minore capacità di assorbire l’eccesso di CO2 in atmosfera, rafforzando ancora la tendenza al riscaldamento del pianeta. Inoltre, potrebbe essere reso meno efficiente il meccanismo che, attraverso l’affondamento delle gelide acque polari, richiama acque temperate dalle più basse latitudini e raffredda queste ultime con l’acqua polare che scorre sul fondo degli oceani. L’inceppamento di questo meccanismo potrebbe produrre un incremento di temperatura e precipitazioni nelle regioni equatoriali, riducendo l’afflusso di aria umida verso le regioni tropicali e le medie latitudini, con conseguente potenziamento dei processi di desertificazione.

Rispetto al precedente rapporto dell’IPCC del 2000, i modelli matematici di previsione del clima si sono evoluti e possono anche contare su serie di misure più lunghe e geograficamente estese. Tuttavia essi, pur essendo in grado di precisare i futuri scenari del clima associati a diverse ipotesi di intervento dell’uomo, mantengono un ampio grado di incertezza (dell’ordine del 30%) e non sono ancora in grado di valutare l’effetto delle regioni polari sulle modificazioni del clima. Ciononostante, allo stato attuale delle conoscenze possono essere date valutazioni sufficientemente realistiche di ciò che dobbiamo attenderci per il futuro anche in funzione dei provvedimenti che saranno presi.

La caratteristica fondamentale delle regioni polari di contenere acqua in fase solida (ghiaccio) comporta l’esistenza di un’area, geograficamente identificata, nella quale avviene il passaggio di fase fra l’acqua e il ghiaccio. È proprio quest’area a fornire le informazioni più evidenti sui cambiamenti climatici; essa infatti occupa regioni ed estensioni diverse man mano che l’aumento della temperatura dell’atmosfera le spinge verso latitudini più estreme. A partire dal 1978, l’estensione annua del ghiaccio marino artico si è ridotta al ritmo del 2,7% per decennio, con diminuzioni più grandi in estate (media 7% per decennio). Ovviamente, tutto ciò influenza la flora e la fauna terrestri e marine che vivono in quelle aree, provocando profonde modificazioni negli ecosistemi, con scomparsa di specie e alterazione della biodiversità.

L’osservazione delle modificazioni delle regioni polari in conseguenza dei cambiamenti climatici non è il solo strumento di conoscenza che le regioni polari offrono. In esse possono essere raccolte anche informazioni scientifiche di fondamentale interesse per lo studio dell’evoluzione del pianeta. Infatti, l’ambiente antartico (e anche alcune zone dell’Artico se paragonate a zone industrializzate del pianeta) è ancora pressoché incontaminato e costituisce un’area indisturbata dove possono essere studiati, alla scala delle tracce, specifici fenomeni legati alle modificazioni dell’ambiente, che in altre regioni del pianeta sarebbero completamente coperti da un ‘rumore di fondo’ di gran lunga superiore al fenomeno stesso. Le calotte di ghiaccio (il plateau antartico e la calotta groenlandese), spesse oltre 3000 m, racchiudono la storia dettagliata di tutti gli eventi climatici che si sono verificati nel corso degli ultimi 500.000 anni (in Antartide, nella perforazione del sito denominato Dome C, progetto EPICA, ci si avvicina a un milione di anni). Ciò consente di mettere a punto modelli di evoluzione climatica a grande, media e piccola scala temporale, che forniscono elementi per calibrare i modelli di previsione. Gli organismi antartici, rimasti totalmente isolati dal resto del pianeta quando l’apertura dello Stretto di Drake, oltre 20 milioni di anni fa, ha separato il continente antartico da quello americano, hanno sviluppato proprie strategie di adattamento.

Inoltre, la posizione delle aree polari ai vertici del dipolo magnetico terrestre rende queste regioni punti di osservazione esclusivi per i fenomeni che riguardano le interazioni fra il vento solare e l’alta atmosfera terrestre (tempeste magnetiche, aurore). Infine, le aree in quota, fra le quali Dome C dove ha sede la stazione italo-francese Concordia, presentano caratteristiche di trasparenza atmosferica che le rendono particolarmente adatte alle ricerche astronomiche per lo studio della formazione dell’Universo.

Il network CNR di ricerche polari

Di seguito saranno schematicamente descritti alcuni fra gli argomenti fondamentali che costituiscono le grandi priorità della ricerca polare, su cui è prevalentemente orientata l’attività in questo campo del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Va chiarito subito, però, che, seppure fondamentale e quantitativamente rilevante, l’attività di ricerca del CNR rappresenta sempre un contributo a un ben più ampio Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, che coinvolge numerose università, enti e istituzioni scientifiche e rappresenta uno dei più importanti e riusciti esempi di cooperazione scientifica nazionale e internazionale. Il CNR, che partecipa al PNRA sin dal suo avvio nel 1985, a tutt’oggi impegna nel programma oltre 20 organi di ricerca e più di 150 unità di personale tecnico e scientifico. Per le proprie attività il CNR utilizza oltre il 20% delle risorse totali del PNRA, che mediamente assommano a circa 25 milioni di euro per anno. La ricerca scientifica polare del CNR è organizzata in una rete di istituti denominata POLARNET (network per la ricerca polare del CNR), costituita nel febbraio 1998. La rete presenta vari livelli funzionali di competenze e responsabilità, sia scientifiche sia gestionali, nel quadro di un’organizzazione concepita come una federazione di centri di eccellenza in grado di esprimere progetti scientifici coordinati. POLARNET è una struttura del Dipartimento Terra costituita dagli organismi di ricerca del CNR che svolgono in permanenza attività scientifiche particolarmente significative nei settori polari. Le aree geografiche di attività del CNR in Antartide sono quelle coperte dal PNRA, cioè la regione della Terra Vittoria e del Plateau Est Antartico, il Mare di Ross, l’area continentale e oceanica della Penisola Antartica, le basi argentine, cilene, statunitensi e le Orcadi; in Artico essenzialmente sono l’arcipelago delle Svalbard, in particolare Ny-Ålesund.

Il ghiaccio e la vita

Due sono gli aspetti principali che riguardano il ruolo del ghiaccio: il bilancio di massa della calotta glaciale e l’influenza del ghiaccio marino sulla circolazione oceanica e sulla biologia. Per quanto riguarda il primo aspetto, il ghiaccio della calotta antartica, completamente fuso, provocherebbe un aumento del livello del mare di oltre 60 m. La quantità di neve che si deposita annualmente sulla calotta antartica equivale a circa 5 mm di altezza del livello medio degli oceani. Questo accumulo viene restituito al mare attraverso il lento scorrimento del ghiaccio dalle regioni più elevate verso l’oceano, generando in esso delle piattaforme galleggianti che, frantumandosi, originano gli iceberg. In periodi molto recenti è stato osservato un aumento del numero e delle dimensioni degli iceberg dell’Antartide, ma non è ancora chiaro il trend del bilancio di massa della calotta antartica, che potrebbe quindi non essere responsabile dell’aumento di circa 1,6 mm/anno del livello medio marino riscontrato negli ultimi quattro decenni (dati IPCC); questo potrebbe invece essere legato alla fusione dei ghiacciai alpini e di notevoli estensioni di ghiaccio artico.

Come le calotte polari reagiscano a un aumento di temperatura del pianeta è dunque il tema dominante degli studi glaciali. Un incremento termico, se da un lato comporta la fusione di una maggiore quantità di ghiaccio, dall’altro può indurre una maggiore evaporazione e quindi un maggiore accumulo di neve sulle calotte. I due processi (maggiore velocità di fusione e maggiore accumulo) sono legati a scale di tempo diverse, così che potrebbero verificarsi in sequenza, producendo dapprima una diminuzione del livello marino dovuta a un maggiore accumulo di neve, seguita poi da un suo rapido aumento dovuto alla fusione della calotta. Gli studi paleoclimatici

nel ghiaccio sono fondamentali per ricostruire scenari simili accaduti in epoche lontane e fornire possibili modelli di previsione per il futuro.

