ATLETICA - Le specialita: i salti

Enciclopedia dello Sport (2004)

Atletica - Le specialità: i salti

Giorgio Reineri

I salti

Il salto in alto maschile

Questa disciplina, certamente conosciuta e praticata nella Grecia antica, non faceva tuttavia parte di alcun programma di giochi o competizioni. È un fatto singolare, ove si consideri l'istintivo desiderio dell'uomo di staccarsi da terra. Si può tuttavia dedurre che vi fossero problemi di regolamentazione e misurazione del salto, così come di sicurezza nella ricaduta, a suggerire l'esclusione della specialità da competizioni ufficiali. Al contrario, il salto in alto era regolarmente praticato in Africa: non mancano prove più o meno recenti, raccolte da vari esploratori tra i quali il duca di Mecklenburg, di competizioni di salto in alto organizzate in Congo, in particolare nelle zone abitate dai watussi, che certamente erano la continuazione di una tradizione antichissima. Alcune documentazioni fotografiche mostrano atleti africani superare misure stimabili in 2,50 m. Il salto probabilmente era effettuato con l'aiuto di pedane, attraverso le quali la velocità accumulata con la rincorsa poteva essere meglio trasformata in forza ascensionale.

In Europa una sorta di salto in alto faceva parte della tradizione celtica: gli atleti dovevano, a forza di garretti, balzare sulla sommità di un muro o di un ostacolo. L'impatto rendeva l'esercizio pericoloso e doloroso sia che si riuscisse nell'impresa sia, ancor più, in caso contrario. I vichinghi cominciarono a discendere lungo le coste dell'Europa attorno all'anno 800, effettuando incursioni in Inghilterra e in Irlanda e stabilendosi in Normandia; da qui, come normanni, mossero in seguito alla conquista della Gran Bretagna (1066). Essi ripresero ovunque la tradizione celtica del salto in alto, che non resse tuttavia alle trasformazioni di vita e costumi subentrate nel basso Medio Evo.

Nel Rinascimento il salto in alto era, invece, regolarmente praticato. Dopo la campagna d'Italia di Carlo VIII, re di Francia, sul finire del 1400, tra i tanti intellettuali e artisti italiani che si trasferirono alla corte del re arrivò anche Arcangelo Tuccaro, che impartiva al sovrano lezioni su vari argomenti, compreso il salto in alto, mettendo per iscritto la sua teoria nei Tre dialoghi sull'esercizio di saltare e volteggiare per l'aria.

Il salto in alto, per ovvie ragioni di utilità, diventò pratica corrente nelle scuole militari in Germania, in Gran Bretagna e in Irlanda circa tre secoli più tardi. I britannici, emigrando negli Stati Uniti, portarono poi sull'altra sponda dell'Atlantico questa disciplina: attorno al 1840, un canadese, John Overland, veniva accreditato di aver superato 1,675 m. In Inghilterra, intanto, dove lo sport e l'atletica si sviluppavano specialmente nei collegi universitari, emergeva la figura di Marshall Brooks. Questo studente di Oxford sarebbe stato indicato, dai giornali del 1876, come capace di superare 1,83 m (6 piedi). Ma non aveva certo finito di stupire: nell'incontro tradizionale con Cambridge, che ebbe luogo nello stadio di Lille Bridge a Londra, Brooks si migliorò in varie riprese, concludendo addirittura a 1,89 m.

Agli inglesi la sfida arrivò da un irlandese, Patrick Davin, che si era fatto conoscere prendendo parte al primo Inghilterra-Irlanda della storia dell'atletica. Dal suo villaggio, Carrick on Suir, fu comunicato che Davin aveva saltato 6 piedi, due pollici e tre quarti, cioè un quarto di pollice più di Brooks (1,90 m). Gli inglesi non diedero credito alla notizia e interpretarono l'impresa come frutto dell'accesa fantasia nazionalista irlandese più che del talento dell'atleta, il quale, però, nel 1881 decise di partecipare ai Campionati d'Inghilterra, dove vinse il salto in alto e il salto in lungo.

Ma la disciplina si sviluppò soprattutto per merito degli Stati Uniti. È infatti in quel paese che William Byrd Page, un atleta di solo 1,68 m di statura, mise a punto la sua tecnica 'a forbice', riuscendo a saltare 1,84 m. Poco dopo, a Stourbridge, vicino a Birmingham, nel corso di un viaggio in Inghilterra, Page riuscì a superare, con breve rincorsa ma perfetto movimento 'a forbice', 1,91 m. Ancora di più fece l'inglese George Rowdon: 1,96 m, durante una competizione militare. Ma l'Amateur athletic association britannica non gli riconobbe la misura, per via di contestazioni sul terreno di gara, giudicato troppo in pendenza.

Sul finire del 19° secolo il salto in alto era una specialità in piena evoluzione tecnica. Come sempre, ogni modifica di stile arrivava dalla sperimentazione individuale: non esistevano ancora, infatti, una tecnica codificata o una scuola di teorici che impostasse i giovani in una direzione piuttosto che in un'altra.

Il compito di perfezionare il puro stile 'a forbice' venne assunto da un emigrante irlandese: Michael Sweeney. Allenandosi al New York athletic club, egli aveva scoperto l'importanza della rincorsa al fine di migliorare l'elevazione. Ma una rincorsa tanto lunga da divenire anche veloce era difficile da applicare alla sforbiciata tradizionale e così Sweeney aveva modificato la sua azione: dopo una ventina di metri di lancio, piegava leggermente sulla destra, poi, dopo tre passi molto rapidi e molto schiacciati verso il basso, spingeva in alto con la gamba destra ‒ cioè la più lontana dall'asticella ‒ e contemporaneamente frustava verso l'alto la sinistra, tesa come nel normale salto 'a forbice'. Sopra l'asticella, Sweeney operava una torsione del corpo, per ricadere poi a terra. Questa tecnica, chiamata eastern cut off e in Europa 'a forbice con torsione interiore', costituì la base per successive, importanti evoluzioni (Pierre Lewden l'avrebbe perfezionata vent'anni dopo e, per es. nella rincorsa e nella curva prima dei passi finali, le somiglianze con la tecnica Fosbury sarebbero apparse, settant'anni più tardi, davvero sorprendenti).

Sweeney, che era alto 1,73 m, per merito della nuova tecnica riuscì a superare 1,97 m nel corso dell'incontro tra il New York athletic club e il London athletic club il 21 settembre 1895, a Manhattan. L'anno successivo non partecipò ai primi Giochi Olimpici e si astenne anche da quelli di Parigi, nel 1900, essendo ormai divenuto professionista.

Era destino che quanti sperimentavano nuove tecniche non ottenessero, nei primi anni del 20° secolo, la laurea olimpica. Non fece eccezione alla regola il californiano George Horine, atleta straordinariamente appassionato all'atletica e, in particolare, alla disciplina del salto in alto; la passione in verità non appariva sostenuta da un altrettanto solido talento, ma Horine aveva una grande determinazione e nel minuscolo giardino di casa (a Stanford, vicino a San Francisco) cercava la maniera più adatta per scavalcare l'asticella, visto che le tecniche allora esistenti non gli si confacevano. Nacque così, dopo anni di tentativi e diverse ore di impegno giornaliero, il western roll, o 'rullo californiano'. La nuova tecnica era legata anche al fatto che, nel giardino di casa, Horine disponeva di poco spazio per la rincorsa: così, anziché in una posizione frontale rispetto all'asticella, il suo punto di avvio era tutto spostato a sinistra; l'altro elemento nuovo era la posizione del corpo, che appariva quasi coricato su un fianco nell'attimo dello scavalcamento: pochi passi, lenti, poi la spinta con la gamba sinistra (la più vicina all'asticella), lo slancio della destra e infine la torsione del corpo e il passaggio con le anche allineate sulla verticale della sbarra. La rivincita di Horine contro i suoi detrattori si compì nella primavera del 1912: il 18 maggio, ad Angell Field, superò i 6 piedi e 7 pollici, cioè i 2,006 m. In un'esibizione a New York, poco prima della partenza per l'Olimpiade di Stoccolma, scavalcò agevolmente i 2,02 m (6 piedi, 7 pollici e mezzo). Ma a Stoccolma lo stile di Horine fu sottoposto alle critiche dei tecnici e dei giudici olimpici: alcuni, addirittura, volevano metterlo al bando; alla fine si raggiunse un compromesso in virtù del quale Horine non avrebbe dovuto anticipare, con la testa, il passaggio, simulando un tuffo. Le tante diatribe fecero smarrire a Horine la concentrazione per saltare: fu soltanto terzo ai Giochi. La IAAF, che sarebbe nata ufficialmente all'indomani dell'Olimpiade, iscrisse nei suoi libri il primato di George Horine a 2 m: fu il primo riconosciuto dalla Federazione internazionale.

La gloria olimpica per il western roll arrivò anni dopo, per merito di un altro americano: Harold Osborn. Questo atleta originario dell'Illinois affermava di non aver mai visto fotografie dei salti di Horine e di aver appreso il western roll con il tempo e con l'applicazione personale, attraverso passaggi successivi. In ogni caso, nel 1924, durante i Trials a Urbana riuscì a superare il record del mondo, già migliorato da Ed Beeson nel 1914 con 2,01 m, saltando 2,03 m. Infine, a Parigi, nei Giochi di quello stesso anno, vinse la gara di salto in alto con 1,98 m (e cinque giorni dopo anche il titolo del decathlon). Attorno a Osborn, e al suo personale adattamento del western roll, si fecero molte polemiche. I regolamenti del tempo, un misto di severità e di ridicolo conservatorismo, non permettevano che le spalle e la testa dell'atleta anticipassero il resto del corpo nel passaggio sull'asticella. Osborn pareva, invece, contravvenire a questa norma. Inoltre, con il braccio sinistro disteso lungo il fianco e le anche, sembrò che usasse la mano sia per piegare sia per trattenere l'asticella stessa, in modo da incrementare le possibilità di riuscita del salto.

Le polemiche continuarono a lungo e per qualche anno non ci furono progressi nel salto in alto. L'americano Walter Marty, sempre applicando il western roll di Horine e Osborn, riuscì a saltare prima 2,04 m (1933) e poi 2,06 m (1934), migliorando in entrambi i casi il primato del mondo. Nel 1936 l'attenzione generale era rivolta a due formidabili atleti di colore, Cornelius Johnson e Dave Albritton. Johnson, appena diciottenne, si era piazzato al quarto posto, nel 1932, alle Olimpiadi di Los Angeles e dal 1933 al 1936 era stato sconfitto una sola volta; dotato di grande elasticità, praticava con eleganza il western roll grazie anche a una struttura fisica perfetta: 1,91 m di statura e gambe lunghissime. Albritton, invece, era originario dell'Alabama e collega del suo compaesano Jesse Owens all'Università dell'Ohio. Lì aveva cominciato ad applicare, con gli insegnamenti di Dean Cromwell, una versione rimodernata dello stile Horine: invece di portare le anche allineate in verticale sopra la sbarra imprimeva al corpo una rotazione ancora maggiore all'atto dello scavalcamento, in modo che l'addome fosse rivolto verso l'asticella e la linea delle anche risultasse parallela al terreno. Lo stile, che sarebbe stato chiamato belly roll e poi straddle ('inforcata', o 'a cavalcioni', in Europa 'ventrale') e avrebbe dominato il salto in alto per i successivi quarant'anni, cioè sino all'avvento dello stile Fosbury, era senza dubbio più conveniente, perché abbassava il baricentro del saltatore, avvicinandolo all'altezza su cui era posta la sbarra.

Nel corso dei Trials del 1936, a Randall's Island, Johnson e Albritton superarono 2,07 m, entrambi al secondo tentativo, nuovo primato del mondo. A Berlino, ai Giochi Olimpici, Johnson si impose a 2,03 m, davanti ad Albritton e a un altro americano, Delos Thurber. Il salto in alto si era disputato il primo giorno delle competizioni atletiche; Adolf Hitler aveva presenziato alle gare, premiando personalmente i vincitori delle prime due prove, un tedesco e un finlandese. Ma nel momento in cui iniziò la cerimonia della consegna delle medaglie del salto in alto ‒ quelle d'oro e d'argento erano state conquistate da atleti di colore ‒ Hitler decise di lasciare lo stadio. La sera stessa, il presidente del CIO, il belga Henry de Baillet-Latour, fece sapere al dittatore tedesco che la cosa non era accettabile per il protocollo olimpico: o premiava tutti gli atleti o si asteneva dal consegnare le medaglie a chicchessia. Hitler non premiò più nessuno e, dunque, il racconto secondo il quale si rifiutò di consegnare la medaglia d'oro del salto in lungo a Jesse Owens non è del tutto esatto: in effetti, il dittatore aveva fatto uno sgarbo ‒ che gli venne impedito di ripetere ‒ ai due saltatori in alto americani.

Negli anni Trenta e Quaranta, la specialità del salto in alto fu dominata dagli USA. Mel Walker e Lester Steers, assieme ad Albritton, furono i migliori saltatori nelle stagioni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale. Walker, alternando lo stile 'a forbice' con il western roll e l'eastern cut off, saltò 2,09 m nel 1937. Steers, un altro americano nato in una cittadina della California di nome Eureka, più che perfezionare uno stile nuovo, scoprì che occorreva migliorare la forza delle gambe, sia che si saltasse con il western, sia che si adottasse lo straddle. I suoi progressi sino a 2,14 m, superati nel 1941 in un'esibizione a Eugene, furono possibili per il gran numero di salti che eseguiva in allenamento, allo scopo di incrementare l'impulso verso l'alto generato dalla spinta della gamba sinistra.

La decisione presa dalla IAAF nel 1936 di modificare la regola che impediva di anticipare con la testa e le spalle il passaggio sull'asticella aveva aperto sempre più la strada all'affermazione dello straddle e soprattutto dello straddle tuffato. Ma prima che questa versione aggiornata dello stile Horine si affermasse definitivamente, un altro americano, Walter Davis, ridiede lustro, in occasione delle Olimpiadi di Helsinki 1952, all'antico western roll. Davis aveva avuto, da bambino, una storia di sofferenza. All'età di otto anni era stato colpito dalla poliomielite alle gambe e al braccio destro e, dopo una degenza in ospedale di tre settimane, ne aveva trascorse altre otto nel letto di casa. Determinato a riacquistare l'uso delle gambe, per settimane e settimane si era sforzato di camminare attorno al proprio letto. Poi, per altri mesi aveva pedalato, almeno due ore al giorno, su una bicicletta ancorata al pavimento di casa. Un anno e mezzo dopo il ricovero in ospedale, poté tornare a scuola. A 13 anni diede inizio alla sua carriera atletica, e a 22 anni ‒ dopo aver anche stabilito il record del mondo a 2,12 m ‒ diventò professionista nel basketball, vincendo poi il titolo NBA con i Philadelphia Warriors e i St. Louis Hawks.

