ATOMO

Enciclopedia Italiana (1930)

ATOMO (dal gr. ἄτομος "indivisibile"; fr. atome; sp. átomo; ted. Atom; ingl. atom)

A. Maz.
E. F.

Col nome di atomo la chimica moderna intende quelle minutissime particelle, non ulteriormente divisibili coi mezzi chimici, da cui sono costituiti tutti i corpi materiali: particelle tutte identiche fra loro nei cosiddetti corpi semplici, e diverse nel caso dei corpi composti, dove esisterebbero tante specie di particelle quanti sono i corpi semplici dalla cui unione sono costituiti. Si è sempre ammesso che gli atomi siano straordinariamente piccoli, tanto da sottrarsi, nonché alla percezione diretta dei nostri sensi, all'esame dei microscopî più potenti: con studî relativamente recenti si è anzi arrivati a stabilire il loro peso assoluto, trovando, ad es., che in un grammo atomo di qualunque elemento (cioè in tanti grammi quanti corrispondono al valore numerico convenzionalmente attribuito al suo peso atomico) è contenuto l'enorme numero di 60,6.1022 atomi veri, talché, mettiamo, un atomo di idrogeno (peso atomico 1,008) pesa solo 1,008 : (60,6.1022) = 1,66.10-24 grammi.

Tuttavia la chimica già da molti anni era giunta a stabilire con assoluta sicurezza il peso relativo delle varie specie di atomi, e i rapporti secondo cui essi si riuniscono per formare i composti, precisando anzi quanti atomi contiene la più piccola particella di un composto, o molecola. Il presente articolo è destinato ad esporre il modo come si è arrivati a conoscer tanto.

Leggi stechiometriche. - Ricordiamo alcuni concetti fondamentali della chimica descrittiva. Col nome di sostanza s'indica, anche nel parlare usuale, il materiale di cui sono costituiti i varî oggetti (ferro, marmo, legno, granito, ecc.); precisando meglio i termini, la chimica limita questo nome al caso degli oggetti omogenei in tutte le loro parti, come il ferro e il marmo, escludendo quelli che si mostrano eterogenei (cioè composti di più sostanze) già all'ispezione diretta, come il granito, o all'esame microscopico, come il legno, e definisce una sostanza mediante l'insieme delle proprietà che mostra l'oggetto da essa costituito, escludendo quelle, generiche e variabili accidentalmente, del peso e della forma impartita artificialmente all'oggetto (ma non però la caratteristica forma cristallina che molte sostanze assumono solidificandosi): ossia la chimica definisce la sostanza mediante le proprietà specifiche, colore, opacità e trasparenza, indice di rifrazione, peso specifico, e inoltre sistema cristallino, durezza, fragilità o malleabilità per i solidi, viscosità per i liquidi, ecc. Costituisce proprietà specifica per eccellenza, e tipicamente chimica, la capacità che ha una sostanza di derivare da altre o dare origine ad altre. E si sa che in base appunto a questi criteri tutte le sostanze possono classificarsi in due grandi categorie: individui chimici e soluzioni. I primi sono caratterizzati dal presentarsi sempre con proprietà identiche anche variando arbitrariamente, entro certi limiti, le loro condizioni di preparazione; invece variano, con queste, le proprietà delle soluzioni, le quali, a una ricerca più approfondita, risultano potersi scindere in ogni caso in due o più individui chimici, dalla cui unione in proporzioni variabili risulta appunto la variabilità di proprietà delle soluzioni. Sugli individui chimici, perciò, che, puri o misti, sono i costituenti di tutte le sostanze, deve concentrarsi tutta l'attenzione di chi voglia ricercare la costituzione della materia.

Se le proprietà specifiche fisiche dei singoli individui chimici sono essenziali per individuarli e riconoscerli, è d'altra parte fondamentale e di natura veramente chimica la conoscenza dei nuovi individui chimici a cui essi possono dare origine, sia per decomposizione sotto l'influenza degli agenti fisici: calore, corrente elettrica, luce, sia per reazione con altri individui; e ciò non solo dal lato qualitativo, ma anche e soprattutto da quello quantitativo. Dato che l'individuo chimico è precisamente definito e riconosciuto dalla costanza delle proprietà fisiche, ci si può attendere che siano altrettanto costanti la qualità e la quantità relativa delle nuove sostanze a cui darà origine, e considerare questa costanza come una conseguenza necessaria della prima; ma è meglio evitare questo eccessivo formalismo di deduzioni e considerare simile costanza di rapporti (che l'esperienza mostra effettivamente aver luogo) come un ulteriore ed essenziale carattere dell'individuo chimico. Più precisameme, dando importanza principale a quelle reazioni, più semplici, in cui un individuo chimico si scompone, per la sola azione del calore o della corrente elettrica, in altri, ovvero si genera, per addizione diretta, da altri, e che quindi ne stabiliscono, come si dice, la composizione, si può definire l'individuo, dal punto di vista più specificamente chimico, come una sostanza di composizione qualitativamente e quantitativamente costante, da ciò facendo anzi dipendere la costanza delle proprietà fisiche, e formulando quindi la cosiddetta legge delle proporzioni definite, che è essenziale per la moderna teoria atomica. Essa non è sempre apparsa così ovvia come si è sopra presentata, ma è anzi di origine relativamente recente poiché il suo definitivo accertamento risale a una discussione (interessante anche oggi a leggersi per la finezza delle argomentazioni e l'ingegnosità delle prove sperimentali addotte) fra Proust e Berthollet (1803). Questi, che può considerarsi il creatore della moderna teoria degli equilibrî, nel suo geniale tentativo di applicare le leggi della meccanica ai processi chimici era andato troppo oltre, ammettendo che dalle condizioni fisiche di temperatura, concentrazione, durata dell'azione, ecc. dipendesse, non solo il rendimento pratico delle reazioni, ma anche la composizione degl'individui chimici che se ne ottenevano, e a cui negava perciò le proporzioni definite dei costituenti; conclusione per lui tanto più ovvia, in quanto egli, a differenza delle vedute moderne, metteva su uno stesso piano i veri individui chimici e le soluzioni. La discussione finì con la vittoria del Proust, che stabilì nettamente la distinzione fra queste due categorie di sostanze, e mostrò che in certi casi, addotti come particolarmente probativi dal Berthollet (quale l'ossido di piombo, che a seconda del suo arroventamento all'aria più o meno prolungato contiene proporzioni diverse di ossigeno) si trattava di semplici miscugli meccanici la cui natura era più difficile del solito a stabilire. Ma oltre che dalla costanza dei rapporti le trasformazioni chimiche sono rette da un'altra legge, pure essenziale per la teoria atomica, e cioè la conservazione della massa (o, come spesso meno propriamente si dice, del peso, dato che il chimico misura sempre le masse mediante pesate sulle bilancie) nelle reazioni chimiche. Se cioè si raccolgono e pesano tutte le sostanze iniziali e tutti i prodotti finali di una reazione, si trovano valori identici entro i limiti degli errori sperimentali. E questa regola è utilissima: 1) nel caso di analisi particolarmente delicate (quali sono appunto quelle che servono a stabilire i pesi atomici) per controllo dei risultati; 2) nella pratica corrente, pei dosamenti per differenza, come quando, per es., si determina indirettamente l'acqua dalla perdita di peso che una data quantità di sostanza subisce per riscaldamento prolungato. La legge della conservazione della massa fu stabilita dal Lavoisier (1775) che interpretò, col suo aiuto, le alterazioni, apparentemente così contraddittorie, delle sostanze all'aria, dove alcune aumentano di peso, come il ferro che arrugginisce, altre calano, come il legno che brucia, mostrando che occorre tener conto del peso d'ossigeno assorbito dall'aria, ovvero dei prodotti volatili della combustione che nell'aria si disperdono. Con questi suoi studî il Lavoisier poneva le basi della chimica quantitativa, o, come si dice, della stechiometria (parola derivante dal termine greco στοιχεῖα, già usato da Platone a indicare i componenti ultimi della materia). La esattezza rigorosa della conservazione della massa (a meno di 1-3 millesimi di mmgr. su un peso totale di 200-300 gr.) fu sperimentalmente posta fuori dubbio dal Landolt (1901-1907) e dall'italiano Lo Surdo (1904) ponendo i reattivi nelle due branche di un tubo a ⋃, poi chiuso alla lampada, pel cui rovesciamento si determinava la reazione.

Stabilito quanto precede, sorge la questione del modo più opportuno di rappresentare la composizione d'un individuo chimico, il quale, potendo in generale ottenersi da sostanze diverse, verrebbe a essere espresso, con uguale diritto, da composizioni qualitativamente e quantitativamente diverse. Così il solfato di piombo può ottenersi da litargirio e anidride solforica nelle proporzioni di 73,59 dell'uno e 26,41 dell'altra per ogni 100 parti di solfato, ovvero anche da 78,87 parti di ossido bruno di piombo e 21,13 di anidride solforosa, ecc. Per realizzare la massima semplicità e generalità si sceglieranno come componenti le sostanze più semplici, che cioè non risultino composte da altre: così nell'esempio precedente si scarterebbe l'ossido bruno, che risulta composto di litargirio e ossigeno, in cui può scindersi, e l'anidride solforica, che può scindersi in anidride solforosa e ossigeno; e poiché il litargirio stesso può ottenersi da piombo e ossigeno, e l'anidride solforosa da zolfo e ossigeno, si prenderebbero provvisoriamente come componenti del solfato di piombo l'ossigeno, il piombo e lo zolfo, salvo poi il vedere se queste sostanze sono suscettibili di ulteriore scissione. Ciò si è dimostrato impossibile, e in generale eseguendo sistematicamente simili esperienze di scissione in sostanze sempre più semplici si è trovato che si arriva a un numero assai limitato di sostanze, ulteriormente indecomponibili coi mezzi del chimico, che si usa chiamare corpi semplici o elementi, intendendosi col nome di corpi, o meglio sostanze semplici le sostanze materiali vere e proprie (ad es., il fosforo giallo usuale, o quelli rosso o nero che se ne possono ottenere con adatti trattamenti fisici), mentre l'elemento rappresenta quel quid che si trova nella sostanza semplice e in tutti i composti che ne derivano. Degli elementi tratta specificamente l'articolo apposito, al quale si rimanda, notando solo che dal punto di vista della stechiometria è fondamentale il principio, dedotto dall'esperienza, della conservazione degli elementi, nel senso che partendo da un sistema di sostanze, di cui per analisi precedenti si conosca la qualità e quantità dei varî elementi contenutivi, qualunque siano poi i trattamenti fisici e le reazioni vicendevoli cui esse sono sottoposte si arriva sempre a un sistema di sostanze che contiene la medesima qualità e quantità di elementi. Perciò il principio generale della conservazione della massa nelle reazioni chimiche può opportunamente ricondursi a quello della conservazione delle masse dei singoli elementi. La moderna definizione di elemento si trova per la prima volta nel Traité de Chimie del Lavoisier (1789), sebbene, come si è sopra ricordato, già Boyle avesse affermato la necessità di stabilire questo concetto in base alla sola esperienza.