In alcuni siti dell’Antartide (in particolare presso la stazione russa Vostok, la stazione italo-francese Concordia, i pozzi di perforazione di Talus Dome e Dronning Maud Land) e dell’Artico (Summit, Groenlandia), i carotaggi profondi della calotta di ghiaccio hanno messo in evidenza le variazioni di temperatura, il contenuto di CO2, i livelli di ozono e la pressione atmosferica del passato con precisione stagionale, insieme alle polveri di eruzioni vulcaniche anche di origine lontana. L’alta risoluzione delle informazioni ricavate dai carotaggi profondi delle calotte polari (oltre 3000 m) ha fornito una descrizione del clima e dell’ambiente di un passato non così estesa come per altri tipi di carotaggi (per esempio, i carotaggi nei sedimenti marini) ma estremamente dettagliata e ricca di informazioni. Da questi studi appare particolarmente evidente la perfetta fasatura fra variazioni di CO2 e variazioni di temperatura, nonché l’esistenza, negli ultimi 150.000 anni, di eventi che hanno cambiato profondamente il clima terrestre nell’arco di tempo equivalente a una generazione umana. Un ulteriore effetto del riscaldamento dell’atmosfera polare è quello dello scioglimento dello strato superficiale del permafrost che caratterizza il suolo delle regioni artiche. Il permafrost è il terreno congelato, che nelle aree polari si estende dalla superficie fino a diverse centinaia di metri di profondità. La temperatura del permafrost artico è aumentata in media di 3 °C dal 1980 (IPCC, 2007), mentre la sua estensione globale è diminuita del 7% nell’emisfero nord, con estremi estivi del 15%. Lo scioglimento dello strato superficiale del permafrost provoca processi di erosione del suolo e di completa alterazione della flora, in grado di cambiare drammaticamente l’ambiente artico. Ma vi è un’altra preoccupante conseguenza su scala globale del progressivo scioglimento del permafrost: la profondità e la persistenza dello strato attivo (sciolto) aumentano e, con loro, aumenta la liberazione di metano (CH4), gas rilevante per l’effetto serra. Analogamente, il metano sepolto nei sedimenti marini costieri potrebbe essere rilasciato dallo scioglimento del permafrost sottomarino. Quest’ultima ipotesi, sebbene ancora controversa, merita comunque attenzione per le sue potenziali conseguenze climatiche. Il ghiaccio non è soltanto un indicatore climatico e un archivio di eventi passati, ma svolge una funzione fondamentale sullo sviluppo e sul mantenimento della vita negli oceani. Si tratta, in questo caso, del ghiaccio marino, frutto di un delicato equilibrio fra oceano e atmosfera tale che ogni variazione di uno di essi si riflette inevitabilmente sull’altro, con conseguenze sull’intero ecosistema marino. Uno degli elementi fondamentali che regolano la formazione e l’estensione del ghiaccio marino, soprattutto in Antartide, sono i venti freddi continentali che discendono i ghiacciai con velocità elevatissime, anche superiori a 200 km/h. Questi venti, detti catabatici, sono vere e proprie fabbriche di ghiaccio in quanto assorbono grandi quantità di calore dalla superficie marina. Il ghiaccio che si forma ciclicamente intorno al continente antartico e nelle aree settentrionali dei mari artici costituisce un fattore di modulazione del clima del pianeta. Nel periodo di formazione, la creazione del ghiaccio si accompagna a una forte cessione di sale che appesantisce le masse d’acqua sottostanti e le spinge verso il fondo oceanico, da dove inizieranno un percorso verso le latitudini più temperate, portando refrigerio e sostanze nutritive. Una riduzione dell’estensione del ghiaccio marino, che potrebbe derivare da un riscaldamento dell’atmosfera terrestre, provocherebbe una minore cessione di sale agli strati profondi degli oceani e una maggiore cessione di calore. Complessivamente ne verrebbe a risentire l’intera circolazione oceanica con i suoi meccanismi di trasporto dei nutrienti e, più in particolare, i meccanismi di rigenerazione della sostanza biologica che avvengono nelle zone di confine fra acqua e ghiaccio e che sono la stazione della intera catena alimentare marina, dalle alghe ai pesci, dagli uccelli ai mammiferi.

Esistono molte evidenze che il ghiaccio marino sia un biotopo fondamentale per l’ecosistema marino antartico e che la produzione primaria operata dalla biomassa entro il ghiaccio potrebbe essere un importante fattore per il superamento del cosiddetto paradosso antartico (acque relativamente ricche di nutrienti che producono però una apparentemente scarsa quantità di plancton), del quale è opportuno tenere conto per più esaustivi modelli biologici dell’Oceano Antartico. Fra gli studi di maggior interesse e di più ampio respiro svolti in Antartide dai ricercatori italiani vanno certamente segnalati quelli che riguardano i flussi di materia ed energia nel sistema acqua-ghiaccio marino e che trattano aspetti importanti, al centro dell’interesse della ricerca antartica internazionale, come il ruolo della concentrazione di ammonio e urea nel ghiaccio per il mantenimento della produttività, il ruolo chiave del grazing (consumo del fitoplancton da parte dello zooplancton erbivoro) nel controllo dell’ecosistema e gli studi sulla esportazione di materia organica di origine planctonica, sulla sua sedimentazione, degradazione e trasporto verso lo strato profondo e infine sul ruolo di batteri e altri microrganismi nel recupero della sostanza organica disciolta (microbial loop).

Una seconda linea di ricerca riguarda la formazione e la dinamica delle masse oceaniche antartiche. Le ricerche in questo settore esaminano gli scambi di energia fra il Mare di Ross e la sovrastante atmosfera, anche attraverso l’influenza determinante dei ghiacci marini, e le caratteristiche idrologiche e dinamiche del settore pacifico dell’Oceano Antartico. Due aspetti rivestono un ruolo di particolare rilevanza scientifica: la formazione e la diffusione delle acque di fondo oceaniche e il ruolo del polynya di Baia Terra Nova. La formazione e la diffusione delle acque dense e fredde che raggiungono il fondo dei mari e degli oceani polari e che poi si diffondono sui fondali oceanici del pianeta costituiscono uno dei meccanismi fondamentali di cessione di calore del sistema climatico terrestre; invece i polynya (termine russo che indica aree isolate di mare completamente libere dai ghiacci) sono oggetto di un crescente interesse per il ruolo fondamentale da essi giocato nella produzione di ghiaccio marino. È stato stimato che il polynya di Baia Terra Nova produce almeno il 10% del ghiaccio dell’intero Mare di Ross. Lo studio di questi fenomeni, che per definizione avvengono in aree di difficilissima accessibilità a causa dei persistenti venti catabatici, richiede approcci moderni con l’uso di satelliti, boe automatiche e modellistica.

L’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) del CNR raccoglie e coordina numerosi organi di ricerca che hanno contribuito in modo significativo e talvolta trainante a delineare il profilo e i risultati della ricerca oceanografica antartica italiana. Accanto agli studi idrografici e mareografici delle prime spedizioni, il CNR ha partecipato a importanti programmi quali RossMIZE (Ross Sea Marginal Ice Zone Ecology) e CLIMA (Climatic Long-term Interactions for the Mass-balance in Antarctica) con campagne correntometriche, idrologiche e sviluppo di modelli numerici, contribuendo a fornire un quadro d’insieme dell’ecosistema oceanico antartico. Accanto a questi studi, ulteriori progetti completano il quadro dei processi idrologici dell’area oceanica, ricostruendo, attraverso un’analisi sedimentologica e geofisica (progetto ABIOCLEAR - Cicli biogeochimici in Antartide - Ricostruzioni climatiche e paleoclimatiche), la genesi delle forme di fondo attuali in base al regime delle correnti e alla circolazione generale, e affrontando lo studio interdisciplinare dei cicli biogeochimici dell’Oceano Meridionale e del Mare di Ross, per comprendere la loro relazione con le fluttuazioni climatiche a scala globale. Vanno infine segnalati gli studi che riguardano le risorse ittiche dell’Oceano Antartico, in relazione al rapido incremento della pesca commerciale che impone adeguati piani di conservazione e di gestione, promossi e messi in atto dal sistema del Trattato antartico attraverso la Convenzione per la conservazione delle risorse marine viventi (CCMLAR, Convention for the Conservation of Marine Living Antarctic Resources).

Il bilancio di energia del pianeta

Il clima terrestre è determinato dal bilancio fra l’energia dovuta alla radiazione solare e quella emessa dalla Terra sotto forma di radiazione infrarossa. Quando la radiazione solare raggiunge l’atmosfera, subisce una serie di processi che ne riducono la quantità che riesce a raggiungere la superficie terrestre. La quantità di energia che viene bloccata, assorbita dall’atmosfera o riflessa verso lo spazio, dipende dalla quantità e qualità dei gas atmosferici e delle nubi. Analogamente, la radiazione emessa dalla Terra non riesce tutta a raggiungere lo spazio. Parte di questa viene assorbita dall’atmosfera, che si riscalda, o riflessa nuovamente verso la Terra (effetto serra). Anche in questo caso la quantità di energia che riesce a disperdersi nello spazio dipende dalla quantità e qualità dei gas atmosferici e delle nubi. Il rapporto fra l’energia che raggiunge la superficie dell’atmosfera e quella che viene riflessa nello spazio viene detto albedo planetaria; le regioni polari sono caratterizzate dai valori più alti di albedo essendo in grado di riflettere una considerevole porzione della radiazione solare. Gas atmosferici, nubi e aerosol giocano un ruolo fondamentale sulla capacità dell’atmosfera di assorbire o riflettere la radiazione solare e hanno quindi un peso nel bilancio di energia del pianeta. A seconda della loro costituzione chimica e della riflettività della superficie terrestre, talvolta provocano un effetto di raffreddamento, impedendo alla radiazione solare di penetrare l’atmosfera, talaltra di riscaldamento, assorbendo la radiazione solare e quella infrarossa emessa dalla Terra. Oggi si può affermare che il biossido di carbonio sia l’agente primario dei cambiamenti climatici globali, il cui progressivo aumento di concentrazione rappresenta il 55% del contributo totale degli altri gas serra, come il protossido di azoto, il metano e l’esafloruro di sodio. I modelli previsionali sviluppati a partire dagli anni Ottanta prevedevano forti variazioni climatiche nelle aree polari dovute ai composti del carbonio. Successivamente queste previsioni furono ridimensionate da nuovi modelli che tenevano conto del contributo degli oceani e disegnavano un’asimmetria interemisferica nella risposta climatica al progressivo aumento di CO2 in atmosfera. In generale, comunque, i gas serra producono un effetto di riscaldamento degli strati bassi dell’atmosfera in quanto sono in grado di assorbire le radiazioni di lunghezza d’onda maggiore emesse dalla Terra.

