Aspi e tutela dei lavoratori anziani

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Aspi e tutela dei lavoratori anziani

Francesco Liso

Lo scritto contiene un’analisi delle novità introdotte dalla l. 28.6.2012, n. 92 in materia di trattamenti di sostegno del reddito in caso di disoccupazione involontaria e di tutela dei lavoratori anziani. Sul primo versante, il più cospicuo, lo scritto si sofferma sulla novità rappresentata dall’introduzione di un nuovo trattamento di disoccupazione, denominato Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) destinato a soppiantare la storica assicurazione contro la disoccupazione ed a trovare applicazione in tutta l’area del lavoro subordinato (con alcune eccezioni). Questa novità si accompagna a due profonde trasformazioni dell’attuale sistema: si sopprimono, attraverso una fase transitoria, alcuni trattamenti particolaristici (in particolare, l’indennità di mobilità) e si trasforma radicalmente il trattamento di disoccupazione a requisiti ridotti (ora denominato mini-Aspi). Sul secondo versante si esamina un istituto previsto dai primi commi dell’art. 4 per agevolare lo scivolo verso la pensione dei lavoratori anziani.

La ricognizione. La riforma degli ammortizzatori tra continuità e discontinuità

L’aspetto politicamente più impegnativo che la riforma doveva affrontare era quello della correzione del carattere particolaristico del sistema e delle connesse inique differenze di trattamento. Il legislatore lo ha affrontato con decisione, risolvendolo.

Due erano i problemi principali che si ponevano su questo versante. Da un lato, l’enorme divario esistente tra l’indennità di disoccupazione e l’indennità di mobilità, entrambe forme di protezione contro la disoccupazione. Il divario, percepibile soprattutto sul versante della durata del trattamento, era ingiusto, considerando che eguale era il bisogno di protezione dei percettori dei due trattamenti.

Il secondo trattamento ha rappresentato il frutto dello sviluppo distorto del sistema degli ammortizzatori, avvenuto a misura delle esigenze di contrasto dell’allarme sociale connesso alle eccedenze di personale, con la conseguenza di premiare i gruppi più forti sul mercato politico. A ben vedere, la riforma che condusse alla sua introduzione (la l. 23.7.1991, n. 223) mirava comunque a conseguire un importante, anche se parziale, obiettivo di razionalizzazione: l’apprestamento di una misura (indennità di mobilità) di forte sostegno ai lavoratori licenziati per riduzione di personale (dalle aziende rientranti nel campo di applicazione del trattamento di integrazione salariale straordinaria) consentiva di porre termine – almeno queste erano le intenzioni, che non hanno ricevuto eccessivo conforto dalle vicende successive – ad una stagione caratterizzata da un uso sfacciatamente assistenzialistico della cassa integrazione, ridotta a mero equivalente funzionale del trattamento di disoccupazione. L’apprestamento di quella importante misura, che per la prima volta richiamava l’esigenza della messa in cantiere di politiche attive per il reinserimento lavorativo, convinceva le organizzazioni sindacali ad accettare che si disciplinassero le riduzioni di personale, come da tempo era stato richiesto da una direttiva europea (nel 1975). La l. n. 223/1991 può essere considerata una legge flexicurity ante litteram.

Il secondo problema era rappresentato dalla coesistenza di due trattamenti di disoccupazione, quello a requisiti ordinari e quello a requisiti ridotti, aventi struttura e finalità diversi, il secondo dei quali estraneo ad una logica di controllo dello stato di disoccupazione. Questo trattamento, pur se corrispondente alle esigenze di protezione in un mercato del lavoro sempre più caratterizzato da lavori precari, è stato sempre visto con una certa diffidenza del legislatore (è significativo che la sua percentuale di calcolo sia rimasta inferiore a quella della indennità ordinaria), anche per il fatto di non essere collegato ad alcun controllo effettivo dello stato di disoccupazione. Per vantare il diritto alla prestazione era sufficiente comprovare il numero di giornate di lavoro effettuate nell’anno precedente.

Orbene sul primo problema, che richiedeva una soluzione che eliminasse le differenze di trattamento, la l. 28.6.2012, n. 92 è intervenuta, da una lato, sopprimendo l’indennità di mobilità e, dall’altro, migliorando il trattamento di disoccupazione.

Sul secondo problema la legge è intervenuta confermando l’esistenza di un trattamento a requisiti ridotti, ma radicalmente trasformandone la struttura.

Queste due profonde innovazioni si sono accompagnate all’ introduzione di una nuova forma di assicurazione contro la disoccupazione che riproduce, nella sostanza, i tratti essenziali di quella vecchia1.

La focalizzazione. La manutenzione dell’assicurazione contro la disoccupazione: l’introduzione dell’Aspi

Con decorrenza dal 1° gennaio 2013 e «in relazione ai nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla predetta data» (art. 2, co. 2) il legislatore ha introdotto una “nuova” assicurazione, denominata assicurazione sociale per l’impiego (Aspi).

Oggetto dell’assicurazione rimane la perdita involontaria dell’occupazione. Quindi non possono vantare il diritto alla prestazione i lavoratori che si siano dimessi o abbiano consensualmente risolto il loro rapporto di lavoro (co. 5)2 mentre possono vantarlo – sussistendone gli altri requisiti – i lavoratori che abbiano accettato la proposta di risoluzione consensuale nell’ambito della procedura conciliativa, presso la direzione provinciale del lavoro, prevista nella stessa legge (art. 1, co. 40) nel caso in cui il datore di lavoro intenda procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Incidentalmente va considerato che il legislatore purtroppo non è intervenuto a correggere, governandola, quella che continua a costituire una stonatura nell’ambito del sistema: l’esclusione dalla protezione dei lavoratori che abbiano subito e non scelto la stipula di un contratto di lavoro a tempo parziale verticale (essi non hanno diritto all’indennità nei periodi di pausa dell’attività lavorativa). Per il lavoratore si rende quindi più vantaggiosa la stipula di un contratto a termine, alla conclusione del quale comunque scatta, ricorrendone i presupposti, il diritto al trattamento di disoccupazione. Rimangono immutati anche altri elementi della precedente struttura. Il lavoratore matura il diritto alla prestazione quando ricorrano altri due requisiti (co. 4):

a) una anzianità assicurativa di almeno due anni ed una anzianità contributiva, nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione, di almeno dodici mesi;

b) il trovarsi in stato di disoccupazione ai sensi della normativa in materia di servizi all’impiego (d.lgs. 21.4.2000, n. 181 e successive modificazioni).

Si prevede anche che il lavoratore perda il diritto alla prestazione in una serie predeterminata di casi3.

Inoltre alla prestazione continua ad accompagnarsi la contribuzione figurativa, utile sia ai fini del diritto che della misura dei trattamenti pensionistici4.

Passiamo ora a dare conto dei mutamenti di sostanza che sono intervenuti. Gli obiettivi che si dovevano perseguire erano quelli dell’estensione e del rafforzamento della protezione, della correzione del carattere particolaristico del sistema e delle connesse differenze di trattamento, del collegamento del sostegno al reddito con le politiche attive. Esaminiamo partitamente questi profili.