Per tal modo tutti gl'individui chimici sono o sostanze semplici, o composti derivanti dall'unione di due o più elementi. Rimandando all'articolo speciale per i metodi pratici dell'analisi, diamo qui un esempio del modo di calcolare i risultati. Facendo passare, a caldo, cloro fino a rifiuto su gr. 1,6341 d'argento se ne ottiene gr. 2,1712 di cloruro d'argento, di cui perciò 100 parti (secondo la proporzione 2,1712 : 1,6341 = 100 : x = 75,26) contengono 75,26% di argento e quindi 100 − 75,26 = 24,74% di cloro. D'altra parte gr. 1,4138 di cloruro sodico con eccesso di nitrato di argento dànno 3,4664 gr. di cloruro di argento, contenenti dunque 3,4665.0,2474 = 0,8576 di cloro. La solita proporzione (1,4138 : 0,8576 =100 : x = 60,66) ci insegna che il cloruro sodico contiene 60,66% di cloro, il resto (39,34%) potendo affermarsi che è sodio, se da altri saggi sperimentali sappiamo che la sostanza contiene solo questi due elementi. Analogamente per qualunque altra sostanza potrebbe stabilirsi la composizione percentuale. Ma questa, se anche assai comoda per la pratica, è poco adatta per gli studî stechiometrici: se, per cominciare dai casi più semplici, si esamina una serie di combinazioni di un dato elemento con un altro, converrà riferirsi a quantità costanti del primo perché così appariranno meglio l'eventuale regolarità. Berzelius, che può dirsi il padre della moderna stechiometria, si riferiva all'ossigeno, posto uguale a 100, ma in seguito Gmelin, riprendendo l'uso originale di Dalton, propose di riferirsi all'idrogeno posto uguale a 1, poiché questo elemento compare quasi sempre con le percentuali minime; ma se tuttavia per gli usi pratici si voglia ancora usare l'ossigeno (che dà composti con quasi tutti gli elementi, mentre l'idrogeno solo con pochi) si potrà considerare che nel composto più stabile fra questi due elementi, l'acqua, con 1 parte di idrogeno si uniscono circa 8 di ossigeno (come risulta dalle percentuali rispettive, 11,19 e 88,81 e dalla proporzione: 11,19 : 88,81 = 1 : x = 7,94) e quindi porre l'ossigeno uguale ad 8. Si trova allora (con le solite regole del tre) che con 8 parti di ossigeno si combinano le seguenti quantità (limitate, per abbreviare, alla prima decimale) di varî elementi metallici per dare gli ossidi corrispondenti.

Queste, perciò, sono le quantità dei varî elementi che equivalgono chimicamente a 8 parti di ossigeno (nel senso che vi si combinano senza residuo) ovvero anche che si equivalgono fra loro (nel senso che tutte si combinano con una stessa quantità, 8 parti, di ossigeno). E tale equivalenza, fatto notevolissimo, vale anche verso gli altri elementi: queste stesse quantità, infatti, si combinano con 35,5 parti di cloro, o 127 di iodio, o 16 di zolfo, ecc., talché si può stabilire in generale la legge che ogni elemento possiede un peso equivalente (o di combinazione) secondo cui si combina con tutti gli altri. Ma due elementi possono dare fra loro anche molti composti; progressivamente più ricchi rispetto all'uno dei due, e può ben supporsi che lo stesso equivalente che valeva per la unione diretta degli elementi valga per l'addizione ulteriore di uno di essi al primo composto; questo è ciò che l'esperienza conferma, poiché per es. l'ossido ramoso, con 63,6 parti di rame contro 8 d'ossigeno, può considerarsi derivante dall'addizione d'un equivalente di rame (31,8) all'equivalente composto (31,8 rame + 8 ossigeno) dell'ossido ramico, e lo stesso si dica dell'ossido stannoso, 29,8 stagno + (29,8 stagno + 8 ossigeno), o, caso un po' più complicato, dell'ossido ferroso, 18,6 ferro + 2 (18,6 ferro + 8 ossigeno), ossia 3 × 18,6 ferro+2×8 ossigeno. Particolarmente tipico, e uno dei primi osservati in ordine storico, è il caso degli ossidi di azoto, dove, fissato mediante il composto più povero in ossigeno l'equivalente 14 per l'azoto, quelli successivi contengono 16, 24, 32, 40 parti di ossigeno, numeri cioè di cui ognuno deriva dal precedente per addizione dell'equivalente 8. E la medesima regola vale per i composti ternarî e successivi: così, dal solfuro di sodio si possono derivare due composti ossigenati, e, posto 23 sodio+16 zolfo il suo equivalente composto, le quantità di ossigeno unite ad esso sono 24 e 32, cioè 3 × 8 e 4 × 8. Arriviamo così alla legge delle proporzioni multiple, che può formularsi in modo da includere anche quella degli equivalenti dicendo che tutti gli elementi si combinano fra loro secondo multipli interi (inclusa l'unità) dei loro equivalenti.

Queste regolarità, e le altre precedentemente vedute, trovano un'interpretazione completa nella teoria atomica. Basta ammettere cioè che la materia è composta di particelle minutissime, indivisibili sotto le azioni chimiche, di cui esiste una novantina di specie, quanti sono gli elementi, ognuna di esse diversificandosi dalle altre per le proprietà e il peso, che sono invece identici entro la stessa specie. Così si spiega infatti: la conservazione degli elementi e della massa; la costanza di proprietà e composizione degl'individui chimici, ognuno di essi risultando dall'unione di atomi determinati come specie e come numero; la legge delle proporzioni multiple, giustificata dalla considerazione che gli atomi, essendo indivisibili, possono unirsi fra loro soltanto secondo numeri interi. Si spiega pure la natura delle sostanze a composizione variabile, o soluzioni, le quali sarebbero mescolanze intime, in proporzioni variabili, di quegli aggruppamenti atomici che costituiscono gl'individui chimici. Ma da questo pure risulta che non basta ammettere una ripartizione uniforme di tutti gli atomi costituenti un composto chimico (come a rigore basterebbe per i solidi, e come infatti afferma la teoria modernissima sulla costituzione dei cristalli), ma è necessario ammettere che gli atomi eterogenei si raggruppino in tante piccole individualità separate, o molecole, che possono mescolarsi fra loro, senza cambiare costituzione e natura, nelle soluzioni, e che possono, aggiungiamo, esistere indipendenti, a grandi distanze medie, nello stato aeriforme. In altre parole, la materia è composta di molecole, e queste di atomi, tutti uguali (nei corpi semplici), o disuguali (nei composti). Sulla teoria atomica è pure basato il noto sistema delle formule chimiche (che del resto si reggerebbe già col solo concetto sperimentale di equivalente): rappresentare ogni elemento con le iniziali del suo nome latino, attribuendo inoltre a questo simbolo il valore numerico del peso atomico, talché l'aggruppamento dei varî simboli, eventualmente anche corredati di indici, esprime insieme la qualità e la quantità degli elementi contenuti in un composto, e il peso (relativo) della sua molecola. Così (anticipando i valori dei pesi atomici oggi accettati) la formula dell'acido solforico H2SO4 (cioè 2H+S+4O) vuol dire che in una molecola sono contenuti 2 atomi di idrogeno, 1 di zolfo, 4 di ossigeno, e al tempo stesso, dal punto di vista quantitativo, che di fronte a 2 parti di idrogeno esso acido contiene 32 di zolfo e 64 di ossigeno, e che la sua molecola pesa 2+32+64 = 98, se si ammette 1 il peso di un atomo di idrogeno.

Naturalmente però occorre sapere quale valore deve prendersi per peso atomico; se gli elementi formassero, a due a due, un solo composto binario, e a tre un ternario, ecc., la difficoltà sarebbe meno appariscente, e si potrebbe tentare di identificare il peso atomico con l'equivalente: ma i composti a proporzioni multiple rendono necessario un criterio selettivo.

Conviene rendersi ben chiaro, poiché è cosa fondamentale per la comprensione della teoria atomica e del sistema di formule che ne deriva, come a seconda del peso atomico adottato per un elemento variano le formule dei suoi composti, e viceversa a seconda delle formule attribuite ai suoi composti varia il peso atomico dell'elemento. Così, riferendosi ai due ossidi del rame, sopra veduti, se, posto provvisoriamente 8 il peso atomico dell'ossigeno, si ammette sia 31,8 quello del rame, le formule dei due ossidi sono CuO e Cu2O rispettivamente: se invece si ammette (come altre volte si fece) che la formula dell'ossido più ricco in metallo deve essere CuO2 (e quindi CuO quella dell'altro) si viene con ciò a stabilire che il peso atomico del rame è 63,6 (O = 8).