Gli anni Cinquanta si caratterizzarono da un lato per l'evoluzione atletica e stilistica, dall'altro per l'avvento della tecnologia nello sport. In entrambi i campi l'irruzione dell'Unione Sovietica ‒ per la prima volta nel 1952 ai Giochi Olimpici ‒ significò un'enorme spinta concorrenziale, dunque di progresso. Nella tecnica dello straddle emersero lo svedese Bengt Nilsson (primatista d'Europa con 2,11 m nel 1954) e l'americano Charley Dumas, recordman mondiale a 2,15 m e campione olimpico a Melbourne nel 1956 (nel settembre di quello stesso anno, il ligure Gianmario Roveraro saltò a Lugano 2,01 m, primo italiano oltre i 2 m).

Nell'ambito del supporto tecnologico i sovietici misero a punto una suola da applicare solo alla scarpa del piede di spinta, dello spessore variabile tra 3 e 5 cm. La sua grande elasticità favoriva la velocità generale della rincorsa ma soprattutto la forza di reazione al contatto con il terreno negli ultimi passi, dei quali l'atleta cambiava volutamente frequenza e potenza. Intorno a questa suola ci fu molto scandalo: il giornale sportivo francese L'Équipe, nel raccontare il record del mondo di 2,16 m raggiunto da Juri Stepanov il 13 luglio 1957 a Leningrado, pubblicò la foto parlando di trucco. La IAAF, l'anno successivo, decise di mettere fuori legge la 'scarpetta Stepanov', stabilendo che lo spessore complessivo della suola della scarpa non poteva essere superiore a 12,7 mm.

Ma la scuola sovietica di salto in alto era soprattutto tecnica di allenamento e applicazione di alcuni principi fisici all'azione del corpo umano. In questo lavoro di ricerca, su due fronti, il più grande teorico del salto in alto al mondo fu Vladimir Dyatchkov. Per trasformare la gamba di spinta dell'atleta in una specie di molla, Dyatchkov si servì, oltreché di un intenso lavoro con i pesi, anche delle esperienze fatte nella preparazione dei danzatori dalle numerose scuole di ballo sovietiche. I risultati si videro soprattutto con Valery Brumel, che conquistò la medaglia d'argento a Roma ad appena 18 anni e quella d'oro a Tokyo nel 1964, e fu inoltre per ben sei volte primatista del mondo: il record passò da 2,23 m nel 1961 a 2,28 m nel 1963.

Unanimemente riconosciuto come il più grande saltatore d'ogni epoca, Brumel ebbe un forte avversario nell'americano John Thomas. Ma sia a Roma, dove Thomas venne sorprendentemente superato anche dal semisconosciuto sovietico-georgiano Robert Shavlakadze, sia a Tokyo, nel duro duello con Brumel, a fare la differenza tra i due furono la preparazione e la tecnica. Tanto Brumel era possente, preciso, corretto, automatico in ogni gesto, sia nella rincorsa sia nello stacco sia nel passaggio dell'asticella, tanto Thomas si affidava all'estro dell'istante e all'influenza della sorte, che poteva o no fargli cogliere l'esatta sequenza dei movimenti.

La fine di Brumel arrivò all'improvviso a causa di un incidente di moto che nel 1965 gli procurò fratture multiple alle gambe. La sua carriera ‒ ma anche la sua vita, che si concluderà, in solitudine e povertà, nel 2003 ‒ fu compromessa proprio nel momento di massima gloria. Nel mondo del salto in alto si chiuse davvero una pagina importante. E se è vero che dalla Cina arrivava notizia dell'esistenza di un altro saltatore di gran rilievo, Ni-Chih Chin, nato lo stesso giorno del sovietico e capace di saltare a 24 anni già 2,27 m (e di arrivare, poi, a 2,29 m nel 1970), questa, tuttavia, rimase soltanto una curiosità, essendo quel paese ancora fuori dal consesso sportivo mondiale.

L'autentica novità era piuttosto un'altra: un atleta degli Stati Uniti, Dick Fosbury, capovolgendo il 'ventrale' e saltando dunque 'di schiena', riusciva a superare 2,21 m, conquistandosi un posto nella selezione americana per i Giochi del Messico. Fosbury, studente di ingegneria, dopo aver iniziato con il salto 'a forbice' che, obbligando a elevare il baricentro del saltatore ben al di sopra dell'altezza dell'asticella, appariva una tecnica davvero superata, si era applicato nello studio dello straddle, senza però ottenere quasi nessun vantaggio. Così egli riprese la sua vecchia tecnica e, un po' nel cortile di casa sua, un po' in quello dell'Università dell'Oregon, sperimentò un nuovo approccio all'asticella che assomigliava molto all'eastern cut off di Sweeney. In effetti, Fosbury prendeva una lunga rincorsa, effettuava una curva 'destrorsa', staccava con il piede più lontano dall'asticella (all'opposto di quel che fa un ventralista), raccoglieva al petto il ginocchio della gamba sinistra e, voltando le spalle all'ostacolo da superare, effettuava lo scavalcamento di schiena, sulla quale poi ricadeva. Naturalmente, questa tecnica era stata resa possibile dalle modifiche intervenute negli impianti e, in particolare, dalla sostituzione nella zona di ricaduta della sabbia con blocchi di gommapiuma. Infatti l'atterraggio di schiena da un'altezza ben superiore ai 2 m sarebbe stato assolutamente impossibile.

La vittoria di Fosbury alle Olimpiadi di Città del Messico aprì la strada al nuovo stile in tutto il mondo. In Italia il dibattito pro o contro il 'Fosbury' si accese, specialmente per la forte personalità di un allenatore, Carlo Vittori, che era un sostenitore della tecnica tradizionale. Vittori aveva avuto ottimi allievi ventralisti: in particolare Giacomo Crosa, che proprio a Città del Messico aveva ottenuto un buon sesto posto con 2,14 m (Roberto Bergamo, fosburista, avrebbe eguagliato quel piazzamento con 2,18 m nel 1976 a Montreal) ed Erminio Azzaro, che nel 1969 terminò terzo ai Campionati d'Europa di Atene. Il 'ventrale' (che in Italia continuò a essere praticato dal friulano Enzo Del Forno, primatista nazionale nel 1975 con 2,22 m, e da Bruno Bruni, 2,27 m nel 1979) avrebbe potuto ancora contare su due straordinari campioni, l'americano Pat Matzdorf (2,29 m nel 1971) e soprattutto il sovietico Vladimir Yashchenko (2,34 m nel 1978), l'ultimo primatista del mondo con la tecnica inventata da Cromwell e applicata per la prima volta da Albritton quarant'anni prima.

Negli anni Settanta capitò anche di assistere a gare di salto in alto in cui uno stesso atleta cambiava stile durante la competizione. Così fece, per es., Dwight Stones, un californiano di origini svedesi, che nell'estate del 1973 nello stadio olimpico di Monaco di Baviera, durante l'incontro Germania-Stati Uniti, migliorò il record del mondo. Stones alternò lo stile Fosbury allo straddle sino a 2,09 m, ma dopo un errore a 2,12 m con lo straddle continuò con il Fosbury, superando infine i 2,30 m. Stones fu l'ultimo americano primatista del mondo: dopo di lui la scuola europea, dell'Est e dell'Ovest, con sovietici, polacchi, tedeschi, svedesi (e un breve intermezzo cinese: Zhu Jian Hua, da 2,37 a 2,39 m tra il 1983 e il 1984), prese il sopravvento. Gli Stati Uniti parvero aver smarrito la tradizionale supremazia proprio a causa dello stile Fosbury, di cui erano stati gli inventori, nonostante le ottime imprese di Hollis Conway (campione del mondo nel 1991 a Tokyo) e Charles Austin (campione olimpico ad Atlanta 1996).

Nell'epoca che va dalla metà degli anni Settanta all'inizio degli anni Novanta, i saltatori di maggior interesse furono il polacco Jacek Wszola (record del mondo a 2,35 m e campione olimpico a Montreal 1976), il tedesco dell'Est Gerd Wessing (primatista del mondo a 2,36 m e campione olimpico a Mosca 1980), i sovietici Igor Paklin (record mondiale a 2,41 m) e Gennady Avdeyenko (campione del mondo nel 1983 e olimpico nel 1988), i tedeschi dell'Ovest Carlo Thränhardt e Dietmar Mogenburg, ma soprattutto lo svedese Patrick Sjöberg (2,42 m nel 1987, campione del mondo lo stesso anno a Roma). Tuttavia l'unico che veramente meritasse l'appellativo di 'Brumel del Fosbury flop' era, senza dubbio, il cubano Javier Sotomayor, atleta che ha saputo unire e valorizzare al meglio le sue innate doti di velocità, forza e straordinaria leggerezza. Rivelatosi fenomenale sin da giovanissimo, con il record del mondo juniores a 2,36 m nel 1986, dimostrò perfezione stilistica e formidabili qualità di agonista in una carriera internazionale lunga quasi quindici anni. Arrivò a saltare 2,45 m outdoor e 2,43 m indoor, ottenendo il titolo olimpico nel 1992 a Barcellona (dopo esser stato costretto a disertare Seul per il boicottaggio cubano) e vincendo i titoli mondiali del 1993 e 1997. L'ultima medaglia per Sotomayor fu l'argento all'Olimpiade di Sydney 2000 (2,32 m alle spalle del russo Sergey Kliugin), quando già severi problemi ai tendini delle ginocchia e all'arco plantare del piede destro ‒ causati dalle migliaia di salti effettuati, dalla preparazione con sovraccarichi, dalla corsa curvata con le innaturali sollecitazioni alla struttura scheletrica del corpo ‒ ne avevano ridotto la brillantezza.

Il ritiro di Sotomayor, avvenuto al termine della stagione 2001, fu amaro. Le disavventure legate all'esito positivo di due diversi controlli antidoping (cocaina nel 1999 e nandrolone nel 2001) avevano gettato ombre sulla sua immagine, nonostante l'accesa difesa da parte del governo cubano e un primo provvedimento di perdono da parte della IAAF. È possibile che lo stress fisico e mentale di una lunga carriera avesse spinto il campione a ricercare una scorciatoia per il successo (ai Mondiali di Edmonton del 2001 era ancora quarto con 2,33 m), anche se non si vedeva sulle pedane nessun atleta in grado di eguagliare la sua grandezza. Sia il vincitore dei Campionati Mondiali outdoor di Edmonton (il tedesco Martin Buss) sia quello dei Mondiali indoor di Lisbona (lo svedese Stefan Holm), così come i russi Sergej Kliugin, Vyacheslav Voronin e Yaroslav Rybakov sembravano molto distanti da quello che, soltanto pochi anni prima, era diventato il confine della classe mondiale: i 2,40 m. Per il salto in alto, insomma, uscito di scena Sotomayor, si apriva un non facile periodo di transizione, in attesa del nuovo talento capace di rilanciare la specialità.

Il salto in alto femminile

A rimorchio dell'evoluzione del salto in alto maschile ‒ ma con i consueti pesanti ritardi ‒ si sviluppò quello femminile. Negli Stati Uniti, e segnatamente al Vassar college di Poughkeepsie, New York, sul finire del 19° secolo le ragazze delle buone famiglie della costa orientale americana si cimentavano in gare di corsa e di salto, fra cui anche il salto in alto. Si tenevano poi incontri con allieve di altre università femminili. Soltanto attorno agli anni Venti del secolo seguente, grazie alla Fédération sportive féminine internationale ‒ che nel 1936 sarebbe confluita nella IAAF ‒ si cominciarono a organizzare competizioni e campionati. E proprio sotto questa spinta, che sarebbe stata ulteriormente rafforzata dall'introduzione di gare femminili ai Giochi Olimpici, la specialità si sviluppò velocemente.

Dalla misura di 1,22 m ottenuta da Laura Brownell, a Poughkeepsie nel 1895 (quando gli uomini già saltavano 1,97 m con Michael Sweeney), a quella di 1,59 m con cui la canadese Ethel Catherwood vinse l'Olimpiade di Amsterdam nel 1928, la prima con partecipazione femminile, alcuni progressi erano già stati fatti. Catherwood, un'atleta di grande versatilità (era pure giavellottista) che saltava secondo lo stile eastern cut off, fu capace di imporsi sull'olandese Carolina Gisolf, che in seguito avrebbe superato 1,62 m.

Ma la prima saltatrice moderna fu certamente l'americana Mildred Didrikson, che adottava il western roll in una versione ancor più 'a tuffo' di quella di George Horine. I giudici, alle Olimpiadi di Los Angeles 1932, decisero di assegnare la vittoria alla sua compagna Jean Shiley ‒ dopo uno spareggio conclusosi a 1,657 m ‒ proprio perché Didrikson aveva anticipato con le spalle e la testa il passaggio sull'asticella.

Merita un posto particolare nella storia del salto in alto, non tanto per l'eccellenza delle prestazioni ma per il significato sociale della sua vittoria olimpica, l'americana Alice Coachman che, nel 1948 ai Giochi di Londra, si impose con 1,68 m sull'inglese Dorothy Tyler-Odam. Coachman fu infatti la prima donna di colore, in assoluto, a vincere una medaglia d'oro olimpica. Originaria della Georgia, venne salutata al suo ritorno da una grande parata automobilistica, con la folla ‒ di bianchi e neri ‒ assiepata per le strade. Ma all'Auditorio municipale di Albany, dove il pubblico era soltanto bianco secondo i dettami della segregazione razziale, a Coachman fu permesso di entrare, ma non di prendere la parola.

Jolanda Balas, rumena, che aveva già partecipato alle Olimpiadi di Melbourne appena ventenne, piazzandosi quinta, doveva invece diventare la protagonista di tutti gli anni Sessanta. Di notevole statura, dotata di agilità sensazionale, seguiva l'antiquato stile di Michael Sweeney, cioè 'a forbice con torsione interiore'. Ma l'atleta era competitiva: tra il 1957 e il 1961 portò il record del mondo da 1,76 m a 1,91 m, vinse i titoli olimpici del 1960 e 1964 e quelli europei del 1958 e 1964. Al suo ritiro, nel 1966, Balas era detentrice delle migliori 40 prestazioni mondiali, avendo superato altrettante volte 1,84 m, un'altezza fino ad allora mai raggiunta da nessun'altra donna.