2.1 Estensione e rafforzamento della protezione. Il campo di applicazione

La nuova assicurazione, a differenza della precedente, riguarda tutti i lavoratori dipendenti («Sono compresi nell’ambito di applicazione dell’Aspi tutti i lavoratori dipendenti», art. 2, co. 2).

L’unica esplicita esclusione dalla protezione riguarda i dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni (di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165). L’estensione del campo di applicazione della nuova disciplina del trattamento di disoccupazione è stata formulata, come si è visto, in termini perentori («tutti i lavoratori dipendenti»). Ma si deve ritenere che il legislatore abbia solo voluto «occupare gli spazi dell’attuale assicurazione obbligatoria»5, per cui non si è affidato al meccanismo dell’abrogazione implicita, ma ha voluto procedere alla esplicita inclusione delle figure che da quella assicurazione risultavano escluse: ha esplicitamente abrogato quello che rimaneva dell’art. 40 del R.d.l. 4.10.1935, n. 1827 (art. 2, co. 69, lett. c), ed ha voluto specificare che tra «tutti i lavoratori» sono ricompresi anche gli apprendisti6 e i soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato7. La formula, dunque, non vuole mettere in discussione l’esistenza di regimi speciali, come quello del quale godono i giornalisti (in virtù della l. 20.12.1951, n. 1564)8.

Non sono esclusi dalla protezione, ma sono invece esclusi dall’applicazione della nuova disciplina e rimangono pertanto con quella precedente, gli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato (art. 2, co. 3). Questa esclusione evidentemente si giustifica per ragioni di sostenibilità sociale. Ormai da tempo la disoccupazione agricola costituisce una sorta di stabilizzatore sociale del mondo dell’agricoltura. Essa ha caratteristiche peculiari (più che trattamento di disoccupazione è una forma di integrazione dei redditi di lavoratori sottoccupati; in effetti, il trattamento viene erogato in un’unica soluzione nell’anno successivo a quello in cui si è verificata la disoccupazione). Nonostante questa prestazione, per le sue caratteristiche, abbia di frequente dato luogo ad abusi, non si è ritenuto opportuno complicare il percorso della riforma affrontando anche questo problema.

2.2 La prestazione

Proseguendo nella politica di progressivo miglioramento della prestazione9, il legislatore ne ha elevato l’importo e, con gradualità, la durata. È intervenuto, inoltre, sul metodo di calcolo della stessa, nonché sulle modalità della sua erogazione.

Per quel che riguarda la durata massima, essa viene gradualmente elevata. A regime (a decorrere dal 1° gennaio 2016 e con riferimento ad eventi di disoccupazione verificatisi da quella data) sarà di 12 mesi per i lavoratori con età inferiore ai 55 anni e di 18 mesi per i lavoratori di età superiore (co. 11)10. Il legislatore ha confermato la scelta di proteggere più a lungo i lavoratori più anziani, in ragione della maggiore difficoltà che essi normalmente incontrano nel reinserimento lavorativo e, in sintonia con l’operazione di innalzamento dell’età pensionabile (d.l. 6.12.2011, n. 201), ha elevato (a 55 anni) la soglia di età in presenza della quale si ha diritto alla prestazione di maggior durata. Il legislatore, invece, non ha voluto modulare la durata anche con riferimento ad un altro fattore che incide negativamente sui tempi del reinserimento lavorativo, quello della condizione occupazionale svantaggiata presente in determinati territori del Paese. Di questo fattore, invece, si era tenuto conto nella disciplina della indennità di mobilità, nonché nella delega per la riforma degli ammortizzatori approvata nel 2007.

L’allungamento della durata della prestazione oltre i dodici mesi ha indotto il legislatore ad innalzare il montante contributivo richiesto per la sua corresponsione. Infatti, nella logica del mantenimento di un determinato rapporto tra montante contributivo (che deve esistere nel biennio precedente la disoccupazione) e prestazione, ha previsto che quest’ultima vada erogata «nei limiti delle settimane di contribuzione degli ultimi due anni» (co. 11, lett. b; co. 45, lett. b e c).

Il legislatore è intervenuto anche sull’importo della prestazione. Lo ha elevato portando al 75% la percentuale di commisurazione alla retribuzione (co. 7).

Come nel precedente sistema, si prevede una progressiva riduzione della prestazione con il decorrere del tempo. Si tratta di una misura finalizzata – secondo la teoria economica – a spingere il lavoratore ad affrettarsi nella ricerca di una nuova occupazione. Il legislatore, tuttavia, ha colto l’occasione per modificare il meccanismo di riduzione per renderlo effettivo nei confronti dei lavoratori a più alto reddito. Infatti, nei confronti di questi ultimi il precedente meccanismo – fondato sulla riduzione della percentuale di commisurazione della prestazione alla retribuzione – poteva risultare ineffettivo a causa dell’esistenza del tetto massimo alla prestazione (in altri termini, la prestazione erogata ai lavoratori a più alto reddito avrebbe potuto non subire una riduzione perché, nonostante la sopravvenuta riduzione della percentuale di commisurazione, l’ammontare della prestazione avrebbe ben potuto rimanere quella massima prevista dal tetto). Il legislatore ha quindi previsto che la riduzione si produca direttamente sulla prestazione erogata. L’ammontare di quest’ultima viene ridotto del 15% dopo i primi 6 mesi e di un ulteriore 15 % dopo il dodicesimo mese di fruizione (co. 9).

Anche per quel che riguarda la disciplina del tetto massimo di prestazione erogabile si introduce un’importante razionalizzazione. In luogo dei due tetti previsti dalla precedente disciplina per i trattamenti inferiori e per quelli superiori ad una determinata soglia, che creavano un brusco ed irrazionale differenziale (di 188 euro), il legislatore ha previsto un unico tetto, lasciando quello massimo e prevedendo una curva fino ad esso a partire da una determinata soglia11.

Un’importante innovazione è stata introdotta anche nel calcolo della prestazione. La retribuzione di riferimento non è più quella percepita nei tre mesi precedenti la disoccupazione, bensì quella del biennio precedente (co. 6). Si è realizzato in questo modo un assetto più equilibrato. Può andare a svantaggio del lavoratore12 con rapporto stabile, la cui retribuzione è presumibile possa migliorare nel tempo, ma può anche andare a vantaggio del lavoratore con rapporti di lavoro temporanei, per il quale non è da escludere che il trattamento retributivo possa subire oscillazioni negative. Nello stesso tempo questo assetto può scoraggiare eventuali scelte opportunistiche, connivente il datore di lavoro, miranti a far risultare maggiore la retribuzione negli ultimi periodi proprio in vista della cessazione del rapporto di lavoro.

Sono da segnalare altre due interessanti innovazioni che recuperano alcune delle caratteristiche proprie dell’indennità di mobilità. Nella prospettiva di favorire l’autoimpiego si prevede – ma solo in via sperimentale, per gli anni 2013, 2014 e 2015 e nei limiti di uno stanziamento predeterminato – che il lavoratore possa richiedere la liquidazione in un’unica soluzione del trattamento «al fine di intraprendere un’attività di lavoro autonomo, ovvero per avviare una attività in forma di auto impresa o di micro impresa, o per associarsi in cooperativa» (co. 19). Le modalità applicative verranno determinate da un decreto interministeriale.