L’effetto delle particelle di aerosol, che tende a essere di raffreddamento alle medie latitudini, risulta molto più complesso nelle regioni polari, dove invece l’effetto di riscaldamento può diventare prevalente. Le nostre conoscenze sono alquanto scarse e le stime possono variare anche di oltre il 300%. Le stazioni di misura al suolo risultano essere assai rade, mentre l’alta riflettività superficiale, la lunga notte polare e il basso spessore ottico accrescono notevolmente le difficoltà di ottenere informazioni dalle misure con satelliti. Con l’obiettivo di ottenere le informazioni necessarie a quantificare le proprietà radiative degli aerosol alle alte latitudini, le concentrazioni stagionali di background e l’evoluzione temporale dei processi che influenzano il ciclo degli aerosol nelle regioni polari, dal 2004 l’Italia grazie al PNRA guida un’azione di coordinamento delle varie attività internazionali e la creazione di un network bipolare (POLAR-AOD), che ha ricevuto il sostegno del comitato dell’Anno polare internazionale ed è stato incluso quale lead proposal nel suo programma scientifico. La dinamica atmosferica costituisce un altro fattore determinante ai fini delle caratteristiche climatiche delle regioni polari. Di fondamentale interesse è il vento catabatico, fenomeno caratteristico delle regioni polari soprattutto antartiche, originato dalla condensazione dell’aria per raffreddamento radiativo sull’altopiano continentale, con conseguente convergenza in punti di accumulazione e caduta gravitazionale sulle coste, lungo i canali costituiti dai ghiacciai. A questi venti viene attribuita la responsabilità dell’esistenza dei polynya. Di conseguenza, i venti catabatici, per la loro durata e violenza, non si limitano a essere un problema meteorologico, ma sembrano condizionare decisamente l’estensione di mare libero da ghiacci, le correnti e l’attività biologica marina.

Le mutue relazioni fra processi fisici, chimici e dinamici in grado di produrre sensibili variazioni nella climatologia delle aree polari e, conseguentemente, effetti sul clima globale del nostro pianeta costituiscono una delle più tradizionali e feconde aree di studio della ricerca polare del CNR. Importanti contributi allo studio dei bilanci di energia, del ruolo degli aerosol e dei gas serra, della struttura e dinamica atmosferica e in particolare dei suoi strati più bassi (troposfera, strato limite) sono derivati da anni di osservazioni e studi condotti dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima e da altri gruppi di ricerca del CNR, fra i quali l’Istituto di geologia marina con le sue misure dirette in continuo per lunghi periodi sugli oceani della distribuzione globale di CO2 e di altri gas serra.

La scomparsa dell’ozono stratosferico

La diminuzione della concentrazione dell’ozono planetario (il cosiddetto buco dell’ozono), che ha luogo in primavera nella stratosfera delle regioni polari, è stata uno dei problemi scientifici più allarmanti che all’inizio degli anni 1980 alcuni scienziati hanno portato all’attenzione della comunità internazionale; intorno a esso, con lo scopo di limitare il fenomeno, è stato costruito un vasto ed efficace accordo internazionale (Accordo di Montreal, 1987). Il depauperamento dell’ozono stratosferico alle latitudini polari è determinato da una sequenza di reazioni chimiche che coinvolgono composti del bromo e del cloro, come i clorofluorocarburi (CFC). Quasi tutto il cloro e circa la metà del bromo nella stratosfera hanno origine da attività umane. I composti sorgente possono essere scomposti nella stratosfera per formare prodotti come HCl e ClONO2. A loro volta, questi vengono dissociati dalla radiazione solare producendo alte concentrazioni di sostanze chimicamente reattive, quali il cloro (Cl) e il monossido di cloro (ClO), chiamate comunemente ‘specie deposito’. In presenza di luce e di superfici catalitiche freddissime (nubi stratosferiche polari) queste sostanze vengono fotolizzate e danno origine a specie reattive che aggrediscono l’ozono distruggendolo rapidamente. L’ozono stratosferico compreso fra 20 e 40 km di quota, seppure presente in bassissime concentrazioni, ha la fondamentale proprietà di essere opaco alla radiazione ultravioletta di tipo β dannosa per la biosfera. La distruzione dell’ozono stratosferico riduce la protezione contro questa radiazione, con possibili influenze sugli ecosistemi delle regioni ad alte latitudini. Infatti, la radiazione solare che raggiunge il suolo nella regione dell’UV (UV-α: 315-400 nm; UV-β: 280-315 nm; UV-γ: 200-280 nm) interagisce sia con l’atmosfera, inducendo variazioni alle condizioni climatiche di lungo periodo, sia con la biosfera, provocando reazioni di difesa su alcuni biotipi o alterazioni più o meno permanenti su altri. L’aumento di radiazione UV-β‚ nello spettro solare, dovuto all’assottigliamento dello strato di ozono stratosferico, sembra determinare una sensibile diminuzione di attività degli organismi fotosintetici, che può coinvolgere la fioritura del fitoplancton antartico, il quale costituisce il primo anello della catena alimentare da cui dipende la sopravvivenza della vita nell’oceano.

Le regioni polari giocano un ruolo cruciale in questo fenomeno per due differenti aspetti. Il primo è la presenza dei vortici polari, una regione della stratosfera che circoscrive il Polo Nord e il Polo Sud, dove la circolazione atmosferica crea un vortice in grado di intrappolare le molecole delle specie deposito contenenti il cloro. Il cloro, liberato da reazioni fotolitiche, innesca i processi chimici responsabili della distruzione dell’ozono. Il secondo aspetto è la presenza delle nubi stratosferiche polari, nubi situate intorno ai 20 km di altezza, che costituiscono il principale catalizzatore del fenomeno. Il vortice polare artico è meno stabile di quello antartico, cosicché nell’emisfero settentrionale la diminuzione primaverile della concentrazione di ozono può essere più facilmente esportata verso le medie latitudini. L’approfondimento di queste problematiche di chimica e di trasporto richiede, in primo luogo, accurati dati sperimentali la cui acquisizione è particolarmente complessa. Molte misure sono state sino a oggi compiute dalla rete internazionale di osservatori NDSC (Network for the Detection of Stratospheric Changes); più recentemente, nell’ambito del PNRA e del programma della Comunità Europea, il CNR ha promosso e coordinato progetti di esplorazione della stratosfera utilizzando l’aereo russo M55-Geophysica, equipaggiato con strumentazione europea, in un quadro di cooperazione internazionale. Numerose unità del CNR partecipano a queste ricerche attraverso la stazione Dirigibile Italia di Ny-Ålesund, le infrastrutture scientifiche argentine di Ushuaia e di Belgrano II e con proprie apparecchiature, spesso prototipi appositamente progettati e realizzati, montate a bordo dell’M55-Geophysica. Le attività comprendono misure di temperatura, UV, ozono, particelle, aerosol e gas in traccia attraverso lidars, sonde, spettrofotometri e radiometri, sia a terra sia su pallone e aereo. Fra gli altri scopi, le misure sono usate anche per convalidare dati del satellite (GOME, ADEOS, POAM, ENVISAT, SAGE III). A queste misurazioni si aggiungono quelle direttamente eseguite presso i laboratori e le infrastrutture di ricerca in Italia da unità appartenenti a organi del CNR e delle Università, fra i quali devono essere segnalati l’Istituto di fisica applicata, coordinatore della missione in Antartide GAIA (Geophysica Aircraft in Antarctica) per lo studio del vortice polare, svoltasi nel 2000, e il Consorzio Europeo Geophysica GEIE, promosso e diretto dal CNR, che ha realizzato tutte le spedizioni in aree polari e tropicali compiute dall’aereo M55-Geophysica dal 2000 al 2006.