Questo criterio è dato da una legge (o, come si usa dire in questo caso, da una regola) formulata dall'italiano Amedeo Avogadro (1811) e dedotta da una legge sperimentale, trovata poco prima dal Gay Lussac, secondo cui nelle reazioni ove intervengono sostanze gassose, fra i volumi dei gas che si combinano fra loro o che si originano dalla reazione (misurati tutti alla stessa pressione e temperatura, dalle quali, come si dimostra nell'articolo sui gas, dipende molto il volume) esiste in ogni caso un rapporto numerico assai semplice. Così, un volume d'idrogeno + un volume di cloro dànno due volumi di gas cloridrico, due volumi di idrogeno e uno di ossigeno ne dànno due di vapore acqueo (eseguendo le misure a 100°), due volumi di ammoniaca si scompongono in uno di azoto e tre di idrogeno, ecc. Ora, tutte le reazioni chimiche devono aver luogo fra molecole, e fra un numero piccolo di esse nel caso di sostanze come le sopracitate che, essendo gassose a temperatura ordinaria e molto stabili, devono aver molecole leggere e composte di pochi atomi. Se dunque fra le molecole reagenti deve aversi una relazione numerica semplice, e una relazione numerica semplice esiste, sperimentalmente, fra i volumi che le sostanze reagenti occupano allo stato gassoso, dovrà aversi pure una relazione semplice fra questi volumi e il numero di molecole in essi contenute. La più semplice, evidentemente, è quella che in volumi uguali sia contenuto un numero uguale di molecole, e questa conclusione, basata così dall'Avogadro su ragionamenti d'ordine chimico, è stata poi rigorosamente dimostrata (dal 1860) dalla teoria cinetica dei gas (v.). Ammesso ciò, il rapporto dei volumi gassosi (qui, e sempre in seguito, a uguale temperatura e pressione) dà direttamente il rapporto delle molecole, e il rapporto dei pesi di volumi uguali (ossia, dei pesi specifici) dà direttamente il rapporto dei pesi delle molecole. Se infatti in un litro di qualunque gas esistono N molecole vere e se due gas si combinano nel rapporto di 1 a n litri, le molecole reagenti sono N e nN rispettivamente, e il loro rapporto è N/nN = 1/n, come i volumi; e se un litro di un gas pesa Q, e di un altro pesa Q1, i pesi di una molecola sono rispettivamente Q/N e Q1/N, numeri che stanno fra loro nel rapporto Q/N : Q1/N = Q : Q1, come i pesi di un litro. È acile vedere come tutto ciò possa valere a fissare i pesi atomici. Riferendoci infatti agli esempî precedenti, possiamo ora affermare che una molecola di idrogeno reagendo con una di cloro dà 2 molecole di acido cloridrico: ciò vuol dire che la molecola di ognuno dei due elementi è divisibile in due parti, ossia contiene due atomi, o, per esser più generali, un numero pari di atomi; e se, come avviene in realtà, noi non incontreremo mai una reazione fra sostanze gassose in cui una molecola di idrogeno o di cloro (cioè un volume) reagendo con altre ne dia più di due (cioè 4, o 6, ecc.) di nuovo composto ciò vorrà dire che realmente 2 sono gli atomi contenuti in queste molecole, e le loro formule sono H2 e rispettivamente Cl2, e quindi, anche, la formula dell'acido cloridrico è HCl, conforme alla reazione H2+Cl2 = 2HCl. In questo caso dunque l'equivalente e il peso atomico coincidono. Ancora: una molecola di acqua (un volume gassoso) secondo i numeri sopraindicati è formata da una molecola di idrogeno (un volume), di formula H2, e mezza molecola (o volume) di ossigeno, che perciò consterà anche essa di un numero pari di atomi, e precisamente di 2, poiché, anche qui, non si conosce reazione in cui un volume di ossigeno si ripartisca in più che due volumi di composto: la formula molecolare dell'ossigeno è perciò O2, e quella dell'acqua H2O. E poiché si è visto che nell'acqua a 1 parte di idrogeno corrispondono 8 di ossigeno, e quindi a 2 corrispondono 16, e 2 è per definizione il peso di due atomi di idrogeno, dedurremo che 16 è il peso atomico dell'ossigeno (e 32 il peso della sua molecola O2): qui dunque l'equivalente è la metà del peso atomico. E così via. Ed è facile vedere che non è neppur necessario stabilire, caso per caso, i rapporti in volume, ed applicarvi i ragionamenti precedenti: basterà, come propose Cannizzaro (1858), determinare i pesi di volumi uguali del maggior numero possibile di composti di un elemento di cui si vuol stabilire il peso atomico (pesi che saranno proporzionali ai rispettivi pesi molecolari, v. sopra) e calcolare, in base alle analisi, la quantità dell'elemento in essi contenute: la più piccola ci rappresenterà, in misura relativa, il peso atomico, poiché fra tanti composti ce ne sarà certamente uno dove l'elemento in questione figuri con un atomo solo. I calcoli poi si semplificheranno, e si avrà direttamente il peso atomico nel sistema da noi scelto (e cioè H = 1, H2 = 2, O2 = 32, ecc.) se ci riferiremo a un volume tale da contenere la grammi-molecola (ossia, tanti grammi quanto è il valore numerico del peso molecolare) di uno di questi elementi, p. es. l'ossigeno. In questo stesso volume infatti, secondo la regola di Avogadro deve essere contenuta una grammi-molecola di qualsiasi individuo chimico, e il minimo numero di grammi di un dato elemento contenutovi sarà senz'altro il suo grammo-atomo, cioè rappresenterà, numericamente, il suo peso atomico. In particolare se ci riferiamo ai pesi specifici a 0° e 760 mm. (cioè nelle condizioni cosiddette normali in cui si usa determinare il peso specifico delle sostanze gassose a temperatura ordinaria o ricondurvi quello delle sostanze gassificabili a temperature superiori, secondo le formule che si troveranno nell'articolo sui gas) si trova che un litro di ossigeno pesa gr. 1,4290, e quindi che il suo peso grammi-molecolare è contenuto in 32 : 1,4290 = 22,39 litri. Ripetendo il calcolo per altri gas non si trovano valori identici, ma un po' diversi (22,40 per l'idrogeno, 22,45 per l'azoto, 22,23 per l'acido cloridrico ecc.) perché nessun gas reale segue esattamente le leggi dei gas "perfetti", per i quali solamente la legge di Avogadro vale con assoluto rigore. Per questi si calcolerebbe un volume normale di 22,411 litri, mentre per la pratica basta ammettere il numero 22,4, che moltiplicato per il peso specifico della sostanza aeriforme, ridotto a o° e 760 mm., dà, approssimativamente, il suo peso grammi-molecolare. Naturalmente i pesi atomici che se ne deducono secondo la regola pratica di Cannizzaro sono anch'essi più o meno inesatti, ma è facile rettificarli tenendo conto che devono essere multipli interi del peso equivalente, il cui valore l'analisi quantitativa ci fornisce con esattezza assai maggiore. La seguente tabella esemplifica quanto si è sopra esposto. Nella prima colonna è il nome di un composto fluorurato, nella seconda il suo peso specifico gassoso normale, nella terza il peso grammi-molecolare, nella quarta la quantità di fluoro contenutavi (in base all'analisi), nella quinta il peso atomico che se ne deduce (dividendo tale quantità rispettivamente per 1, 2, 3, 4). Il valore esatto, dedotto dall'equivalente ponderale, è F = 19,0.

Per alcuni aeriformi meglio studiati è possibile ricondurre i loro pesi specifici al valore che mostrerebbero se seguissero le leggi dei gas perfetti, e quindi calcolarne il peso molecolare, e da esso il peso atomico, con una precisione uguale, o superiore, a quella dell'analisi ponderale. Questi studî si devono principalmente alla scuola di Ph. Guye (Ginevra) e si riferiscono a O2, N2, NO, CO, CH4, HCl, HBr, ecc.

Anche per i gas inerti (argo, elio, ecc.) che non dànno composti, e ai quali perciò la norma di Cannizzaro non sarebbe applicabile, la regola di Avogadro permise di stabilire il peso atomico, con l'aiuto di un teorema della teoria cinetica dei gas (già verificato nel caso del mercurio), secondo cui per le molecole costituite di un atomo solo il rapporto fra il calore molecolare a pressione costante e quello a volume costante è 1,66, mentre è minore per le poliatomiche: i gas inerti mostrano il valore 1,66, e perciò il loro peso atomico coincide col peso molecolare.

La regola di Avogadro dà per tal modo la norma fondamentale secondo cui stabilire i pesi atomici degli elementi; ma la sua applicazione pratica può essere incerta o impossibile per gli elementi che diano pochi o nessun composto gassificabile. In questi casi aiutano altri criterî secondarî; uno di questi è l'isomorfismo. Come è meglio spiegato sotto questa voce, esso consiste nel fatto che i composti chimici che hanno formula uguale (e inoltre una certa analogia nel comportamento chimico) cristallizzano per lo più in forma uguale come habitus, come sistema cristallino e come valore numerico degli assi (che, se non sempre identici, sono almeno assai vicini). Tale regolarità, naturalmente, fu stabilita anzitutto nel caso di elementi il cui peso atomico era stato dedotto, più o meno direttamente, dalla regola di Avogadro; così, per l'arseniato e fosfato bisodico, Na2HAsO4 12H2O; Na2HPO4 12H2O, dove gli elementi disuguali, arsenico e fosforo, si trovano appunto in questo caso, mentre per gli altri comuni, idrogeno, ossigeno, sodio, poiché vi si trovano in proporzioni uguali, una eventuale variazione del peso atomico si rifletterebbe ugualmente sulle due formule e ne lascerebbe inalterata la analogia (come infatti, quando Mitscherlich scoperse questo caso di isomorfismo, si scriveva, attribuendo al sodio un peso atomico doppio dell'attuale, NaHAsO4, ecc.). Ciò posto, si supponga accertato l'isomorfismo dell'ossido di alluminio con quello ferrico, a cui, per altre considerazioni, sia già assegnata la formula Fe2O3; anche il primo dovrà avere la formula Al2O3, e poiché il suo equivalente (peso di combinazione con 8 parti di ossigeno) è circa 9, con tre atomi di ossigeno (cioè 3 × 16 = 48 parti) saranno combinate 54 parti di alluminio (secondo la proporzione 8 : 9 = 48 : x = 54) e queste corrisponderanno a due atomi, e il peso di uno sarà circa 27.

Un altro criterio ancora, e di carattere strettamente atomico, è dato dalla legge di Dulong e Petit. Questi due fisici trovarono nel caso di alcuni corpi semplici solidi (il cui peso atomico era stato stabilito già per altre vie) che il "calore atomico", cioè le calorie necessarie per innalzare di 1° la temperatura di un grammo-atomo (che si ha semplicemente moltiplicando per il peso atomico A il calore specifico c di un grammo) ha un valore all'incirca costante e precisamente, coi pesi atomici attuali, fra 6,0 e 6,6 ossia A × c = 6,3 ± 0,3. Ammessa questa legge, se si ha un metallo a peso atomico sconosciuto basterà determinarne il calore specifico e dividere 6,3 per questo numero: il quoziente, ossia 6,3/c = A, sarà il valore approssimato del peso atomico, che è facile rettificare, sapendo che deve essere un multiplo intero dell'equivalente, ottenibile con tutta precisione dall'analisi ponderale. Così nel caso dell'indio l'equivalente ponderale è 38,3, il calore specifico è 0,056, il peso atomico approssimato 6,3/0,056 = 113,5, e quello esatto 38,3 × 3 = 114,9.

Non tutti gli elementi, è vero, seguono la legge di Dulong e Petit (che è limitata, in ogni caso, allo stato solido): la massima parte dei metalloidi e qualche metallo a peso atomico basso mostrano valori troppo bassi: così, berillio 3,83; boro 2,72; carbonio (diamante) circa 2; silicio 5,4; fosforo 5,5; zolfo 5,6. Nell'articolo sullo stato solido, ove è data la teoria della legge di Dulong e Petit, è spiegata questa anomalia, che tuttavia in pratica non è molto nociva, in quanto i metalloidi dànno numerosi composti volatili, cui può applicarsi direttamente la regola di Avogadro, mentre per i metalli a peso atomico alto, che per lo più non ne dànno, detta legge si verifica bene. Assai utile per la pratica è la estensione di essa ai composti, poiché ben sovente non è facile (e lo era ancor meno nel passato) procurarsi un campione puro dell'elemento libero, mentre i composti sono assai più accessibili. Woestyn, e poi, con misure più estese, Kopp trovarono che il calore molecolare (calore specifico × peso molecolare) è all'incirca uguale alla somma dei calori atomici degli elementi; in questo caso, come del resto sempre ove si tratta di solidi, per peso molecolare si intende la minima quantità che contiene, in misura relativa, un numero intero di atomi degli elementi componenti. Questa seconda legge serve a due scopi: 1) procurare un, sia pur fittizio, calore atomico allo stato solido anche per quei metalloidi, come ossigeno e cloro, che, gassosi alla temperatura ordinaria, dànno tuttavia i composti metallici più stabili e facili a preparare: basta determinare il calore molecolare dell'ossido di un metallo di cui sia già noto il peso e il calore atomico, e sottrarre quest'ultimo (se la formula è MeO: ma è facile generalizzare la regola). Esempio: calore atomico dello zinco 6,1: calore specifico dell'ossido ZnO 0,1249, che moltiplicato per il peso molecolare (65,4+16) dà 10,2: detratto 6,1 resta 4,1, calore atomico dell'ossigeno, valore di cui si fa la media con quelli trovati, analogamente, con altri ossidi. E simili ragionamenti potremmo ripetere per cloro, fluoro, ecc.; 2) secondo scopo è il calcolare, con questi valori, il peso atomico (approssimato) di un metallo il cui ossido abbia il calore specifico c. Ne sia E l'equivalente ponderale, cioè la quantità che si combina con 8 parti di ossigeno: col peso atomico di questo, 16, ne saran combinate 2E parti, e la capacità calorifica di questa quantita, espressa in grammi, sarà c(2E + 16) = Cm. Detratto 4,0, calore atomico medio dell'ossigeno, resta Cm − 4,0 = Ce, che spetta a 2E gr. di elemento, il cui calore specifico è quindi Ce/2E = ce, e conseguentemente il peso atomico approssimato sarà 6,3/ce = A, che si rettifica come sopra.