Inoltre, nella prospettiva di disincentivare il lavoro nero – che il lavoratore potrebbe essere indotto a preferire per non perdere il diritto alla fruizione del trattamento – si è previsto (co. 15) che, nel caso in cui il lavoratore si rioccupi con contratto di lavoro subordinato, l’erogazione della prestazione venga automaticamente sospesa per un periodo massimo di sei mesi e quindi rimanga il diritto al godimento, al termine del predetto periodo, dei ratei di indennità non ancora percepiti.

Ci si è interrogati13 se questo periodo di sei mesi debba essere considerato come continuativo ovvero se possa anche essere costituito dalla sommatoria di intervalli lavorativi più brevi. La risposta dovrebbe propendere per la seconda alternativa perché la prima condurrebbe ad un illogico svuotamento dei diritto. Quindi la formula della sospensione va letta come implicante che il lavoratore potrà maturare il diritto ad una nuova prestazione (quindi nella misura piena) solo quando ridiventi disoccupato dopo almeno sei mesi di lavoro14. Un meccanismo diverso (di cumulo entro determinati limiti) viene previsto nel caso in cui il lavoratore titolare del diritto alla indennità svolga un’attività di lavoro autonomo che implichi un guadagno limitato (art. 2, co. 17).

2.3 La contribuzione

Novità interessanti sono previste relativamente alla contribuzione destinata a finanziare l’Aspi. Si conferma la normativa attuale (art. 2, co. 25 e 26), con alcune modifiche relative, in particolare, ai soci lavoratori delle cooperative (co. 27) e agli apprendisti (co. 36 e 37), ma si coglie l’occasione per introdurre due nuovi ulteriori contributi ai quali evidentemente si annette – in aggiunta alla funzione di premio assicurativo – una funzione occupazionale.

In ossequio all’obiettivo, enunciato nell’art. 1 (co. 1, lett. a), di favorire «l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili ... ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato … quale forma comune di rapporto di lavoro», il legislatore ha previsto (art. 2, co. 28) un contributo addizionale pari all’1,4 % (della retribuzione imponibile a fini previdenziali) a carico del datore di lavoro per tutti i rapporti di lavoro «non a tempo indeterminato»15. Ha fatto eccezione per una serie di casi in relazione ai quali la funzione promozionale non avrebbe uno spazio per poter operare (art. 2, co. 29)16.

Questo contributo, se da un lato dovrebbe rappresentare una forma di disincentivo alla stipula di contratti di lavoro temporanei, dall’altro, nello stesso momento, viene concepito come risorsa utile ad incentivare il datore di lavoro a stabilizzare il lavoratore. Infatti, se ne prevede la restituzione parziale al datore di lavoro che trasformi a tempo indeterminato il contratto di lavoro temporaneo per il quale è stato versato il contributo addizionale (art. 2, co. 30).

Oltre a questo contributo addizionale si prevede – sempre a carico del datore di lavoro e a somiglianza di quanto previsto per l’indennità di mobilità – un contributo (art. 2, co. 31) che possiamo denominare straordinario, in quanto dovuto solo in occasione di un particolare evento, quello della cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato17 dovuta a causa diversa dalle dimissioni del lavoratore. Sono previste alcune limitate eccezioni, ma solo per un periodo limitato (art. 2, co. 34)18, a testimonianza dei delicati equilibri finanziari sui quali la riforma poggia.

L’ammontare del contributo è «pari al 50% del trattamento mensile iniziale di Aspi per ogni dodici mesi di anzianità aziendale del lavoratore negli ultimi tre anni» (art. 2, co. 31)19.

Questo contributo rappresenta una forma di tassa sulla flessibilità numerica in uscita. Chiara la sua funzione di penalizzazione anche del recesso libero che il datore di lavoro eserciti al termine del periodo di apprendistato (art. 2, co. 32); essa si somma a quella espressa dalla disposizione che subordina l’assunzione di nuovi apprendisti al mantenimento in servizio di almeno il 50% degli apprendisti che abbiano concluso il periodo di apprendistato (art. 1, co. 16, lett. d).

Sempre una funzione promozionale – questa volta della gestione concertata e non unilaterale, delle riduzioni di personale – cerca di esprimere anche un’altra disposizione che – sempre a somiglianza di quanto previsto per il contributo straordinario previsto per l’indennità di mobilità – prevede la triplicazione della somma «nei casi di licenziamento collettivo in cui la dichiarazione di eccedenza del personale di cui all’art. 4, co. 9, della l. n. 223/1991 non abbia formato oggetto di accordo sindacale» (art. 2, co. 35).

Questo aumento è stato programmato a decorrere dal 1o gennaio 2017, cioè dalla data in cui verrà meno la disciplina prevista per il contributo relativo all’indennità di mobilità. Questo differimento certamente si giustifica per i datori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione del trattamento straordinario di integrazione salariale, in quanto essi fino a quella data rimangono obbligati alla contribuzione prevista per quell’indennità; sembra costituire un trattamento di favore, invece, per i datori di lavoro che non rientrano in quel campo di applicazione.

Quella finora descritta possiamo considerarla una manutenzione migliorativa del tradizionale istituto dell’indennità di disoccupazione. Le discontinuità si registrano su un altro versante.

2.4 Le discontinuità più rilevanti

Come si è detto in precedenza, le discontinuità più rilevanti rispetto al precedente assetto sono essenzialmente due. La prima è rappresentata dalla riduzione del carattere particolaristico del sistema, realizzata attraverso la soppressione di alcuni trattamenti: l’indennità di mobilità (art. 2, co. 71, lett. b e d) e l’indennità di disoccupazione speciale per i lavoratori dell’edilizia (art. 2, co. 71, lett. f e g). La seconda è costituita dalla modifica strutturale dell’indennità a requisiti ridotti (ribattezzata mini-Aspi).

La soppressione dell’indennità di mobilità e dell’indennità di disoccupazione speciale per i lavoratori dell’edilizia è accompagnata dal miglioramento (in ammontare e durata) del trattamento di disoccupazione. Quest’ultima operazione e la soppressione dell’indennità di mobilità vengono realizzate attraverso una fase transitoria, che vede progressivamente ridursi la durata dell’indennità di mobilità (art. 2, co. 46) e nel contempo gradualmente elevarsi quella dell’Aspi (art. 2, co. 45).

L’Aspi entrerà a regime per gli eventi che si produrranno a decorrere dal 1° gennaio 2016 (art. 2. co. 11), mentre l’indennità di mobilità non verrà più corrisposta per i lavoratori che verranno collocati in mobilità successivamente al 31 dicembre 2016 (art. 2, co. 46, lett. d). Non è invece prevista una fase transitoria per l’altra prestazione. Tuttavia l’abrogazione dell’indennità speciale di disoccupazione per i lavoratori edili è rinviata – parimenti a quanto si prevede per l’indennità di mobilità – al 1° gennaio 2017.

Il governo della fase transitoria è agevolato anche dall’ennesima riproposizione dello strumento degli ammortizzatori in deroga, questa volta esplicitamente disposto per gli anni 2013-2016 «al fine di garantire la transizione verso il regime delineato della riforma degli ammortizzatori sociali» (art. 2, co. 64). Il valore decrescente nel corso degli anni delle risorse poste a copertura finanziaria di questo strumento (co. 65) sembrerebbe confermare l’intenzione di non fare più ricorso ad esso. È una buona intenzione che dovrà poi misurarsi con la forza dei fatti.