Gli organismi marini

Il fronte polare antartico, quella linea ideale su cui si confrontano masse di fluido circolanti fredde d’origine polare con quelle calde, rappresenta una vera e propria barriera che isola il continente antartico dalle regioni più temperate del pianeta. All’interno del fronte polare, le acque oceaniche che circondano l’Antartide assumono le caratteristiche estreme

di temperatura tipiche di una situazione di equilibrio di fase in presenza dei ghiacci. A -1,9 °C, che è la temperatura minima dell’acqua marina nelle regioni polari, la sopravvivenza di pesci di acque temperate sarebbe impossibile. Invece i pesci antartici sono adattati perfettamente, anzi un aumento di pochi centigradi avrebbe effetti letali. In Antartide, l’ittiofauna è costituita per il 50-60% da pesci di un unico sottordine, i Nototenioidei, che comprende otto famiglie (due monotipiche), fra cui quella degli ice-fish (Chionodraco hamatus, della famiglia Channichthyidae), caratterizzati dalla completa assenza di emoglobina nel sangue per consentirne una maggiore fluidità e quindi una minore tendenza al congelamento. Questa fauna ittica tassonomicamente uniforme fa sì che lo scenario dei mari antartici sia un’area di ricerca ideale, nella quale i pesci sono a loro volta un sistema di studio ideale a causa della loro specializzazione. I meccanismi di adattamento fisiologico, biochimico e molecolare sviluppati dagli organismi marini antartici li rendono unici e illustrano le strategie cui possono far ricorso gli organismi viventi in risposta a una forte pressione ambientale. Nell’organismo molti sistemi collegano strettamente l’ambiente esterno con le necessità fisiologiche: sistemi di trasporto (emoglobina, eritrociti) e di utilizzo (mitocondri) dell’ossigeno; enzimi e metabolismo; sistema nervoso (canali al Na e K); sistema cardiovascolare; sistema immunitario; cromosomi e filogenesi; meccanismi dell’omeostasi (per esempio metallotioneine e metalli pesanti); membrane cellulari; regolazione ed espressione dei geni (globine, proteine dell’heat shock e dello stress). Lo studio dell’insieme di questi sistemi consente di capire l’impatto dell’ambiente sull’evoluzione cellulare e molecolare. Il confronto tra adattamenti che derivano dal modo di vita, dagli effetti termodinamici e biochimici e dalle limitazioni energetiche costituisce un problema concettuale che riguarda qualsiasi ambiente, ma che forse è valutabile in modo quantitativo soltanto in Antartide. In sintesi, le conoscenze sull’ittiofauna antartica sono un riferimento obbligato per gli studi sui sistemi molto più complessi delle altre latitudini.

Gli studi in questo campo, coordinati dall’Istituto di biochimica delle proteine ed enzimologia di Napoli, appartengono alla tradizione storica del CNR e rappresentano una delle più feconde espressioni della ricerca scientifica italiana in campo internazionale. Questi studi, che costituiscono parte essenziale del global change, aiuteranno anche a comprendere come organismi specializzati possano reagire a cambiamenti ambientali causati dall’uomo. Per estendere le conoscenze tra strategie adattative e basse temperature (in un ambiente in cui l’evoluzione è semplificata dall’isolamento e dalla costanza delle condizioni estreme) è necessaria l’interazione fra ecologia da una parte e fisiologia, biochimica e biologia molecolare dall’altra. Infatti la complessità dell’adattamento evolutivo richiede un approccio nel quale molte discipline (che oggi si servono di tecnologie molto avanzate) vengano utilizzate in modo coordinato e complementare per studiare molecola, cellula, organo e organismo attraverso l’azione concertata di vari laboratori in Italia e in altre nazioni. Diversamente da quanto avviene in Antartide, nell’Oceano Artico e nelle terre che lo circondano è possibile registrare escursioni termiche stagionali tali da permettere la presenza di un gran numero di organismi viventi. L’estensione del territorio colonizzato e il diretto collegamento con le aree temperate rendono assai più facile l’adattamento e la ridistribuzione degli organismi terrestri e allo stesso tempo producono ampi e complessi meccanismi terrestri di feedback per il clima, i quali si aggiungono a quelli che hanno origine dalla circolazione atmosferica e oceanica. Inoltre, l’impatto antropico sull’ambiente è molto più cospicuo. L’Artico costituisce quindi un sistema intermedio ideale, un importantissimo elemento di transizione tra il sistema antartico, più estremo, e i sistemi temperati e tropicali, enormemente più complessi.

In questo scenario il mantenimento della biodiversità è un obiettivo primario. Un passo necessario per prefigurare tale mantenimento è l’analisi dei meccanismi fisiologici e biochimici che sono alla base della biodiversità degli ecosistemi. Questa analisi implica uno studio accurato delle strategie adattative fisiologiche e biochimiche degli organismi artici marini e terrestri. Punto d’inizio è l’identificazione di specie modello che, avendo sviluppato gli adattamenti necessari a vivere nelle loro nicchie ecologiche, possono rappresentare ‘sonde’ biologiche per il monitoraggio di mutamenti indotti dall’uomo che possano danneggiare la biodiversità.

Il ruolo dell’Antartide nei cicli biogeochimici

L’Oceano Antartico svolge un ruolo essenziale nel ciclo globale del carbonio (C) e degli altri elementi biologici collegati (N, P, Si). La circolazione oceanica trasporta acqua temperata verso le aree antartiche dalle latitudini più basse. Nella zona della divergenza antartica, queste acque profonde, ricche di nutrienti, emergono in superficie e fertilizzano gli strati superiori dell’oceano; una parte dell’acqua, che quando raggiunge la superficie subisce un forte raffreddamento, si dirige verso sud e raggiunge le piattaforme di ghiaccio dove, ulteriormente raffreddata e arricchita di ossigeno e nutrienti e di sale, precipita verso il basso costituendo l’acqua di fondo degli oceani; una seconda parte, spinta dai venti continentali, raggiunge acque più temperate e affonda sotto a esse (fronte polare). Queste acque, per la loro bassa temperatura, hanno un’alta capacità di assorbire CO2 e gas atmosferici: il biossido di carbonio, una volta assorbito e trasportato sul fondo degli oceani (attraverso la produzione di acque fredde), può rimanere fuori dall’atmosfera per oltre 500 anni. Senza questo meccanismo, la sua concentrazione in atmosfera sarebbe assai superiore ai già alti valori attuali, contribuendo al trend di riscaldamento del pianeta in un ciclo che si autoalimenta. Il rapporto IPCC dell’aprile 2007 ha messo in evidenza un riscaldamento dell’Artico due volte superiore a quello medio del pianeta. La tendenza è confermata dai modelli anche per il prossimo secolo, con effetti diversi a seconda degli interventi che verranno messi in atto per mitigare l’effetto serra, ma tutti egualmente preoccupanti per le implicazioni sulla tenuta delle coperture glaciali dell’Artico, sia marine sia continentali. Questo consistente aumento di temperatura (2-3 °C) potrà avere effetti più drammatici sugli ecosistemi terrestri che su quelli marini, perché i primi hanno maggiori vincoli nel loro movimento, inteso come ridistribuzione geografica delle popolazioni.

Gli scambi di gas, e in particolare di CO2, fra Oceano Antartico e atmosfera dipendono dunque dalle condizioni di temperatura e di copertura di ghiaccio. La maggior parte dei modelli che mettono in relazione atmosfera e oceano conferma l’importanza dei cicli biogeochimici e della circolazione oceanica sul controllo della concentrazione di CO2 in atmosfera, la quale, a sua volta, influenza il clima planetario.

Il contenuto di CO2 dell’atmosfera infatti determina il contenuto di CO2 delle acque superficiali; l’assimilazione del carbonio da parte della materia organica attraverso la fotosintesi e il conseguente flusso verticale di materia organica verso il basso agiscono invece come una pompa biologica che abbassa la concentrazione di CO2 nelle acque superficiali e quindi nell’atmosfera. Essendo i mari polari aree critiche di scambio, variazioni nei cicli biogeochimici in queste regioni possono alterare in maniera significativa il livello atmosferico di CO2 e potenzialmente avere un impatto sul clima globale. Recentemente è stata suggerita l’ipotesi che una fertilizzazione di vaste aree dell’Oceano Antartico porterebbe a un assorbimento di importanti quantità di CO2 atmosferico in grado di contrastare l’aumento di questo gas causato dalle pesanti immissioni legate all’attività umana avvenute nell’ultimo secolo. L’Oceano Antartico svolge un ruolo fondamentale anche per il ciclo del silicio (elemento necessario alla vita degli organismi marini, strettamente correlato con il carbonio) negli oceani; le acque superficiali antartiche possono infatti provvedere fino al 30% della produzione globale di silice di origine biologica e più del 50% degli apporti globali di silicio da parte dei fiumi viene intrappolato nei sedimenti.

Con lo sviluppo di grandi programmi internazionali come il SO-JGOFS (Southern Ocean - Joint Global Ocean Flux Study), le ricerche sui cicli biogeochimici del carbonio e della silice derivante da organismi viventi in Antartide hanno ricevuto grande impulso. Tra i più importanti contributi dei ricercatori italiani il già citato progetto RossMIZE e il BIOSESO (BIOsiliceous SEdimentation in the Southern Ocean) hanno focalizzato l’attenzione nel settore pacifico dell’Oceano Antartico. In particolare, tramite il progetto BIOSESO, il CNR (Istituto di scienze marine) ha descritto la complessa distribuzione e composizione del sedimento e i suoi meccanismi di deposizione nell’area sud-occidentale del Mare di Ross, prima e necessaria condizione per comprendere il ruolo svolto dai sedimenti dell’Oceano Antartico nei cicli globali del carbonio organico e della silice su scala globale.

