ASSISE DI MESSINA

Federiciana (2005)

Assise di Messina

Andrea Romano

La cronaca del notaio imperiale Riccardo di San Germano dà notizia di due diverse diete tenute dall'imperatore a Messina, nelle quali furono promulgate delle leggi regie o assisae. La prima databile a un decennio anteriore alla pubblicazione melfitana del Liber Augustalis e la seconda a poco oltre due anni da quella.

Dopo che in una generalis curia convocata a Capua nel dicembre del 1220, nel solco della tradizione, "pro bono statu Regni suas ascisias promulgavit, quae sub viginti capitulis continentur" (Riccardo di San Germano, 1725, col. 992), Federico, in un 'parlamento' di poco successivo riunito nel settembre del 1221 a Messina, procedeva nel suo impegno di riordino della normativa del Regnum promulgando un ulteriore nucleo di assisae, forse quattro (Dilcher, La legislazione siciliana, 1987, p. 89; Id., Introduzione alla ristampa, 1987, p. 134) o cinque (Capasso, 1871, p. 386), a seconda dei criteri di divisione adottati, concepite a difesa della morale, dell'ordine e dei 'buoni costumi' del Regno. Esse sanzionavano i giocatori d'azzardo (contra lusores taxillorum et alearum) e i bestemmiatori (contra nomen Domini blasphemantes), ponevano limitazioni alle libertà degli ebrei (contra Judeos ut in differentia vestium et gestorum a christianis discernantur) e delle meretrici (contra meretrices ut cum honestis mulieribus ad balnea non accedant et ut eorum habitatio non sit infra moenia civitatum) e perseguivano i buffoni maldicenti (contra ioculatores obloquentes ut qui in personis aut rebus illos offenderint pacem non teneantur imperialem infringere) (Ignoti monachi, 1888, pp. 104 ss.; Riccardo di San Germano, 1725, col. 993).

Si trattava di un corpus omogeneo di norme suggerite dalla preoccupazione che comportamenti potenzialmente pericolosi e costumi licenziosi di soggetti ritenuti socialmente 'a rischio' non procurassero occasioni di disordine o pericoli per la gente onesta. Peraltro è noto che i disordini verificatisi durante la minorità dell'imperatore e per la sua assenza dal Regno e ancor prima in seguito alla successione di Guglielmo II avevano affievolito di molto la vigenza delle assise normanne e reso problematico il mantenimento del bonus status Regni.

Se i provvedimenti contro i giocatori d'azzardo, i bestemmiatori e le meretrici potevano essere considerati di diffusa vigenza e presenti in gran parte delle normative locali coeve, anche comunali, un'attenzione particolare meritano le altre. L'assise che imponeva segni distintivi agli ebrei, seppure anch'essa espressione di una pratica abbastanza diffusa, sembrerebbe infatti limitata a un determinato momento storico e rispondente a esigenze contingenti, non trovando riscontro nel disegno normativo del Liber Augustalis, ove comunque era accolto il principio per cui "judei in aliis sunt peioris conditionis quam christiani et debent esse" (Andrea d'Isernia, 1773, p. 45). Ugualmente significativo risulta il provvedimento contro i giullari che, come chiariva Andrea d'Isernia "non debent facere contumeliosas seu ignominiosas cantilenas" (Capasso, 1871, p. 386). Di fatto quelli erano privati della tutela regia, consentendosi a chiunque si sentisse calunniato di offenderli impunemente nella persona e nei beni, che, come precisava il medesimo commentatore, "si faciant possunt impune offendi a quolibet in persona et rebus, nec punitur qui eos offenderit". Una norma probabilmente tendente a soffocare, oltre che le pratiche calunniose e la maldicenza giullaresca, possibili espressioni di dissenso espresse in forma satirica. Significativamente, nono-stante quest'ultima assise non avesse trovato conferma nel codice melfitano, e quindi risultasse tacitamente abrogata, essa appare compresa in alcune redazioni manoscritte delle Constitutiones, circostanza che farebbe ipotizzarne una seppur circoscritta prolungata vigenza.