L’indennità a requisiti ridotti (mini-Aspi) viene assoggettata ad una profonda modificazione. Perde la sua connotazione, ereditata dal sistema della disoccupazione agricola, di trattamento erogato l’anno successivo a quello interessato dalla disoccupazione e, quindi, di trattamento essenzialmente volto ad integrare il reddito annuale da lavoro di persone normalmente sottoccupate; ora viene concepita come una semplice variante quantitativa dell’Aspi. La prestazione viene ora erogata al verificarsi dell’evento disoccupazione20. Il contatto con i centri per l’impiego diventa dunque obbligato. In sostanza, il senso della modifica è quello dell’assoggettamento a controllo sull’effettività dello stato di disoccupazione anche dei percettori della mini-Aspi. È evidentemente prevalsa l’idea che il modello della disoccupazione agricola non è più da seguire perché si presta ad alimentare pratiche opportunistiche.

L’istituto, oltre a questa modifica di struttura, ha subito anche alcuni significativi ritocchi, di vario segno.

Il più importante, a primo acchito, è rappresentato dalla soppressione del requisito della anzianità assicurativa dei due anni21. Questa misura amplia in maniera significativa tra i giovani la platea dei fruitori della mini-Aspi. Essi potranno immediatamente fruire della prestazione al semplice maturare dell’anzianità contributiva.

Relativamente a quest’ultima, poi, si è passati dal requisito di 78 giorni di lavoro effettivamente prestato nell’anno (previsti dall’art. 7, co. 3, del d.l. 21.3.1988, n. 86, conv. con l. 20.5.1988 n. 160) a quello di 13 settimane di contribuzione nell’anno.

La modifica sembrerebbe elevare, seppure di poco, il requisito contributivo. Nella sostanza è volta a riassorbire quanto la prassi applicativa dell’Inps aveva dovuto accettare in seguito a decisioni della Corte di cassazione volte ad imporre che si tenesse conto, ai fini della maturazione del diritto, non solo delle giornate effettivamente lavorate, ma anche di quelle comunque interne ad un periodo complessivamente lavorato e per le quali sussistesse un obbligo di contribuzione22. Peraltro il nuovo requisito contributivo in teoria potrebbe risultare più favorevole di quello precedente (e quindi inferiore al requisito delle 78 giornate di effettivo lavoro) nel caso in cui il lavoratore, prestando la propria attività solo in alcuni giorni della settimana riesca comunque a percepire una retribuzione sufficiente ad assicurargli l’accredito contributivo dell’intera settimana.

Per quel che riguarda la prestazione, viene ridotto il periodo indennizzabile. Ora non è più rappresentato dal numero delle giornate di lavoro prestato (entro un determinato limite), bensì da «un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione nell’ultimo anno, detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo» (co. 21). Questa operazione sembrerebbe compensata dall’aumento della percentuale di calcolo, che ora è la stessa dell’indennità ordinaria, ma a ben vedere nasconde un netto peggioramento sul versante della maturazione dell’anzianità contributiva ai fini pensionistici. L’accorciamento della durata della prestazione e quindi del relativo periodo di contribuzione figurativa, rende l’obiettivo della pensione ancor più difficile da raggiungere per i lavoratori precari. Peraltro il meccanismo della detrazione dei periodi di indennità fruiti nei 12 mesi precedenti può finire per rendere sostanzialmente impraticabile l’effettivo accesso alla prestazione o per renderla irrisoria. È evidente che il legislatore non vede con favore questa misura.

La legge fa entrare in vigore questa prestazione dal 1° gennaio 2013 e prevede che le prestazioni dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti previste dalla legge del 1988 «si considerano assorbite, con riferimento ai periodi lavorativi dell’anno 2012, nelle prestazioni della mini-Aspi liquidate a decorrere dal 1° gennaio 2013» (art. 2, co. 24). È un giro di parole per dire che la disoccupazione di quest’anno non verrà indennizzata e che le relative somme verranno utilizzate per indennizzare la disoccupazione che si verificherà a partire dal prossimo anno e per dire che l’anzianità contributiva maturata nel 2012 – quando rientri nei 12 mesi precedenti l’evento – rimane utile per richiedere il trattamento di mini-Aspi per gli eventi che si producano a decorrere dal 1° gennaio 2013.

L’impatto di questo “assorbimento” sui lavoratori precari è notevole e ha il sapore di un esproprio. Chiari sono i benefici per il bilancio dell’Inps, che per giunta quelle somme potrà risparmiarle sia nel caso di lavoratori che nel frattempo siano stati assunti a tempo indeterminato, sia per l’operare del meccanismo dei 12 mesi mobili, che progressivamente neutralizzerà il riflesso della contribuzione versata nel 2012.

Potremmo considerare come una discontinuità anche la decisione che il legislatore ha assunto – nella prospettiva della creazione di un sistema più equo – di fornire una protezione contro la disoccupazione ai lavoratori più deboli con rapporto di lavoro coordinato e continuativo a progetto. In verità una protezione per quei lavoratori era stata già introdotta qualche anno fa23, come forma di integrazione del basso reddito conseguito nell’anno precedente, ma essa era stata esplicitamente assunta in via sperimentale. Ora, invece, con alcune modifiche, si è deciso di stabilizzare quella prestazione (co. 51-53)24.

A livello sistematico si compie quindi un notevole salto in avanti. Si modernizza il sistema cominciando ad offrire protezione anche a fasce di lavoro autonomo.. Pur se ormai stabilizzata, questa misura continua tuttavia ad avere un carattere sostanzialmente sperimentale. Infatti, continua ad essere erogabile nei limiti di risorse predeterminate ed è previsto un periodo transitorio (co. 56), per gli anni 2013-01525, nel corso del quale si deve svolgere un monitoraggio al fine di «verificare la rispondenza dell’indennità … alle finalità di tutela, considerate le caratteristiche della tipologia contrattuale, allo scopo di verificare se la portata effettiva dell’onere corrisponde alle previsioni iniziali ed anche al fine di valutare … eventuali correzioni della misura stessa, quali la sua sostituzione con tipologie di intervento previste dal comma 20», cioè la mini-Aspi.

2.5 La tutela dei lavoratori anziani

Una specifica tutela per i lavoratori anziani è resa necessaria dalle note difficoltà che i lavoratori anziani incontrano, una volta licenziati, a reinserirsi nel mercato del lavoro. Ad essa cerca di provvedere la l. n. 92/2012 con alcune misure.

La prima misura dovrebbe essere quella di un trattamento di disoccupazione di durata tale da poter accompagnare il lavoratore al pensionamento.

Bisogna considerare che, su questo versante, in verità è lo stesso legislatore a creare difficoltà, da un lato nel momento in cui ha deciso di elevare l’età di pensionamento (d.l. 6.12.2011, n. 201), dall’altro nel momento in cui ha deciso (pur se per ragioni di equità) di eliminare l’indennità di mobilità, la cui durata massima è ben superiore a quella di 18 mesi fissata per l’Aspi.