Ecco la lista degli elementi (esclusi i radioattivi isotopi, v. oltre), coi loro simboli e pesi atomici. Questi sono oggi riferiti all'ossigeno, posto convenzionalmente O = 16,000, anziché all'idrogeno, posto H = 1,008. E ciò perché, praticamente, i pesi atomici di tutti gli elementi vengono dedotti, per via diretta o indiretta, dall'analisi di combinazioni ossigenate, mentre poi il rapporto ossigeno-idrogeno è fra i più difficili a stabilire: fissato il peso atomico dell'ossigeno, la corrispondente incertezza si ripercuote solo sul peso atomico dell'idrogeno, mentre si rifletterebbe su tutti gli altri elementi ponendo H=1.

Cenni sulla storia della teoria atomica nel sec. XIX. - Si è visto, nell'introduzione, come la concezione atomistica della materia si andò sviluppando fino al sec. XVIII; ma la sua applicazione precisa alla chimica è merito esclusivo dell'inglese John Dalton (1766-1848). Basandosi su analisi, e neppur molto esatte anche relativamente a quei tempi, secondo cui nel metano e nell'etilene i pesi di idrogeno uniti a uno stesso peso di carbonio stavano fra loro all'incirca nel rapporto 2 : 1, egli formulò la legge delle proporzioni multiple (che confermò poi con i risultati di altre analisi, sue e di altri) e di essa diede l'interpretazione atomica, affermando che quei rapporti relativi, 1 : 2, 1 : 1, rappresentavano i rapporti secondo cui gli atomi di carbonio si univano agli atomi di idrogeno. Se la deduzione della legge delle proporzioni multiple da così mediocre materiale fu già un'ardita intuizione, l'interpretazione che egli ne diede fu un vero tratto di genio, con cui stabilì le basi sicure della moderna atomistica; e di fronte all'esuberante sviluppo che essa attualmente ci mostra non si può che considerare con reverente ammirazione la semplice e disadorna frase con cui presentò le sue considerazioni: "per quanto è a mia conoscenza, il problema sul peso relativo delle ultime particelle dei corpi è completamente nuovo"; frase che ben si accorda con tutta la vita, intessuta di lavoro e di disinteresse, di questa austera figura di scienziato. Bisogna infatti tener presente che a quei tempi non era nemmeno accertata la costanza di composizione degl'individui chimici (messa in dubbio, secondo vedemmo, da un uomo come Berthollet) e dovevano perciò essere assai vaghe le idee sui rapporti di combinazione degli atomi. È probabile si ritenesse che già ogni particella di composto binario fosse composta da un numero grande imprecisabile di atomi sia dell'uno che dell'altro elemento, dal momento che noi vediamo come ancora nel 1876 un oppositore della teoria atomica, l'illustre Sainte-Claire Deville, considerava la possibilità che l'ossidulo di ferro (ove l'atomistica ammette un rapporto 1 : 1) fosse composto da 999 atomi di ferro e 1000 di ossigeno, e l'ossido ferrico (per il quale si ammette il rapporto 2 : 3) ne avesse rispettivamente 2000 e 2994. Da un simile punto di vista non è possibile stabilire formule atomiche, poiché, riportandosi alla composizione percentuale (solo dato che l'analisi ci fornisca), le differenze fra i rapporti complicati e quelli semplici rientrano nei limiti degli errori sperimentali. Sommo merito del Dalton è invece l'avere affermato che quando due elementi si combinano fra loro ciò ha luogo anzitutto nei rapporti atomici più semplici, 1 : 1; 1 : 2; 1 : 3; 1 : 4; 2 : 3, ecc., solo ulteriormente, nel caso di una serie numerosa di composti, passandosi a rapporti più complicati (e analoghe regole valgono, naturalmente, per i composti di tre o quattro specie di atomi diverse). In tal modo infatti, riferendosi innanzi tutto a quei composti che per essere più stabili e facili a ottenere autorizzano la presunzione di un rapporto atomico semplice, si hanno da considerare solo poche formule atomiche, fra cui non sarà troppo difficile la scelta aiutandosi con altri criterî. E ciò appunto fece il Dalton e, in scala assai più vasta, lo svedese Jöns Jakob Berzelius, della cui opera principalmente ci occuperemo. Prima di Dalton, la legge degli equivalenti (non però quella delle proporzioni multiple) era stata riconosciuta da J. B. Richter (1792) in base al fatto che nelle doppie decomposizioni saline (ad es. K2SO4+PbN2O6 = PbSO4+2KNO3) partendo da due sali neutri si ottengono pure sali neutri, senza che rimanga un eccesso di acido o base liberi; ma i suoi risultati rimasero sconosciuti al Dalton.

Fra i criterî che aiutano a fissare i pesi atomici vedemmo che è fondamentale la regola di Avogadro. Questo scienziato la formulò nel 1811 (e la illustrò e applicò poi in molte memorie successive) basandosi esclusivamente sulla chiara interpretazione che con essa veniva a darsi della legge dei volumi del Gay Lussac (e non già, come erroneamente si vede tal volta affermato, sulla uniformità di comportamento fisico dei gas, che non sarebbe argomento sufficiente). Ma il concetto veramente geniale e suggestivo in essa implicito, e cioè che non solo le molecole dei composti ma anche quelle dei corpi semplici possono constare di più atomi (o "molecole integranti", come le chiamava l'Avogadro, per distinguerle dalle "molecole composte", corrispondenti alle nostre molecole) non trovò seguito presso i suoi contemporanei, che ammettevano invece che le molecole dei corpi semplici dovessero constare sempre di un atomo solo. Per questa ragione il Dalton, che nel 1808 aveva già ammesso la possibilità che in volumi uguali di gas fosse contenuto un numero uguale di molecole, la scartò in considerazione del caso dell'ossido di azoto, dove un volume di ossigeno e uno di azoto ne dànno due di composto, secondo la nostra equazione N2+O2 = 2NO (mentre per lui avrebbero dovuto darne uno solo, secondo la equazione: una molecola monoatomica [un volume] di ossigeno+una molecola monoatomica [un volume] di azoto = una molecola [un volume] di ossido di azoto), e giunse anzi alla conclusione estrema che fra i numeri di molecole contenuti in volumi uguali di gas non esisteva nessuna relazione necessaria. Berzelius, d'altra parte, pur mantenendo la regola dell'ugual numero di molecole per i corpi semplici, dedusse (1813) da casi come il sopracitato che i composti invece potevano contenere, in ugual volume, un numero di molecole metà, un quarto, ecc. (o piuttosto, secondo la frase di allora, che le loro molecole occupavano un volume doppio o quadruplo di quelle degli elementi). Fra i due, si sarebbe tentati a ritenere più prossimo al vero il Berzelius, ma in realtà mostrò più sicuro senso fisico il Dalton, che della natura dei gas aveva assai più profonda conoscenza (a lui si deve, come è noto, la legge dell'additività delle pressioni nelle miscele gassose) poiché con quella sua ultima conclusione mostrò di intuire che la legge dell'ugual numero di molecole in volumi uguali doveva accettarsi totalmente, senza accomodamenti opportunistici, ovvero respingersi in blocco. Vediamo così che la parte veramente essenziale della regola di Avogadro fu interamente sua, e che, a differenza del Dalton, egli non ebbe precursori; ebbe solo imitatori, e tardi, né varrebbe la pena di menzionarli se per lungo tempo, non solo all'estero (che è comprensibile) ma purtroppo anche in Italia il nome di Avogadro non fosse stato regolarmente accompagnato (e per lo più, preceduto) da quelli di Ampère e di Gaudin. L'Ampère, illustratosi poi per le sue leggi elettrodinamiche, pubblicò nel 1814 una nota preliminare (non mai ripresa) sulla forma delle molecole in relazione alla struttura cristallina, ove, considerando anzitutto i gas, come di costituzione più semplice, ammise (concetto non originale ormai) che in essi le molecole si trovassero sempre a uguale distanza (a pari temperatura e pressione) e che constassero, anche negli elementi, di almeno quattro atomi (come numero minimo necessario a determinare una forma tridimensionale di tetraedro): concetto altrettanto arbitrario quanto la monoatomicità obbligata di Berzelius, ma che gli permise d'interpretare casi come quello dell'ossido d'azoto o dell'acido cloridrico (le cui reazioni di formazione sarebbero allora O4+N4 = 2O2N2 e H4+Cl4 = 2H2Cl2). E dal medesimo punto di vista artificioso partì Gaudin (nel 1833), solo rinunciando al minimo di quattro atomi.

