ATEISMO

Enciclopedia Italiana (1930)

ATEISMO (dal gr. ἄϑεος "senza Dio"; lat. atheismus "negazione di Dio"; fr. athéisme; sp. ateismo; ted. Atheismus, Gottlosigkeit; ingl. atheism)

Cecilia MOTZO DENTICE di ACCADIA
Raffaele PETTAZZONI

Parola di significato per sé indeterminato e relativo, che s'incontra di frequente nella storia delle religioni, assai meno in quella della filosofia. Giacché di ateismo non si può parlare in senso assoluto, ma soltanto in rapporto a una particolare maniera di concepire la divinità. Movendo dalla propria peculiare rappresentazione di Dio, ciascuna religione positiva ha sempre condannato e condanna come atee tutte le rappresentazioni che non sono conformi alla propria: nell'età antica i Greci e i Romani considerarono atei gli ebrei e i cristiani in quanto rifiutavano l'adorazione a singoli dei (v. sotto); in quella moderna da polemisti cattolici fu rivolta simile accusa ai protestanti, e così via. E più volte nei secoli l'accusa divenne arma di persecuzioni e di odî cruenti. Da Socrate al Bruno, dallo Spinoza al Hegel, bene spesso ne furono colpiti i filosofi comunque dissenzienti dalla concezione religiosa del loro paese e del loro tempo.

La dottrina cattolica distingue gli atei teorici, cioè quelli che negano teoreticamente l'esistenza di Dio, dagli atei pratici, quelli che vivono come se Dio non esistesse. Né bisogna dimenticare l'altra distinzione fra ateismo dogmatico (negazione vera e propria dell'esistenza di Dio), ateismo scettico o meglio agnostico (disconoscimento dell'umana capacità di scoprire e dimostrare l'esistenza di Dio), e ateismo critico (confutazione delle varie prove escogitate per dimostrare quell'esistenza). La coscienza comune considera atei tutti coloro che non concepiscono Dio come persona o come causa prima o come creatore, e perciò bolla di ateismo tutte le dottrine panteistiche, materialistiche, deistiche, e così via. Filosoficamente, se per Dio s'intende l'assoluto, comunque poi questo venga concepito, l'ateismo è assurdo, in quanto non v'è sistema di pensiero che possa reggersi senza considerare alcunché come assoluto.

È dunque, e sotto ogni punto di vista, improprio parlare, come alcuni fanno, di ateismo a proposito di popolazioni primitive, presso le quali la nozione della divinità è ancora troppo poco sviluppata per poter dare luogo a una critica o a una negazione. L'ateismo degli antichi Thoes o Akrothoitai della Tracia (Monte Athos), i quali secondo Teofrasto (Porphyr., De abstin., II, 8; Simplic., In Epictet. enchirid., 31) non prestavano alcun culto né di offerte né di sacrifici agli dei, non sarà da prendere alla lettera, bensì soltanto in rapporto con la religione dei Greci, al cui confronto la religione rozzissima di quei primitivi sarà sembrata addirittura mancanza di religione (cfr. J. Bernays, Theophrastos' Schrift über Frömmigkeit: Ein Beitrag zur Religiongeschichte, Berlino 1866, p. 36). E nello stesso senso sarà da intendere la qualifica di atei attribuita dagli antichi ai Seres, cioè ai Cinesi (Celso presso Origen., Contra Cels., VII, 62-64). Analogamente presso alcuni primitivi o "selvaggi" attuali, che già furono addotti come esempî di popoli senza religione (J. Lubbock), si tratta piuttosto, in generale, di una religiosità elementare preteistica, che è altra cosa dall'ateismo.

Così pure, quando si parla di religioni "atee" - specialmente buddhismo e jainismo - ciò è da intendere in senso relativo, con riferimento alla nozione di un Dio personale supremo e creatore, la quale anche nell'India è infatti comune a varî sistemi religiosi e filosofici, perciò detti āiśvarika (da īśvara, propr. "signore"), vale a dire "teistici", mentre nell'India stessa essa è appunto dal buddhismo e dal jainismo negata.