Delle Assise messinesi, a testimonianza di un disegno normativo in elaborazione, solo due (Const. III, 90, Mores dissolute e Const. III, 91, Blasphemantes) risulteranno comprese nella codificazione melfitana del 1231. Altre due (Saepe corrumpunt e Joculatores), quantunque commentate da Andrea d'Isernia e attestate in taluni codici più risalenti, comunemente dopo la Const. II, 60, Constitutione praesenti (Capasso, 1871, p. 386), non parrebbero recepite nel corpus melfitano, mentre l'assise riguardante gli ebrei restava di fatto cassata. Il ritrovare in codici del Liber Constitutionum norme che, in quanto non recepite nel corpus promulgato in solemni consistorio melfiensi, a norma della costituzione Post mundi machinam, che prescriveva che le sanctiones precedenti "quae in praesenti constitutionum nostrarum corpore minime continentur, robur aliquod nec auctoritas aliqua in iudiciis vel extra iudicia possint assumi" (Constitutionum Regni, 1773, p. 7), andassero considerate abrogate, evidenzia il complesso problema della vigenza di quella normativa.

Così come già a Capua, anche a Messina, Federico, prendendo le mosse dalla negletta legislazione normanna, assolveva, in un'assise parlamentare o generalis curia, alla funzione di 'ordinare il Regno' per garantirvi pace e giustizia, dando vita a una normativa che, seppure ancora occasionale e non sistematica, lasciava intravedere un embrionale disegno di 'stato di diritto' gerarchicamente e legislativamente ordinato, nonché un travaglio normativo di notevole portata. Un travaglio forte e persistente che in un trentennio avrebbe visto il susseguirsi di iniziative codicistiche, integrazioni e parziali ripensamenti, e per di più cedimenti innanzi alla rerum necessitas.

Il sovrano a fronte di una curia generalis formata "prelatis et magnatibus congregatis" e integrata da "cives [...] de melioribus de qualibet civitate" si qualificava nella severa veste di legis lator (Die Konstitutionen, 1996, p. 1), ferma restando a quell'organo, diverso dalla Magna Regia Curia, la tradizionale funzione di luogo di alta giustizia. Il Caruso distingue le curiae dai colloquia, individuando in questi ultimi delle assemblee in qualche misura rappresentative, costituite da funzionari regi e sindaci delle città e delle terre demaniali, riunite dal sovrano per la promulgazione delle sue leggi (Caruso, 1957, p. 217). Un'ipotesi che non sembra trovare convincenti riscontri nelle fonti, pur se, dal 1220, le curiae generales divennero i luoghi deputati alla promulgazione delle leggi regie e alla determinazione dell'ammontare delle imposte o collectae (Romano, 2002, p. 54).

Dopo le Assise di Messina e fino a quelle di Melfi, ovvero dal 1222 al 1231, l'impegno legislativo dello Svevo conosce una pausa, per riprendere, alquanto vivacemente, subito dopo l'opera di reductio in volumine della normativa del Regnum. Nuove assisae, frutto di un'episodica attività di revisione-integrazione del Liber Augustalis posta in essere subito dopo la promulgazione, erano pubblicate già nella curia di Siracusa del 1232, quando veniva proibito ai siciliani di contrarre matrimoni con stranieri o forestieri senza permesso della Regia Curia. È sempre Riccardo di San Germano a narrare che "Imperator apud Syracusas statuit in curia generali ut nulli omnino liceat de filiis et filiabus Regni matrimonia cum externis et adventitiis, vel qui non sint de Regno, absque ipsius speciali requisitione, mandato seu consensu Curiae suae contrahere, videlicet ut nec aliquae de Regno nubere alienigenis audeant nec aliqui alienigenarum filias ducere in uxores, poena apposita omnium rerum suarum" (1725, col. 1033).

Probabilmente nel dicembre di quel medesimo anno Federico, "convocatis fidelibus nostris Siciliae in solemni colloquio apud Lentinum", nella consapevolezza che "praesentes ubique locorum esse non possumus", poneva mano a perfezionare l'originario disegno melfitano di burocratizzazione degli apparati. In tale prospettiva, ritenendo "necessario [...] statuendum de corrigendis et compescendis excessibus" commessi da ufficiali regi in sua assenza o da chicchessia detenesse un potere in assenza o con la complicità degli stessi magistrati, istituiva delle "solemnes curias [...] per singulas provincias regni nostri de caetero annuatim [...] celebrandas" (Matteo d'Afflitto, 1588, p. 136vb).