Ritornando al Berzelius, anche quel poco che egli ammise della legge, cui il nostro grande e modesto italiano aveva poco prima dato la forma definitiva, bastò, come oggi si può bene affermare, a costituire la salda base su cui costruì poi quel suo sistema di pesi atomici che è ancora, essenzialmente, quello attuale. Infatti i soli corpi semplici di cui allora si conosceva la densità gassosa erano quattro, e tutti a molecola biatomica (idrogeno, ossigeno, azoto e cloro, anche se della natura elementare di questo per un certo tempo il Berzelius dubitò) per cui il rapporto delle loro densità (e quindi, secondo Avogadro, dei loro pesi molecolari) era al tempo stesso il rapporto dei loro pesi atomici (secondo la ovvia proporzione H2 : O2 : N2 : Cl2 = H : O : N : Cl). Perciò egli ebbe subito a sua disposizione quattro pesi atomici esatti, e quindi anche, per via più o meno diretta, le formule esatte dei loro composti, come l'acqua, l'ammoniaca, gli ossidi e da essi gli acidi dell'azoto, l'acido cloridrico e gli ossiacidi del cloro, tutte sostanze importantissime per le loro svariate funzioni chimiche e gli innumerevoli derivati cui dànno origine, e, nei riguardi speciali della teoria atomica, per la varietà delle loro formule, che servirono di modello al Berzelius per arguirne quelle di altri composti. Questo scienziato infatti fino dal 1807 si era proposto di stabilire la composizione del maggior numero possibile di sostanze, e loro eventuali relazioni; e la conoscenza, che ebbe verso il 1811, della legge delle proporzioni multiple e della teoria atomica daltoniana (che immediatamente adottò) diede un indirizzo sicuro alle sue ricerche, che furono in tal modo dirette a stabilire i pesi atomici degli elementi e le formule dei loro composti. In esse egli fu guidato dai seguenti concetti: 1) assegnare formule simili a composti chimicamente simili; 2) continuare lo spirito daltoniano dei rapporti atomici possibilmente semplici; 3) attribuire costituzione elettrochimicamente dualistica a tutti i composti inorganici. La prima regola è abbastanza ovvia perché ci asteniamo da spiegazioni speciali, solo ricordando che sopra si è accennato come, stabilita la formula che spetta al cloruro, ossido, ecc. di un elemento se ne può dedurre quale è il peso atomico di questo. La seconda regola è pure semplice. Dove si ha un solo ossido, Berzelius gli attribuiva la formula MeO (ciò che, come si è visto, ne fissa il valore del peso atomico); così per la calce CaO, per la soda, che egli scriveva NaO. E ciò, s'intende, a meno che i criterî di analogia, secondo la regola 1), non consigliassero una formula diversa, come è il caso per l'ossido unico dell'alluminio, a cui, tuttavia, per analogia con l'ossido ferrico egli attribuì dapprima la formula AlO3, e poi l'altra Al2O3. Dove c'erano due o più ossidi si sceglievano formule (e quindi pesi atomici) tali che in esse gli atomi di ossigeno stessero fra loro come i più semplici e possibilmente consecutivi numeri interi. Così negli ossidi ferroso e ferrico le quantità di ossigeno unite a uno stesso peso di ferro stanno fra loro nel rapporto 2 : 3, per cui il Berzelius fu inizialmente indotto ad assegnar loro le formule FeO2, FeO3, con Fe = 112. (Ci riferiamo, per comodità, all'attuale peso atomico O = 16, mentre in realtà il Berzelius aveva posto il peso atomico dell'ossigeno = 100). Naturalmente non si poteva escludere che il peso atomico del ferro fosse doppio, e quindi le formule fossero FeO4, FeO6, ma allora sarebbe dovuto esistere almeno qualcuno dei tre termini inferiori FeO, FeO2, FeO3, mentre non si conoscono affatto, e ciò parla contro FeO4 e a favore di FeO2, dove è più facile spiegare l'inesistenza dell'unico termine inferiore possibile FeO. E ancora: il rame dà due ossidi, dove le quantità di ossigeno per una stessa quantità di metallo stanno fra loro come 1 : 2, e cui perciò il Berzelius credette opportuno attribuire le formule CuO, CuO2, confermate anche dal fatto che l'ossido CuO2 (ramico) in alcuni dei suoi sali (solfati doppî, specialmente) rassomiglia ai corrispondenti derivati dell'ossido ferroso (applicandosi, in questo, caso, la prima regola). Invece ai due ossidi del piombo, dove pure l'ossigeno sta nel rapporto 1 : 2, attribuì le formule PbO2, PbO4, (e non PbO, PbO2) perché le analogie coi sali ramici, ferrosi, ecc., si ritrovano, caso mai, più spiccate nell'ossido piomboso che nel piombico; e ai due ossidi del cromo, dove si ha pure questo rapporto, attribuì le formule CrO3, CrO6 (anidride cromica) perché l'ossido inferiore (cromico) dà sali somiglianti a quelli dell'ossido ferrico. Veramente tipico è il caso del manganese, che dà cinque ossidi (tutti noti allo stato libero, meno i due ultimi, di cui son noti solo i sali) ove per una stessa quantità di metallo l'ossigeno vana secondo i numeri 2, 3, 4, 6, 7; qui appariva quasi inevitabile attribuir loro le formule MnO2, MnO3, MnO4, MnO6, MnO7, col peso atomico Mn = 110. Al tempo stesso questi ossidi costituivano un prezioso materiale di confronto, al fine di fissare per analogia le formule degli ossidi di altri elementi, ecc.

La terza regola infine, più che una norma per stabilire le formule e quindi i pesi atomici, costituisce nel sistema berzeliano un contributo assai valido a quella semplicità daltoniana che egli cercava nei rapporti di combinazione, e un modo di interpretare, da un punto di vista unico e netto, la costituzione d'una serie importantissima di composti: i sali. Riassumiamo per quanto occorre al nostro scopo questa teoria del dualismo elettrochimico. Quando Berzelius iniziava i suoi studî si era scoperta da poco la decomposizione delle combinazioni chimiche mediante quella pila elettrica di cui il nostro Volta fece regale dono alla scienza. In essa si osservavano fenomeni di questo genere: una soluzione di solfato potassico, al passaggio della corrente, veniva scissa in potassa (polo −) e acido solforico (polo +) con contemporaneo svolgimento di idrogeno e rispettivamente ossigeno: invece una di solfato ramico veniva scissa in rame (polo −) e acido solforico+ossigeno. Era ovvio che allora si interpretassero i due fenomeni col dire che la corrente scindeva il solfato potassico nei due componenti (alcali e acido) dalla cui unione può ottenersi, senza procedere ulteriormente a causa della grande stabilità di queste due sostanze (e impiegando invece il resto della sua energia a decomporre l'acqua) mentre nel caso del solfato ramico, dopo una prima scissione in acido solforico e ossido di rame, poteva, in una fase successiva, scindere questo in rame e ossigeno. In base a questi concetti il Berzelius formulò una geniale teoria della costituzione dei composti chimici. Gli atomi di tutti gli elementi avevano una speciale predilezione per l'elettricità positiva o negativa (carattere elettropositivo, specialmente spiccato nei metalli e carattere elettronegativo, nell'ossigeno e nei metalloidi in genere) in base a cui, quando si trovavano ravvicinati, si caricavano di elettricità positiva o rispettivamente negativa, le cui attrazioni li tenevano uniti nelle molecole dei composti. Questo carattere elettrochimico tuttavia non si esaurisce totalmente in un primo composto, ma ne può restare disponibile una certa parte, che può determinare l'unione ulteriore delle prime molecole in molecole più complesse. Così il potassio elettropositivo si unisce all'ossigeno elettronegativo per dare l'ossido di potassio (che Berzelius scriveva KO), e lo zolfo dà analogamente l'anidride solforica SO3; ma nel KO persiste un po' del carattere elettropositivo del potassio, e persiste carattere elettronegativo nell'anidride solforica, per cui essi possono unirsi e dare il solfato potassico, ove tuttavia base e anidride mantengono una certa individualità, per cui esso non deve considerarsi come un composto ternario di potassio, ossigeno e zolfo (poiché fra tre specie di atomi non si può concepire la ripartizione di due soli stati elettrici opposti) ma ancora binario, e cioè K, O+S, O3. Analogamente l'allumina dà l'ossido AlO3 (secondo la iniziale formulazione di Berzelius) e il sale, binario, Al O3+3S, O3; e poiché nel solfato d'alluminio sussiste un po' di carattere elettronegativo, e di elatropositivo nel solfato potassico, questi si uniscono nel solfato doppio, o allume, che non è composto quaternario (alluminio, potassio, ossigeno, zolfo), ma ancora binario, cioè (K,O S, O3)+(Al, O3; 3S, O3), ecc. Già l'esame di queste formule mostra che il sistema dualistico schematizza fortemente e riduce a rapporti atomici (o molecolari) semplici (e quindi facili a precisare, caso per caso) anche la costituzione dei composti di molti atomi (la formula greggia dell'allume, anche trascurando l'acqua di cristallizzazione, è già K Al S4 O16).