L’Antartide e la storia del pianeta

Negli ultimi 30 milioni di anni, cioè da quando è rimasta isolata dagli altri continenti e ha cominciato a sviluppare una calotta glaciale, l’Antartide ha svolto un ruolo determinante in molti processi globali, quali per esempio la circolazione atmosferica e oceanica, condizionando in tal modo anche l’evoluzione della vita sulla Terra. Tale ruolo è divenuto particolarmente significativo negli ultimi 5-6 milioni di anni, da quando, rispetto alle epoche precedenti, è iniziato un sensibile raffreddamento del clima terrestre. Studiare il passato dell’Antartide è dunque un elemento imprescindibile per la conoscenza del pianeta e delle complesse leggi che lo regolano.

Come si è formata la calotta glaciale in Antartide? quali sono state le sue oscillazioni e come hanno influenzato le variazioni del livello del mare e del sistema di circolazione oceanico? esistono relazioni di causa-effetto tra le glaciazioni nell’emisfero meridionale e in quello settentrionale? Queste sono solo alcune delle domande alle quali si cerca di rispondere studiando il passato dell’Antartide. I mari che circondano l’Antartide conservano imponenti spessori di sedimenti: dalla loro composizione, dal contenuto in fossili e pollini, dalla distribuzione e dallo spessore si può riconoscere l’ambiente in cui sono stati deposti, ricostruire i processi di erosione e trasporto (glaciale o fluviale), indagare le fasi di avanzata e ritiro della calotta glaciale, offrendo così un valido contributo alla soluzione degli interrogativi ai quali si è accennato. La risoluzione più elevata nelle ricostruzioni paleoclimatiche in aree polari si ottiene dalle carote di ghiaccio ricavate perforando le calotte polari, che però non si estendono oltre qualche centinaio di migliaia di anni nel passato. La sedimentazione sui margini continentali trattiene informazioni che risalgono fino al Cenozoico inferiore (65 milioni di anni fa), cioè a tempi precedenti la formazione della calotta stessa, e sono quindi indispensabili per ricostruirne la storia e prevederne l’evoluzione. Si tratta di un settore di ricerca di grande attualità in quanto non è ancora chiaro se un aumento della temperatura globale di circa 2 °C (o superiore) eventualmente dovuto all’effetto serra produrrà un aumento oppure una diminuzione della calotta antartica.

Lo studio dei margini della placca antartica e dei bacini che circondano l’Antartide è stato avviato nel 1993 con il coordinamento del CNR e successivamente assunto dall’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (OGS) di Trieste. In questi anni gli studi si sono rivolti principalmente al settore della Penisola Antartica e dell’America Meridionale, utilizzando prioritariamente la nave geofisica italiana OGS/Explora. Le linee di ricerca principali sono due: la prima tenta di ricostruire l’evoluzione paleogeografica dell’Antartide attraverso lo studio delle strutture crostali e dei processi geodinamici, mentre la seconda studia le variazioni paleoambientali attraverso l’analisi dei sedimenti. Le due linee di ricerca sono strettamente connesse tra loro, in quanto non è possibile effettuare ricostruzioni paleoambientali accurate in assenza di un quadro paleogeografico affidabile. Nell’ambito degli studi sulle strutture crostali e dei processi geodinamici, l’Istituto di geologia marina di Bologna ha dedicato una particolare attenzione al Punto triplo di Bouvet, luogo di incontro delle placche antartica, sudamericana e africana e uno dei rari punti tripli al mondo formato da tre dorsali oceaniche (strutture, presenti in tutti gli oceani, che si formano a causa dell’allontanamento di due placche e sono luoghi di formazione di nuova crosta oceanica). Gli studi in quest’area hanno dimostrato come le interazioni tra le tre dorsali siano particolarmente dinamiche: un’importante pulsazione magmatica nell’ultimo milione di anni ha generato un nuovo segmento della dorsale indiana; questo nuovo segmento si sta spostando verso nord alla velocità di 4-5 cm/anno, producendo così un’equivalente migrazione verso nord del Punto triplo di Bouvet e una crescita della placca antartica.

Nell’ambito delle ricostruzioni paleoambientali, uno dei più recenti progetti internazionali di maggior fascino scientifico e complessità tecnica è il progetto Cape Roberts, il cui obiettivo principale è stato quello di ricostruire l’evoluzione del clima dell’Antartide prima e durante la sua trasformazione da area temperata (30 milioni di anni fa) ad area glaciale. Il progetto, a cui hanno partecipato Italia, Stati Uniti, Germania, Nuova Zelanda, Australia e Regno Unito, ha utilizzato carote di sedimento ricavate dalla perforazione del fondo marino tramite una stazione costruita sul pack (ghiaccio marino). Fra i numerosi risultati raggiunti, sono state scoperte tracce di una gigantesca eruzione avvenuta da un vulcano di cui non esiste più traccia. Il progetto ha avuto una naturale evoluzione in un secondo progetto (Andrill), anch’esso internazionale e multidisciplinare, il cui obiettivo è comprendere il ruolo che ha avuto l’Antartide sul clima del pianeta e sui suoi cambiamenti durante l’era cenozoica. Le nazioni che partecipano sono Stati Uniti, Nuova Zelanda, Italia e Germania. Utilizzando come piattaforma operativa la banchisa del Mare di Ross, l’uso di tecnologie specifiche permetterà di raggiungere il fondale marino a circa 1000 m di profondità ed eseguire una perforazione di sedimenti e rocce da cui si otterrà una singola carota della lunghezza complessiva di 1000 m.

Un ulteriore risultato qualificante di questo filone di ricerca è stato la partecipazione alla perforazione del Leg 178 sul margine pacifico della Penisola antartica dell’Ocean drilling program, un prestigioso programma internazionale che ha come obiettivo la perforazione e lo studio dei fondali oceanici; il programma è gestito da un consorzio internazionale al quale l’Italia aderisce tramite il CNR con una consistente quota di partecipazione.

Monitoraggio ambientale da aereo e da satellite

Lo studio delle regioni polari da remoto, ossia mediante l’uso di dati ripresi da aereo o satellite, presenta numerosi aspetti di interesse per il monitoraggio di alcuni parametri ambientali. Molti processi naturali, quali l’evoluzione stagionale del ghiaccio marino, l’estensione delle coperture glaciali continentali e l’attività termica superficiale, possono essere analizzati nel tempo facendo uso di tecniche di telerilevamento. Queste metodologie di indagine sono utilizzate per acquisire dati di tipo sia spaziale sia spettrale, cioè sulle caratteristiche dei singoli terreni in base alle caratteristiche di albedo.

Le coperture glaciali delle aree polari e delle regioni a media latitudine subiscono delle modifiche periodiche legate ai cicli stagionali che si manifestano sia nella struttura del manto nevoso (per esempio variazioni della granulometria e del contenuto in acqua) sia nella sua estensione. L’entità di queste modifiche è determinata dalle caratteristiche climatiche e in particolare dagli andamenti termici annuali. Gli esperimenti condotti negli ultimi anni nel settore della radiometria del manto nevoso nei diversi ambienti glaciali hanno dimostrato la capacità dei sistemi multispettrali attualmente disponibili di riconoscere i vari tipi di manto nevoso e di ghiaccio e il loro grado di contaminazione. I dati satellitari, ripresi con sensori radar, permettono di monitorare i processi di formazione e di scioglimento del ghiaccio marino, in relazione alle variazioni climatiche e alla dinamica oceanica.

Molti sensori utili per applicazioni polari sono già operativi. Fra i vari satelliti per osservazioni della Terra, Envisat, il più grande realizzato in Europa, è in grado di fornire dati per lo studio dei fenomeni naturali e degli effetti che le attività umane hanno sull’ambiente terrestre, con l’obiettivo di comprendere quegli eventi che minacciano l’integrità del suo ecosistema. La missione Envisat prosegue il cammino iniziato dai satelliti ERS 1 ed ERS 2, ampliando le conoscenze sul pianeta grazie all’utilizzo di sensori sperimentali di altissima precisione.

Un considerevole contributo nei programmi di monitoraggio delle regioni polari è anche fornito dal programma EOS (Earth Observing System)

avviato nel 1998 e ora in piena operatività. Primo sistema d’osservazione in grado di offrire misure integrate dei processi della Terra, consiste di un sistema scientifico e di una base dati che sostiene una serie coordinata di satelliti di bassa inclinazione in orbita polare per osservazioni di lunga durata della superficie della Terra, della biosfera, della Terra solida, dell’atmosfera e degli oceani. L’obiettivo principale nell’utilizzo dei dati da satellite è convertirli in misure affidabili e in serie temporali appropriate. Dagli strumenti che operano nel campo delle microonde si possono ricavare informazioni sulla densità della neve, sulla dimensione dei granuli, sulla scabrosità della superficie e sulla presenza di aree in fusione. I sensori AVHRR (Advanced Very High Resolution Radiometer) permettono di individuare aree a seracchi associate a fenomeni di intensa deformazione all’interno del ghiaccio e di mettere in evidenza variazioni della superficie dovute a topografia sepolta; questi dati consentono di posizionare in alcune zone il limite tra i ghiacci che si poggiano su fondali marini e le piattaforme galleggianti (grounding line) e di individuare antiche direzioni di flusso glaciale. I sensori dei satelliti Landsat e SPOT permettono un’analisi significativa degli aspetti geologici, geomorfologici e glaciologici del territorio, in particolare riferiti al movimento dei ghiacciai.

