FILOMARINO, Ascanio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FILOMARINO, Ascanio

Massimo Bray

Nacque a Benevento nel 1583 dai duchi della Torre. Era figlio di Claudio, fratello di Scipione, maestro di campo al servizio spagnolo, di Gennaro, religioso teatino vescovo di Calvi, e di Marcantonio, religioso cappuccino che prese il nome di Francesco Maria.

Destinato alla carriera ecclesiastica, la fortuna di questa scelta si accrebbe nel momento in cui egli ebbe l'opportunità di recarsi a Roma. Alla realizzazione dei progetti del F., o sarebbe meglio dire dell'entourage che insieme con lui aveva partecipato a tali progetti, era legata infatti la necessità di giungere appena possibile nel mondo della Curia romana. Solo in quel momento, a contatto diretto con gli affari di Stato, sarebbe stato possibile dare forma concreta alle ambizioni. La storia ecclesiastica del giovane presule sembra cominciare il 17 ott. 1616, quando monsignor Ladislao d'Aquino, vescovo di Venafro, suo parente, si recò a Roma per ricevere la porpora cardinalizia, nominato cardinale da Paolo V con il titolo di S. Maria sopra Minerva. Il vescovo scelse come maestro di cerimonia che lo avrebbe accompagnato e assistito nel "gravoso incarico" il giovane Filomarino. L'apparente casualità della nomina, così come viene riferita dallo stesso F. in una lettera al cardinale, non deve però trarre in inganno. Il F. fu certamente fortunato, ma la fortuna venne solertemente governata: il padre e lo zio, negli anni della sua formazione, avevano a lungo intessuto con grande abilità relazioni e rapporti di amicizia capaci di favorire la sua promozione. Non solo. Egli stesso infatti, sin da quando, frequentando gli studi in utroque iure, era "entrato in confidenza" con Maffeo Barberini, non perse occasione per mantenere viva un'amicizia che un giorno gli sarebbe sicuramente tornata utile. Il suo arrivo a Roma non significò dunque la semplice partecipazione ad una cerimonia sacra: fu il momento per mettere alla prova il valore dei rapporti di amicizia e di fedeltà intessuti pazientemente negli anni precedenti, ma anche l'opportunità di sperimentare il valore di un bagaglio tecnico, fatto di letture, di consigli, di discussioni, finalizzato a formare un ministro dello Stato della Chiesa. I quattro anni trascorsi accanto al cardinale permisero al F. di capire il funzionamento della corte pontificia, dello Stato della Chiesa nei suoi meccanismi formali, nelle sue pratiche politiche quotidiane. Fu questa esperienza a consentirgli di stringere altri e più importanti legami preferenziali, di valutare direttamente il peso delle differenti fazioni presenti all'interno del governo ecclesiastico, di conoscere i meccanismi di alleanza necessari per la sopravvivenza e l'affermazione politica in una struttura di potere ben definita.

Le chiavi di lettura di queste dinamiche rimandano a rapporti di solidarietà, di partecipazione, di fiducia, a relazioni di clientela. In un quadro assai incerto e complesso, come quello della corte romana, l'appoggio di una amicizia influente era certamente condizione indispensabile per fare carriera. Amico di Maffeo Barberini, divenuto pontefice nel 1623 con il nome di Urbano VIII, il F. fu da questo eletto cameriere segreto e dotato di un canonicato nella basilica liberiana. Nel 1625 e nel 1626 fu incaricato di seguire Francesco Barberini, nipote del papa, nelle legazioni di Francia e di Spagna. Di ritorno a Roma venne eletto canonico della basilica vaticana e invitato a far parte di varie congregazioni ecclesiastiche. Dalla lettura delle relazioni di viaggio in Francia e in Spagna, scritte da Cassiano del Pozzo, si conferma il legame privilegiato che vincolava il giovane ecclesiastico al cardinale referente.

Il F. aveva deciso di appoggiare "con tutta la fedeltà et confidenza possibile" le sorti di Francesco Barberini: a lui, alla sua fortuna, avrebbe legato la possibilità o meno di promozioni sociali, di congiunture favorevoli o di grandi avversità. In una lettera scritta il 13 genn. 1633 monsignor Giulio Rospigliosi confidava al suo amico Fabio Chigi le voci, le indiscrezioni sulle possibili promozioni in Curia. Vagliando le varie occasioni riservate agli uomini che aveva intorno, non dimenticava di nominare il F.: "Si sente dire che egli sarà destinato ad occupare la sede arcivescovile di Lecce, essendo quell'Arcivescovo assai avanzato nell'età. Ma mi risulta che il Filomarino receda da tale promozione, preferendo restare fedele al fianco del suo Padrone".