A questo riguardo il legislatore ha voluto attenuare le difficoltà nell’immediato prevedendo un periodo transitorio di graduale riduzione della durata del trattamento di mobilità (art. 2, co. 46). Tuttavia, l’insufficienza della misura è stata subito ammessa dallo stesso legislatore il quale ha immediatamente operato una correzione con un nuovo intervento, volto da una lato ad ammorbidire questo periodo transitorio26 e dall’altro a prevedere a breve un riesame della questione sulla base di un confronto con le parti sociali27.

Sempre nella prospettiva strategica dell’accompagnamento alla pensione il legislatore ha previsto (art. 4, co. 1-7) che l’Inps possa essere coinvolto – con l’effetto di consentire il prolungamento del rapporto giuridico previdenziale – nella gestione di una misura di accompagnamento alla pensione il cui onere le aziende intendano sostenere al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori anziani. Perché questo coinvolgimento avvenga occorre:

a) che ci sia un accordo collettivo aziendale tra datore di lavoro (che rientri nel campo di applicazione della disciplina delle riduzioni di personale) e organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative in azienda;

b) che l’accordo preveda l’impegno del datore di lavoro a corrispondere ai lavoratori, per il tramite dell’Inps e fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il loro pensionamento, una prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti ed a corrispondere all’Inps mensilmente, oltre la somma corrispondente alla prestazione erogata al lavoratore anche la somma relativa alla contribuzione figurativa che l’istituto deve provvedere ad accreditare a ciascun lavoratore;

c) che i lavoratori interessati debbano raggiungere i requisiti minimi del pensionamento (di vecchiaia o anticipato) nei quattro anni successivi alla cessazione del rapporto;

d) che il datore di lavoro richieda l’intervento dell’Inps accompagnando la domanda con una fideiussione bancaria a garanzia della solvibilità dell’obbligo che assume.

Questa disposizione rappresenta una riedizione, sotto veste diversa, delle normative che negli anni passati sono state emanate per corrispondere ai lavoratori l’indennità di mobilità lunga (cioè una indennità di mobilità erogata – con relativi oneri a carico delle singole imprese che ad essa potevano fare ricorso – per il periodo successivo a quello della durata ordinaria)28.

La diversità si evidenzia sotto molteplici profili. Innanzitutto la misura, a differenza del passato, è di applicazione generale e non è sottoposta a contingentamento.

Inoltre, non è più in gioco l’indennità di mobilità, bensì un trattamento di importo pari a quello che avrebbe avuto la pensione se fosse stata liquidata in quel momento. Ci troviamo di fronte ad una riproposizione di quell’“assegno ai lavoratori anziani licenziati” che a suo tempo era stato previsto dall’art. 11 della l. 5.11.1968, n. 1115 e, più recentemente, con qualche variante, in alcuni fondi di solidarietà istituiti ai sensi dell’art. 2, co. 28, della l. 23.12.1996, n. 662.

La novità è presente anche nel profilo finanziario. La nuova disposizione sembra stata concepita per mettere al riparo l’Inps da eventuali inadempienze da parte del datore di lavoro che accede alla misura. Evidentemente devono esserci state esperienze negative per i bilanci dell’Inps relativamente alle mobilità lunghe con oneri a carico del datore di lavoro. La disposizione non solo chiede che il datore di lavoro si premunisca di una fideiussione, ma addirittura prevede, contraddittoriamente29, che l’Inps non sia tenuta ad erogare le prestazioni in assenza del versamento mensile da parte dell’impresa30. Il che se blinda oltre misura il bilancio dell’Inps, rassicurando la Ragioneria dello Stato, rappresenta un indubbio svantaggio per il lavoratore.

Nei confronti di questo istituto si è rivolta la critica che esso appare eccessivamente macchinoso e che vi sarebbero state «altre possibili – e più economiche e semplici – soluzioni pratiche, a portata delle parti, in quanto da esse liberamente attivabili. E, in effetti, per garantire al lavoratore una tutela equivalente a quella prevista dalla norma in esame, potrebbe essere sufficiente, ad esempio, “combinare”, in sequenza, le prestazioni dell’Aspi (e il correlativo accredito di contribuzione figurativa) con un periodo di contribuzione volontaria di durata atta a garantire il conseguimento dei requisiti minimi per il pensionamento, la refusione del cui onere da parte del datore di lavoro formi oggetto del “pacchetto” da concordare tra le parti a fini di incentivazione dell’esodo in questione»31. Questa critica trascura di considerare che la normativa in oggetto ha un effetto promozionale affidato al minor costo che la contribuzione figurativa – in essa contemplata e autorizzata – comporta rispetto all’utilizzo della contribuzione volontaria che le parti avrebbero potuto contemplare nell’esercizio della loro autonomia.

Sul versante delle misure che possono agevolare l’esodo dei lavoratori anziani va poi richiamata la disposizione, contenuta nell’art. 3, che – riprendendo l’esperienza dei fondi istituiti ai sensi dell’art. 2, co. 28, della l. n. 662/1996 – prevede la possibilità che i fondi di solidarietà – oltre alla finalità principale di erogare prestazioni di sostegno al reddito in caso di sospensione dal lavoro – possano darsi finalità aggiuntive, tra le quali ci interessa quella dell’erogazione di «assegni straordinari per il sostegno del reddito, riconosciuti nel quadro dei processi di agevolazione all’esodo, a lavoratori che raggiungano i requisiti previsti dal pensionamento di vecchiaia o anticipato nei successivi cinque anni» (art. 3, co. 11, lett. b)32.

Il legislatore ha tenuto presente la condizione dei lavoratori anziani anche sul differente versante del reinserimento lavorativo. Ha infatti previsto di promuovere l’assunzione dei lavoratori di età non inferire a 50 anni e disoccupati da 12 mesi, riconoscendo a chi li assuma con contratto di lavoro subordinato, anche a termine e in somministrazione, la riduzione al 50% dei contributi a suo carico (art. 4, co. 8)33. Se l’assunzione è a tempo indeterminato il beneficio viene riconosciuto per un periodo di 18 mesi (art. 4, co. 10). Se l’assunzione è a termine il beneficio viene riconosciuto per un periodo di 12 mesi e, nel caso di trasformazione a tempo indeterminato del contratto di lavoro, il beneficio spetta per un periodo complessivo di 18 mesi decorrente dall’assunzione (art. 4, co. 9).

I profili problematici

Per quel che riguarda i profili problematici è opportuno distinguere tra quelli di ordine politico e quelli di ordine tecnico.

Con riferimento ai primi ci si può chiedere se il legislatore abbia effettivamente conseguito gli obiettivi enunciati nel primo comma dell’art. 1. Dichiarando le politiche perseguite al fine di rendere il mercato del lavoro «inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica ed alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione» – il legislatore ha indicato, per quel che riguarda la nostra materia, due linee: quella volta a rendere «più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone» (lett. d) e quella volta a «favorire nuove opportunità di impiego ovvero di tutela del reddito per i lavoratori ultracinquantenni in caso di perdita del posto di lavoro» (lett. g). Orbene, si deve dire che gli obiettivi li ha conseguiti solo in parte. Si ha la sensazione di trovarsi dinnanzi ad una riforma che costituisce certamente un importante passo in avanti, ma che non può considerarsi ancora del tutto compiuta. Possiamo dire che il legislatore è riuscito ad avvicinarsi all’obiettivo che era stato enunciato (invero in termini alquanto generici) dal legislatore nella legge delega del 200734, rimasta inattuata: quello della «graduale armonizzazione dei trattamenti di disoccupazione e creazione di uno strumento unico indirizzato al sostegno del reddito e al reinserimento lavorativo dei soggetti disoccupati senza distinzione di qualifica, appartenenza settoriale, dimensione di impresa e tipologia di contratti di lavoro» (l. 24.12.2007, n. 247, art. 1, co. 29, lett. a).