Il contributo del CNR nell’ambito dei programmi polari ha prodotto risultati utili a indagini geolitologiche e per la cartografia geologica e geomorfologica e all’analisi delle proprietà radiometriche del manto nevoso. È stata inoltre sperimentata con successo l’integrazione delle informazioni derivate dall’analisi di foto aeree e da immagini da satelliti opportunamente elaborate per la produzione di carte geomorfologiche a diverse scale.

repertorio

Cenni di geografia

Artide

Il nome Artide è usato per indicare complessivamente le terre emerse e i mari della regione del Polo Nord compresi entro il limite meridionale teorico del Circolo polare artico. Convenzionalmente si includono nell’Artide le regioni entro l’isoterma +10 °C del mese più caldo: coste settentrionali del Canada, dell’Alaska e della Siberia bagnate dal Mar Glaciale Artico, isole dell’Arcipelago artico americano (le maggiori sono Baffin, Ellesmere, Victoria, Banks, Devon, Principe di Galles), la Groenlandia.

Il Mar Glaciale Artico è un grande mare mediterraneo tra le coste settentrionali dei continenti eurasiatico e nordamericano. Vasto circa 14.000.000 di km2, comprende il Mare di Barents (con il Mar Bianco), il Mar di Kara, il Mar di Laptev, la Baia di Baffin, la Baia di Hudson (vasta 1 milione di km2), i mari di Norvegia e di Beaufort, completamente aperti, e i canali dell’Arcipelago artico americano. A prescindere dallo Stretto di Bering (largo 92 km, profondo talvolta anche meno di 50 m) e dai canali dell’Arcipelago artico americano, è aperto solo, per 1500 km, tra la Groenlandia e la Penisola Scandinava. Limite tra Mare Artico e Oceano Atlantico può considerarsi la soglia sottomarina tra Groenlandia e Scozia, dove la profondità oscilla tra 200 e 650 m. Per la maggior parte, il Mare Artico è di notevole profondità: quella massima, di 5450 m, è nei margini nord-occidentali del Mare di Beaufort. Fondi molto bassi sono invece lungo le coste siberiane orientali e nella Baia di Hudson. Dalla soglia tra l’Islanda e le isole Faer Øer penetrano nel Mare Artico le acque relativamente calde della Corrente del Golfo, che raggiungono le coste norvegesi e il Mare di Barents, e a volte la Novaja Zemlja e l’isola più meridionale delle Svalbard. L’Artide ha un moto generale di deriva dalle coste siberiane verso l’uscita tra la Groenlandia e le Svalbard, dove le acque superficiali originano una corrente che si sposta verso la Groenlandia e trascina, fin presso Terranova, frammenti di banchisa e iceberg. I ghiacci del Mare Artico sono di acqua dolce e di acqua salata. I primi provengono dai fiumi americani e siberiani e dai ghiacciai groenlandesi, quelli d’acqua salata derivano dal congelamento dell’acqua marina (a valori tra -1,7 e -2 °C). Se ne formano campi (banchisa) a volte di migliaia di km2, di uno spessore fin oltre 3 m; i moti più violenti del mare rompono i campi di ghiaccio in frammenti, accavallandoli in una banchisa fortemente accidentata (pack). L’elemento che unifica le regioni artiche è il clima, conseguenza della diversa insolazione stagionale. Procedendo dal Circolo polare verso il Polo, il periodo più lungo di luce da 24 ore (durata del 21 giugno al Circolo polare) aumenta sino a 186 giorni, al Polo. Analogamente, la notte più lunga da 24 ore (il 21 dicembre al Circolo) dura 179 giorni al Polo, dove quindi si hanno sei mesi continui di giorno e altrettanti di notte. L’irradiazione della calotta artica, per la forte obliquità dei raggi solari, genera temperature comunque basse. La flora continentale è rappresentata da poche famiglie di Fanerogame, nonché da Epatiche e licheni. Prevalgono le tundre, coperte da muschi e licheni e, nei tratti umidi, da sfagni; delle Fanerogame si trovano erbe perenni (Graminacee) e piante legnose nane (Ericacee) o striscianti (salici); i caratteri sono simili a quelli della flora alpina (piccola statura, foglie ridotte ecc.). Quando il sole estivo scioglie la neve, la vegetazione compare rapidamente e quasi dappertutto (tranne che in una buona parte della Groenlandia, sempre e quasi integralmente coperta dal ghiaccio). La fauna comprende molte specie, adattate alle condizioni ambientali (con rivestimenti di pellicce, accumuli di adipe): l’orso polare o bianco, il tricheco, la foca, il gabbiano di Ross, il bue muschiato, la renna, volpi e lupi polari, varie specie di roditori e, come animale domestico, il cane. Gli uccelli, palmipedi, sono molto numerosi, più marini che terrestri. Molti anche gli insetti (un lepidottero, Colias heda, vive fino a 82° lat.) e in estate, straordinariamente abbondanti e aggressive, le zanzare. Nel Mare Artico vivono molte specie animali, come l’ormai rarissima balena franca e i narvali. La popolazione umana è esigua. Sono nomadi di più o meno lontana origine mongolica sia i popoli delle tundre eurasiatiche (Lapponi, Samoiedi, Iacuti ecc.), sia quelli nordamericani (Inuit). La regione ha avuto importanza economica per la caccia alla balena, fino dal 16° sec., e agli animali da pelliccia. Le risorse minerarie hanno richiamato poi gli Europei: da principio le miniere di criolite in Groenlandia e ancor più quelle di carbone delle Svalbard. Successivamente sono apparse le sedi abitate, le infrastrutture di trasporto, le basi militari e le stazioni scientifiche permanenti. Lo sviluppo delle tecniche di navigazione ha reso operativo il Passaggio a Nord-Est, generando insediamenti e collegamenti sulla costa siberiana. Politicamente la regione è ripartita tra cinque paesi: Federazione Russa, Stati Uniti, Canada, Danimarca e Norvegia.

Antartide

Il continente Antartide occupa la calotta polare antartica, per circa 13,1 milioni di km2 (più 75.600 km2 di isole adiacenti). Si spinge più a nord con la Penisola Antartica o Terra di Graham, separata dall’America Meridionale, dal Canale di Drake, largo almeno 1000 km; una serie di arcipelaghi accosta quell’appendice dell’Antartide alle isole Falkland. La distanza dalla Nuova Zelanda supera i 2500 km; quella dall’estremità meridionale dell’Africa è di quasi 4000. La massa continentale si può distinguere in Antartide orientale, immenso tavolato precambriano (gneiss, graniti), e Antartide occidentale, più recente, compresa fra i mari di Weddell e di Ross. Tra le due si interpone la Catena transantartica. Nell’Antartide occidentale da una depressione mediana si diparte la Penisola Antartica, percorsa da una catena montuosa a pieghe nella quale si continua il sistema andino (l’interfaccia ghiaccio-roccia sembra raggiungere qui profondità di 2500 m sotto il livello del mare). Alla radice della penisola, nel gruppo dei monti Ellsworth, si trova la massima quota dei rilievi emersi (Vinson, 5140 m). L’intero continente è coperto e saldato alle isole circostanti da una massa glaciale spessa da 2000 a 4200 m, per un’altitudine media di 2300 m. La superficie rocciosa è scoperta solo per l’1% del totale; gli affioramenti più diffusi sono i nunatak (sommità di rilievi) e le pareti a falesia che seguono le rotture della coltre glaciale. Quest’ultima compie un’intensa azione di modellamento, spinta fino a 500-600 m sotto il livello marino. Faglie terziarie e quaternarie si dispongono lungo la Catena transantartica, come testimonia la presenza di numerosi vulcani attivi (Erebus, 3784 m). I ghiacciai antartici sono i maggiori della Terra; essi scavano i propri bacini ablatori sia nella calotta sia, sulle catene montuose e presso la costa, nella roccia e si protendono in mare con lingue galleggianti lunghe decine di chilometri, con fronte alta varie decine di metri, dalla quale si staccano gli iceberg. La velocità di scorrimento può superare 1000 m annui. Si calcola che il 70% dell’acqua dolce presente sul globo si trovi congelata nella calotta continentale antartica. L’Antartide contribuisce alla circolazione marina fornendo acqua abissale fredda e densa, che raggiunge l’emisfero settentrionale. In prossimità del Polo Sud è stata rilevata la temperatura media annua più bassa del globo (–76 °C), mentre la minima assoluta (–90 °C) è stata registrata da una stazione scientifica russa (Vostok). Sul continente grava un’area anticiclonica permanente, mentre l’oceano circostante rappresenta un’area di pressioni relativamente basse, variabili. Caratteristica del continente sono i venti improvvisi e d’intensità pari ai più violenti uragani (ingl. blizzards). La vegetazione dell’Antartide è costituita da muschi e licheni (fino a 10 km di distanza dal mare); la fauna terrestre è poverissima (pochi insetti atteri o, comunque, inetti al volo); numerosa invece quella che vive in mare o delle risorse del mare: pinguini, uccelli migratori, quattro specie di foche (mangiagranchi, leopardina, di Weddell e di Ross) e, fra i Cetacei, una grossa balenottera. Le condizioni fisiche proibitive e la modestissima entità della popolazione (circa 5000 persone durante la stagione estiva, appena 1000 in inverno), oltre alle controversie politiche, hanno mantenuto le risorse economiche dell’Antartide a un livello meramente potenziale. In seguito alle progressive restrizioni della caccia alle balene e alle foche, rimane da studiare lo sfruttamento di un piccolo gambero planctonico, il krill, presente in quantità sterminate. Per quanto concerne le risorse minerarie, l’altopiano racchiude vasti giacimenti carboniferi; lungo il bordo esterno dell’Antartide orientale si trovano minerali di ferro e nella Terra di Wilkes vene di manganese, individuato anche nella Penisola Antartica, come pure oro, argento, rame e nichel; cromo, cobalto e platino sarebbero presenti sul margine continentale del Mare di Weddell. Assai più rilevante, anche ai fini di una possibile estrazione, è la scoperta di petrolio e gas naturale nel fondo del Mare di Ross.