All'austriaca Ilona Gusenbauer, tra le prime atlete ad applicare con eleganza lo straddle, doveva toccare l'onore di superare Balas con 1,92 m nel 1971, misura poi eguagliata nella finale olimpica di Monaco di Baviera 1972 dalla sedicenne tedesca Ulrike Meyfarth. Gli anni Settanta videro soprattutto l'affermazione di Rosemarie Ackermann-Witschas, tedesca dell'Est, e dell'italiana Sara Simeoni. Witschas, coniugata Ackermann, era un'atleta in cui la perfezione stilistica dello straddle si accoppiava a una grande potenza nella fase di rincorsa e di stacco. Per molti anni, i fautori dello stile ventrale trovarono in lei la conferma delle loro teorie. Ackermann, in particolare nei memorabili duelli con Sara Simeoni agli Europei di Roma del 1974 e alle Olimpiadi di Montreal del 1976, dette la sensazione che l'era dello straddle non fosse tramontata. Proprio questa campionessa del 'ventrale' ebbe la soddisfazione di superare, prima donna al mondo, i 2 m nel 1977. Sara Simeoni, forse la più grande atleta italiana di ogni tempo e di tutte le discipline sportive, nel 1978 migliorò il record del mondo portandolo, all'inizio di agosto a Brescia, a 2,01 m; tre settimane più tardi superò Ackermann nella sfida ai Campionati d'Europa di Praga, eguagliando il suo stesso record. Nel 1980 fu campionessa olimpica a Mosca e vinse poi la medaglia d'argento a Los Angeles 1984, dietro Ulrike Meyfarth che era tornata all'eccellenza mondiale dodici anni dopo la sua prima vittoria olimpica.

In effetti, lo stile Fosbury pareva aver dato grande slancio al salto in alto femminile e la spiegazione era abbastanza semplice: privilegiando la velocità sulla potenza, l'agilità sulla forza muscolare, la flessibilità sulla raffinatezza stilistica, questa tecnica valorizzava tutte le doti di statura, dinamica ed elasticità offerte in particolare dal fisico femminile come fu evidente con Meyfarth, che salì sino a 2,03 m, ma soprattutto, passata l'epoca della sovietica Tamara Bykova, con la bulgara Stefka Kostadinova, probabilmente la migliore saltatrice che abbia mai calcato le pedane atletiche.

Forte di un eccezionale talento, agilissima e veloce, coordinata nella lunga rincorsa e capace, nonostante le lunghe leve, d'impostare la curva della rincorsa con inclinazione interna straordinaria, Kostadinova portò il record del mondo a 2,09 m in una delle più belle gare che il salto in alto femminile ricordi: a Roma, al Campionato del Mondo 1987, con Bykova costretta alla medaglia d'argento nonostante un suo salto a 2,04 m. Purtroppo, la carriera di Kostadinova fu segnata da innumerevoli problemi fisici, provocati dal lavoro a cui si sottoponeva per poter sollevare il suo fisico di 1,80 m e 60 kg di peso a simili altezze. Così dovette rassegnarsi a perdere i titoli olimpici del 1988 e del 1992: a Seul arrivò seconda, preceduta dalla statunitense Louise Ritter, mentre a Barcellona, nella gara vinta dalla tedesca Heike Henkel con 2,02 m, si piazzò quarta. L'atleta bulgara tornò però alla ribalta vincendo il titolo mondiale nel 1995 e, finalmente, l'alloro di campionessa olimpica ad Atlanta, nel 1996, con 2,05 m, davanti a una sorprendente, minuscola ma agilissima greca, Niki Bakogianni (2,03 m la sua misura). In quella bellissima gara, dove terza finì l'ucraina Inga Babakova con 2,01 m, l'italiana Antonella Bevilacqua, un'atleta di caratteristiche simili alla Bakogianni, fu quarta con 1,99 m. Questo suo risultato, tuttavia, venne poi depennato dai risultati ufficiali dei Giochi perché Bevilacqua era risultata 'positiva' a un controllo antidoping per uso di pseudoefedrina (contenuta in un medicinale) poche settimane prima dei Giochi (ai quali partecipò sub iudice), incorrendo in tre mesi di squalifica (con efficacia retroattiva).

Dopo Kostadinova, il salto in alto femminile attraversò un periodo di crisi ‒ sulla falsariga di quello maschile ‒ nel quale emersero, però, nuovi talenti: la svedese Kajsa Bergqvist, campionessa del mondo indoor con 2,04 m nel 2003; le russe Marina Kuptsova, Yelena Yelesina e Anna Chicherova. Ai Campionati del Mondo di Parigi 2003 la medaglia d'oro nel salto in alto è stata vinta dalla sudafricana Hestrie Cloete (con 2,06 m), mentre quella d'argento è andata alla russa Kuptsova (2 m la sua misura); sempre a quota 2 m, ma solo terza, Bergqvist.

Il salto con l'asta maschile

Nell'antichità, sia presso i greci sia presso i romani e ancora prima i fenici, l'asta veniva utilizzata, più che per saltare in alto, per saltare in lungo e rappresentava un modo di superare le difficoltà naturali di un percorso. Nel Medio Evo questo rimase l'uso preminente della pertica. Soltanto verso la fine del 18° secolo, in Germania, nelle scuole ginniche a forte impronta militare, si cominciò a utilizzare un'asta per saltare più in alto: si parla, in proposito, di giovani che superavano i 2,50-2,60 m. Verso la metà dell'Ottocento gli inglesi inventarono le prime competizioni di questo tipo, chiamandole running pole leaping, cioè 'salto con l'asta con rincorsa'.

Le aste dell'epoca erano dei pali molto pesanti e l'esercizio, che veniva chiamato climbing ("arrampicamento"), appariva piuttosto pericoloso. Ciononostante la pratica si diffuse rapidamente, tanto che nel 1866 a Londra John Wheeler riuscì a superare i 3,05 m. Rimasero famose, in quell'epoca, le esibizioni di un professionista, Robert Musgrove, che letteralmente si arrampicava sulla pertica, superando anche 3,43 m.

Ma il primo gesto tecnico da vero 'astista' arrivò dagli Stati Uniti, per opera di William Van Houten. Impugnando una pertica più leggera, in legno resistente ma che permetteva una buona presa ravvicinata delle mani, Van Houten effettuava una breve rincorsa, piantava l'asta per terra e, poi, agendo con le braccia, realizzava una spettacolare capovolta, volgendo le gambe verso l'alto. Così superava l'asticella e, nel farlo, si girava su sé stesso spingendo l'asta lontano e ricadendo al suolo. Nella descrizione di questa tecnica si possono già scorgere tutti i principi fondamentali del salto con l'asta moderno, che tuttavia la scuola inglese considerava non accettabile, ritenendo fondamentale il climbing.

Nel 1887, a New York, un affermato 'arrampicatore' britannico, Thomas Ray, batté l'americano Hugh Baxter, già accreditato di 3,48 m, utilizzando il sistema inglese. Gli americani, da parte loro, giudicavano scorretto l'arrampicamento e nel 1889 l'Amateur athletic union stilava la sua regola per il salto con l'asta: "Nessun competitore potrà, durante il salto, spostare una mano verso l'alto, lungo la pertica, dal momento in cui ha lasciato il suolo". L'imposizione di questa regola fu fondamentale per lo sviluppo del salto con l'asta secondo i criteri in vigore ancora oggi. Infatti, la norma 183 (comma 2, paragrafo d) della IAAF recita: "Il salto sarà dichiarato nullo se dopo aver lasciato il terreno l'atleta muove la mano in posizione più bassa sopra a quella in posizione più alta; o se sposta ulteriormente verso l'alto la mano già in posizione più elevata", un criterio del tutto equivalente a quello codificato, con maggior chiarezza e semplicità, dai dirigenti dell'Amateur athletic union.

Gli inglesi non accettarono le nuove disposizioni della AAU e continuarono ad arrampicarsi sulla pertica finché un incidente mortale accaduto a uno studente causò la proibizione di quest'esercizio in tutto il Regno Unito. Da allora il salto con l'asta in Gran Bretagna è rimasto una specialità senza seguito. Gli Stati Uniti, al contrario, si preparavano a dominare per decenni in questo campo, cominciando con la vittoria nella prima Olimpiade moderna (successo di William Welles Hoyt con 3,30 m).

Le caratteristiche delle aste usate sul finire del 19° secolo erano: lunghezza attorno a 4,50 m, diametro di 4 cm, peso tra 7 e 8 kg. I progressi con uno strumento ancora così rozzo risultavano, dunque, difficili, tanto che nel 1900 il vincitore dell'Olimpiade, l'americano Irving Baxter, non riusciva a far meglio di 3,30 m. Il salto con l'asta aveva, però, conquistato seguaci anche in Europa, e particolarmente in Svezia, Norvegia, Ungheria, Grecia e Francia. Il francese Fernand Gonder riuscì nel 1904 a superare 3,69 m, eguagliando il primato del mondo dell'americano Norman Dole che, per primo, aveva introdotto l'uso dell'asta di bambù, più flessibile e leggera.

Dal 1905 l'asta di bambù divenne di uso comune. Nello stesso tempo si cominciò a praticare un foro nel terreno nel quale infilare la parte terminale dell'asta al momento dello stacco. Un perfezionamento successivo portò a rivestire il foro di legno, in modo che la punta dello strumento non sgretolasse la terra della pedana. Ai Giochi Olimpici di Londra 1908 la fossa d'imbucata, che i giudici locali non conoscevano, non era prevista e i concorrenti americani ‒ Alfred Gilbert e il giovanissimo Edward T. Cooke (il primatista del mondo a 3,90 m, Walter Dray, rinunciò alla trasferta perché infortunato) ‒ ottennero il permesso di scavarne una sulla sinistra della pedana di rincorsa, in modo da non disturbare gli altri concorrenti. La gara fu resa difficile dal contemporaneo arrivo della maratona e dall'attenzione tutta focalizzata su Dorando Pietri. Gilbert e Cooke comunque saltarono 3,71 m, ottenendo entrambi la medaglia d'oro.

Gilbert, spirito intraprendente, futuro mago e illusionista, colse l'occasione del viaggio a Londra per introdurre l'asta di bambù in Europa, fondando la Yale bamboo pole company. Il commercio era favorito dal dominio americano della specialità: l'8 giugno 1912, a Cambridge, nel Massachusetts, Marcus Wright fu il primo a superare i 4 m, con un salto di 13 piedi, 2 pollici e un quarto (4,02 m).

Nel 1915 si rivelò un giovane americano della Cornell University, Frank Foss, che nel 1920, alle Olimpiadi di Anversa, conquistò il titolo con un salto a 4,09 m: il suo avversario, il danese Henry Petersen, si fermò quasi 40 cm più in basso, a 3,70 m. È evidente che la scuola, i materiali, le tecniche di allenamento avevano creato una discrasia: da una parte gli Stati Uniti, dall'altra il resto del mondo. A superare quella differenza provvide un norvegese, Charles Hoff. Ex mezzofondista, amante del cross country, longilineo perfetto (1,88 m per 75 kg), Hoff nel 1925 portò il record del mondo a 4,25 m. L'anno precedente, vittima di una banale distorsione alla caviglia, aveva dovuto rinunciare alle Olimpiadi di Parigi.

Il segno di Hoff in questa disciplina fu indelebile: inventò, infatti, la tecnica del fly away, cioè del 'volar via', contrapposta al jack knife, o 'a coltello', in voga presso gli americani. La differenza tra le due tecniche riguarda il passaggio dell'asticella, il modo e il momento in cui lasciare l'asta. Nel fly away l'atleta continua a puntare i piedi verso l'alto, anche quando è sopra l'asticella, spingendo con le braccia, e l'asta viene quasi rigettata indietro nel momento in cui l'atleta si stacca da essa. Nel jack knife l'atleta si chiude come un coltello a serramanico sull'asticella e trattiene l'asta sino all'ultimo istante, quando il passaggio è completato, per poi lasciarla con la punta delle dita, imprimendole un leggero impulso all'indietro.

Hoff era il candidato più probabile all'oro olimpico di Amsterdam 1928. Ma i dirigenti della IAAF, sempre attenti a cogliere qualsiasi elemento che potesse far pensare al professionismo, lo squalificarono per una nota spese, forse eccessiva, presentata in seguito a una trasferta negli Stati Uniti. Così ai Giochi gli americani ebbero ancora una volta via libera.

Le Olimpiadi di Los Angeles 1932 e Berlino 1936, oltre ai successi americani, misero in evidenza anche la scuola giapponese, che in un esercizio acrobatico tra la ginnastica e l'atletica poteva schierare capacità tecniche e ottimi talenti. Shuhei Nishida fu infatti, al Coliseum, un degno avversario per l'americano William Miller, che solo con una prestazione da record olimpico (4,31 m) riuscì a imporsi, di un centimetro. Lo stesso Nishida, in coppia con Sueo Oe, avrebbe rinnovato la sfida agli americani quattro anni più tardi: i due giapponesi non conquistarono la vittoria (andata all'americano Earle Meadows), ma rispettivamente la medaglia d'argento e quella di bronzo. Tornato in Giappone, Nishida compì un gesto di grande amicizia nei confronti del compagno: fece fondere la sua medaglia d'argento mescolandola con il bronzo di Oe, ricomponendole poi in uno stampo in modo che entrambi ‒ che avevano saltato la stessa misura, 4,25 m ‒ avessero una medaglia metà di argento e metà di bronzo.

La guerra interruppe i contatti internazionali, i confronti tra atleti e, di conseguenza, anche il progredire di allenamenti e tecniche. Tuttavia negli Stati Uniti lo sport continuò a essere praticato e nel salto con l'asta tra il 1940 e il 1944 si affermò Cornelius 'Dutch' Warmerdam, un californiano (n. nel 1915) che aveva cominciato a praticare questa specialità molto giovane, a 14 anni, e aveva impiegato circa dieci anni di allenamenti per raggiungere l'eccellenza. Warmerdam portò il record, in successive riprese, da 4,57 m a 4,77 m (nel 1942) e, al coperto, nel 1943, a 4,79 m e rimase imbattuto per tutto quel periodo, salvo una sconfitta al Coliseum di Los Angeles. Veloce ‒ impiegava circa 11″ per percorrere i 100 m ‒ e resistente, possedeva una struttura quasi perfetta per l'esercizio: spalle larghe e braccia robuste, che allenava con molta ginnastica agli attrezzi (parallele, sbarra fissa, volteggi agli anelli) non essendo, allora, ancora conosciuto il metodo della preparazione con i pesi. Poneva anche grande attenzione alla corsa, cercando di migliorare sia la velocità sia la resistenza, con la pratica del jogging specie su percorsi erbosi e ondulati. Insomma, lo schema della sua preparazione era, per i tempi, avanzato. Lo stesso numero di sedute settimanali, tra cinque e sei, indicava il suo impegno continuo e metodico. A differenza dei saltatori di oggi, Warmerdam effettuava, però, pochi salti in allenamento. D'altro canto all'epoca non era così facile saltare, a causa delle attrezzature difficili da maneggiare e soprattutto della natura della zona di atterraggio: gli atleti, infatti, ricadevano sulla sabbia e ripetere questo per decine di volte poteva provocare traumi non indifferenti agli arti, senza considerare i rischi connessi con eventuali errori. La lunghezza dell'asta di bambù utilizzata da Warmerdam variava tra 4,60 m e 4,80 m e la lunghezza della leva passò da 4,08 m a 4,24 m. Naturalmente l'altezza dell'impugnatura era proporzionale sia alla velocità raggiunta al momento dello stacco, sia alla forza di braccia necessaria per sollevare il corpo. La differenza di valore tra Warmerdam e i suoi avversari era resa evidente proprio da questo dato: nessun altro atleta, infatti, era in grado di impugnare l'asta a un'altezza vicina a 4 m.