Ma pur volendo prescindere, nel buddhismo, da quegli sviluppi posteriori nei quali la figura o l'idea del Buddha è divinizzata e sublimata (e questo non solo nella concezione popolare: si pensi all'Amidismo cinese e giapponese) fino al punto di realizzare l'idea di una divinità personale suprema, già nel buddismo originario troviamo da un lato mantenuti gli dei vedico-brahmanici (deva) - sebbene adattati alla dottrina fondamentale buddhistica e quindi concepiti non come esseri eterni e creatori, bensì come soggetti anch'essi alla legge universale del divenire - e dall'altro, come superamento di questo adattato politeismo, una concezione del divino come mistero che trascende ogni possibilità di formulazione verbale e di determinazione concettuale. Parallelamente il jainismo mentre ammette, in armonia col suo sistema, gli dei della religione tradizionale come esseri superiori soggetti alla legge della trasmigrazione delle anime, svolge per conto proprio dall'idea del Jina il concetto di una divinità suprema (paramadevatā). Alla base, dunque, del preteso ateismo buddhistico e jainico s'intravede l'aspirazione a superare la concezione politeistica della divinità in nome di un più alto ideale divino.

Ma, prendendo il termine ateismo nel suo senso relativo e corrente, troviamo sistemi filosofici ateistici nell'India: il sāíkhya (designato precisamente come anīśvara o nirīśvara, "senza un īśvara", cioè "senza un essere supremo personale", "ateo"), la mēmāísā, e il sistema dei Lokāyata o, come anche si chiamarono in seguito, dei Cārvāka. Un tentativo di popolarizzare l'ateismo - di fronte al prevalere delle religioni teistiche (sivaismo, visnuismo) - si ebbe, nell'India, anche nella prima metà del sec. XIX per opera di Bakhtāvar, autore del Sūnīsār ("Essenza del vuoto"), in cui è esposta la "dottrina del vuoto" (sūṇyavādā), cioè del nulla.

Atei più o meno isolati sorsero in diversi tempi e luoghi in seno alle varie religioni. In Cina il filosofo Yang Chu (circa 300 a. C.) professò un materialismo che ricorda quello dei Cārvāka (cfr. H. Hackmann, Chinesische Philosophie, Monaco 1927, p. 127). Nel giudaismo antico si trovano tracce di correnti negatrici ed incredule (Salmi, X, 4; XIV, 1; cfr. Geremia, V, 2-12), mentre nel giudaismo post-biblico esse scompaiono del tutto (cfr. Philo, De somniis, 43, 44). Correnti ateistiche serpeggiarono anche in seno all'islām: fra gli esecrati zindīq ("eretici") sono annoverati tre atei famosi, vissuti fra il sec. IX e l'XI, e cioè: Abu'l-Husain Ahmad ben Yaḥyá al-Rāwandī, Abū Hayyān ‛Alī al-Tauḥīdī (morto nel 1009) ed Abū'l-‛Alā' al-Ma‛arrī (morto nel 1057).

Nella Grecia antica l'ateismo ha i suoi rappresentanti più decisi nei sofisti. In un frammento del dramma satiresco Sisyphos del sofista Crizia (Sext. Empir., IX, 54; Diels, Fragmente der Vorsokratiker, II, 4ª ed., p. 319, framm. 25) è svolta nettamente la teoria che gli dei sono pura invenzione (vv. 42-43: οὕτω δὲ πρῶτον οἰομαι πεῖσαί τινα ϑνητοὺς νομίζειν δαιμόνων εἶναι γένος). Oltre a sofisti, come Protagora, Prodico, Crizia, sono qualificati nella tradizione antica come atei Diogene di Apollonia, Ippone di Reggio, Diagora di Melo, Teodoro di Cirene, Bione, Evemero, Epicuro. Ma soltanto dei sofisti è proprio l'ateismo teoretico radicale. Come il politeismo greco era essenzialmente senza dogmi, senza teologia, era soprattutto culto, così l'ateismo greco si esplicò generalmente piuttosto nel campo della prassi che della speculazione. Tra i sofisti alcuni negarono, bensì, come abbiamo visto, l'esistenza stessa degli dei (altri, p. es. Protagora, si fermarono all'agnosticismo). Ma l'"ateo" Evemero si limitò a negar loro la divinità, lasciandoli sussistere come uomini. Altri filosofi li lasciarono sussistere come demoni, riconoscendo i veri dei negli elementi (Senocrate) oppure negli astri (stoicismo); con che l'ateismo fu virtualmente superato anche nel suo aspetto pratico (rifiuto del culto), perché come demoni gli antichi dei della religione popolare potevano ancora essere oggetto di culto.