Riassumendo, si vede che il Berzelius fin dal principio non seguì un solo filo di ragionamento, ma molti, che formavano col loro insieme una rete, nelle cui maglie, per così dire, si restringevano i pesi atomici da determinare: in particolare, l'idea di raggruppare sotto formule simili i composti simili fu una vera idea creativa, in quanto le eventuali modificazioni a cui i nuovi studî conducessero per un elemento potevano subito estendersi a molti altri, facendo godere anche questi di quei risultati, e verificandone al tempo stesso, con queste più larghe conseguenze, l'attendibilità: l'edificio dei pesi atomici ne diveniva così sempre più saldo. Conviene infatti riconoscere che le regole sopraccennate non erano esenti da obiezioni. Nulla invero può dirsi contro la prima, che è il caposaldo di ogni sistema di formule chimiche. È invece discutibile la teoria dualistica che, per quanto abbia avuto una funzione organizzatrice importantissima, forse indispensabile ai suoi tempi, ha il difetto originale di valere solo per una categoria notevole, ma limitata di composti, quali i sali ossigenati, e di non potersi estendere altro che forzatamente (come fece il Berzelius) alla chimica organica, che per il gran numero e varietà dei suoi composti ha pure portato all'atomistica un valido contributo. In quanto alla seconda regola se si può ben ammettere che negli ossidi metallici il numero degli atomi di ossigeno cresca secondo la serie dei numeri interi, non è sicuro che di atomi metallici ce ne debba sempre essere uno solo. Lo stesso Berzelius lo aveva ammesso come ipotesi provvisoria più semplice, in attesa di criterî più precisi. Li fornì Mitscherlich con la scoperta dell'isomorfismo (1820), di cui sopra parlammo e che rivela in una maniera addirittura tangibile le analogie di costituzione chimica. Così, fu accertato che molti solfati (di sodio, potassio, magnesio, ecc) erano isomorfi coi corrispondenti cromati; e poiché il peso atomico dello zolfo e quindi le formule dei suoi composti erano bene accertati (fra l'altro, anche mediante i rapporti in volume tra i composti gassificabili, cioè secondo lo spirito della regola di Avogadro) e si scriveva KO, SO34; NaO, SO3+10H2O; MgO, SO3+7H2O, si dovevano avere per i cromati formule uguali, solo ponendo Cr al posto di S, mentre con la formula attribuita all'anidride cromica (v. pag. 240) e col corrispondente peso atomico Cr = 102 i cromati avevan formule del tutto diverse, e cioè 2KO, CrO6; 2NaO, CrO6+20H2O, ecc. Fu dunque necessario ridurre il peso atomico a metà, cioè Cr = 51, ottenendo così le formule 2KO, Cr2O6 ossia KO, CrO3, ecc., che mostrano la voluta analogia. Corrispondentemente l'ossido cromico da CrO3, divenne Cr2O3, e dovette pure cambiarsi da FeO3 in Fe2O3 la formula dell'ossido ferrico, il quale, come si è accennato, ha con l'ossido cromico analogie chimiche (che la scoperta dell'isomorfismo fra alcuni loro derivati venne ora a confermare) riducendo quindi a metà il peso atomico del ferro, e a FeO la formula dell'ossido ferroso. Così pure l'allumina da AlO3 (Al = 54,2) divenne Al2O3 (Al = 27,1), e analogamente si modificarono altri pesi atomici. Particolarmente istruttivo è il caso del manganese, il cui peso atomico, oltre che per altri casi di isomorfismo, fu sdoppiato per quello fra perclorati, KO, Cl2O7, e per manganati, la cui antica formula KO, MnO7, postovi Mn = 2Mn, divenne KO, Mn2O7, cioè analoga ai primi. Anche qui, dunque, si arrivò alla formula (e quindi al peso atomico) esatta quando si poté ricollegarsi a una formula e a un peso atomico (acido perclorico e cloro) dedotti come conseguenza diretta, se pure inconscia, della regola di Avogadro. Con questi sdoppiamenti la maggior parte dei pesi atomici aveva già assunto i valori moderni; erano ancora rimasti doppî i pesi atomici del gruppo dei metalli alcalini, per i quali le relazioni di isomorfismo non possono servire, poiché se ne ha solo fra i composti di essi metalli, gli ossidi dei quali quindi si scrivevano KO, NaO, LiO, non sapendosi persuadere il Berzelius che una base forte potesse contener più di un atomo di metallo per uno di ossigeno; e con essi rimase raddoppiato il peso atomico dell'argento, mentre il rame, per le analogie fra i sali ramici e quelli ferrosi, manganosi, ecc. aveva già ricevuto peso atomico e formule esatte (CuO, Cu2O, ecc.). L'isomorfismo, ormai, aveva dato tutto quel che poteva, e per andare più oltre era necessario un altro criterio nuovo. Questo fu dato dalla legge di Dulong e Petit (1819), formulata dapprima per pochi casi. Il valentissimo fisico Regnault si diede a estenderne le verifiche (1840) e dai suoi risultati dedusse gradualmente che occorreva sdoppiare il peso atomico dell'argento e poi dei metalli alcalini, arrivando così ai valori moderni e alle formule K2O, Na2O, Ag2O, che appoggiò anche con esempî di isomorfismo (fra il solfuro di argento, che Berzelius scriveva AgS, e quello ramoso, cui già si dava la formula Cu2S). A queste ultime modificazioni più che ad altre il Berzelius oppose prudenti riserve, ma pur non si mostrava del tutto alieno dall'accoglierle, quando la morte lo colse (1848). Alla scomparsa del suo grande artefice l'opera grandiosa dei suoi pesi atomici (che sono poi i moderni) era praticamente completa, qualora si astragga da qualche peso atomico (uranio, vanadio) totalmente falso, non per errore di metodo, ma di tecnica (essendosi identificati i loro ossidi inferiori, malamente riducibili, col metallo libero) o dai pesi atomici del silicio e del boro (scrivendosi SiO3 e BO3 contro SiO2 e B2O3 moderni) per i quali si avevano analogie chimiche insufficienti, nessun caso (allora noto) di isomorfismo, inapplicahile la legge di Dulong e Petit, e a cui, falliti questi criterî, solo la cosciente applicazione della regola di Avogadro doveva (più tardi) assegnare i pesi atomici definitivi. Disgraziatamente a questo punto si manifestarono le "malattie di vecchiaia" della teoria dualista, che aveva sopravvissuto alla sua utilità storica, il Berzelius non essendosi mai risoluto ad abbandonare quella poderosa concezione della sua giovinezza. Per porre in evidenza la costituzione dualistica dei sali (acidi, basi) si doveva talvolta attribuir loro una formula doppia della più semplice possibile; così H2O, N2O5; H2O, Cl2O7; (NH4)2O, N2O5, e per analogia, ma senza neppur quella necessità, H2Cl2, H2J2. E un simile raddoppiamento si faceva nelle formule di molti alcoli, acidi, eteri, esteri, applicando anche alla chimica organica le concezioni dualistiche, che lì non hanno alcuna ragione di essere. Eran due punti deboli, su cui si portò l'attacco. Lo Gmelin infatti, criticando tutte le considerazioni su cui si basava il sistema atomico di allora, col rilevare le limitazioni e le ambiguità dell'isomorfismo (che allora cominciavano a rivelarsi), le eccezioni (un po' reali, un po' dovute a errori sperimentali) della legge di Dulong e Petit, l'arbitrarietà (e qui toccava giusto) nel numero relativo di molecole che, caso per caso, si ammettevano in volumi uguali di aeriformi, pose in evidenza quel numero costantemente pari di atomi che si riscontrava in tante formule per dedurne che non potevano essere veri atomi separati, ma conseguenza di pesi atomici erratamente scelti, e tutto ciò lo portò a concludere che era impossibile arrivare a conoscere i veri pesi relativi degli atomi, e conveniva contentarsi di un sistema convenzionale di "equivalenti", sufficienti per la pratica ed esenti da pretese teoriche. Gli equivalenti (già usati, sotto forma un po' diversa, ma in epoca assai anteriore, dal Dalton e poi dal Wollaston) non erano, in fondo, che pesi atomici bastardi: scelti, ad arbitrio, alcuni composti binarî in cui i due elementi si ammetteva esistessero in proporzioni "equivalenti" (così, nell'acqua, 1 parte di idrogeno contro 8 di ossigeno, nell'ossido di azoto 7 parti di azoto contro 8 di ossigeno, nell'ossido di carbonio 6 di carbonio contro 8) da questi se ne deducevano gli equivalenti di altri elementi con ragionamenti che in fondo erano sul tipo di quelli di Berzelius. Ne veniva fuori un sistema di formule che non andavano d'accordo né con l'isomorfismo, né con la legge di Dulong e Petit, né con la regola di Avogadro, e dove spesso le analogie chimiche non apparivano più; ma per chi voleva un sistema puramente convenzionale questi potevano esser meriti. Il sistema di Gmelin ebbe una certa voga, e Cannizzaro nei suoi Scritti su la teoria atomica dice, con ironia tanto più gustosa in quanto è involontaria, che fu adottato dalla maggioranza dei chimici giovani, mentre i chimici adulti si tennero al sistema berzeliano. Contemporaneamente si aveva quella che deve chiamarsi la febbre di crescenza della chimica organica, che cercava, all'infuori degli aridi schemi dualistici, un sistema di formule adatto alla sempre maggiore abbondanza dei suoi composti, e alla molteplicità delle loro funzioni. Dell'argomento, che interessa specialmente la strutturistica organica, rileviamo solo l'ultima fase, che concerne la teoria atomica. Charles Gerhardt (1843), discutendo il sistema berzeliano di formule usato per i composti organici, ne pose in rilievo i difetti e le contraddizioni, dovute all'uso, sopra accennato, di scrivere binariamente gli alcoli, acidi, esteri monovalenti, raddoppiandone così la formula e i pesi molecolari (p. es.: (C2H5)2O, H2O; C4H6O3, H2O; (C2H5)2O, C4H6O3) mentre per i composti bivalenti bastava a tale scopo (e quindi si usava) la formula semplice (p. es.: acido succinico, C4H4O3, H2O; glicole, C2H4O, H2O) con evidente discordanza; egli mostrò che si arrivava a un sistema di formule assai più semplice e coerente, che spiegava con la massima chiarezza le relazioni e le trasformazioni vicendevoli dei composti, riducendo a metà quei primi pesi molecolari e scrivendo quindi, di necessità, le formule in maniera "unitaria" (da cui il nome al suo sistema), cioè C2H5 − O − H, C2H3O − O − C2H5) ecc.

In un certo senso, egli fu così un rivalutatore della regola di Avogadro, poiché diede per norma di scrivere le formule in modo che i pesi molecolari fossero proporzionali ai pesi di volumi uguali di vapore; ma in realtà egli indicò quel criterio solo perché ad esso soddisfacevano le formule da lui adottate in base a ragionamenti puramente chimici, mentre pel resto non esitò a scrivere: "ci son molecole che occupano 2 0 4 volumi, come ce ne sono che ne occupano ½ o ¼". Ad ogni modo, la sua opera in chimica organica fu soltanto buona; ma egli volle estendere la sua riforma alla inorganica, e lì ebbe la mano meno felice. Sdoppiò, bensì, a ragione, le formule dei sali alcalini, attribuendo a questi elementi pesi atomici metà di quelli usati dal Berzelius, invece di KO, N2O5 scrivendo KNO3, con K = K/2 ma errò sdoppiando anche i pesi atomici dei metalli alcalino-terrosi, scrivendo CaNO3, SrClO3, Ba2O; commise, cioè, in senso inverso, lo stesso errore di Berzelius, attribuendo le medesime formule agli ossidi e sali delle due famiglie. Con simili contrasti di vedute, si capisce che a un certo punto dové regnare nelle formule una confusione caotica: come scrisse L. Mayer, la medesima formula organica poteva indicare tre sostanze diverse a seconda che la leggeva un berzeliano, uno gmeliniano o un unitario, mentre anche in inorganica si avevano tre diverse tabelle di pesi atomici, con corrispondente diversità nelle formule dei composti, nel meccanismo attribuito alle reazioni, ecc. Ma qui intervenne l'opera del nostro Cannizzaro. Era stato un italiano a dare quella regola dei volumi che, se accettata subito, avrebbe assai accelerato l'evoluzione della teoria atomica: fu un italiano a rimediare alla confusione derivante dal non averla accettata. Il Cannizzaro dimostrò che al sistema di pesi atomici stabilito con così lungo lavoro dal Berzelius si poteva arrivare in maniera assai più semplice e diretta partendo dalla definizione di molecola data così lucidamente dall'Avogadro (la cui regola egli difese dalle apparenti eccezioni che ad essa formavano le densità di vapore, troppo basse, del cloruro ammonico e del pentacloruro di fosforo, mostrando che erano dovute a fenomeni di dissociazione, che raddoppiavano il numero delle molecole, secondo le reazioni: NH4Cl = NH3+HCl; PCl5 = PCl3+Cl2). E così pure pose in chiaro che i vantaggi della riforma di Gerhardt erano appunto dovuti al fatto che essa si basava, in sostanza, sui pesi molecolari secondo Avogadro, mentre ne corresse gli eccessi riconducendo ai valori berzeliani i pesi atomici, dimezzati, dei metalli alcalino-terrosi; e a tale scopo seppe abilmente valersi anche dei calori specifici dei loro composti, secondo i ragionamenti sopra svolti. Oltre che in varie pubblicazioni, il Cannizzaro espose le sue idee in un congresso indetto a Carlsruhe (settembre 1860) appunto sulla questione dei pesi atomici. Sebbene un accordo immediato non si raggiungesse, fin da allora i chimici di mente più aperta riconobbero la giustezza del sistema da lui patrocinato, che ha finito poi con l'essere universalmente accettato.

Pesi atomici e sistema periodico. - Le considerazioni esposte nelle pagine precedenti sono sufficienti a giustificare l'attuale sistema di pesi atomici. Ma resta da far menzione di una classificazione degli elementi che, mentre lo conferma, poiché prende per norma ordinativa il valore numerico dei pesi atomici, ha anche giovato a fissarne qualcuno in casi dove, temporaneamente, non si potevano utilizzare gli altri criterî. È questo il sistema periodico di Mendeleev (1868) che qui si riporta in una delle sue forme moderne.

Il gruppo delle terre rare comprende gli elementi lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, florenzio (recentemente scoperto dall'italiano Rolla e a peso atomico non ancora precisato), samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio. Inoltre nelle varie caselle dal tallio all'uranio trovano ancora posto, secondo il moderno concetto dell'isotopismo, gli elementi radioattivi a vita breve.