Mentre nel campo del sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro (art. 3) i passi avanti sono stati compiuti nel segno della continuità e del compromesso35, nel campo del sostegno al reddito per perdita del lavoro (art. 2) sono presenti alcune discontinuità che abbiamo segnalato.

Tuttavia, non possiamo dire che si tratti di una riforma compiuta. Molti sono ancora gli elementi gli elementi claudicanti in essa.

In particolare, come si è visto, tutt’altro che definitivo è l’intervento a favore dei collaboratori a progetto, che peraltro inaccettabilmente rimane erogabile solo nei limiti di risorse predeterminate ed è mancante di una specifica base contributiva, risultando alimentato dalla fiscalità generale.

Neanche è chiaro cosa accadrà dopo l’ambigua sperimentazione prevista dall’art. 3, co. 17, il quale prevede l’utilizzo dell’Aspi anche con riferimento a sospensioni dal lavoro quando vi sia un intervento integrativo a carico dei fondi di solidarietà. Peraltro, si parla di Aspi, ma il finanziamento di questa prestazione è a carico della fiscalità generale ed anche essa è erogabile nei limiti di risorse preordinate.

Anche per quel che riguarda la disciplina transitoria che deve condurre alla soppressione dell’indennità di mobilità vi sono elementi di incertezza (co. 46-bis), frutto delle difficoltà occupazionali che stiamo attraversando.

Elemento claudicante considero anche la mancata regolazione del rapporto tra lavoro a tempo parziale verticale e Aspi. Continuare a negare l’utilizzo del trattamento nei periodi che il programma negoziale contempla come di non lavoro e nei quali il lavoratore sia effettivamente disponibile ad accettare altri lavori significa creare una contraddizione rispetto alle politiche che si intendono perseguire: significa disincentivare il part time verticale ed incentivare l’adozione di schemi contrattuali caratterizzati dalla temporaneità del rapporto, creando peraltro disparità irrazionali (a parità di impegno lavorativo nel corso dell’anno lo schema del rapporto temporaneo, a differenza del primo, consentirebbe l’accesso alla protezione contro la disoccupazione).

L’intervento sulla prestazione a requisiti ridotti – pur se apprezzabile per l’aspirazione a controllare l’effettività dello stato di disoccupazione e, quindi, a responsabilizzare maggiormente gli uffici nel servizio che devono offrire per il miglior funzionamento del mercato del lavoro – non offre, come si è visto, una risposta adeguata alle esigenze di integrazione del reddito e di salvaguardia del futuro pensionistico della categoria dei lavoratori precari.

L’incompiutezza della riforma si misura anche sotto un altro profilo, certamente più sostanziale: essa è ancorata alla visione assicurativa tradizionale, che si fa carico solo di coloro che hanno perso il posto di lavoro e trascura la posizione di coloro che soffrono per la mancanza di lavoro, cioè di coloro che si trovano in condizioni di bisogno e, pur essendo disponibili a lavorare, non riescono a trovare un’occupazione. È una visione che preclude quella “prospettiva di universalizzazione” che pure il legislatore si è data nell’art. 1 (co. 1, lett. d).

Nonostante iniziali cenni programmatici del Ministro Fornero, che aprivano alla speranza, questa prospettiva non è stata coltivata e peraltro bisogna riconoscere che, in passato, essa era del tutto assente anche nelle leggi delega di riforma degli ammortizzatori. La scarsezza delle risorse può certamente fornire una giustificazione, ma non dobbiamo nasconderci che resistenze probabilmente vengono anche da coloro che comunque antepongono l’esigenza di un sostanziale miglioramento del tradizionale sistema di protezione contro la disoccupazione, riguardante i soggetti già entrati nel mercato del lavoro, e da coloro i quali temono che l’introduzione di un reddito minimo garantito sia sconsigliabile, sia per la scarsa efficienza dell’apparato amministrativo che dovrebbe assicurarne l’applicazione, sia per i pericoli di azzardo morale che quella misura ecciterebbe, contro i quali l’etica pubblica del nostro Paese – dobbiamo riconoscerlo – non fornisce robusti antidoti.

Un profilo problematico di ordine politico è certamente anche quello scaturente dalla soppressione dell’indennità di mobilità e del complesso sistema organizzato attorno ad essa: diventerà inevitabilmente più difficoltoso il governo delle eccedenze di personale36. Tuttavia, quella soppressione rappresentava un passaggio obbligato se si voleva pervenire ad un sistema più equo, dovendosi escludere – anche e soprattutto per ragioni di sostenibilità finanziaria – che la soluzione potesse essere raggiunta attraverso un innalzamento del valore dell’indennità ordinaria di disoccupazione a quello dell’indennità di mobilità. La legge delega del 2007 questo problema non lo affrontava, nascondendolo dietro la formula della «graduale armonizzazione dei trattamenti di disoccupazione e creazione di uno strumento unico». L’attuale legislatore questa responsabilità se l’è assunta.

Per quel che riguarda gli aspetti problematici di carattere tecnico si è cercato di richiamarli in precedenza, nell’esposizione dei contenuti della normativa. Qui preme soffermarsi su un aspetto problematico particolarmente rilevante che investe la disciplina nel suo complesso, connesso alla scelta tecnica che il legislatore ha compiuto nel confezionare il suo intervento. Il legislatore non si è limitato a modificare il nome della storica assicurazione contro la disoccupazione, ma ha provveduto ad istituirne una nuova (presso la Gestione prestazioni temporanee dell’Inps), riproducendone la disciplina nei suoi tratti essenziali.

L’operazione compiuta è alquanto arrischiata perché suscettibile di azzerare un intero corpus normativo e le sue prassi applicative. Il rischio che si corre è soprattutto quello di un’eventuale insufficienza della nuova regolazione. Ad esempio, non risultano normate le modalità di calcolo dell’anzianità contributiva; nella disciplina attualmente vigente è previsto il meccanismo della neutralizzazione, in forza del quale non si tiene conto di determinati periodi ai fini del calcolo del biennio (periodi neutri sono quelli di malattia, infortunio, cassa integrazione a zero ore, assenze per fruizione di permessi per assistenza di figli con handicap grave). Come ci si dovrà regolare in futuro al riguardo? A ben vedere, lo stesso legislatore che ha fatto questa scelta drastica non ci ha creduto fino in fondo, se è vero che poi, contraddittoriamente, ha ritenuto opportuno provvedere all’esplicita abrogazione di alcune disposizioni del precedente sistema; ad esempio, si abroga esplicitamente, a decorrere dal 1° gennaio 2013, l’art. 40 del R.d.l. n.1827 del 1935 (art. 2, co. 69, lett. c).