La fine della guerra segnò anche la fine dell'asta di bambù. Lo sviluppo della tecnologia, imposta proprio dagli eventi bellici, aveva prodotto numerosissimi studi sull'utilizzo dei metalli, e già nel 1943 gli americani avevano cominciato a fabbricare aste di alluminio, meno costose di quelle di bambù, tutte importate. Dall'alluminio all'acciaio, più resistente, il passo fu breve e nel giro di pochi anni il bambù scomparve dalle pedane del salto con l'asta.

Iniziava così una nuova era, sempre dominata dagli atleti americani: Bob Richards, Bob Gutowski, Don Bragg. Richards era un pastore protestante, ma anche un validissimo e versatile atleta: con le nuove aste di acciaio conquistò il titolo olimpico a Helsinki 1952, ripetendosi quattro anni più tardi, a Melbourne. All'Olimpiade australiana emerse un altro giovane talento, Bob Gutowski: la gara fu combattuta e Gutowski cedette alla fine a Richards che salì a 4,56 m, migliorando di un centimetro il record olimpico stabilito a Helsinki. Alle spalle dei due americani si classificò un greco, Georgios Roubanis, che attirò l'attenzione degli spettatori perché l'asta da lui utilizzata dava l'impressione di piegarsi, nel momento di massima trazione dell'atleta, per poi tornare a distendersi quasi come una fionda: era infatti costruita in materiali di fibra vetrosa. I primi esperimenti di asta in materiale sintetico erano stati effettuati attorno al 1948-49, e Bob Mathias aveva utilizzato un attrezzo di questo tipo durante le gare di decathlon già nel 1952. Il perfezionamento dell'attrezzo richiese circa dieci anni: la scadente flessibilità e la fragilità ne sconsigliavano infatti l'uso, anche per evitare rischi eccessivi.

Nel 1957, a Stanford, Gutowski saltando 4,78 m migliorò il record del mondo, stabilito quindici anni prima da Warmerdam. Solo due mesi dopo, in un meeting ad Austin, superò 4,82 m, ma la IAAF rifiutò di ratificare il nuovo primato perché l'asta, che stava per cadere nella buca della sabbia, era stata fermata da un giudice. Il regolamento del tempo, poi cambiato alla fine degli anni Sessanta, diceva infatti che "il salto deve esser dichiarato non valido se l'asta passa al di sotto dell'asticella, anche se l'atleta ha superato la misura". In seguito poiché il direttore di gara, Clyde Littlefield, aveva sostenuto che l'asta stava cadendo regolarmente sulla destra dei ritti e che soltanto un colpo di vento, deviandone la direzione, aveva obbligato l'addetto al recupero dell'asta a intervenire, l'Amateur athletic union decise di omologare il record come primato americano, cosicché il record USA era diverso, e migliore, del record del mondo. Grande e sfortunato atleta, Gutowski non poté rifarsi né conquistare un titolo olimpico: fallì infatti nei Trials per i Giochi del 1960, piazzandosi soltanto al settimo posto e pochi giorni dopo morì, all'età di 25 anni, a causa di un incidente d'auto nel campo militare di Pendleton, dove prestava servizio come ufficiale dei marines.

Ultimo grande astista dell'epoca dell'alluminio-acciaio fu Don Bragg, campione olimpico a Roma 1960 (e primatista del mondo con 4,80 m). Atleta d'imponente statura, largo di spalle e di petto, allo stadio olimpico parve occupare l'intero settore della rincorsa e si distinse anche per il lungo grido con cui, al termine della competizione, salutò la sua medaglia d'oro e il pubblico.

I progressi della chimica avevano nel frattempo portato a perfezionare le mescole con cui erano costruite le aste in fibra di vetro, cosicché all'inizio degli anni Sessanta queste ultime si imposero sulle altre. I rischi per la sicurezza sembravano in gran parte scomparsi mentre diventavano preminenti le valutazioni di rendimento: i progressi degli specialisti che utilizzavano il nuovo attrezzo erano infatti notevoli. Il problema, però, si poneva per gli atleti che si erano formati con le aste rigide: saltare con un'asta di fibreglass piuttosto che di metallo comportava differenze considerevoli, anche di ordine tecnico. Bragg, per es., tentò invano di adattarsi al nuovo attrezzo; al contrario, prima George Davies, poi John Uelses, quindi Dave Tork progredirono rapidamente sino a portare il record americano e mondiale a 4,93 m.

L'asta in fibra di vetro era stata sviluppata dalla tecnologia americana e americane erano pure le ditte che avevano l'esclusiva della produzione. L'Europa era in netto ritardo, con la sola eccezione della Finlandia. L'allenatore nazionale, Valto Olenius, ex astista, aveva intuito prima di altri le grandi potenzialità di questa evoluzione tecnologica, non esitando a far importare delle aste in materiale sintetico e a impostare la preparazione dei suoi atleti in funzione di questo attrezzo. La fatica fu premiata perché nel 1963 Pentti Nikula diventò primatista del mondo, con 4,94 m. Fu una breve parentesi in un dominio americano che sarebbe durato, incontrastato, per altri dieci anni.

John Pennel, Brian Sternberg, Fred Hansen, Bob Seagren, Paul Wilson si inseguirono l'un l'altro, in un duello appassionante, su misure sempre crescenti: un duello che comportava anche rischi nell'allenare il corpo a simili voli. Sternberg fu la prima vittima, così come era stato il primo astista a formarsi sull'attrezzo in fibra di vetro. A vent'anni, nel 1963, era già capace di superare i 5 m, misura che sino a pochi mesi prima pareva irraggiungibile, basandosi sulla velocità, come qualità principale, ma anche sul controllo del corpo nel momento in cui si librava per l'aria. La preparazione a questi movimenti, che dovevano riuscire esatti nei tempi e calibrati con la spinta impressa dall'asta stessa, avveniva attraverso vari esercizi acrobatici e fu mentre eseguiva uno di questi ‒ un doppio salto mortale all'indietro ‒ che Sternberg ricadde sulla schiena, fratturandosi la colonna vertebrale, con conseguente paralisi a vita. Pochi giorni prima dell'incidente, il 17 giugno 1963, a Compton, aveva appena stabilito il nuovo record del mondo, a 5,08 m.

Pennel portò il record a 5,44 m, nel 1969, a Sacramento. Ma nonostante fosse uno dei migliori saltatori con l'asta di fibreglass ‒ nel 1963 aveva superato, primo al mondo, la barriera dei 17 piedi (5,20 m), ricadendo su una buca di segatura ‒ non gli riuscì mai di vincere l'oro olimpico. Nel 1964 fu Fred Hansen a continuare, ai Giochi di Tokyo, la tradizione di successi americani, rimpiazzando Pennel infortunato alla schiena, mentre nel 1968 a Città del Messico la vittoria arrise a Bob Seagren, che durante le selezioni olimpiche aveva migliorato il primato mondiale con 5,41 m. Pennel in finale superò i 5,40 m ma il salto fu dichiarato nullo perché l'asta, ricadendo, era passata sotto l'asticella. La modifica di questa regola, antiquata e senza alcun senso tecnico, era stata appena votata dal Congresso IAAF con la postilla, tuttavia, che sarebbe entrata in vigore nel maggio successivo. I Giochi di Città del Messico, i primi disputati su pedane e pista di materiale sintetico, erano stati caratterizzati da grandi prestazioni nelle prove di velocità e nei salti. I nuovi materiali esaltavano l'eccellenza degli atleti, mentre la rarefazione dell'aria ne facilitava la velocità. L'asta fu una delle specialità dove il concorso di questi fattori si fece particolarmente sentire, spingendo un gruppo di campioni a una battaglia serrata su misure allora considerate fuori portata. Infatti assieme a Seagren (e allo sfortunato Pennel) superarono i 5,40 m il tedesco dell'Ovest Claus Schiprowski e il tedesco dell'Est Wolfgang Nordwig, mentre il greco Christos Papanicolau si era fermato a 5,35 m.

Ma il messaggio più importante arrivato da Città del Messico era il risveglio dell'Europa, pronta a sfidare gli ottant'anni di monopolio statunitense. Non soltanto la Germania, ma anche la Svezia e la Francia ‒ dove nasceva la scuola di Maurice Houvion ‒ e persino l'Italia, con il giovane Renato Dionisi (astista di valore mondiale, che avrebbe portato il record nazionale a 5,45 m nel 1972 e conquistato il bronzo europeo a Helsinki nel 1971), dimostravano di aver imparato a dominare, sino a servirsene perfettamente, l'asta in fibreglass. Nordwig, un atleta di grande freddezza agonistica, sembrava il più brillante del gruppo europeo, che poteva peraltro contare anche sugli svedesi Kjell Isaksson e Hans Lagerqvist e su un giovane francese di origini italiane, François Tracanelli.

L'Olimpiade di Monaco 1972 rappresentò l'occasione per un confronto diretto per la supremazia mondiale, preceduto dai duelli a distanza animati in particolare da Isaksson e Seagren, che ai Trials del 2 luglio 1972 aveva saltato 5,63 m. La gara di Monaco, tuttavia, fu accompagnata da violente polemiche e dalle dure proteste di Seagren a causa delle contraddittorie decisioni della IAAF e del suo responsabile tecnico, il futuro presidente Adriaan Paulen. Gli Stati Uniti avevano da poco lanciato un nuovo tipo di asta in fibra di carbonio chiamata cata-pole, dotata di maggiore flessibilità e, dunque, di un più accentuato effetto catapulta. Mancando nel regolamento una definizione del tipo di materiale con cui le aste dovevano essere costruite, la commissione tecnica IAAF prima autorizzò, poi proibì, quindi di nuovo permise e infine all'ultimo momento definitivamente vietò l'utilizzo delle aste cata-pole, basandosi sul principio che ogni nuovo attrezzo per poter essere omologato doveva essere disponibile a tutti da almeno sei mesi. Secondo questo criterio le cata-pole dovevano esser ritirate e gli atleti americani, che erano giunti a Monaco solo con questo tipo di aste, vennero equipaggiati con normali aste in fibra di vetro. Come risultato Seagren fu battuto dal tedesco Nordwig che vinse il titolo a 5,50 m, primo campione olimpico non americano.

Da allora l'Europa, in particolare l'Europa dell'Est, dominò questa specialità, soprattutto per merito del sovietico Sergey Bubka, per sei volte consecutive campione del mondo, 17 volte primatista del mondo outdoor, 10 volte indoor e una volta campione olimpico. Bubka è stato un atleta raro, dal punto di vista fisico e della forza mentale, ma ancora di più per aver saputo equilibrare queste qualità con il gesto tecnico. L'uomo e l'attrezzo, infatti, parevano fusi l'uno nell'altro, in una così perfetta armonia da fare di ogni salto un capolavoro estetico prima ancora che atletico. L'era di Bubka cominciò nel 1983, ai Campionati del Mondo di Helsinki, quando conquistò, appena ventenne e del tutto sconosciuto, il primo oro della sua carriera. Ma prima che Bubka reinventasse il salto con l'asta, c'era stata l'epoca polacca ‒ con due campioni di gran classe, Tadeusz Slusarski e Wladyslaw Koszakiewicz, olimpionici a Montreal 1976 e Mosca 1980 ‒ mentre già s'intravedeva quella sovietica, grazie al geniale tecnico Vitaly Petrov. Molto aveva fatto pure la scuola francese, sotto le cure di un altro intelligente e appassionato tecnico, Jean-Claude Perrin, con atleti quali Philippe Houvion (allenato dal padre, Maurice), Thierry Vigneron, Pierre Quinon e Philippe Collet.

Bubka non poté prendere parte ai Giochi Olimpici di Los Angeles 1984 per via del boicottaggio sovietico in risposta a quello americano di quattro anni prima. Dovette accontentarsi di battere quattro record del mondo nello stesso anno, l'ultimo di 5,94 m, al Golden Gala di Roma, contro i reduci dell'Olimpiade, tra i quali Vigneron (medaglia di bronzo a Los Angeles), che dopo aver saltato 5,91 m si era illuso della vittoria. In quella notte romana Bubka tentò anche per la prima volta l'assalto ai 6 m. Il 13 luglio 1985, nello stadio Jean Bouin di Parigi, l'impresa riuscì. Centimetro dopo centimetro, Bubka continuò poi a far progredire il primato con impressionante regolarità: 6,01 m nel 1986, 6,03 m nel 1987, 6,06 m nel 1988, addirittura 6,10 m nel 1991, l'anno del suo terzo titolo mondiale a Tokyo. A questi primati si aggiunse il titolo olimpico a Seul 1988, rimasto l'unico, giacché a Barcellona, forse per effetto di un vento maligno o di troppa confidenza, Bubka fallì ogni salto, lasciando il titolo al russo Maksim Tarassov, e ad Atlanta fu costretto al ritiro a causa di un'infiammazione al tendine d'Achille. Nel 1994, in uno scenario del tutto inusuale ‒ ai 2200 m del Colle del Sestriere ‒ Bubka migliorò per l'ultima volta sé stesso, superando i 6,14 m. Il 21 febbraio 1993 nella sua patria a Donyetsk, al coperto, era riuscito ad arrivare a 6,15 m.

Negli anni di Bubka vi furono molti comprimari: atleti che, in altra epoca, avrebbero certamente dominato come, per es., il russo Rodion Gataullin (n. nel 1965, dunque di soli due anni più giovane di Bubka), che fu il secondo a superare i 6 m, saltando al coperto, nel febbraio del 1989, 6,02 m. Poi bisognò attendere alcuni anni perché un altro atleta fosse capace di oltrepassare i 6 m. Il sudafricano Okkert Brits, dotatissimo nel fisico e un po' meno nella tecnica e nello spirito agonistico, saltò 6,03 m nel 1995.

Dopo i Giochi Olimpici di Sydney, in cui tornarono a imporsi gli americani (Nick Hysong e Lawrence Johnson, primo atleta di colore a vincere una medaglia in questa specialità, conquistarono rispettivamente oro e argento), Bubka si ritirò anche a causa dei tanti interventi chirurgici sui tendini ormai logorati. Nessuno apparve in grado di rilevarne la leadership, sia tecnica sia di immagine, finché ai Mondiali di Edmonton 2001 un bielorusso divenuto australiano ‒ Dmitriy Markov ‒ ridava agli appassionati di questa specialità un certo entusiasmo, conquistando il titolo con forza e pulizia tecnica a 6,05 m. Bubka, incoronandolo campione, lo accreditò come suo successore. Ai Mondiali di Parigi, due anni dopo, Markov si presentava però a corto di allenamento e visibilmente fuori forma. La sorpresa, per molti incredibile, arrivò allora da un giovane italiano di origini siciliane, allievo di Vitaly Petrov, già mentore di Bubka: Giuseppe Gibilisco, che con un perfetto salto a 5,90 m fu campione del mondo.