Il notaio Riccardo di San Germano (che non dà notizia della dieta lentinese) all'anno 1234 annota però che "mense januario, apud Messanam, ipse imperator regens curiam generalem", disponendo, a favore dei commerci, la regolamentazione di un sistema di fiere 'privilegiate', da tenersi in sette città del Regno (Sulmona, Capua, Lucera, Bari, Taranto, Cosenza, Reggio) in date fisse, da S. Giorgio a Ognissanti. Nella medesima occasione, scrive il cronista, "statuit etiam ipse Imperator apud Messanam bis in anno in certis regni provinciis generales curias celebrandas", da convocare a Piazza Armerina, Cosenza, Gravina, Salerno, Sulmona agli inizi di maggio e novembre (Riccardo di San Germano, 1725, coll. 1033-1034). Ancora una prescrizione non compresa nel corpus delle Constitutiones melfitane tramandatoci dalla vulgata e identificabile nell'extravagans costituzione Etsi generalis cura (Constitutiones Regni Siciliae, in Historia diplomatica, IV, 1, p. 461; Die Konstitutionen, 1996, pp. 458-460).

La stessa costituzione Etsi generalis cura risulta, comunque, oltre che documentata da taluni manoscritti delle Novellae, quali il ms. 847 della Biblioteca Nacional di Madrid e il Vat. Lat. 6770 della Biblioteca Apostolica Vaticana (Die Konstitutionen, 1996, p. 83), altresì attestata in antico da Matteo d'Afflitto (m. 1528) che notava come "[...] haec constitutio utilis [...] non fuit impressa sed in constitutionibus antiquis sic reperitur scripta [...]" (1588, p. 136vb). Ne dava, quindi, notizia il siciliano Mario Muta (m. 1636), che sulla scorta di Matteo ricordava quella "[...] constitutionem antiquam eiusdem Imperatoris Federici quae [...] non fuit impressa tunc in modernis constitutionibus et miratur ac conqueritur valde de hoc quod non fuit tam bonus ordo servatus [...]" (Muta, 1627, pp. 27-28). Ancor prima il commentatore Andrea d'Isernia (m. 1316) aveva osservato che: "Haec est quaedam nova constitutio, que incipit 'Etsi generalis cura nos advocet etc.' quae bis in anno curiam ordinat congregare, exprimens loca, tempus et modum curiae faciendae, qui et quot interesse debent, ordines querimoniarum et coram quibus et multa utilia, quae si servarentur bonum esset pro subditis et pro regnante" (1773, p. 96).

Il d'Afflitto, magistrato acuto e di non comune esperienza, si chiedeva con meraviglia come potesse essersi verificato che un'istituzione tanto opportuna non avesse trovato seguito. Sulle motivazioni di quella disapplicazione preferiva però sorvolare, significativamente, osservando che in taluni casi è meglio tacere piuttosto che esporsi dicendo quello che si pensa (1588, p. 136vb).

La Novella, forse proposta nel parlamento di Lentini e pubblicata in quello successivo di Messina, ad oltre due anni dalla promulgazione del Liber Augustalis, si proponeva l'obiettivo politico di rimediare agli abusi commessi dai magistrati regi o dai baroni. Per assicurare un'efficace tutela dei sudditi (perseguendo il proclamato iter iustitiae) prescriveva che, annualmente, nelle città di Piazza Armerina, Cosenza, Gravina, Salerno e Sulmona fossero riunite delle solempnes curiae per giudicare dei soprusi e dei danni lamentati da chicchessia, chierico o laico che fosse, abitante di città demaniali o terre feudali, contro privati o ufficiali pubblici nonché per raccogliere le denunzie contro gli eretici e i patarini. Tali curie, presiedute da un "nuntius specialiter de latere nostro transmissus", assistito dal giustiziere provinciale competente per territorio, dovevano essere formate da quattro "viri de melioribus terre, bone fidei et bone opinionis et qui non sint de parte" in rappresentanza di ogni città, nonché da due sindaci per ogni centro minore e castello. A quelli si aggiungevano i prelati del distretto, o i loro rappresentanti, i conti e i baroni dei luoghi interessati.