Nella scelta di rifiutare una promozione certamente importante, in una diocesi ricca e per più aspetti vantaggiosa, sono racchiuse la sapienza diplomatica e la scommessa del Filomarino. Se è vero che non esistevano carriere "tipo", percorsi prefissati che prevedevano il passaggio più o meno automatico da una carica all'altra, sembra difficile non riconoscere le forme di ricompensa e di promozione che comunque venivano assegnate a chi avesse partecipato ad un rapporto di dipendenza. Sarebbero stati quindi i vincoli di fedeltà, le capacità economiche, la familiarità, l'intimità, le relazioni di fiducia le varianti principali nel processo di ascesa.

Il F. fu un osservatore privilegiato e attento del mondo politico e sociale della Roma barocca: per lunghi anni, senza mai ripensamenti, fu, come si è detto, il "favorito" di una delle personalità di maggior peso all'interno della Curia romana. Nacque da quest'esperienza L'idea del favorito, un breve trattato scritto probabilmente tra il 1624, anno della prima conferma dell'appartenenza del F. all'interno della famiglia di Francesco Barberini, e il 1633, anno in cui fu composta la Bibliographia naudeana, il testo nel quale è possibile rintracciare un esplicito riferimento al manoscritto (conservato a Barcellona, Bibl. de Cataluña, ms. 1968). Lo scritto aveva un valore particolare dal momento che le opinioni espresse derivavano da un'esperienza diretta, quotidiana.

Il tema del primato della vita politica insieme con quello della conservazione e del mantenimento del ruolo raggiunto sono i due argomenti che attirano maggiormente l'attenzione del Filomarino. In un mondo così complesso e per molti versi imprevedibile, come è appunto quello che circonda la vita del principe (la metafora dei cambiamenti repentini del mare e della necessaria capacità di saperli prevedere ed affrontare con l'esperienza e le conoscenze proprie di un nocchiero rende assai bene questo concetto di imprevedibilità), le riflessioni, affidate al libello, sarebbero dovute servire ad evitare i mille pericoli a cui sono continuamente sottoposti coloro che sono chiamati ad affiancare il principe nell'esercizio del suo potere, affinché "in qualcuno dei sovrastanti pericoli non incorrano et incorrendovi, miserabilmente non si sommergano". Così in quello che potremmo leggere come una sorta di agile manuale, dall'ipotetico titolo La vita di corte: istruzioni per l'uso, sono elencati quegli insegnamenti capaci di proteggere il "favorito - nocchiero", poiché "sebbene il mare delle corti de' Principi è pericoloso, tuttavia col timone delle virtù, nonostante le tempeste, alcuni vi prendono porto et con l'ancora della perseveranza, sicuri vi si mantengono".

La prima virtù di cui il favorito dovrà essere dotato per far fronte a questo suo difficile compito è la prudenza: in una scala di valori essa sovrasta infatti qualunque altra virtù e qualunque insegnamento capace di preservarlo dalle insidie a cui è sottoposto. La prudenza, infatti, "non solo è virtù, ma guida dell'altre virtù, et nella humana vita a guisa di capitano, ammaestrando i nostri affetti non ancora prattichi", permette di prevenire i pericoli, di controllarli, dominarli e superarli. "Questa con netto giudizio ci fa discernere le cose honeste dalle malvagie, l'utili dalle dannose, ci insegna a conciliarci gli animi altrui, valercene nelle proprie opportunità, ricordarci delle cose passate, conoscer le presenti, prevedere le future, dar luogo al tempo, ubbidire alla necessità, esser altretanto presti et arditi nelle essecuzioni quanto nelle deliberazioni pesati e maturi, et saper ogni cosa".

Nei consigli si affermano una concezione morale-religiosa ed una politica della prudenza. Il F. chiede al favorito di essere un uomo virtuoso, capace di agire nel rispetto delle leggi divine, di stabilire per fondamento del suo "edificio il timor di Dio, senza il quale è impossibile operar bene, et con questo procuri non solo di cominciare, ma di proseguire et di finire tutte le cose". Ma la prudenza, come si è detto, ha anche nelle parole del giovane presule un'accezione tutta politica: virtù intellettuale capace di guidare le scelte umane nei confronti delle cose particolari, essa è uno strumento pratico, perfettamente funzionale alle circostanze e alle occorrenze in cui il favorito è chiamato ad agire. La consapevolezza del suo valore gli permetterà allora di prevenire gli ostacoli, gli inganni, gli insegnerà a prevedere gli eventi, a comportarsi nei confronti dei suoi interlocutori, ad avvantaggiarsi delle cose utili, a volgere in suo favore quelle dannose. Il favorito dovrà affiancare il suo signore nella gestione della cosa pubblica; di mezzi e virtù politiche egli dovrà allora essere fornito se vorrà ben assolvere alle sue funzioni, se vorrà preservare il suo incarico.

L'importanza di possedere e saper utilizzare la virtù della prudenza rimanda alla consapevolezza dell'autonomia della politica dalla morale e dalla religione. Essa avrà tanto più valore quanto più sarà affiancata dal possesso di alcune altre virtù come la temperanza, la fortezza, la modestia, la pazienza, la gratitudine, la dissimulazione. E quest'ultima non avrà soltanto una funzione complementare: essa servirà a scoprire le intenzioni altrui, a mascherare le proprie, a prevenire le inclinazioni, i pensieri, gli affetti, gli odii, divenendo quasi condizione indispensabile al vivere civile.