Il salto con l'asta femminile

Questa disciplina è divenuta, in un brevissimo lasso di tempo, tra le più spettacolari e popolari del programma atletico. L'introduzione ufficiale, a livello di competizione universalmente riconosciuta, si ebbe ai Campionati Mondiali indoor di Parigi, nel 1997. Il primo titolo mondiale all'aperto fu assegnato, invece, nel 1999 a Siviglia, dopo che la specialità era stata sperimentata ai Campionati Europei di Budapest del 1998. Il salto con l'asta femminile fu infine introdotto, secondo un accordo intervenuto tra la IAAF, rappresentata dal presidente Primo Nebiolo, e il CIO, nella persona del presidente Juan Antonio Samaranch, ai Giochi Olimpici di Sydney 2000.

Il salto con l'asta in realtà era già praticato negli anni Venti del 20° secolo negli Stati Uniti e, in particolare, al Vassar College, da atlete provenienti dai ranghi della ginnastica. Le prime competizioni ufficiali si tennero sotto l'egida della federazione statunitense, sul finire degli anni Settanta: in queste gare, l'atleta che più si mise in luce fu Irene Spieker che, sia al coperto sia all'aperto, stabilì più volte la miglior prestazione mondiale, naturalmente ufficiosa, saltando tra 2,60 e 3,05 m. Fu a seguito di queste gare, che si andarono diffondendo anche in Europa, particolarmente in Germania e nell'Unione Sovietica, e poi in Cina, che la IAAF cominciò a prendere in considerazione l'idea di riconoscere il salto con l'asta femminile quale competizione ufficiale. La spinta venne dal Women's Committee, presieduto dalla tedesca Ilse Bechthold, e dal paziente lavoro diplomatico svolto dall'ex presidente della federazione statunitense, Patricia Rico.

Il salto con l'asta femminile venne ufficialmente riconosciuto a partire dalla fine della stagione 1992. Il primo record mondiale ufficiale fu quello ottenuto dalla cinese Sun Caiyun, il 21 maggio dello stesso anno, con 4,05 m, nel corso di un meeting a Nanchino. La Cina, che poteva disporre per lunga tradizione di ginnaste, fu rapida nel riconvertire al salto con l'asta alcune di queste atlete. L'esercizio, specie nella prima interpretazione femminile, si addiceva bene alle loro caratteristiche, per via dell'attitudine al controllo del corpo in fase di volteggio. Saltando con aste molto più morbide e corte (4 metri circa) di quelle maschili e impugnando l'attrezzo a non più di 3,50-3,60 m, l'asta veniva piegata efficacemente anche in assenza di grande potenza (velocità più forza) nel momento dello stacco. Il problema era, dunque, nella fase di capovolta e tirata, per la quale erano essenziali braccia robuste, e soprattutto in quella di volo, quando sfruttando l''effetto fionda' il corpo veniva proiettato oltre l'asticella.

La ceca Daniela Bartova subentrò a Sun Caiyun nella lista dei record nel 1995, con una serie di miglioramenti sino a 4,17 m, per essere quindi rilevata dalla tedesca Andra Müller, sempre nel corso di quell'anno. Il salto con l'asta cominciava a diffondersi, a essere inserito nel programma di molti meeting (compresi i Grand Prix IAAF), ad attirare spettatori e a produrre una serie di primati mentre, in tutte le altre specialità, il brivido del record ‒ proprio per lo sviluppo già raggiunto ‒ diventava sempre più raro.

L'arrivo sulle scene dell'australiana Emma George, pure lei ex ginnasta, attirò sempre maggior attenzione su questa disciplina: George dominò dal 1995 al 1997, incrementando a ogni gara il primato del mondo, sino a presentarsi ai primi Campionati Mondiali indoor di Parigi con un record di 4,57 m. Ma a Parigi, George fu battuta dall'americana Stacy Dragila (n. nel marzo del 1971 ad Auburn, in California) che, in confronto all'australiana, era semisconosciuta, essendo passata soltanto negli ultimi due anni dalla ginnastica al salto con l'asta. Tuttavia mostrava già una buona tecnica, accoppiata a maggiori qualità atletiche, specialmente per quanto riguardava la corsa e la velocità in pedana. La vittoria di Parigi, con 4,40 m (record mondiale indoor), davanti a George (4,35 m), fu l'inizio di una lunga serie di primati e successi. Suo fu il primo titolo mondiale all'aperto, nel 1999 a Siviglia, con il record del mondo a 4,60 m, misura alla quale venne spinta anche dalla forte concorrenza con l'ucraina Anzhela Balakhonova, campionessa d'Europa l'anno precedente, che con 4,55 m migliorò il primato europeo. La gara, spettacolare e appassionante, vide in terza posizione l'australiana Tatiana Grigorieva, russa di nascita, che spiccò non soltanto per la misura (4,45 m), ma anche per l'armonia della sua struttura fisica e la bellezza del viso, tanto da essere l'atleta largamente più fotografata. L'anno successivo, a Sydney, in occasione dei Giochi Olimpici, Dragila conquistò il primo titolo olimpico della storia e Gregorieva la medaglia d'argento oltre al titolo di Miss Olimpiade.

Nel 2001 si mise in luce la russa Svetlana Feofanova: di media statura ma dotata di ottime qualità atletiche, mostrò di possedere i requisiti tecnici, soprattutto nel controllo dei tempi del salto, propri della grande scuola sovietica. Il duello con Dragila, a Edmonton, fu di così alto livello da far dire a Sergey Bubka di aver assistito alla prima, vera competizione femminile di salto con l'asta. Entrambe le atlete superarono 4,75 m al primo salto, ma i successivi tentativi di raggiungere il nuovo primato del mondo a quota 4,82 m fallirono, sia pure di poco. Così il titolo fu deciso per gli errori precedenti. Dragila ne aveva fatto uno a 4,65 m, Feofanova due: l'oro andò dunque all'americana. Ma Feofanova si prese la rivincita ai Mondiali indoor di Birmingham, nel marzo 2003: vittoria a 4,80 m, record al coperto.

Si confermava così la svolta del salto con l'asta femminile, ormai divenuto specialità di larga diffusione, la sola in forte miglioramento sia al vertice sia nella media delle prestazioni: ben otto donne infatti avevano superato, a Edmonton 2001, i 4,45 m, mentre la cinese Gao Shuying, con il record asiatico a 4,50 m, si piazzava quinta, alle spalle di Gregorieva (4,55 m). Ancor più importante il fatto che, nella finale, erano stati rappresentati tutti i continenti, con la sola eccezione dell'Africa.

Il salto in lungo maschile

Questo esercizio, stando agli storici dell'antico sport greco, non nacque per finalità di guerra ma per fronteggiare la necessità pratica di superare gli ostacoli che si incontravano lungo le strade. Poi fu rapidamente incluso tra le specialità sportive, con regolamentazione rigorosa per quanto riguardava sia lo stacco sia l'atterraggio. Non era una gara a sé ma faceva parte del pentathlon, entrato nel programma olimpico a partire dalla diciottesima edizione dei Giochi, nel 708 a. C.

Il salto in lungo con rincorsa veniva effettuato con l'ausilio di pesi tenuti nelle mani. L'atleta doveva effettuare lo stacco esclusivamente nella zona detta batèr, che era lastricata in pietra o forse in legno ed era delimitata ai lati da lance conficcate nel terreno. Oltre il batèr c'era la zona di atterraggio, chiamata skàmma, fatta di terra morbida e dissodata, della lunghezza massima di 15,2 m (50 piedi), sulla quale il salto veniva misurato partendo dall'impronta lasciata dal tallone dell'atleta. Non è chiaro come venissero utilizzati i pesi, detti haltères ‒ che potevano variare da 1,8 kg a 4,296 kg ‒ e come il salto stesso fosse eseguito. In alcuni scritti un atleta di Crotone, Phayllos, viene accreditato di una sorta di record del mondo ante litteram, con un salto di 55 piedi, equivalenti a 16,730 m. Probabilmente più che di salto in lungo si trattava di salto triplo e dunque il risultato era la somma di tre salti in lungo successivi: in tal caso la misura sarebbe credibile. Da notare comunque che per indicare un'impresa eccezionale i greci usavano l'espressione "saltare oltre lo skàmma".

L'uso dei pesi venne ripreso anche in epoche molto più vicine a noi. Nella Gran Bretagna di metà Ottocento un saltatore in lungo professionista, John Howard, a forza di sfide e di scommesse riuscì ad accumulare una fortuna; nel frattempo allungava sempre più le sue prestazioni: sino ad arrivare a 29 piedi e 7 pollici, cioè 9,02 m, a Lancaster, appunto facendo uso di pesi. Secondo studi fatti alla fine del 19° secolo i pesi, se ben utilizzati, potevano procurare un guadagno, nella lunghezza del salto, di circa 2,40 m. Ma, in verità, il guadagno maggiore John Hodward l'avrebbe tratto da una piccola pedana elastica, dello spessore di pochi centimetri, che metteva nella zona di battuta, cosa gli che gli fu possibile sino a quando, attorno al 1860, l'organizzazione atletica inglese non fissò delle regole precise.

Il salto in lungo non era, a quei tempi, una specialità di grande complessità tecnica. Più che altro consisteva nella prosecuzione di una corsa veloce: l'atleta, arrivato al punto di stacco, sollevava le gambe, raccoglieva le ginocchia il più possibile vicino al petto e poi, senza tentare alcuna azione di atterraggio, riabbassava le gambe finendo in piedi nella zona di ricaduta. Ma, seppure con tecnica elementare e su pedane certamente non sofisticate, gli anglosassoni fecero non pochi progressi: l'irlandese Pat Davin, ottimo anche nel salto in alto, fu capace di raggiungere 7,06 m; e qualche anno dopo un atleta professionista scozzese, Tom Malone, emigrato in Australia, veniva accreditato di 7,43 m.

Il progresso britannico fu presto uguagliato da quello degli americani. Nel 1899 a New York un velocista, ma soprattutto ostacolista ‒ Alvin Kraenzlein ‒ riuscì in un salto di 7,43 m, misura che un anno dopo, a Filadelfia, venne migliorata da Myer Prinstein: 7,50 m. Nel 1900, ai Giochi Olimpici di Parigi, Kraenzlein e Prinstein si ritrovarono per disputarsi la medaglia d'oro. Le eliminatorie ebbero luogo un sabato, la finale era in programma per la domenica. In qualificazione Prinstein aveva saltato 7,175 m, misura che, secondo le regole dell'epoca, valeva anche per la finale, alla quale non poté prendere parte perché i dirigenti della squadra di Syracuse, da cui proveniva, gli proibirono di gareggiare la domenica, nonostante Prinstein fosse ebreo. Kraenzlein, invece, gareggiò, riuscendo a saltare 7,185 m così da vincere, di un centimetro, il titolo (Prinstein si sarebbe poi aggiudicato l'Olimpiade 1904, a St. Louis).

Dal punto di vista del talento, l'atleta di maggiore spicco dei primi anni del Novecento fu l'irlandese Pete O'Connor che stabilì, nel 1901, un record rimasto imbattuto per vent'anni. Saltò, infatti, il 5 maggio, a New Ross, 7,61 m. O'Connor aveva un forte spirito nazionalistico che nel 1906, in occasione del decennale della prima Olimpiade, ad Atene, lo rese protagonista di una dura controversia con i dirigenti britannici e il CIO, non volendo gareggiare con i colori della Gran Bretagna ma come irlandese. Il CIO respinse la pretesa, sulla base del principio che l'Irlanda faceva parte della corona britannica. Quell'episodio fu il primo di una lunga serie di controversie politico-sportive, in sede sia olimpica sia di altre competizioni internazionali.

Il record di O'Connor resistette sino a che negli Stati Uniti comparve una nuova generazione di atleti, i cui leader erano due giovani di colore divenuti poi, per differenti motivi, particolarmente famosi: Edwin Gourdin e William De Hart Hubbard. Gourdin era uno studente dell'Università di Harvard, sprinter da 9,7″ sulle 100 yards e capace di ottenere, il 23 luglio 1921, saltando a Cambridge, vicino a Boston, 7,69 m, nuovo record del mondo. Nel prosieguo della sua carriera atletica conquistò la medaglia d'argento all'Olimpiade di Parigi 1924, alle spalle di De Hart Hubbard. Tuttavia è soprattutto noto per essere stato nel 1958 il primo afroamericano a essere nominato membro della Corte Suprema del Massachusetts.

Più prettamente sportivi, invece, i meriti di De Hart Hubbard che, vincendo l'oro olimpico a Parigi, fu il primo atleta di colore a conquistare quella medaglia. In seguito mise in luce una serie di qualità straordinarie anche nello sprint puro. Il suo capolavoro come lunghista lo compì nel 1925, a Chicago, atterrando a 7,89 m. Il primato mondiale era detenuto, sino a quel giorno, da Robert LeGendre, un altro americano, specialista dell'antico pentathlon, che nel corso dei Giochi di Parigi aveva saltato, nell'ambito di questa competizione di prove multiple, 7,675 m, misura che venne poi inspiegabilmente corretta e ratificata come 7,77 m (quindi ricorretta, dopo la Seconda guerra mondiale, in 7,76 m). La superiorità di De Hart Hubbard nasceva dalla velocità della rincorsa e soprattutto dall'accelerazione negli ultimi 10 m prima dello stacco, effettuato il quale l'atleta assestava un violento colpo di forbice con la gamba di slancio (la destra) e, accompagnandosi con il movimento delle braccia, atterrava in quella posizione. Non vi erano particolari studi, allora, sulla posizione da far assumere al corpo nei passi precedenti il decollo, né sul momento del decollo stesso; ugualmente, era lasciato all'improvvisazione e alla sensibilità dell'atleta di trovare, in volo, la migliore coordinazione dei movimenti. Essenziale, in ogni caso, veniva considerata la capacità di accelerazione in rincorsa. De Hart Hubbard possedeva questa qualità avendo realizzato, nel 1926 a Cincinnati, 9″3/5 sulle 100 yards, eguagliando il record del mondo, e nelle prove indoor, sulle 50 e 60 yards, la sua prodigiosa accelerazione lo rendeva quasi imbattibile, con tempi dell'ordine di 5″1/5 e 6″1/5. Per quattro anni, De Hart Hubbard sarebbe rimasto imbattuto nel salto in lungo, conquistando sei titoli americani consecutivi di questa specialità e altri due nel salto triplo.