Nell'ordinamento sopra riportato l'idrogeno resta al difuori del sistema; i fisici però trovano più conforme alle moderne vedute sulla costituzione degli atomi stabilire un periodo preliminare contenente solo l'idrogeno e l'elio, collocando poi il gruppo O degli altri gas inerti dopo gli alogeni. Anche senza una speciale illustrazione di questo sistema, che sarà svolta altrove, si riconosce che con questo ordinamento degli elementi secondo i pesi atomici crescenti (salvo qualche necessaria inversione, che ha trovato la sua spiegazione recentemente) si vengono a riunire elementi simili nel medesimo gruppo verticale: così i metalli alcalini nel I, gli alcalino-terrosi nel II, gli alogeni nel VII (secondo sottogruppo), ecc. Ed è facile capire che andrebbe tutto sossopra se si usasse qualunque altro sistema di peso atomico (ad es., quello gmeliniano, con C = 6, O = 8, i pesi atomici del II gruppo dimezzati, ecc.) talché ebbe ragione il Mendeleev di dire che senza la riforma di Cannizzaro egli non avrebbe potuto arrivare al suo sistema. Così pure, se ad un elemento per mancanza, o per errata applicazione dei criterî adatti si attribuisse un peso atomico diverso dal vero lo si riconoscerebbe poiché verrebbe a trovarsi in una casella a cui non si adatterebbero le sue proprietà, o magari già occupata da un altro elemento, mentre resterebbe vuota la casella giusta: correggendo il peso atomico tutto tornerebbe all'ordine. Ciò fece infatti, in più di un caso, il Mendeleev (per Ur, col peso atomico supposto 120, In = 75, Be = 13, cerio e terre rare in genere con peso atomico ⅔ degli attuali, e ossidi MeO invece che Me2O3) e fu opera di ardita genialità, poiché ai suoi tempi le caselle vuote erano molte, e assai incompletamente noti i caratteri di molti elementi. E se con tutto ciò una casella rimane vuota si potrà approssimativamente predire il peso atomico (e molte proprietà) dell'elemento, ancora ignoto, destinato ad occuparla, ciò che pure fece, con meraviglioso acume, il Mendeleev, per gli elementi gallio, geermanio, scandio.

Pesi atomici dei radioelementi. - Un altro metodo, recentissimo, per precisare, all'infuori dell'analisi, i pesi atomici nel caso speciale degli elementi radioattivi, è dato dalla cosiddetta regola di spostamento, di cui si parlerà più estesamente nell'articolo su questi. Se un elemento proviene dalla disintegrazione di un altro con emissione di raggi β, ha sensibilmente lo stesso peso atomico del genitore: se invece nella sua formazione si emettono raggi α ha un peso atomico inferiore di 4 unità. E ciò perché tanto i raggi β che gli α sono particelle dotate di massa che si separano dall'atomo che si disintegra, a ragione di una per ogni atomo; ma la particella β è un elettrone (unità indivisibile di elettricità negativa) di massa trascurabile, e cioè 1/1830 dell'atomo di idrogeno, mentre la α è un atomo di elio doppiamente ionizzato, di peso atomico 4. Questa regola, provata sperimentalmente (nei limiti degli errori possibili) per la trasformazione radio-emanazione, è l'unico criterio adoperabile per quegli elementi radioattivi, che per la loro brevissima vita è impossibile ottenere in quantità pesabile.

Isotopismo. - Si è visto che la fecondità della geniale concezione daltoniana consisté nell'attribuire agli atomi di ogni elemento un peso unico e costante (e facilmente determinabile in valore relativo). Recentissimi risultati han mostrato invece che un elemento, inteso nel senso chimico, può esser formato da un miscuglio di atomi a peso diverso. Di questi sorprendenti fatti è detto altrove, sotto la voce isotopismo: qui ne riassumiamo, assiomaticamente, lo stretto indispensabile. Dalla disintegrazione degli elementi uranio e torio derivano tutti gli altri elementi radioattivi, in numero di circa 40, e tutti devono avere peso atomico inferiore ai loro genitori, da cui derivano, come si è visto, per perdita di massa. Nel sistema periodico non esistono certo altrettante caselle vuote per riceverli; ma lo studio delle loro proprietà chimiche (fatto quasi esclusivamente per via indiretta: esaminando cioè quali erano gli elementi ordinarî con i composti dei quali essi venivano trascinati per precipitazione, e non si potevano poi più separare) mostrò che essi erano chimicamente identici con qualcuno degli elementi compresi fra l'uranio e il tallio, nelle cui caselle perciò devono trovar posto: da ciò il nome (Soddy) di elementi isotopi (dal greco: "ugual posto"). Poiché d'altra parte nelle successive trasformazioni radioattive i pesi atomici diminuiscono nel modo sopra veduto, ecco che a una medesima casella, cioè a un medesimo elemento "chimico" possono corrispondere atomi di peso diverso. Potrebbe ritenersi che questa capacità di entrare nelle caselle già occupate, di imitare, per così dire, gli elementi ordinarî fosse limitata a quegli atomi che non sono stabili e quindi tentano, via via, e con successo solo temporaneo, varî stati di equilibrio; ma ci suggerisce altre considerazioni il fatto che le due serie di elementi in disintegrazione trovano la loro fine, ossia la condizione in cui non son più radioattivi, assumendo la stabilità illimitata degli elementi ordinarî, in una casella unica, quella del piombo. Di questo dunque esistono isotopi stabili, inattivi. Infatti, esaminando quel piombo che non manca mai nei minerali di torio o di uranio e che deve essere appunto il prodotto ultimo delle trasformazioni radioattive accumulatosi in milioni di anni, si è trovato che quello dei minerali di uranio mostra un peso atomico basso (circa 206) e quello dei minerali di torio un peso atomico alto (circa 207,9) in accordo qualitativo coi valori prevedibili dalla regola di spostamento, mentre il piombo comune, ricavato da tutti gli altri minerali (che potrebbe essere un miscuglio dei due isotopi) mostra costantemente un peso atomico di 207,2.

Ma la ricerca sperimentale si è spinta assai più in là. La scarica elettrica nei gas è determinata essenzialmente dagli elettroni o atomi di elettricità negativa, che sfuggono dal polo omonimo e urtando gli atomi del gas determinano la emissione di luce. Quando il gas è estremamente rarefatto è possibile, pur mantenendo debole la corrente e quindi evitando un'eccessiva concentrazione di energia, applicare agli elettrodi elevatissime differenze di potenziale, sotto la cui azione gli elettroni assumono enormi velocità, ed urtando gli atomi li "ionizzano", impartendo loro una o più cariche di elettricità positiva. Questi ioni positivi si precipitano verso il polo negativo, e se esso alla sua superficie ha dei fori (o "canali") li attraversano, formando dei veri raggi materiali (raggi canali). Per la carica e la velocità che hanno, essi subiscono l'azione deviatrice sia dei campi elettrostatici sia dei magnetici, e combinando opportunamente le due azioni J. J. Thomson e poi, con dispositivo più perfezionato, F. W. Aston riuscirono a scindere un raggio unico in tanti altri distinti quante sono le specie di atomi che lo compongono: il fascio di raggi divergenti così ottenuto, vero spettro di masse, è diretto verso una lastra fotografica che ne rimane impressionata, e col calco: o, dalle dimensioni dell'apparecchio e dalle intensità dei campi elettrico e magnetico, o meglio in misura relativa, riferendosi alla deviazione degli atomi di idrogeno, ossigeno, carbonio, si deduce la massa dei varî atomi presenti. E poiché solo la massa, e non le proprietà chimiche, conta in queste misure, se un elemento consta di un miscuglio di atomi a peso diverso questi vengono separati e se ne può riconoscere il peso. Ecco gl'isotopi degli elementi più leggeri (riferiti a O = 16)

Senza diffonderci sulle interessantissime conclusioni che si possono trarre da questi risultati, rileviamo, nei riguardi del nostro tema: 1. Una conferma, che può ben dirsi definitiva, del sistema di pesi atomici basato sulla regola di Avogadro, poiché quel sottoporre i singoli atomi a forze di intensità nota, e misurarne l'effetto, è proprio un vero pesarli uno per uno; 2. il cambiato significato dei pesi atomici usuali, forniti dall'analisi chimica, che non son più costanti irriducibili, ma la risultante aritmetica dei pesi atomici degli isotopi e delle loro proporzioni relative, dati, questi, sui quali ormai deve concentrarsi ogni speculazione teorica. (Così, fra l'altro, è ridotta assai l'importanza dell'anomalia per cui nella tavola di Mendeleev, sebbene originariamente basata sull'ordine dei pesi atomici crescenti, in qualche caso sono necessarie inversioni (Ar, K; Co, Ni; Te, J) per mantenere gli elementi nella casella che loro conviene). Invece dal punto di vista pratico l'importanza degli usuali pesi atomici (dopo un po' di allarme, negli anni passati) è rimasta inalterata, né deve temersi che il peso atomico (medio) di un elemento varî durante le manipolazioni chimiche per frazionamento dei suoi isotopi. Tale frazionamento è possibile, ma con dispositivi specialissimi e rendimento infimo: neppure in natura, dove, se non altro, il tempo disponibile è stato illimitato, sembra verificarsi una sia pur parziale separazione degli isotopi, come han mostrato controlli di pesi atomici su materiali di origine diversissima (per esempio, terrestre e meteoritica). Sembra che solo il piombo, i cui isotopi si producono, per così dire, estemporaneamente, possa mostrare un peso atomico variabile.

La spiegazione dell'isotopismo (e, aggiungiamo, del sistema periodico) è data dalla moderna teoria sulla costituzione degli atomi, di cui si tratta altrove.

Bibl.: I principî della teoria atomica sono svolti in tutti i trattati moderni di chimica generale e inorganica: notevole, per esposizione chiara ed elementare, A. Smith, Trattato elementare di chimica inorganica, trad. di C. Montemartini, 3ª ed., Torino 1926. Per le vicende storiche della teoria atomica rimandiamo ai libri di storia della chimica di cui un elenco è dato altrove, in questa enciclopedia: estese indicazioni bibliografiche si trovano pure nell'articolo Valenza e atomismo di M. Giua in Nuova enciclopedia di Chimica, XII, iii, pp. 499-655, Torino 1927. Meritano speciale menzione gli Scritti intorno alla teoria molecolare e atomica di S. Cannizzaro, Palermo 1896, e quelli di A. Avogadro, raccolti e illustrati da I. Guareschi, Torino 1911; e vedasi anche l'apologia giovanilmente vivace che di questi nostri ha fatto A. Ostrogovich negli Atti del II Congresso nazionale di chimica, I, Roma 1927.

Teoria elettrica dell'atomo.

Introduzione. - Fino alla seconda metà del sec. XIX si credette generalmente che la parola atomo dovesse essere intesa nel senso etimologico di "indivisibile"; si pensava cioè che l'atomo fosse la particella ultima, non ulteriormente decomponibile, costituente la materia. Verso la fine del secolo scorso invece l'attenzione dei fisici fu richiamata sopra alcuni fenomeni, per la cui interpretazione apparve opportuno ammettere che anche l'atomo fosse costruito di elementi più piccoli; e da ciò ebbe origine la teoria della struttura dell'atomo.

Molti fenomeni indicavano infatti che nell'interno dell'atomo dovessero essere contenute delle particelle cariche elettricamente: di essi, quello noto da più tempo era il fenomeno dell'elettrolisi delle soluzioni. In modo ancora più espressivo poi la presenza di particelle elettrizzate nella materia veniva dimostrata dai fenomeni del passaggio dell'elettricità attraverso ai gas, il cui studio, iniziato da W. Hittorf nel 1869, condusse, specialmente per opera di W. Crookes e di J. J. Thomson, alla scoperta dei raggi catodici e alla nozione di elettrone. Inoltre lo sviluppo contemporaneo della teoria elettromagnetica della luce da una parte, e della spettroscopia dall'altra, conducevano per altra via ad ammettere nell'atomo l'esistenza di corpuscoli elettrici, alle cui vibrazioni si attribuiva l'emissione delle onde elettromagnetiche costituenti la luce.