La dissimulazione, in un mondo pieno di intrighi, di pericoli nascosti, come è appunto quello di una corte, "non solo è lecita, ma necessaria". La prima regola da rispettare nel raggiungimento dei propri fini è quella di tener nascosti i propri propositi; conseguente a questa è la necessità di parlare poco e sapere, al contrario, ascoltare attentamente, "perché il dissimulare consiste per lo più nel tacere o vero nella scarsezza delle parole". Il tema dell'agire coperto, del vivere nascosto dovrà caratterizzare lo stile di vita del favorito; lontano da qualunque remora morale egli apprenderà nell'arte della simulazione la capacità di essere doppio, sfuggente, indecifrabile, la necessità di indossare sempre nuove maschere, nuove sembianze a seconda delle circostanze in cui è chiamato a misurarsi.

Il secondo capitolo del trattato prende in considerazione i modi in cui il favorito dovrà rapportarsi nei confronti del suo signore, suggerendo quelle norme necessarie al mantenimento del rapporto preferenziale che si è venuto a creare tra i due personaggi. Per far questo dovrà indagare le inclinazioni del suo signore, assecondarle in ogni modo, giungere insomma ad una tale conoscenza del suo modo di essere da poterlo affiancare in maniera quasi mimetica: "se il Principe sarà letterato di lettere si diletti, se armigerà de armi, se pulito di pulitezza, se presto et spedito nelle azioni di celerità et di diligenza; et insomma in tutte quelle cose a cui lo vedrà inclinato procuri con ogni studio di imitarlo".

Sono pagine importanti quelle del giovane F. che anticipano alcune difficili scelte politiche con le quali, molti anni dopo, sarebbe stato chiamato a confrontarsi. Lette, affiancate agli avvenimenti della sua vita, esse indicano una chiara consapevolezza nei comportamenti adottati: la lunga permanenza in Curia, la vita di corte avevano fatto del favorito un abile politico, un attento interprete della realtà.

Il 16 dic. 1641 Urbano VIII nominava il F. arcivescovo di Napoli per succedere al cardinale Francesco Boncompagni, creandolo nello stesso tempo cardinale col titolo di S. Maria in Aracoeli. Da questo momento in poi la figura del F. si legò indissolubilmente ai principali avvenimenti della storia napoletana. Il suo appartenere a quello che in Curia si definiva il partito filofrancese creò non pochi momenti di tensione nei rapporti con i governanti spagnoli del Regno. La consapevolezza del ruolo assunto si univa ad una forte condotta autoritaria: in più di un'occasione, infatti, il cardinale giunse vicino alla rottura delle relazioni diplomatiche per difendere l'immunità e la dignità ecclesiastiche.

Ma il F. è anche noto per essere stato uno dei principali protagonisti della rivolta napoletana del 1647-48, quando l'imposizione di una nuova tassa sulla frutta aveva dato vita ad una violenta reazione della popolazione contro il malgoverno dei funzionari spagnoli. Fu proprio in quei mesi che la missione ecclesiastica affidata al F. finì con lo scavalcare le stesse aspettative e gli stessi limiti imposti da Roma alla sua iniziativa politica. Nel susseguirsi di avvenimenti tumultuosi, mentre la rivolta andava precisando i suoi obiettivi, il cardinale fu uno degli interlocutori privilegiati della popolazione, riuscendo a mediare le richieste più radicali e finendo con l'essere il vero vincitore dei conflitti socio-politici che attraversarono per più di un anno la storia cittadina. Nelle differenti fasi in cui si svolse la rivolta il F., grazie all'abilità mediatrice, alla prudenza e alla dissimulazione, a quell'arte politica appresa nei molti anni trascorsi nella corte romana, riuscì a minare l'autorità e la rappresentatività dei governanti spagnoli. Nel 1653 lo stesso viceré, Inigo Vélez de Guevara, conte di Oñate, inviato a Napoli dal Consiglio di Stato per "normalizzare" i conflitti, incapace di fronteggiare il disegno politico del cardinale, abbandonò il governo del Regno.

Dopo aver retto l'arcivescovato cittadino per venticinque anni il F. morì a Napoli il 3 nov. 1666.

Fu un importante collezionista e committente nella Napoli del sec. XVII. L'altare per la cappella della Ss. Annunziata, nella chiesa teatina dei Ss. Apostoli, venne da lui commissionato a Francesco Borromini intorno al 1636. Il Celano descrive dettagliatamente i lavori della cappella, inaugurata dal cardinale nel 1647, ricordando come il F. nel commissionarne la decorazione "volle impegnarvi i primi artefici del nostro secolo perché in questa cappella ogni sua parte avesse dell'ammirabile".

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