Il maggior fuoriclasse della specialità fu tuttavia un altro afroamericano: Jesse Owens. Dopo il brevissimo intermezzo di Edward Hamm, uno studente del Georgia institute of technology che visse uno straordinario 1928 con il primato mondiale a 7,90 m e il titolo olimpico ad Amsterdam con 7,73 m, e quelli, altrettanto brevi, dell'haitiano Silvio Cator (7,93 m a Parigi, nel 1928) e del giapponese Chuhei Nambu (7,98 m a Tokyo, nel 1931), soprattutto famoso quale triplista, gli anni Trenta furono segnati dalla presenza di Owens. A 20 anni, quando era ancora studente delle scuole superiori a Cleveland, con un salto di 7,60 m vinse il suo primo titolo americano (1933). Passato all'Ohio University, nel 1934, conquistò di nuovo il titolo nazionale, portandosi a 7,81 m. Nel 1935, nel corso di una delle più celebri giornate della storia dello sport, compì il suo capolavoro: in un meeting ad Ann Arbor, nel Michigan, il 25 maggio, partecipò a sei gare nel giro di un'ora e conquistò tre record del mondo, eguagliandone un quarto. Per quanto riguarda il salto in lungo, la prova era in programma tra due gare di sprint alle quali Owens concorreva. Pertanto aveva appena il tempo sufficiente per effettuare un solo tentativo. La rincorsa fu preceduta da una lunga concentrazione, lo sguardo fisso al fazzoletto che aveva posto nella zona di ricaduta, per segnalare la distanza corrispondente al record del mondo di Nambu. Lo slancio ‒ una corsa di 35 m su pedana in erba ben rasata ‒ fu come al solito rapidissimo. Lo stacco del piede destro non diede l'impressione che l'atleta cercasse l'elevazione, ma soltanto che effettuasse una falcata più lunga delle altre. La gamba sinistra infatti era puntata in avanti, come se il piede cercasse un lontanissimo appoggio, mentre anche la destra, con un movimento a forbice, veniva portata avanti. Grazie alla grande velocità che il suo corpo aveva accumulato, al momento dell'atterraggio venne proiettato in avanti, come in un secondo balzo. Ma sulla sabbia, l'impronta di Owens era ben al di là del record del mondo: 26 piedi, 8 pollici e un quarto, 8,13 m.

Un anno dopo, Owens si guadagnò il diritto di partecipare ai Giochi Olimpici di Berlino vincendo le selezioni con 8 m. Invece venne eliminato, a seguito di uno strappo muscolare, Eulace Peacock, un velocista-saltatore di straordinaria forza fisica, che aveva sconfitto il primatista del mondo una settimana dopo l'impresa di Ann Arbor, saltando 8 m. Ma proprio l'uso estremo della forza, più che della scioltezza, aveva procurato a Peacock una serie di infortuni ai muscoli.

L'Olimpiade di Berlino 1936 non fu facile per Owens e proprio nel salto in lungo corse il rischio più grosso. Le qualificazioni erano fissate per il mattino del 4 agosto, così come una prova dei 200 m, a cui doveva partecipare. Non ebbe problemi sui 200 m, ma alla pedana del salto in lungo sembrò smarrirsi ed eseguì due salti nulli per via di un'affrettata misurazione della rincorsa; all'ultimo tentativo seguì il consiglio di un suo rivale, il tedesco Luz Long, di staccare mezzo metro dietro l'asse di battuta: il salto fu di 7,155 m e Owens al millimetro passò il turno. La finale, il pomeriggio dello stesso giorno, fu emozionante, davanti a Hitler, Göbbles, Göring, Hess, Himmler, il regime al completo, o quasi. Long eguagliò due volte la misura di Owens: prima a 7,74 m, poi a 7,87 m. Immediata la replica dell'americano: 7,94 m; al sesto salto, arricchendo la vittoria di ulteriore prestigio, Owens ottenne 8,06 m. Nella stessa gara fu quarto Arturo Maffei, saltatore in lungo toscano di grande classe e fra i maggiori atleti italiani di ogni tempo. Nell'occasione olimpica venne misurato a 7,73 m, misura rimasta, seppure priva di riscontro del vento, record italiano sino al 1968.

Owens venne costretto a lasciare l'atletica sul finire di quello stesso anno, per aver offeso i principi del dilettantismo. Sfumarono così enormi opportunità di progressi non soltanto per un giovane di appena 23 anni, ma per lo sport stesso e, in modo particolare, per la specialità del salto in lungo. L'atleta statunitense non ebbe degni eredi fino all'arrivo di Ralph Boston alla fine degli anni Cinquanta. Nel frattempo molti erano stati i progressi sia nei materiali a disposizione degli atleti, sia nella costruzione di piste e pedane, sia nei sistemi di allenamento. L'attenzione a ogni movimento e la ricerca delle azioni più adatte a protrarre il volo erano sfociate in teorie tecniche molto approfondite. Il salto in lungo cessava di essere un esercizio d'istinto per divenire una disciplina alla quale educarsi nel corso di specifici allenamenti.

Ralph Boston, un atleta di colore di struttura longilinea (1,86 m per 74 kg), ottimo studente di biochimica, fu forse il primo grande specialista di salto in lungo che non fosse uno sprinter, o almeno non uno sprinter come Owens. La sua tecnica era eccellente. Praticava un 'due e mezzo' in aria, vale a dire effettuava due passi per chiudere poi il salto, a gambe riunite in avanti, avendo completamente esaurito la spinta ottenuta dalla rincorsa. La fase di stacco diventava uno dei momenti più delicati di tutta l'azione: salire in alto, senza tuttavia dirottare tutta la velocità accumulata a quello scopo, era uno degli elementi fondamentali per i nuovi saltatori. Boston riuscì a battere il record del mondo il 12 agosto 1960, a Walnut, con un perfetto salto a 26 piedi, 11 pollici e 1/4, cioè 8,21 m. Poche settimane dopo, sulla pedana dello stadio olimpico di Roma, conquistò l'oro (a 8,12 m) nel corso di una gara magnifica, accesasi soprattutto al sesto tentativo, quando un altro americano, Irvin Robertson, saltò 8,11 m e un giovane sovietico, Igor Ter Ovanesian, ottenne 8,04 m.

Ter Ovanesian, detto 'il principe' per l'eleganza del portamento, figlio di un armeno e di un'ucraina, nato a Mosca nel 1938, fu per molti anni uno dei più perfetti interpreti del salto in lungo sotto l'aspetto tecnico. Fu anche il primo bianco, dai tempi di Ed Hamm, a diventare, per due volte, primatista del mondo: 8,31 m nel 1962 e 8,35 m nel 1967. Nel corso degli anni Sessanta Ter Ovanesian e Boston si sfidarono non soltanto sul libro dei record, ma in numerosissime competizioni, compresi i Giochi Olimpici di Tokyo e di Città del Messico. In tutte e due le occasioni furono battuti entrambi: a Tokyo da un gallese ‒ Lynn Davies ‒ che seppe approfittare magistralmente della pioggia e del vento; a Città del Messico da Bob Beamon.

Beamon, un ventiduenne saltatore di New York, alto (1,90 m) e dotato di buona velocità (9,5″ sulle 100 yards), aveva nell'elasticità della corsa e nella capacità di rilassarsi anche nei momenti di maggior tensione e sforzo i suoi punti di forza. Cresciuto atleticamente all'Università di El Paso, in Texas, si era messo in luce in quello stesso 1968 con un record indoor a 8,30 m e poi con un salto a 8,33 m, a Walnut, ed era diventato campione USA, il 20 giugno a Sacramento, con 8,33 m, per vincere infine le selezioni olimpiche di South Lake Tahoe con 8,26 m, la stessa misura del secondo piazzato, Ralph Boston. Nel frattempo, era rimasto senza allenatore, essendo stato espulso dall'Università ‒ dopo essersi rifiutato di incontrare la squadra della Brigham University, frequentata dai mormoni e considerata favorevole alla segregazione razziale ‒ e aveva chiesto a Boston di guidarlo.

All'Olimpiade Beamon rischiò di essere eliminato alle qualificazioni, dopo due salti nulli, ma al terzo tentativo seguì il consiglio di Boston ‒ lo stesso che Long a Berlino aveva dato a Owens ‒ di staccare un piede prima dell'asse di battuta, e passò il turno. Alla finale, il 18 ottobre, parteciparono 17 concorrenti: Beamon in ordine di salto era il quarto. Sulla pedana batteva un vento incostante, che rendeva difficile la rincorsa e l'esatta misurazione della stessa, e i primi tre atleti, infatti, incorsero in un nullo. Arrivato il suo turno, Beamon si concentrò per una ventina di secondi, poi incominciò la sua lunga e veloce rincorsa, percosse con esattezza millimetrica l'asse di battuta, decollò altissimo, più alto di quanto gli fosse mai riuscito; al punto massimo dell'elevazione, richiamò le gambe a squadra, abbassò le braccia quasi a toccare con le punte delle mani le punte dei piedi e piegò il busto in avanti come se volesse infilare la testa fra le ginocchia; planò così verso il punto d'atterraggio, al confine estremo della buca di ricaduta. Ci furono problemi per la misurazione perché l'apparecchio elettronico non era predisposto per un salto tanto lungo. Arthur Takac e Adriaan Paulen, i delegati tecnici della IAAF, ordinarono ai giudici di procedere con il tradizionale bindello metrico; poi controllarono l'anemometro, che segnava vento a favore di 2 m/s, il limite per decretare la validità statistica del salto. Quindi arrivò la misura: 8,90 m. L'eccezionalità della prestazione, che Beamon non avrebbe mai più avvicinato, fu certamente dovuta anche al concorso di diversi fattori: l'altitudine che favoriva la velocità e l'elevazione; il tartan ‒ per la prima volta in uso ai Giochi ‒ che rendeva la pedana più elastica che in passato, favorendo sia la velocità della rincorsa sia lo stacco da terra; il vento, che aveva aiutato nei limiti massimi consentiti. Alcuni tecnici avrebbero poi valutato che a livello del mare e senza vento il salto sarebbe stato di circa 8,50 m, misura che avrebbe costituito ugualmente il record del mondo.

Il periodo che va da Beamon a Carl Lewis e Mike Powell fu di interregno. Gli anni Settanta, infatti, non ebbero grandi saltatori, nonostante gli americani Randy Williams e Arnie Robinson, il tedesco dell'Est Lutz Dombrowski e il tedesco dell'Ovest Hans Baumgartner fossero tutt'altro che mediocri.

Carl Lewis si ricollegò, non soltanto idealmente, alla tradizione dei grandi saltatori-velocisti di Jesse Owens. Dominò la scena dal 1980 negli Stati Uniti e dal 1983 in campo internazionale ‒ con il titolo conquistato ai primi Campionati del Mondo di Helsinki, a 8,55 m ‒ e arrivò al primato, senza precedenti, di collezionare quattro titoli olimpici consecutivi (1984, 1988, 1992, 1996). Come saltatore in lungo, Lewis era di rara eleganza, con il suo stile 'due e mezzo' e con una precisione in battuta invidiabile. Possedeva la qualità tipica dei saltatori di razza di saper sempre aggiustare il salto, anche quando la rincorsa non era precisa. Aveva inoltre una straordinaria 'intelligenza muscolare', cioè apprendeva con facilità estrema qualunque movimento, cosicché mai lo si vide, in quasi vent'anni di carriera, compiere azioni atletiche scoordinate anche nello sforzo più intenso. Tuttavia non fu mai primatista del mondo di salto in lungo.

Grande rivale di Lewis fu Mike Powell. Ottimo giocatore di basket negli anni del liceo, a 16 anni cominciò a praticare anche l'atletica. A 20 anni fu capace di saltare 8,06 m, ottenendo una borsa di studio dalla UCLA, l'università della California a Los Angeles. Sino a 24 anni si divise tra basket e salto in lungo, finché il titolo mondiale universitario conquistato a Zagabria con 8,27 m non lo convinse a scegliere l'atletica. Nel 1988 fu secondo all'Olimpiade di Seul alle spalle di Lewis. Alto 1,90 m, longilineo con muscolatura affusolata, era un saltatore tecnicamente perfetto. Pur non essendo un velocista, nei cinque-sei passi finali prima del decollo possedeva un'accelerazione davvero straordinaria, superiore, addirittura, a quella di Carl Lewis. Sfruttando questa reattività neuromuscolare, veniva quasi proiettato in alto dallo stacco, grazie anche all'esplosività delle caviglie. Le gambe parevano continuare la corsa in aria, con tre passi e mezzo: un movimento assai complesso, ma che Powell ‒ grazie anche alla sua elastica leggerezza ‒ pareva compiere senza alcuno sforzo.

L'incontro più emozionante fra Lewis e Powell ebbe luogo ai Campionati del Mondo di Tokyo del 1991 nella gara sicuramente più spettacolare e tecnicamente elevata mai disputata in questa specialità. Poche settimane prima, in un meeting al Sestriere (a 2200 m di quota) Powell aveva mostrato di essere in gran forma, saltando 8,73 m con 2,6 m/s di vento a favore. Carl Lewis, anche lui presente, aveva preferito ritirarsi, dopo alcuni nulli, perché infastidito da pioggia e vento. A Tokyo, Powell al quinto tentativo atterrò ben al di dà della linea dei 9 m, ma le minuziose misurazioni definirono la lunghezza del salto in 8,95 m, con 0,3 m/s di vento a favore. Lewis, che era in testa con 8,91 m (vento a favore 2,9 m/s), tentò di replicare subito, ma nonostante la sua potentissima accelerazione i suoi due salti successivi, 8,87 e 8,84 m, non furono sufficienti a eguagliare Powell. Terminò terzo con 8,42 m Larry Myricks, un atleta americano che aveva un primato personale di 8,74 m, ottenuto nelle selezioni olimpiche di Indianapolis 1988, a soli 2 cm dal vincente Lewis.

Altro grande, e sfortunato, atleta di quel periodo fu il sovietico-armeno Robert Emmiyan che nel 1987 saltò, in altura, 8,86 m; poi una serie di incidenti fisici e di sventure nazionali (il terremoto che distrusse la sua terra e la sua famiglia) gli impedì di competere al livello del suo talento. Anche l'Italia, in quegli anni, ebbe un campione di gran valore: Giovanni Evangelisti, che portò il record nazionale a 8,43 m. Nel 1987, ai Campionati del Mondo di Roma, Evangelisti fu protagonista di un episodio poco gratificante e tuttora confuso. Gli venne attribuita la falsa misura di 8,38 m che in seguito si dimostrò essere non più di 8 m; l'incidente di misurazione fece scandalo ma non si riuscì mai ad appurare la verità (se all'origine ci fosse un complotto che coinvolgeva i vertici dirigenziali dell'atletica italiana, o solo la voglia di qualche giudice di aiutare il beniamino di casa).

Erede di Lewis e Powell fu il cubano Ivan Pedroso. Capace di saltare 8,71 m nel 1995, nel luglio di quello stesso anno al Sestriere gli fu assegnato il primato del mondo, grazie a un salto di 8,96 m effettuato con vento regolare. In seguito si appurò che l'anemometro aveva funzionato male (forse a causa di interferenze esterne) e il risultato non venne omologato come record. Pedroso è comunque diventato campione olimpico a Sydney 2000, a riprova di un talento non inferiore a quello dei suoi straordinari predecessori.