Dal punto di vista della tecnica legislativa sarebbe stato più prudente, oltre che più agevole, introdurre modifiche alla legislazione esistente (e magari cogliere l’occasione per l’emanazione di un testo unico, tanto necessario in una materia il cui universo normativo risulta leggibile con fatica). Invece hanno prevalso ragioni che attengono, più che alla tecnica legislativa, alla tecnica della comunicazione. Ha prevalso l’interesse a fornire l’immagine di un intervento che fa piazza pulita mettendo in scena un nuovo attore destinato a rappresentare le ragioni dell’equità.

Note

1 Si è efficacemente parlato di “riverniciatura” dell’esistente (Cinelli, M., Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro, in Riv. dir. sic. soc., 2012, 248). Per Fraioli, L., La tutela contro la disoccupazione, in Vallebona, A., a cura di, La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, 114, «Le disposizioni sugli ammortizzatori sociali non costituiscono una riforma, ma solo degli aggiustamenti ed una parziale opera di razionalizzazione dell’esistente».

2 Il legislatore ha ripetuto la precedente formulazione nonostante su di essa vi sia stato un intervento “correttivo” della Corte costituzionale (sentenza interpretativa di rigetto del 24.6.2002, n. 269) che ha riconosciuto il diritto nei casi di dimissioni per giusta causa (dalla formulazione della disposizione «non discende l’esclusione della corresponsione dell’indennità ordinaria di disoccupazione per le ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione della improseguibilità del rapporto»). Cass., 28.1.2004, n. 1590, seguendo esplicitamente la logica della Corte costituzionale, ha riconosciuto il diritto alla prestazione nel caso di risoluzione consensuale del rapporto accettata dal lavoratore al fine di prevenire il licenziamento a seguito di una ristrutturazione aziendale. La prassi applicativa dell’Inps contempla un’ampia serie di casi (v. circ. Inps 20.10.2003, n. 163 e circ. 10.10.2006, n. 108). L’indennità viene riconosciuta anche nel caso delle dimissioni di cui all’art. 55 del d.lgs. 26.3.2001, n. 151. Si deve ritenere che si continuerà a tenere conto della prassi applicativa. Sul punto v. anche Sigillò Massara, G., La tutela del reddito nel d.d.l. di riforma del mercato del lavoro. Uno sguardo d’insieme, in Mass. giur. lav., 2012, 591.

3 L’art. 2, co. 40, prevede che si «decade dalla fruizione» dell’indennità nei seguenti casi: a) perdita dello stato di disoccupazione; b) inizio di un’attività in forma autonoma senza che il lavoratore abbia informato l’Inps entro un mese dall’inizio dell’attività dichiarando il reddito annuo che prevede di ricavare da tale attività; c) raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato; d) acquisizione del diritto all’assegno ordinario di invalidità, sempre che il lavoratore non opti per l’indennità erogata dall’Aspi». Il co. 41 prevede che la decadenza si realizza dal momento in cui si verifica l’evento che la determina, con obbligo di restituire l’indennità che eventualmente si sia continuato a percepire. La decadenza dal trattamento con riferimento alla politica di condizionalità è disciplinata dall’art. 4, co. 41-43. I co. 58-62 dell’art. 3 disciplinano la revoca giudiziale dei trattamenti di sostegno al reddito per i soggetti condannati per reati di stampo terroristico, di eversione e mafioso. V. Fraioli, L., La tutela contro la disoccupazione, cit., 125.

4 La disposizione puntualizza che i contributi figurativi non sono utili ai fini del conseguimento del diritto nei casi in cui la normativa richieda il computo della sola contribuzione effettivamente versata.

5 Cinelli, M., Gli ammortizzatori sociali, cit, 241.

6 La misura era stata anticipata in forma surrettizia con l’art. 19, co. 1, lett. c, del d.l. 29.11.2008,  n. 185, conv. con l. 28.12.2009,  n. 2.

7 I lavoratori soci di cooperativa erano già stati inseriti nell’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria con l. n. 196/1997 (art. 24, co. 2), tuttavia la stessa legge confermava l’esclusione dei soci rientranti nella disciplina di cui al d.P.R. 30.4.1970, n. 602 «nonché dei soci di categorie di cooperative espressamente escluse dalla predetta assicurazione» (art. 24, co. 5). Ora il legislatore, anche per esigenze di coerenza con quanto previsto dalla l. 3.4.2001, n. 142 (sulla base della quale, peraltro, qualche sentenza aveva già cominciato a riconoscere il diritto alla prestazione), ha fatto cadere quella esclusione.

8 Stando alla circ. Inps 12.2.2009, n. 18, fatta in occasione della legge che estendeva l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria ai lavoratori dipendenti delle aziende pubbliche, di quelle esercenti pubblici servizi nonché di quelle private, ancorché agli stessi sia garantita la stabilità d’impiego, bisognerebbe dire che rimangono fuori i «soci delle cooperative della piccola pesca marittima ex lege n. 250/58, gli armatori e proprietari-armatori imbarcati (art. 12, legge n. 413/84), piloti dei porti e marittimi abilitati al pilotaggio, allievi dei cantieri-scuola, ecc.».

9 Riproducendo nella sostanza elementi già presenti nella precedente disciplina il legislatore statuisce che l’indennità «spetta dall’ottavo giorno successivo alla data di cessazione del rapporto di lavoro ovvero dal giorno successivo a quello in cui viene presentata la domanda» (co. 14); che «La fruizione dell’indennità è condizionata alla permanenza dello stato di disoccupazione di cui all’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2001, n. 181, e successive modificazioni» (co. 14); che per «Per fruire dell’indennità i lavoratori aventi diritto devono, a pena di decadenza, presentare apposita domanda, esclusivamente in via telematica, all’Inps, entro il termine di due mesi dalla data di spettanza del trattamento» (co. 13).

10 Nel periodo intermedio la durata della prestazione sarà la seguente (co. 45): a) per le prestazioni relative agli eventi intercorsi nell’anno 2013: otto mesi per i soggetti con età anagrafica inferiore a cinquanta anni e dodici mesi per i soggetti con età anagrafica pari o superiore a cinquanta anni; b) per le prestazioni relative agli eventi intercorsi nell’anno 2014: otto mesi per i soggetti con età anagrafica inferiore a cinquanta anni, dodici mesi per i soggetti con età anagrafica pari o superiore a cinquanta anni e inferiore a cinquantacinque anni, quattordici mesi per i soggetti con età anagrafica pari o superiore a cinquantacinque anni, nei limiti delle settimane di contribuzione negli ultimi due anni; c) per le prestazioni relative agli eventi intercorsi nell’anno 2015: dieci mesi per i soggetti con età anagrafica inferiore a cinquanta anni, dodici mesi per i soggetti con età anagrafica pari o superiore a cinquanta anni e inferiore a cinquantacinque anni, sedici mesi per i soggetti con età anagrafica pari o superiore a cinquantacinque anni, nei limiti delle settimane di contribuzione negli ultimi due anni.

11 La percentuale di commisurazione è del 75% fino all’importo di 1.180 euro mensili (annualmente rivalutato sulla base delle variazioni dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente). «Nei casi in cui la retribuzione mensile sia superiore al predetto importo l’indennità è pari al 75 per cento del predetto importo incrementata di una somma pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e il predetto importo» (co. 7).

12 Così Garofalo, D., Gli ammortizzatori sociali, in Carinci, F.-Miscione, M.,  Commentario alla riforma Fornero, Milano, 2012, 181.