"Atei" furono agli occhi del mondo pagano, appunto perché refrattarî alla prestazione del culto, gli ebrei (Ios. Flav. Contra Apion., II, 16) e i cristiarii (Iustin., Apol., I, 6 e I, 13; Athenag., Suppl., 3, 4, 30; Martyr. Polyc., 3 e 9; Clem. Al., Strom., VII, 1, i e 4; Arnob., III, 28; VI, 27; I, 29; V, 30), i quali alla loro volta considerarono come atei i pagani. Soltanto in Giustino si trova ammesso che i cristiani debbono esser ritenuti atei rispetto agli dei del paganesimo (Apol., I, 6).

In generale gli apologisti cristiani, preceduti in questo dal monoteismo ebraico, non adottarono già l'antica posizione dei sofisti negatrice dell'esistenza degli dei, bensì quella prevalente nella filosofia ellenistica, la quale li negava soltanto come dei (tranne gli scettici, che erano agnostici, ed Epicuro che li considerava come dei, ma formati, anch'essi, di atomi), ammettendoli come demoni: con questa differenza, che, mentre per i pagani, politeisti, c'erano demoni buoni e demoni cattivi, per i cristiani (come per i giudei), monoteisti, i demoni in genere, compresi gli dei del paganesimo, non potevano essere che cattivi, e come tali appunto non potevano ricevere culto, allo stesso modo che nel monoteismo di Zarathustra i daeva, negati come iddii, non potevano essere che demoni maligni, strumenti del male, e dunque non dovevano essere adorati, ma anzi dovevano essere respinti ed avversati senza tregua. La situazione finì poi per capovolgersi definitivamente in favore del cristianesimo a partire dall'editto emanato da Graziano, Valentiniano e Teodosio nell'anno 380 (Cod. Theodos., XVI, 2, 25), che ufficialmente definiva come atee le religioni non cristiane (sacrilegium = ἀϑεότης).

Elaborata nell'ebraismo e nella filosofia ellenistica, adottata dall'apologetica cristiana, l'interpretazione demonistica degli dei pagani durò attraverso il Medioevo fino al Rinascimento e oltre, applicandosi altresì agli dei delle altre religioni dell'antichità e di quelle che si vennero poi scoprendo in America e altrove.

Soltanto a partire dal sec. XVIII, quando il supernaturalismo declinò al tramonto, venne meno anche la credenza nei demoni, compresi i demoni-iddii dell'antico paganesimo. Poiché s'era riconosciuta la non esistenza obiettiva degli dei delle varie religioni politeistiche, si pose il problema della loro formazione ideale. Fu un ritorno, così, all'antica posizione lontanamente anticipata dai sofisti ("gli dei sono pura invenzione"). L'ateismo in quanto è applicato alla concezione politeistica del divino è diventato patrimonio comune del pensiero moderno.

Nel mondo cristiano l'ateismo, più che alla concezione monoteistica della divinità, si applicò ai suoi sviluppi teologici e speculativi nel senso del teismo. E più che mai valgono, a questo proposito, le osservazioni generali fatte più sopra.

Bibl.: F. Le Dantec, L'athéisme, Parigi 1907; F. Mauthner, Des Atheismus und seine Geschichte im Abendlande, 4 voll., Stoccarda e Berlino 1920-1923; G. Richard, L'athéisme dogmatique, 1923; G. Rensi, Apologia dell'ateismo, Roma 1925; A. B. Drachmann, Atheism in Pagan Antiquity, Londra-Copenaghen-Roma 1925; A. B. Drachmann, Atheism in Pagan Antiquity, Londra-Copenaghen-Cristiania 1922; H. Jacobi, Die Entwicklung der Gottesidee bei den Indern, Bonn-Lipsia 1923; A. Harnack, Der Vorwurf des Atheismus in den drei ersten Jahrhunderten (Texte und Untersuchungen, XIII), Lipsia 1905; R. Flint, Antitheistic Theories, 9ª ed., Edimburgo 1917; articolo Atheism, di varî, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, I.

TAG

Trasmigrazione delle anime

Abū'l-‛alā' al-ma‛arrī

Filosofia ellenistica

Diogene di apollonia

Teodoro di cirene