Il salto in lungo femminile

La specialità divenne olimpica soltanto nel 1948. Le prime figure di spicco furono un'inglese, Mary Rand, e una tedesca, Heide Rosendahl, tutte e due eclettiche campionesse anche nel pentathlon. Rand ottenne il primato del mondo con un salto di 6,76 m nel 1964 ai Giochi di Tokyo, e Rosendahl con la misura di 6,84 m all'Universiade di Torino del 1970.

Il salto in lungo femminile, al pari di quello maschile, ebbe il suo periodo d'oro verso la metà degli anni Ottanta, in coincidenza con l'affermazione di due atlete fuori dal comune, le rumene Anisoara Stanciu Cusmir e Valeria Ionescu, che nel 1982 portarono, rispettivamente, il record del mondo a 7,15 m e a 7,20 m, progredendo nella strada aperta nel 1978 dalla sovietica-lituana Vilma Bardaskiene, la prima donna a superare i 7 m, con un record a 7,09 m. Bardaskiene fu, in effetti, la prima vera grande saltatrice in lungo e il rimpianto è che, dopo il successo agli Europei di Praga, sia stata costretta a ritirarsi dall'atletica per via di una serie incessante di problemi muscolari e tendinei.

Nel 1983 ai Campionati del Mondo di Helsinki la tedesca dell'Est Heike Daute, che da coniugata si sarebbe chiamata Drechsler, conquistò il titolo mondiale con la misura di 7,27 m (favorita dal vento). Dotata di un fisico magnifico, di longilinea eleganza, veloce e dalla falcata ampia, Daute sembrava il contraltare femminile di Carl Lewis. Ma il boicottaggio della maggior parte dei paesi comunisti ai Giochi di Los Angeles nel 1984 le impedì la conquista del titolo olimpico che andò, invece, a Stanciu Cusmir, seguita da Ionescu. In quella stessa finale, al quinto posto terminò un'americana ‒ Jackie Joyner (sposata in seguito con il suo allenatore Bob Kersee) ‒ che aveva già conquistato l'argento nell'eptathlon e sarebbe diventata negli anni a seguire forse la più grande lunghista ed eptathleta della storia.

Il duello tra Daute e Joyner Kersee crebbe sino a divenire uno degli spettacoli più affascinanti delle gare atletiche, dai Mondiali di Roma 1987 sino alla fine degli anni Novanta, passando per Olimpiadi, meeting internazionali e Campionati del Mondo. Da questo continuo desiderio di superarsi, il salto in lungo femminile trasse gran giovamento: se nel 1983 Stanciu Cusmir aveva saltato 7,43 m, nel 1985 l'appena ventunenne Daute Drechsler portò il record mondiale a 7,44 m e l'anno successivo a 7,45 m, misura subito eguagliata da Joyner. Ma più che nella ricerca dei primati le due atlete amavano darsi battaglia in pedana, alternandosi nella conquista dei titoli mondiali e olimpici. Joyner vinse i titoli mondiali del 1987 a Roma e del 1991 a Tokyo, mentre Drechsler riconquistò quello del 1993 a Stoccarda. In quanto a medaglie olimpiche, nel 1988 a Seul la statunitense, con 7,40 m, riuscì a imporsi sulla tedesca dell'Est (7,22 m). Ma nel 1992 le parti s'invertirono: Drechsler fu campionessa olimpica, precedendo l'ucraina Inessa Kravets (che diventerà grande triplista) e Joyner Kersee. Otto anni più tardi, a Sydney, la tedesca conquisterà, ormai trentaseienne, un secondo titolo olimpico del salto in lungo, con 6,99 m.

Ma la specialità, nella quale era passata come una meteora la russa Galina Chistyakova che nel 1988 aveva portato il record del mondo a 7,52 m, cominciava a declinare. Nessuna atleta, infatti, pareva avere più le qualità tecniche e il talento di Drechsler (che al Sestriere, nel 1992, saltò 7,63 m con il vento di poco oltre il limite, 2,10 m/s) o di Joyner Kersee (che, seppur infortunata, si piazzò ancora terza ad Atlanta 1996, con 7 m). Soltanto Marion Jones avrebbe forse potuto far progredire il record in linea con il passare degli anni, ma la velocista americana non espresse mai le sue potenziali qualità nel salto in lungo.

Un'inglese di origini giamaicane, diventata cittadina italiana per matrimonio, Fiona May, veniva indicata, a metà degli anni Novanta, come l'erede delle grandi campionesse al tramonto. Pur avendo una struttura perfetta, non riusciva a correggere alcuni possibili difetti tecnici sia nella fase di rincorsa sia in quella aerea: invece di accelerare negli ultimi passi prima dello stacco pareva quasi ridurre la velocità, limitando così la qualità del decollo (che deve avvenire in pieno slancio per poter imprimere al corpo la spinta in avanti e in alto). Così May, campionessa del mondo nel 1995 con 6,98 m, tornò a conquistare il titolo mondiale nel 2001 ma senza sostanziali progressi nella misura (7,02 m in favore di vento) e fu anche costretta ad accontentarsi della medaglia d'argento alle Olimpiadi di Atlanta e di Sydney, sempre con misure tipiche delle competizioni degli anni Sessanta-Settanta.

In effetti, la storia del lungo femminile sul finire del secolo pareva procedere a ritroso, quasi ricollegandosi ai primi anni di questa specialità. I record di Rand e di Rosendahl sarebbero, oggi, sufficienti a piazzarle fra le migliori atlete di inizio millennio.

Il salto triplo maschile

Le origini di questa specialità sono celtiche e non greche (per salto triplo ai tempi delle Olimpiadi antiche si intendeva la somma di tre salti in lungo). Dalla tradizione dei giochi celtici l'esercizio fu ripreso dagli irlandesi e dagli scozzesi, anche se non è ben chiaro quale fosse inizialmente la successione dei movimenti (hop-hop and jump, oppure hop-step and jump). Certo è che, sul finire dell'Ottocento, gli irlandesi praticavano un salto triplo fatto di uno stacco (hop), ricaduta sullo stesso piede con immediata ripartenza (hop) e infine salto con chiusura (jump). Nella tradizione americana si era andato diffondendo, invece, un diverso modo di effettuare l'esercizio: al primo hop seguiva lo step, cioè il passo con appoggio sul piede opposto, da cui si effettuava il salto finale. Per molti anni, in assenza di un organismo internazionale che decretasse quale dovesse essere la regola, mancò una vera e propria codificazione stilistica. Soltanto dopo l'Olimpiade del 1908 si decise che il salto triplo ufficiale sarebbe stato hop-step and jump. Questo significava in pratica che per un atleta che avesse staccato di destro la successione degli appoggi a terra dovesse essere destro-destro-sinistro; e per chi avesse, invece, battuto con il sinistro, la successione fosse sinistro-sinistro-destro. La IAAF avrebbe fatto suo questo regolamento, che da allora non è più cambiato.

Per lungo tempo il salto triplo è rimasto specialità negletta. A causa delle controversie sulle modalità di esecuzione venne eliminato dai programmi atletici in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dalla NCAA (National college athletic association), che lo reintrodusse soltanto nel 1962. Sulla disciplina pesavano anche altri pregiudizi: la sua presunta pericolosità per il danno che poteva provocare a tendini e articolazioni, ma soprattutto l'idea che fosse un'espressione troppo artificiale, insomma un'invenzione acrobatica più adatta al circo che agli stadi atletici. L'idea della eccessiva artificiosità della specialità viene in realtà sconfessata se si considera la naturalezza dei movimenti di certi giochi di ragazzi (come il saltare da una pietra all'altra per attraversare un corso d'acqua), così come il pregiudizio che questo fosse uno sport-rifugio per chi aveva fallito in altre specialità è largamente smentito dalla storia e dall'evoluzione della disciplina: la riprova del suo valore è emersa infatti nel corso dei decenni, a mano a mano che essa si è sviluppata attirando alla sua pratica autentici campioni.

Il primo di questi fu l'americano, di origine irlandese, James Brendan Connolly. Nato a South Boston, aveva studiato da autodidatta riuscendo a farsi ammettere a Harvard. Appassionato di letteratura, dotatissimo scrittore, divenne campione americano di salto triplo quando, nel 1896, apprese della rinascita dei Giochi Olimpici ad Atene. Decise di parteciparvi e non avendo ottenuto dal preside di Harvard un periodo di assenza giustificata lasciò l'università. Il viaggio, che gli fu pagato dal Suffolk athletic alub e da una vendita di pane organizzata dalla sua parrocchia, fu lungo e tormentato. Ad Atene, dove arrivò solo alla vigilia della sua gara, la prima in programma, Connolly vinse con un salto ‒ ancora di stile hop-hop and jump ‒ di 13,71 m, e fu così il primo campione olimpico dopo 1527 anni.

Nei primi anni del Novecento, il 'triplo' venne praticato da molti specialisti del salto in lungo. Connolly fu sconfitto ai Giochi Olimpici di Parigi da Meyer Prinstein, che aveva perso il titolo del salto in lungo essendogli stato proibito di disputare la finale programmata per la domenica. Un altro grande lunghista, l'irlandese Pete O'Connor, primatista del mondo di questa specialità così come era stato Prinstein, vinse i Giochi non ufficiali del 1906.

Nel 1908 a Londra il titolo olimpico fu vinto per la Gran Bretagna dal lunghista irlandese Tim Ahearne. Il primo record ufficialmente registrato dalla IAAF venne attribuito a suo fratello minore, Daniel Ahearn, nato in Irlanda nel 1888 ed emigrato negli USA nel 1909 (aveva eliminato dal suo cognome la 'e' finale per renderlo più americano): gareggiando al Celtic Park di New York nel 1911, ottenne la misura di 15,52 m con la suddivisione dei tre balzi in 6,10, 3,50 e 5,92 m. Ahearn può essere considerato il vero iniziatore della specialità, sia per la ricerca del ritmo e di una corretta ripartizione dei tre salti, sia per esser stato per nove anni consecutivi ‒ dal 1910 al 1918 ‒ campione statunitense. Non poté invece conquistare l'oro olimpico a Stoccolma a causa di un incidente.

Passarono molti anni prima che Ahearn venisse superato. L'australiano Nick Winter, autodidatta in questo esercizio, dato che il triplo era sconosciuto nel suo paese, riuscì a eguagliare il suo primato nel 1924, all'ultimo salto dei Giochi di Parigi, ma con una divisione dei tre balzi completamente diversa: 6,11, 5,09 e 4,32 m.

L'esclusione del 'triplo' dai Campionati NCAA e dai programmi inglesi determinò un impoverimento della specialità fino alla rinascita legata alla fine degli anni Venti e alla comparsa degli specialisti giapponesi. Mikio Oda, che aveva imparato a Parigi i rudimenti del 'triplo' e si era seriamente applicato allo studio di questo esercizio appena tornato in patria, giungendo alla conclusione che era fondamentale disporre di una certa velocità, oltreché di una grande forza elastica nelle gambe, nel 1928 vinse i Giochi di Amsterdam con 15,21 m. Tre anni dopo, a Tokyo, batté il vecchio primato del mondo saltando 15,58 m (parziali: 6,50 m, 3,52 m, 5,56 m).

Ad Amsterdam si piazzò quarto, con 15,01 m, un altro giapponese, Chuhei Nambu, che divenne poi uno dei più grandi specialisti del salto in lungo e del salto triplo, detenendone contemporaneamente i record del mondo (impresa mai più riuscita a nessun altro): infatti, dopo aver saltato 7,98 m nel 1931, l'anno seguente vinse il titolo olimpico del triplo (e il bronzo nel lungo) con un salto di 15,72 m (parziali: 6,40 m, 4,50 m, 4,82 m). Secondo il suo stesso racconto, Nambu aveva imparato i segreti della corsa osservando i cavalli, quelli del salto studiando le rane e le scimmie, quelli del movimento delle braccia imitando il lavoro degli stantuffi dei locomotori. Di sicuro, fu un grande autodidatta, un uomo di particolare intelligenza e volontà che ebbe molto successo anche al di fuori della carriera sportiva, come giornalista.

Per tutti gli anni Trenta il salto triplo fu dominato dai giapponesi. A Berlino nel 1936 vinse Naoto Tajima, primo al mondo a raggiungere i 16 m (6,20, 4,80 e 5 m le misure parziali). Anche Tajima, come Nambu, aveva accompagnato il titolo nel triplo con la medaglia di bronzo nel salto in lungo.

Successivamente, al Giappone venne impedito di partecipare ai Giochi di Londra 1948, che furono vinti dallo svedese Arne Ahman con 15,40 m. Due anni dopo Adhemar Ferreira da Silva, un atleta brasiliano nato nel 1927, che a Londra era arrivato solo undicesimo, eguagliò a San Paolo il record del mondo di 16 m, inaugurando un nuovo modo di saltare, basato sul ritmo e sull'armonia fra i tre balzi, che infatti misuravano rispettivamente 5,64, 4,84 e 5,48 m. Da Silva, che aveva esordito solo tre anni prima, doveva parte della sua maturazione atletica ai suggerimenti del tecnico tedesco Dietrich Gerner, che a sua volta li aveva appresi dagli atleti giapponesi negli anni Trenta. Il concetto di base, considerato che da Silva (come del resto Nambu e Tajima) non aveva una particolare velocità, era la valorizzazione delle doti di elasticità e scioltezza, associata a un continuo perfezionamento dei tempi del salto, studiati giorno dopo giorno con intelligente applicazione. La consacrazione arrivò dai due titoli olimpici consecutivi ‒ nel 1952 a Helsinki e nel 1956 a Melbourne ‒ e dai record del mondo, che proiettarono da Silva fino a 16,55 m, primato ottenuto nel 1955 a Città del Messico.

Intanto, iniziavano a svilupparsi altre scuole: quella sovietica, di cui il primo rappresentante fu Leonid Sherbakov (primatista del mondo con 16,23 m nel 1953, e medaglia d'argento a Helsinki), e quella polacca, che avrebbe espresso Jozef Schmidt. Questo atleta fu campione olimpico a Roma in una memorabile esibizione di destrezza, tecnica e forza. Il 5 agosto 1960 aveva già creato enorme impressione tra gli appassionati superando i 17 m: 17,03, con parziali di 5,99, 5,02, 6,02 m. Anche in questo caso si poteva notare la cura nel suddividere con precisione lo slancio della rincorsa, in modo da arrivare a sfruttare soprattutto nel salto finale l'azione vera e propria del volo e del planaggio. La modernità di Schmidt stava soprattutto in questo nuovo concetto portato sino alla perfezione, al quale naturalmente il polacco accoppiava il talento, la velocità e una straordinaria forza di gambe e caviglie. Schmidt saltava sulla terra rossa, che assorbiva invece di restituire la spinta come sarebbe, invece, accaduto sulle pedane in tartan. Teorico di questo nuovo modo di interpretare il salto era Teodor Starcynski, per il quale era essenziale l'avanzamento del corpo più che l'elevazione. Il principio consisteva, insomma, nel non disperdere la velocità nell'azione di salita verso l'alto, cosa che sarebbe risultata dannosa sia per la difficoltosa ripartenza per il salto successivo, sia per l'attenuazione dello slancio all'atto del salto finale. Questi concetti erano condivisi dalla scuola russa e sarebbero rimasti validi in seguito, anche con l'avvento di pedane più elastiche. Ma, intanto, erano valsi a Schmidt la medaglia d'oro olimpica di Tokyo 1964, in aggiunta a quella di Roma, nonché il titolo di più grande saltatore sulla terra battuta, un primato che nessuno avrebbe mai più potuto togliergli.