13 Fraioli, L., La tutela contro la disoccupazione, cit., 122.

14 La legge prevede (art. 2, co. 16) che nei casi di sospensione i periodi di contribuzione legati al nuovo rapporto di lavoro possono essere fatti valere ai fini di un nuovo trattamento.

15 Per evitare un eccessivo aggravio del carico contributivo del lavoro somministrato, il particolare contributo del 4% previsto per questa forma di lavoro dall’art. 12 del d.lgs. n. 276/2003 è stato corrispondentemente ridotto al 2,6% (art. 2, co. 39).

16 Essi riguardano: a) lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti; b) lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al d.P.R. 7.10.1963, n. 1525, nonché, per i periodi contributivi maturati dal 1o gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, di quelle definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative.; c) apprendisti; d) lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni.

17 Il legislatore, in verità, parla atecnicamente dei casi di “interruzione” di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni. Evidentemente intendeva ricomprendere anche le ipotesi di risoluzione consensuale.

18 L’art. 2, co. 34, prevede che «Per il periodo 2013-2015, il contributo … non è dovuto nei seguenti casi: a) licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; b) interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere».

19 Il comma aggiunge che «Nel computo dell’anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo determinato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione» parziale del contributo addizionale. I datori di lavoro che siano tenuti a versare il contributo previsto per l’indennità di mobilità dalla l. n. 223/1991, che rimane in vita fino al 31.12.2016, fino a quella data non sono tenuti a versare questo contributo straordinario (art. 2, co. 33).

20 Anche per la mini-Aspi è previsto l’istituto della sospensione in caso di nuova occupazione, ma il periodo è limitato a 5 giorni (co. 23). Cozza con questo co. il riferimento che nel co. 22 erroneamente si fa al co. 15.

21 V. art. 2, co. 22, il quale nel richiamare le disposizioni dell’Aspi che trovano applicazione per la mini-Aspi, omette il riferimento al co. 4, lett. b).

22 Cfr. circ. Inps 31.12.1998, n. 273.

23 Art. 19, co. 2, d.l. n. 185/2008 conv. dalla l. n. 2/2009.

24 La prestazione è riservata ai lavoratori a progetto iscritti in via esclusiva alla Gestione separata presso l’Inps (esclusi i percettori di reddito di lavoro autonomo per esercizio abituale di arti e professioni) che «soddisfino in via congiunta le seguenti condizioni: a) abbiano operato, nel corso dell’anno precedente, in regime di monocommittenza; b) abbiano conseguito l’anno precedente un reddito lordo complessivo soggetto a imposizione fiscale non superiore al limite di 20.000 euro, annualmente rivalutato sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenuta nell’anno precedente; c) con riguardo all’anno di riferimento sia accreditato, presso la predetta Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995, un numero di mensilità non inferiore a uno; d) abbiano avuto un periodo di disoccupazione ai sensi dell’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni, ininterrotto di almeno due mesi nell’anno precedente; e) risultino accreditate nell’anno precedente almeno quattro mensilità presso la predetta Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995» (co. 51). La prestazione è pari a un importo del 5% del minimale annuo di reddito di cui all’art. 1, co. 3, della l. 2.8.1990, n. 233, moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione (co. 52) ed è liquidato in un’unica soluzione se pari o inferiore a 1.000 euro, ovvero in importi mensili pari o inferiori a 1.000 euro se superiore (co. 53).

25 Durante questo periodo opereranno alcuni parametri modificati (il requisito delle 4 mensilità accreditate presso la gestione separata è ridotto a 3 e l’importo della prestazione è elevato dal 5 al 7 per cento del minimale annuo).

26 Dal d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. con l. 7.8.2012, n. 134, con il quale si è rinviato l’inizio della riduzione del trattamento di mobilità al primo gennaio 2015 (art. 46 bis, co. 1, lett. e). Sul collegamento di questo intervento con le problematiche indotte dall’innalzamento dell’età di pensionamento v. Cinelli, M., Gli ammortizzatori sociali, cit., 249.

27 «Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro il 31 ottobre 2014, procede, insieme alle associazioni dei datori di lavoro e alle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ad una ricognizione delle prospettive economiche e occupazionali in essere alla predetta data, al fine di verificare la corrispondenza della disciplina transitoria di cui al comma 46 a tali prospettive e di proporre, compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, eventuali conseguenti iniziative» (d.l. n. 83/2012, conv. con l. n. 134/2012, art. 46 bis, co. 1, lett. f).

28 L’indennità di mobilità lunga era stata prevista dalla l. n. 223/1991 (art. 7, co. 6-7) come misura straordinaria per agevolare lo svuotamento delle sacche di lavoratori da lungo tempo in cassa integrazione e favorire l’entrata a regime della nuova disciplina. Purtroppo l’entrata in vigore della l. n. 223/1991 coincise con una ripresa del ciclo economico e questo portò con successivi provvedimenti a differire il termine di utilizzo della misura, sempre nel limite di contingenti predeterminati. Quando un differimento non fu più consentito per la mancanza di risorse pubbliche il legislatore cominciò a porre l’onere del prolungamento del trattamento e della relativa contribuzione figurativa a carico dei datori di lavoro che erano ammessi a godere della misura, rimanendo comunque la politica del contingentamento (art. 4, co. 26-27, d.l. 1.10.1996, n. 510, conv. con l. 28.11.1996, n. 608 e, da ultimo, art. 1, co. 1189, l. 27.12.2006, n. 296).

29 Garofalo, D., Gli ammortizzatori sociali, cit., 171; v. anche Cinelli, M., Gli ammortizzatori, cit. 265, il quale esprime perplessità anche di ordine giuridico.

30 Il co. 6 prevede che «In caso di mancato versamento l’Inps procede a notificare un avviso di pagamento; decorsi centoottanta giorni dalla notifica senza l’avvenuto pagamento l’Inps procede alla escussione della fideiussione».

31 Cinelli, M., Gli ammortizzatori, cit., 265; Sigillò Massara, G., La tutela del reddito, cit., 601.

32 Questa possibilità è offerta anche ai fondi facoltativi, cioè quelli eventualmente costituiti nell’ambito di categorie che rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione guadagni (art. 3, co. 12). Sembra totalmente priva di giustificazione – ed è evidentemente frutto di un mancato coordinamento – la differenza nel numero di anni mancanti alla pensione rispetto a quanto previsto nell’art. 4, co. 2.

33 Sempre che ciò avvenga nel rispetto dei principi che il legislatore poco dopo detta in via generale con riferimento a tutti gli incentivi all’assunzione (art. 4, co. 12-15).

34 Per questa valutazione v. anche Garofalo, D., Gli ammortizzatori sociali, cit., 166.

35 Tuttavia, non credo si possa sostenere che sia stato un «intervento di manutenzione» (poco più che ordinaria) (così Sigillò Massara, G., La tutela del reddito, cit., 589) dal momento che comunque ne viene fuori un sistema nel quale – a differenza del passato – la tutela in costanza del rapporto è comunque assicurata (pur con dei limiti) a tutte le categorie.

36 Lo rilevano con efficacia Ferraro, G., Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella riforma del mercato del lavoro, in Mass. giur. lav., 2012, 488 ss.; Cinelli, M., Gli ammortizzatori sociali, cit., 249.

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