repertorio

I programmi e le basi in Antartide

Il contesto internazionale

L’Antartide è un continente conteso fra diversi paesi che ne rivendicano la sovranità territoriale. Nel 1959 i dodici paesi partecipanti all’Anno geofisico internazionale hanno stipulato il Trattato antartico, con il quale i firmatari hanno sospeso ogni rivendicazione di sovranità sul continente e ogni attività mirata al suo sfruttamento economico, militare e come area di test nucleari o deposito di materiale radioattivo; l’Antartide è stata considerata patrimonio dell’umanità e destinata alla ricerca e alla cooperazione scientifica. Al Trattato antartico aderiscono 45 paesi appartenenti a due differenti condizioni (status); i paesi consultivi e i paesi contraenti. I primi hanno interessi particolari e svolgono con continuità attività di ricerca in Antartide; i paesi con questo status sono attualmente 27 e hanno diritto di voto e potere decisionale vincolante. I secondi, al momento 18, non conducono attività di ricerca in Antartide e non hanno diritto di voto. Le ricerche in Antartide si svolgono nel contesto internazionale definito dai paesi aderenti al Trattato antartico che sono membri dello SCAR (Scientific Committee on Antarctic Research). Sin dal 1958, lo SCAR costituisce il forum dove la comunità scientifica antartica discute e coordina la ricerca in quella regione. In passato, l’organizzazione dello SCAR era basata su gruppi di lavoro monodisciplinari. Nel 2002, nel corso della riunione di Shangai, è stata costituita una nuova struttura ritenuta più idonea per recuperare posizioni di prestigio quale organo di riferimento dei governi e dei media su argomenti antartici e di consulenza del Trattato su problematiche antartiche. Questa nuova struttura, essenzialmente multidisciplinare, prevede un’articolazione in tre SSG (Scientific Standing Groups): geosciences, life sciences e physical sciences. Il complesso, e continuamente mutevole, processo di preparazione, approvazione e conduzione dei vari programmi scientifici è affidato a strutture temporanee o semipermanenti dello SCAR, create secondo la necessità e dunque in numero indefinito: Action groups, Experts groups, Scientific research programmes e Scientific programme planning groups.

Se lo SCAR è l’organizzazione della ricerca antartica internazionale, lo EPB (European Polar Board) rappresenta l’organismo di coordinamento della ricerca polare europea. È stato costituito nel 1995 nell’ambito della ESF (European Science Foundation) per coordinare le attività delle organizzazioni polari di 20 nazioni europee (Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Spagna, Svezia, Ucraina) in rappresentanza di 30 istituzioni scientifiche.

L’Anno polare internazionale

A cinquant’anni dall’Anno geofisico internazionale, che portò a un enorme progresso nelle conoscenze del pianeta, ICSU (International Council of Scientific Unions) e WMO (World Meteorological Organization) hanno promosso l’Anno polare internazionale (IPY, International Polar Year) per gli anni 2007-2008. Le nazioni con interessi nelle regioni polari, fra cui l’Italia, hanno costituito comitati nazionali con lo scopo di sviluppare e coordinare ricerche internazionali multi- e interdisciplinari in entrambe le regioni polari, per la realizzazione di progetti che nessuna nazione potrebbe condurre da sola. Il piano scientifico predisposto dal planning group ICSU-WMO è stato completato nel 2005 e comprende oltre 220 grandi progetti coordinati che raggruppano proposte di ricerca pervenute da tutto il mondo. L’Anno polare internazionale è una delle più imponenti espressioni della scienza internazionale sostenuta dalla comunità scientifica, che ha autonomamente organizzato la propria partecipazione e il proprio coordinamento indipendentemente da barriere istituzionali o nazionalità. Lo sviluppo di questa esperienza, per la quale non vi sono riscontri nella storia per ampiezza e qualità della partecipazione e per le potenziali ricadute scientifiche e culturali, è destinato a cambiare profondamente l’organizzazione della ricerca internazionale e nazionale.

La presenza italiana

Le origini della presenza italiana risalgono alle prime visite in Antartide di Ardito Desio (1954 e 1956) come ospite della National Science Foundation, la fondazione per la ricerca scientifica degli USA. Nel 1959 Silvio Zavatti approdò all’isola Bouvet (54,26 S, 3,24 E) e ne completò l’esplorazione.

Nel 1960, il CNEN compì un carotaggio di 120 m presso la stazione scientifica belga Baldovino. Nel 1962 Desio visitò nuovamente l’Antartide recandosi nelle stazioni statunitensi McMurdo, Byrd e Amundsen Scott e nelle Valli Secche, una località antartica libera da ghiacci, con caratteristiche geografiche tali da renderla paragonabile a Marte.

Solo nel 1968 l’Italia realizzò la sua prima vera e propria spedizione scientifica, organizzata dal CNR in collaborazione con il Club Alpino Italiano. Vi parteciparono sei fra scienziati e alpinisti, sotto la guida di Carlo Mauri. Venne svolta una intensa attività di esplorazione e numerose furono le imprese alpinistiche con la scalata di otto cime fra 2200 e 3000 m.

Fra il 1969 e il 1970 l’ufficiale di Marina Giovanni Aimone Cat compì la sua prima spedizione nella Penisola Antartica con il veliero di 16 m San Giuseppe II. Sei persone fra ufficiali ed equipaggio presero parte all’impresa che raggiunse l’isola Deception, la base argentina Almirante Brown e quella americana Palmer. Nel 1973 Aimone Cat realizzò la seconda spedizione del San Giuseppe II, con un equipaggio di cinque persone. Il vascello, partito da Torre del Greco il 1° luglio 1973, approdò alle Isole Falkland il 27 novembre e, attraversato lo Stretto di Drake, raggiunse poi Deception il 4 gennaio 1974 proseguendo per Palmer Station, la base di Almirante Brown, le Isole Orcadi e la base di Signy, rientrando ad Anzio il 27 giugno 1974.

In quello stesso anno anche il CNR organizzò una nuova spedizione scientifica in Antartide, decisa di concerto con il Ministero degli Esteri e che contò sul supporto logistico della Divisione antartica neozelandese (New Zealand Antarctic Division). Era guidata dal geologo Aldo Segre. Anche in questo caso vennero svolte osservazioni scientifiche nelle Valli Secche, datazioni paleomagnetiche, misure meteorologiche e un’attività alpinistica significativa. Nell’estate australe 1976-77 si svolse la terza e ultima spedizione del CNR, sotto la direzione del fisico Carlo Stocchino, anch’essa organizzata di concerto con il Ministero degli Esteri e appoggiata al supporto neozelandese. Vi partecipò l’alpinista di fama mondiale Walter Bonatti. Vennero effettuate osservazioni meteorologiche intensive e scalate sette cime, di cui quattro superiori a 4000 m. L’interesse scientifico verso l’Antartide stava ormai maturando e affermandosi all’interno dei grandi enti di ricerca, primo fra tutti il CNR. I tempi non erano ancora maturi per l’avvio di una grande impresa a carattere nazionale, ma ciò non impedì a privati di cimentarvisi al di fuori dei canali istituzionali e del diritto internazionale. Nell’estate australe del 1975 l’imprenditore Renato Cepparo organizzò e finanziò la prima spedizione italiana con caratteristiche moderne e autosufficienti, così come sarebbe avvenuto in seguito con il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide. La spedizione, oltre a un intenso programma di ricerche scientifiche ed esplorazioni alpinistiche, prevedeva la costruzione di una base italiana. Cepparo salpò da Lisbona il 22 dicembre 1975 con la nave norvegese Ring Mate di 900 t e un corpo di spedizione di 15 uomini tra cui geologi, glaciologi, biologi, alpinisti ed esperti subacquei, oltre a nove uomini di equipaggio. Dopo una tappa a Montevideo per imbarcare i materiali, la Ring Mate raggiunse la Penisola Antartica e gettò l’ancora nella Admiralty Bay, una vasta baia dell’isola King George (Shetland australi). In quella località Cepparo edificò una costruzione in legno che doveva essere la prima base italiana in Antartide; fu dedicata all’esploratore polare italiano Giacomo Bove, membro della spedizione della nave Vega di Adolf Erik Nordenskjol, che nel 1878 aprì il Passaggio a Nord-Est. Sebbene riuscita, la spedizione creò un vero e proprio incidente diplomatico; Argentina e Uruguay frapposero ogni sorta di ostacolo alla sua realizzazione a causa della violazione della sovranità territoriale, rivendicata da quei paesi, da parte di una nazione non aderente al Trattato antartico. Conclusa la spedizione, l’Argentina inviò i militari a rimuovere la base e il suo contenuto. Due anni dopo, un gruppo di italiani, guidati da Flavio Barbiero, vicecomandante della spedizione di Cepparo, raggiunse nuovamente l’Admiralty Bay a bordo di un gommone e verificò la scomparsa della base Giacomo Bove.