Giuseppe Gentile, in un'indimenticabile gara olimpica a Città del Messico 1968, migliorò ‒ in fase di qualificazione ‒ il record di Schmidt portandolo a 17,10 m e nel primo turno di finale spostò la misura a 17,22 m. Ma fu soltanto un inizio, nella pioggia di primati di quei due giorni di competizione (16-17 ottobre). Gentile era un elegante, dotatissimo atleta di origini siciliane ma cresciuto a Roma, dove presso il locale Centro universitario sportivo veniva allenato da Luigi Rosati. La sua qualità principale stava nella scioltezza e nella tecnica, mentre non era eccezionale la sua velocità e il principale difetto consisteva nella difficoltà a reggere un intero ciclo di sei salti. Tuttavia, poteva essere un esempio nell'interpretazione del triplo, ormai sempre più avviato sulla strada tracciata da Schmidt e dai tecnici sovietici Dyatchkov e Ozoline verso la ricerca dall'avanzamento a ogni costo con le fasi di sospensione protratte il più possibile senza tuttavia dover compromettere la parte finale del salto. In quello stesso 1968, Gentile ‒ che aveva stabilito il primo dei suoi record italiani nel 1965 con 16,17 m ‒ dimostrò i suoi progressi portando il primato italiano di salto in lungo a 7,91 m.

In Messico si trovarono a confronto diversi fuoriclasse: oltre all'italiano, il brasiliano Nelson Prudencio e soprattutto il sovietico georgiano Viktor Saneyev, che subito scavalcò Gentile con 17,23 m. Toccò poi a Nelson Prudencio portare il limite mondiale a 17,27 m; ma fu Saneyev a chiudere la gara a 17,39 m. Non era mai accaduto che, nel corso di una stessa competizione, tra qualificazioni e finale, il primato del mondo venisse migliorato per cinque volte. Il triplo maschile fu in realtà una delle discipline più influenzate dall'altitudine (2248 metri), che permetteva una maggiore velocità e rendeva più facili le fasi di elevazione, e dalla pedana in tartan, più elastica, che rese evidente a tutti il progresso che di lì in avanti avrebbe caratterizzato le prestazioni. Era però altrettanto chiaro che era nata una generazione di atleti di grande talento e soprattutto una nuova tecnica per questo complesso esercizio.

Saneyev, atleta stilisticamente perfetto e di altrettanto valide capacità fisiche, fu indubbiamente il migliore: portò il record del mondo a 17,44 m (6,63 m, 4,88 m, 5,93 m); vinse tre titoli olimpici consecutivi e un quarto (a Mosca 1980) gli sfuggì per 11 cm (17,35 m contro 17,24 m) a vantaggio del sovietico estone Jaak Uudmae. La sua straordinaria carriera avrebbe potuto essere eguagliata, se non addirittura superata, dal brasiliano João Carlos de Oliveira, atleta dal fisico potente, veloce e scattante, che nel 1975, a Città del Messico, portò il record del mondo a 17,89 m (6,08 m, 5,37 m, 6,44 m) e terminò terzo ai Giochi di Montreal 1976 e, in circostanze controverse, alle Olimpiadi di Mosca 1980. In quella occasione i giudici di pedana dichiararono nullo, per un dubbio fallo di battuta, uno splendido salto di de Oliveira apparso ai presenti, con tutta evidenza, al di là del record del mondo. Purtroppo il delegato tecnico della IAAF non fu lesto a intervenire e ogni possibilità di riconoscimento di quella prova venne vanificata. Appena un anno dopo i Giochi, de Oliveira fu colpito da ben altre disgrazie: in un incidente d'auto, di cui non era responsabile, fu ferito gravemente alla gamba destra che, in seguito, gli dovette esser amputata. Morì nel 1999 a seguito di una grave malattia al fegato.

Nell'ultima parte del 20° secolo ci fu la riscossa dei primi dominatori di questa specialità: gli americani e gli inglesi. Gli Stati Uniti, dopo la riammissione della disciplina nei programmi di competizione dei college, disponevano di un'abbondanza di materiale umano che neppure l'Unione Sovietica poteva pensare di uguagliare. L'educazione di base, attraverso l'apprendimento degli esercizi didattici indispensabili per memorizzare le successive azioni del salto dette subito ottimi risultati. Tra i primi fuoriclasse emerse Alfrederick 'Al' Joyner, figlio di una modesta famiglia di East St. Louis, nell'Illinois, ricca di talento atletico da trasmettere ai figli: la sorella più giovane, Jackie Joyner, sarebbe diventata una delle più grandi atlete della storia, prendendo lo slancio proprio da quei Giochi del 1984 che videro il trionfo del fratello. In verità, a Los Angeles, per la conquista del titolo erano più accreditati gli altri due americani Mike Conley e Willie Banks e, in assenza degli atleti del blocco dell'Est, l'inglese Keith Connor. Ma Al Joyner, con un leggero aiuto del vento, riuscì a piazzare, nel primo turno di finale, un salto di 17,26 m che gli valse il titolo. Conley fu secondo, Connor terzo e Banks soltanto sesto.

Banks, già secondo ai Mondiali di Helsinki, alle spalle del polacco Zdzislaw Hoffmann, si prese la rivincita l'anno successivo, nel corso dei Campionati americani di Indianapolis. Con il suo stile leggero e ritmato Banks arrivò a 17,97 m, superando così, a livello del mare, il record di Carlos de Oliveira, ormai vecchio di dieci anni. La gara fu davvero eccezionale: Conley si piazzò al secondo posto con 17,71 m, al terzo Charles Simpkins con 17,52 m e al quarto Joyner con 17,46 m. I quattro atleti possedevano caratteristiche differenti: più potenti Conley e Joyner, più agili ed elastici Simpkins e Banks. Fra tutti, Simpkins pareva avere margini di miglioramento notevoli per via di una struttura muscolare ancora da sviluppare. Pochi mesi dopo, a Kobe, in Giappone, in occasione dell'Universiade, fu impressionante un suo salto di 17,86 m che, al pubblico e ai critici presenti, diede l'illusione del record del mondo.

Conley, invece, possedeva una versatilità tecnica tale da farlo paragonare a Carl Lewis: capace di correre i 200 m in 20,3″, proveniva dal salto in lungo dove, ai Mondiali di Helsinki 1983, aveva ottenuto la medaglia di bronzo. Proprio l'imbattibilità di Lewis, verso il quale Conley nutriva sentimenti di chiara antipatia, l'aveva convinto ad abbandonare il salto in lungo (dove peraltro era arrivato a 8,46 m) per dedicarsi totalmente al triplo. Una scelta giusta, perché Conley diventò un grande specialista non soltanto per le eccezionali qualità fisiche ma anche per la perfezione tecnica, sino a dominare i Giochi Olimpici di Barcellona con una vittoria sensazionale a 18,17 m. La prestazione però non fu omologata come record del mondo a causa della velocità del vento superiore di appena 0,1 m/s al massimo consentito. Nella stessa finale, Simpkins, a riconferma della sua classe ma anche della sua imprevedibilità nel rendimento, risalì con l'ultimo salto, di 17,60 m, al secondo posto.

Appariva ormai evidente che la conquista dei 18 m, misura ritenuta impossibile sino a pochi anni prima, era soltanto questione di tempo. Il bulgaro Kristo Markov, per es., l'aveva sfiorata sulla pedana romana, in occasione della seconda edizione dei Campionati del Mondo, nel 1987, ottenendo 17,92 m. Markov aveva fatto della preparazione muscolare il principio della riuscita, secondo la scuola dell'Europa dell'Est. Non possedendo l'agilità né il senso musicale degli atleti afroamericani o di origine caraibica, impostava il suo salto sulla reattività muscolare: era impressionante vedere come, non praticando uno stile radente, riuscisse a sollevare il suo corpo dopo ogni impatto a terra. Oltre che a Roma, Markov si impose facilmente anche a Seul 1988.

Un altro atleta irrompeva intanto sulle pedane del triplo: l'americano Kenny Harrison. Vinse il titolo mondiale del 1991, a Tokyo, con 17,78 m, dopo un debutto europeo sensazionale l'anno precedente: 17,92 m a Stoccolma e 17,79 m a Berlino. Successivamente, in parte per gli infortuni e in parte perché preso da altri interessi, rientrò nell'ombra. Convinto a tornare seriamente all'attività agonistica in vista delle Olimpiadi di Atlanta dall'ostacolista velocista Gail Devers, Harrison si qualificò alle selezioni americane. Alla vigilia dei Giochi, fu però messo fuori squadra per non aver realizzato il minimo di qualificazione richiesto dalla IAAF (16,85 m); soltanto all'ultimo istante un intervento diretto del presidente della Federazione internazionale Nebiolo gli assicurò la possibilità di gareggiare. Ripagò questa fiducia in maniera straordinaria. Il suo primo salto di finale fu di 17,99 m, il suo quarto di 18,09 m (con un vento contrario di 0,4 m/s): il titolo olimpico premiò dunque un atleta artista, più avvezzo forse alle fatiche del ballo e alle maratone musicali che ai duri impegni in sala di muscolazione.

La medaglia d'argento di Atlanta andò all'inglese Jonathan Edwards la cui carriera era iniziata a 17 anni, nel 1983, con 13,83 m ed era proseguita con una lenta ascesa che l'aveva portato oltre i 17 m per la prima volta nel 1989. Edwards si era poi dedicato agli studi universitari e religiosi e alcuni incidenti ne avevano rallentato la preparazione proprio quando cercava di affinare i concetti tecnici del salto. Dotato di buona velocità di base (10,40″ sui 100 m) ma soprattutto di perfetta coordinazione neuromuscolare, Edwards pensava che fosse essenziale incrementare la velocità piuttosto che la potenza e soprattutto non perdere troppo slancio nelle fasi che precedevano il salto finale. Era lo stesso principio che aveva ispirato Conley, il quale addirittura aveva invertito il piede del primo stacco per poter effettuare quello finale con lo stesso che era solito usare, sempre al momento del decollo, nel salto in lungo. Nel 1995 Jonathan Edwards raccolse i risultati del meticoloso apprendistato. In luglio, a Salamanca, ottenne prima il record del mondo a 17,98 m; poi, a Villeneuve d'Asque, in occasione della Coppa Europa, realizzò due grandissime prestazioni purtroppo rese vane dal troppo vento: 18,39 m e 18,43 m. Infine, a Göteborg, nel corso dei Campionati del Mondo, collezionò due record del mondo, il primo a 18,16 m (6,12 m, 5,19 m, 6,85 m le misure parziali), subito migliorato con 18,29 m (6,05, 5,22, 7,02 m). La teoria del salto radente, della velocità da mantenere e del jump finale interpretato come un vero e proprio salto in lungo aveva dato il suo esito. La spettacolare gara fu seguita con passione da 50.000 persone.

Edwards continuò a lungo a essere il principale interprete del salto triplo. A 34 anni, infatti, vinse l'oro olimpico di Sydney e a 35 si riconfermò campione del mondo a Edmonton, in attesa che una nuova generazione di saltatori ‒ tra i quali emergeva lo svedese Cristian Olsson ‒ sapesse rilevarne l'eredità. Il passaggio di testimone fra generazioni sarebbe stato suggellato dai Campionati del Mondo di Parigi 2003.

Il salto triplo femminile

L'introduzione del salto triplo nel programma di competizioni femminili ha rappresentato un'altra importante tappa verso l'accettazione della totale parità tra uomini e donne nello sport. Sebbene venisse praticato negli Stati Uniti già nel corso del 19° secolo e nel 20° anche in Unione Sovietica e Cina, solo nel 1990 la IAAF ha deciso di ufficializzare la versione femminile della specialità, stabilendo che il primo record del mondo sarebbe stato riconosciuto all'atleta che nel corso di quello stesso anno avesse ottenuto la migliore prestazione. Così, dopo i primati 'ufficiosi' dell'americana Sheila Hudson (13,85 m a metà degli anni Ottanta), della cinese Li Huirong (14,04 m nel 1987) e della sovietica Galina Cistiakova, primatista del mondo del salto in lungo (14,52 m nel 1989), il primo record del mondo ufficiale venne riconosciuto a Lu Huirong che a Sapporo, il 25 agosto 1990, saltò 14,54 m.

Nel 1991 entrò nella lista dei primati, con 14,95 m, l'ucraina Inessa Kravets, una lunghista che l'anno seguente a Barcellona conquistò l'argento della specialità, dietro Drechsler, dopo che già si era distinta, nella stagione, con un primato personale di 7,37 m. Longilinea, dotata di grande forza dinamica, Kravets operava però la stessa scelta di Mike Conley: dedicarsi al triplo, considerato che nel salto in lungo erano presenti atlete imbattibili come Drechsler e Joyner Kersee.

La prima grande competizione internazionale di triplo si ebbe ai Campionati del Mondo del 1993, a Stoccarda, con l'affermazione della russa Ana Birjukova che ottenne, oltre al titolo, il primato mondiale di 15,09 m. Alle sue spalle un'altra russa, Yolanda Chen, che sino a quel 21 agosto aveva detenuto il primato mondiale con 14,97 m.

Sospesa per tre mesi per esser stata trovata positiva all'efedrina, Kravets dovette saltare la prima edizione dei Mondiali, ma trionfò ai Campionati del Mondo di Göteborg 1995, dove non soltanto vinse, ma portò il record del mondo a 15,50 m. In quella gara le prime tre atlete ‒ dopo Kravets si piazzarono la bulgara Iva Prandzheva e la russa Ana Biryukova ‒ superarono tutte la misura di 15 m, un risultato eccezionale che non si sarebbe ripetuto alle Olimpiadi di Atlanta, nelle quali Kravets confermò la sua indiscussa leadership, vincendo l'oro con 15,33 m. Una serie di incidenti ‒ uniti all'usura di una lunga pratica agonistica ‒ la obbligarono poi a rimanere per molto tempo lontano dalla pedane.

In quel lasso di tempo stentarono a emergere altre figure dominanti, cosicché la specialità parve attraversare un grigio periodo di stasi, analogamente a quanto stava accadendo nel salto in lungo. Tuttavia mostrarono qualche guizzo di classe diverse giovani atlete, come la bulgara Tereza Marinova, campionessa olimpica a Sydney, a 23 anni, con 15,20 m; la russa Tatyana Lebedeva, campionessa mondiale a Edmonton 2001 con 15,35 m, ma soprattutto Ashia Hansen, britannica di ascendenza giamaicana, che nel 2003 vinse il titolo mondiale indoor a Birmingham.

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