Nel corso delle stesse curiae, da convocarsi il 1o maggio e il 1o novembre, con una durata fra gli otto e i quindici giorni, i delegati regi dovevano prendere nota di tutte le accuse mosse sia ai giustizieri che agli altri pubblici ufficiali. Sulle specifiche controversie andavano istruite delle inchieste ad hoc, da affidare a commissioni composte da due ecclesiastici e due laici, i cui atti andavano trasmessi, in plichi sigillati, alla Regia Curia per la decisione. Nel caso di accuse contro "qui officiales non sunt", e pertanto anche contro conti e baroni, avrebbero deciso direttamente i giustizieri. Ne risultava una struttura burocratico-giudiziaria fortemente accentrata e limitativa della giurisdizione feudale, nel segno di quell'assolutismo per cui Federico aveva proclamato che "ubique personaliter esse non possumus ubique potentialiter esse credamur", ove l'ubique presumibilmente comprendeva anche le terre feudali.

L'Assise messinese, sgradita alla feudalità e da essa avversata, può assumersi a dato significativo dell'incompiutezza del disegno politico federiciano, delle resistenze suscitate e del suo parziale fallimento. Ad essa si doveva, principalmente, l'istituzione di curiae generales ordinarie, che, come acutamente ha osservato Rosario Gregorio (1857, p. 248), non vanno identificate con delle assemblee parlamentari, come ad esempio parrebbero fare sia l'Inveges, per cui "Federico il perfettionò, poiché dichiarò le persone, il luogo e il tempo, quando e come si dovessero giuntare e l'ampliò a due parlamenti ogn'anno" (1649, p. 581), che il Mongitore, notando che "un ne convocò in Messina, in cui nel 1233, diede distinta regola e stabilimento nel celebrarsi i parlamenti" (1717, p. 23), e sulla loro scia anche il Pecchia (1869, III, p. 75). Opportunamente già il Muta, si preoccupava di sottolineare l'equivocità del termine curia osservando che: "et tandem tantum est dicere parlamentum ac si generalis curia [...] esto ipsa curia sit verbum equivocum et multipliciter sumatur" (Muta, 1627, p. 28). Lo stesso giurista palermitano sembrerebbe però rimanere vittima di quell'ambiguità identificando nelle curie provinciali istituite nelle Assise di Messina dei parlamenti, in ciò seguito da quella storiografia sicilianista che ha voluto riportare a Federico l'introduzione nel Regnum del sistema parlamentare, poi imitato dai re di Francia, Inghilterra e Spagna, osservando che anche Luigi IX, nel 1248, aveva disposto l'annuale convocazione di tre parlamenti e che altrettanti ne aveva concesso agli inglesi Enrico III nel 1258 (Marongiu, 1962, pp. 175-176).

Le sollempnes curiae che i capitani e maestri giustizieri, secondo quanto previsto dalla costituzione Capitaneorum autem, dovevano indire nelle province di loro competenza null'altro erano se non delle speciali corti di sindacato e di giustizia. Strumenti dell'assolutismo regio, e quasi un perfezionamento del sistema feudale-imperiale dei missi dominici che si concretizzava nell'istituzione di 'corti di sindacato' (Savagnone, 1900, p. 404), queste 'corti provinciali di giustizia' (Gregorio, 1857, p. 248) risultavano momenti qualificanti dell'ideale 'stato opera d'arte', essendo destinate a costituire uno dei tasselli di quella 'incompiuta', cui fa riferimento Colliva parlando della realtà dello stato fridericiano caratterizzato da un forte "travaglio legislativo" (Colliva, 1966-1967, p. 402).