Fra il 1980 e il 1984, grazie soprattutto all’iniziativa del Ministero degli Esteri e del CNR, venne definito un programma italiano di attività in Antartide e venne identificato il luogo dove stabilire una base italiana. Nel 1981 l’Italia aderì al Trattato antartico. Nel giugno 1985 il Parlamento approvò la l. 284 che istituiva e finanziava il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA). Questo ha prodotto una crescita vertiginosa dell’impegno italiano in quel continente. Con un finanziamento complessivo dell’ordine dei 550 milioni di euro, ha realizzato 22 spedizioni scientifiche, con un coinvolgimento di oltre 1500 ricercatori e altrettanti tecnici e personale logistico, in un quadro di grandi progetti in collaborazione internazionale. Grazie a questo sforzo l’Italia nel 1987 ha avuto lo status di membro consultivo del Trattato Antartico ed è divenuta membro dello SCAR. Nel 1986 è stata edificata e successivamente ampliata la prima base italiana, Terra Nova, una stazione di concezione moderna oggi dedicata a Mario Zucchelli, deceduto nel 2002 dopo aver portato il PNRA ai vertici della presenza internazionale in Antartide. La stazione italiana Mario Zucchelli di Baia Terra Nova è raggiungibile via mare a partire dal mese di novembre e rimane agibile fino alla fine di febbraio. Nel quadro di una collaborazione con la Francia, nel 1994 è iniziata la realizzazione di una stazione scientifica permanente sul Plateau antartico, la stazione Concordia, conclusasi nel 2005 con il primo svernamento di un gruppo di ricercatori italiani e francesi. Il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide è svolto sotto la responsabilità del Ministero dell’Università e della Ricerca ed è regolato dalle l. 284/85 e 380/92 e dal d.l. 26 febbraio 2002. La direzione strategica è affidata alla Commissione scientifica nazionale per l’Antartide, nominata dal Ministero e costituita da 11 membri. Una commissione consultiva interministeriale svolge compiti di controllo sull’attuazione dei piani pluriennali e annuali e sul coordinamento con altre iniziative nazionali e con programmi internazionali in Antartide. Fino al 2001, il compito di attuare le spedizioni, di gestire le stazioni e il PNRA era affidato all’ENEA (Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente). Dal 2002, questo compito è stato affidato a un consorzio di enti pubblici, che attualmente è costituito da ENEA, CNR, INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) e OGS (Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale) ma aperto ad altre adesioni. La partecipazione scientifica è assicurata prevalentemente dalle Università (circa il 50%), mentre fra gli enti pubblici di ricerca il CNR ha un ruolo preminente, svolgendo da solo oltre il 20% dell’intera attività scientifica. La Commissione scientifica nazionale predispone il PNRA su base triennale e annualmente un programma esecutivo che descrive in dettaglio le attività scientifiche e di supporto logistico connesse con la realizzazione della spedizione in Antartide relativa all’anno in considerazione e delle ricerche presso i laboratori italiani. I progetti di ricerca approvati e da svolgere nel triennio 2005-07 sono coordinati nell’ambito di 12 settori di ricerca (biologia e medicina, geodesia e osservatori, geofisica, geologia, glaciologia, fisica e chimica dell’atmosfera, astrofisica e relazioni Sole-Terra, oceanografia ed ecologia marina, chimica dell’ambiente polare, geografia e scienze giuridiche, tecnologia, progetti interdisciplinari), ai quali si aggiunge l’attività del Museo Nazionale dell’Antartide articolato nelle sue tre sedi di Trieste, Genova e Siena.

repertorio

La ricerca in Artide

La presenza scientifica italiana in Artide, meno consistente di quella in Antartide a causa dell’assenza di una specifica legge di finanziamento, è prevalentemente dovuta al CNR. Nell’ottobre 1996 il CNR ha acquisito una propria stazione di ricerca artica nell’arcipelago delle Isole Svalbard, presso il villaggio di Ny-Ålesund, nel luogo da dove nel 1928 partì la sfortunata spedizione di Umberto Nobile con il dirigibile Italia, di cui la stazione italiana porta il nome. L’arcipelago delle Svalbard si trova a 1000 km circa dal Polo Nord geografico, a una latitudine media di 79° N. La Corrente del Golfo, che ne lambisce le coste occidentali, determina un clima particolarmente mite e consente la presenza di insediamenti umani permanenti in alcune valli costiere. Il territorio occidentale delle Svalbard è facilmente accessibile e le condizioni di lavoro sono eccezionalmente buone in paragone ad altre regioni artiche. Ny-Ålesund, antico centro minerario, è diventato un centro di ricerca internazionale di primaria importanza, dove otto nazioni (Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, Italia, Norvegia, Regno Unito) svolgono attività scientifica coordinata e hanno proprie basi. Russia e India stanno unendosi al gruppo dei paesi già attivi. Il coordinamento delle attività scientifiche è affidato al Ny-SMAC (Ny-Ålesund Science Manager Committee), organismo tecnico-scientifico costituito dai rappresentanti delle stazioni nazionali e delle istituzioni scientifiche che svolgono attività continuativa e significativa a Ny-Ålesund. La sua autorevolezza e le sue competenze sono andate crescendo di pari passo con l’importanza strategica assunta da Ny-Ålesund come centro di ricerca scientifica internazionale. La base Italia consiste in 320 m2 di laboratori e locali logistici collegati via cavo con il resto del mondo. Nel maggio 1997 è stato avviato un vasto programma di ricerca multidisciplinare grazie a un progetto strategico del CNR, che ha portato in breve tempo l’ente di ricerca italiano in una posizione di rilievo fra le istituzioni scientifiche di Ny-Ålesund. La presenza italiana si è consolidata, sia in termini di attività scientifiche, svolte su un ampio spettro di discipline con apparecchiature d’avanguardia, sia in termini di presenza attiva negli organismi internazionali. Fra il 2001 e il 2005 il CNR ha avuto per due mandati la Presidenza del Ny-SMAC. In sintesi, le tematiche che il CNR studia, in cooperazione con Università ed enti scientifici nazionali e internazionali, comprendono: clima, chimica e trasporto di sostanze inquinanti, ozonosfera, proprietà fisiche degli aerosol e delle nubi; scienze mediche, risposte dell’organismo agli stress ambientali; ecologia, life history, comportamento, genetica, fisiologia, biochimica, biologia molecolare e cellulare; corrosione delle leghe metalliche, quali acciai inossidabili e leghe di nichel; osservazioni della Terra da satellite, con applicazioni in fisica dell’atmosfera, clima, variazioni delle coperture glaciali, studi ecologici di biodiversità; studi paleoambientali e paleoclimatici con particolare attenzione all’evoluzione del permafrost; studi oceanografici orientati al trasferimento di energia e materia in relazione alla copertura glaciale; studi storici e geografici.

Accanto al CNR, anche l’INGV e l’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) svolgono attività di ricerca in modo permanente nel campo degli studi ionosferici, magnetosferici (simmetrie nord-sud, grandi angoli di osservazione, aree indisturbate, particolari condizioni atmosferiche), meteorologia spaziale, scintillazioni.

L’attività di divulgazione scientifica, intesa come promozione e trasferimento dell’informazione, rappresenta un aspetto non marginale del lavoro del CNR in Artide. Essa mira a stabilire un collegamento culturale fra gli specialisti che operano in campo, le amministrazioni dello Stato e degli enti che devono valutare e finanziare le attività, e il pubblico, con particolare attenzione al settore della scuola. In questo quadro è rilevante la cooperazione con il Museo nazionale per l’Antartide Felice Ippolito e l’Istituto geografico polare Silvio Zavatti di Fermo.

CATEGORIE
TAG

International council of scientific unions

Consiglio nazionale delle ricerche

Arcipelago delle svalbard

Radiazione ultravioletta

Sistema cardiovascolare