È una delle non poche istituzioni previste dal disegno legislativo regio rimaste prive di concreta attuazione, vuoi per l'opposizione baronale, sia per la viscosità naturale degli apparati e dei ceti che Federico cercava di piegare ai suoi disegni, non sempre riuscendoci, sia anche per la contraddittorietà rilevabile nella stessa normativa. Non è da escludersi, infatti, che le curie generali provinciali venissero svuotate di contenuto dalla ridefinizione fridericiana, connessa alla promulgazione della costituzione Capitaneorum autem (Colliva, 1964, pp. 146 ss.), delle funzioni dei capitani e maestri giustizieri, ufficiali d'importanza centrale nel disegno amministrativo dell'imperatore svevo, quantunque anch'essi destinati a un'effimera esistenza.

Difficile ipotizzare se nel disegno federiciano le semestrali cinque curie generali provinciali dovessero trovare un raccordo con le Curie generali del Regno, che erano convocate a discrezione del sovrano, o se i differenti istituti dovessero condurre esistenze separate, rispondendo a finalità diverse, o, ancora, se le prime fossero state concepite come alternative alle seconde in opposizione a qualsiasi forma di condivisione delle prerogative regie. Evidente sembrerebbe, invece, il disegno politico enunciato nelle Assise di Messina di limitare l'estensione della giurisdizione feudale e di affermare un sistema di 'legalità regia' coinvolgendo le élites cittadine. In questa prospettiva acquisterebbe anche significato, nell'economia di quella normativa, trovare insieme un provvedimento regolatore delle fiere nell'Italia meridionale a favore del ceto mercantile, e un altro che contemplava la chiamata di viri de melioribus terre a sondare sull'amministrazione della giustizia locale. Mentre sullo sfondo veniva affermata la funzione determinante della giustizia regia espressa dai giustizieri e dalla regia gran corte, chiamati a decidere sulle inquisitiones istruite dalle corti provinciali.

Se si prende per buona la datazione del 1235, proposta da Colliva, per la costituzione Capitaneorum autem (ibid., p. 132), in assenza di notizie su curie provinciali effettivamente tenutesi (Colliva, 1966-1967, pp. 398 ss.), potrebbe anche ipotizzarsi che già a un anno dalla loro istituzione, seppure attivate, quelle cessassero di esistere. Ove, invece, si accetti la datazione proposta dal Caruso, per taluni versi più convincente, che pone la Capitaneorum autem fra le costituzioni promulgate a Foggia nel 1240 (Caruso, 1951, p. 50), si potrebbe ipotizzare la seppure formale vigenza delle curie provinciali disegnate nelle Assise di Messina per almeno un quinquennio, seppure non restino tracce significative delle loro convocazioni e del funzionamento.

Quantunque le curie provinciali previste dalla costituzione Etsi generalis cura non possano riportarsi al genus delle assemblee parlamentari, va osservato che proprio tra il 1232 e il 1240 maturava nel Regnum, non senza contraddizioni e restando incompiuta, una 'riforma parlamentare' per cui i generalia colloquia assumevano una configurazione ben definita, cessando di essere delle semplici curiae di fideles, nobiles e praelati. Esse assumevano forma costituzionale di 'assemblee rappresentative', ma prive di effettivi poteri decisori e di fatto regolate dall'arbitrio del sovrano che, oltre a determinarne i componenti, ne fissava i tempi, i luoghi, le modalità di convocazione e gli argomenti da trattare (Romano, 2002, p. 58), mentre la partecipazione era intesa come un dovere per i sudditi chiamati a intervenirvi.

Barcamenandosi fra tradizione e innovazione, in un secolo ‒ sotto il profilo del diritto ‒ ricco di novità, Federico, pur dando vita a una intensa quanto significativa e travagliata attività legislativa, restava di fatto legato a una visione della regalità e della legge riportabili a un ordine divino, che nel mondano si esprimeva attraverso la voluntas dell'imperatore. Una concezione che finiva per impedirgli di comprendere la realtà cittadina, vista come fonte di turbamento dell'ordine naturale, e di concepire modelli di rappresentanza politica che andassero al di là di quelli propri delle autonomie feudali e delle città regie. Le Assisae di Messina del 1234 possono assumersi a momento significativo di tale contraddittoria complessità.

fonti e bibliografia

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A. Romano, "Ut serenitatem vultus nostri respicias et nostram audias voluntatem". I colloqui generali d'età sveva nel "Regnum Siciliae", in "De curia semel in anno facienda".

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