Sorse per gli studiosi il problema di escogitare dei modelli atomici tali da render conto delle diverse proprietà fisiche e chimiche dell'atomo. Premessa necessaria a un tale studio fu la determinazione delle proprietà e della natura dei corpuscoli elettrizzati di cui l'atomo è costituito. Osserviamo anzitutto che, essendo l'atomo nel suo complesso elettricamente neutro, è necessario ammettere che in esso siano contenute particelle cariche alcune positivamente ed altre negativamente, per modo che la carica totale sia zero. Lo studio delle particelle negative si presenta più facile di quello delle particelle positive; ciò è dovuto alla circostanza che nel passaggio della scarica elettrica attraverso ad un gas a pressione assai bassa si possono ottenere facilmente tali particelle isolate al di fuori della materia. I raggi catodici non sono altro infatti che corpuscoli elettrizzati negativamente, proiettati con una velocità variabile tra 100 e 100.000 chilometri al secondo. A questi corpuscoli negativi fu dato il nome di elettroni. Il loro studio condusse ad accertarne le seguenti proprietà: tutti gli elettroni, qualunque sia la sostanza da cui essi provengono ed il metodo col quale essi vengono estratti, sono sempre eguali tra loro, ed hanno in particolare tutti la stessa carica elettrica (−4,77•10-10 unità elettrostatiche) e la stessa massa (0,901•10-27 grammi). Osserviamo a questo proposito che la massa dell'atomo più leggero, l'idrogeno, è circa 1,66•10-24 grammi, cioè 1800 volte circa più grande di quella dell'elettrone.

Lo studio delle particelle positive dell'atomo si presentò alquanto più difficile, perchè tali particelle solo con difficoltà si possono ottenere libere al di fuori della materia. Una prima ipotesi sulla loro struttura fu emessa da J. J. Thomson. Egli ammetteva che l'atomo fosse costituito da una sfera di elettricità positiva, distribuita uniformemente in tutto il volume atomico, dentro alla quale fossero contenuti gli elettroni in equilibrio sotto l'azione delle mutue repulsioni e dell'attrazione elettrostatica verso il centro della sfera positiva; gli elettroni avevano secondo il Thomson dimensioni trascurabili rispetto al raggio della sfera positiva, in modo da poter esser considerati come puntiformi; e le loro frequenze proprie di vibrazione avrebbero dovuto coincidere con le frequenze delle righe spettrali emesse dall'atomo. La teoria del Thomson dovette in seguito venire abbandonata, essendosi trovata in contrasto con numerosi fatti sperimentali, sia nel campo della spettroscopia sia in quello dei fenomeni relativi al passaggio delle particelle α attraverso alla materia.

Furono appunto questi ultimi fenomeni che suggerirono al Rutherford quella ipotesi sopra la struttura dell'atomo che, almeno nelle sue linee essenziali, si ritiene tuttora rispondente alla realtà.

Ricordiamo che le particelle α sono corpuscoli elettrizzati positivamente i quali hanno, una carica elettrica in valore assoluto doppia di quella dell'elettrone e una massa circa 7000 volte più grande. Tali corpuscoli vengono proiettati con velocità enorme (109 cm/sec. e più) dagli atomi in alcuni processi di disintegrazione radioattiva, dando luogo ai raggi α. Consideriamo ora il processo dell'urto tra una particella α ed un atomo. La particella, passando nelle vicinanze dell'atomo, sarà soggetta alle forze elettriche esercitate dagli elettroni e dalle parti positive dell'atomo, che tenderanno a deviarla. Siccome però gli elettroni hanno massa trascurabile rispetto a quella della particella, si ha che le uniche azioni da tenere in conto sono quelle esercitate dalle parti positive dell'atomo. Ora tali forze risultano assai differenti secondo l'ipotesi che si fa sopra la distribuzione dell'elettricità positiva. Per comprendere questo consideriamo due ipotesi estreme: la prima (a), corrispondente al modello atomico di Thomson, che l'elettricità positiva sia distribuita uniformemente entro una sfera di raggio eguale al raggio dell'atomo; l'altra (b), che l'elettricità positiva sia tutta concentrata in un punto, o, per lo meno, in una regione di dimensioni trascurabili rispetto a quelle dell'atomo. Supponiamo ora che una particella α urti un atomo penetrando nel suo interno fino ad una distanza molto piccola dal centro dell'atomo. Nel primo caso (fig. 1-a) la forza elettrica repulsiva alla quale è soggetta la particella nell'interno dell'atomo tende a zero avvicinandosi al centro, ed è precisamente proporzionale alla distanza dal centro; cosicché una particella α che subisca un urto quasi centrale sarà, secondo l'ipotesi (a), soggetta ad una forza relativamente piccola, e la sua traiettoria avrà dunque, per effetto dell'urto, soltanto una lieve inflessione. Nella seconda ipotesi invece (fig. 1-b), essendo tutta la carica positiva concentrata nel centro O dell'atomo, la forza a cui è soggetta la particella risulterà inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal centro dell'atomo, e assumerà quindi nelle vicinanze di O dei valori grandissimi; in conseguenza di ciò la traiettoria della particella dovrà subire una deflessione assai considerevole per il caso di un urto quasi centrale. Il Rutherford studiò sperimentalmente le deviazioni subite dalle particelle α nell'urto contro gli atomi e constatò che i risultati erano pienamente conformi alle previsioni dell'ipotesi (b) e completamente in contraddizione con quelle dell'ipotesi (a).

Idee generali sopra la struttura atomica. - In base a tali risultati il Rutherford emise la seguente ipotesi sulla struttura dell'atomo.

L'atomo è costituito da un certo numero Z di elettroni (Z si dice numero atomico), che è differente per le varie specie di atomi, e da un'unica particella elettricamente positiva, detta nucleo. Dovendo l'atomo essere elettricamente neutro, la carica del nucleo deve essere eguale, salvo il segno, a Z volte la carica elettronica. Le dimensioni degli elettroni e del nucleo sono trascurabili in confronto di quelle dell'atomo, in modo che, con approssimazione grandissima, tali particelle possono considerarsi come dei punti materiali. Il numero atomico Z coincide col numero d'ordine del posto occupato dall'atomo nel sistema periodico di Mendeleev; ed esso risulta espresso approssimativamente dalla metà del peso atomico. La massa dell'atomo è la somma delle masse degli elettroni e di quella del nucleo; la massa totale degli elettroni è però soltanto una frazione piccolissima della massa atomica; tale massa è dunque praticamente concentrata tutta nel nucleo, il quale viene perciò a coincidere con grande approssimazione col centro di gravità dell'atomo. Perciò, in assenza di perturbazioni esterne, il nucleo starà fermo, oppure si muoverà di moto uniforme. Se, in una prima grossolanissima approssimazione, consideriamo agente sopra ogni elettrone la sola forza centrale che lo attrae verso il nucleo, si ha che tale forza, essendo data dalla legge di Coulomb ed essendo quindi di tipo newtoniano, farà descrivere all'elettrone un'orbita ellittica, precisamente come l'attrazione verso il Sole fa descrivere delle ellissi ai pianeti.

Secondo il modello di Rutherford dobbiamo dunque figurarci l'atomo come una specie di microscopico sistema planetario, in cui il nucleo ha la posizione del Sole e gli elettroni quella dei pianeti.

Gli atomi dei diversi elementi chimici si differenziano tra di loro, come s'è detto, per il differente numero atomico. L'atomo più semplice è l'idrogeno; esso ha il numero atomico 1, ed è quindi costituito dal nucleo e da un solo elettrone. L'elio, di numero atomico 2, è costituito dal nucleo e da due elettroni..., l'uranio, di numero atomico 92, è costituito dal nucleo e da 92 elettroni.

Il numero atomico definisce la carica del nucleo; se Z è il numero atomico, e con e s'indica la carica elettronica (in valore assoluto), la carica elettrica del nucleo è data da Ze; conviene però osservare che per definire completamente un nucleo occorre darne, oltre alla carica elettrica, anche la massa. Si conoscono infatti numerosi casi di atomi i cui nuclei, pur avendo la stessa carica elettrica, hanno masse differenti. Consideriamo ora due di tali atomi; il numero di elettroni che li costituisce è lo stesso, e anche le forze che agiscono sopra gli elettroni sono, con grande approssimazione, le stesse; infatti, essendo eguali le cariche elettriche dei due nuclei, saranno anche eguali le forze elettrostatiche da essi esercitate. Invece, data la differente massa materiale dei due nuclei, saranno differenti le forze newtoniane esercitantisi tra nucleo ed elettroni; un facile calcolo dimostra però che le forze newtoniane sono, con grandissima approssimazione, trascurabili di fronte a quelle elettrostatiche. Un'altra causa di una lievissima differenza dei due casi è la seguente: abbiamo detto che, data la grande massa del nucleo, questo resta praticamente fermo nella posizione del centro di gravità dell'atomo; ciò naturalmente è vero con tanto maggiore approssimazione quanto maggiore è la massa del nucleo; una differenza nella massa dei due nuclei ha dunque per effetto una differenza nei piccolissimi moti eseguiti dai due nuclei, e quindi anche una lievissima differenza tra le forze che agiscono sugli elettroni. Ove si trascurino tali differenze, si avrà che il movimento degli elettroni dei due atomi è identico; e, siccome le proprietà chimiche e spettroscopiche di essi sono appunto determinate dal movimento degli elettroni, si avrà che anche queste risultano praticamente eguali per i due atomi. Due atomi che si trovino in queste condizioni si dicono isotopi (da ἴσος "eguale"; τόπος "luogo") perché occupano la stessa posizione nel sistema periodico di Mendeleev. In realtà moltissimi elementi chimici non sono altro che un miscuglio di isotopi che, data l'identità delle loro proprietà chimiche, sono difficilissimi da separare.

L'atomo di Bohr. - Il modello atomico di Rutherford ci descrive, nelle sue linee essenziali, la morfologia dell'atomo; resta ancora da risolvere il più grave problema della determinazione delle leggi che ne regolano i movimenti. Per poter bene comprendere le varie difficoltà inerenti a questo problema, riferiamoci al caso più semplice, cioè all'atomo di idrogeno, il quale, come si è già accennato, è costituito dal nucleo, che consideriamo per ora come fermo, e da un solo elettrone. Sopra l'elettrone agisce l'attrazione elettrostatica verso il nucleo; essa è una forza centrale di grandezza e2/r2 essendo r il raggio vettore dell'elettrone ed e la sua carica elettrica. Sotto l'azione di questa forza l'elettrone descriverà un'ellisse di tipo kepleriano, avente il nucleo in uno dei fuochi. Ora uno dei risultati fondamentali dell'elettrodinamica classica dice che quando una carica elettrica si muove di moto qualsiasi essa irradia nello spazio dell'energia elettromagnetica; precisamente, se Γ è l'accelerazione della carica e c la velocità della luce, l'energia irradiata nell'unità di tempo risulta

Vi sarà dunque irradiazione tutte le volte che l'accelerazione è differente da zero. Concludiamo da ciò che il nostro elettrone, mentre descrive la sua orbita kepleriana, dovrebbe, secondo l'elettrodinamica classica, irradiare continuamente energia elettromagnetica nello spazio; e in conseguenza di questa perdita di energia la sua orbita dovrebbe andare continuamente restringendosi, finché l'elettrone andrebbe a cadere sopra il nucleo; siccome questo non può avvenire, si conclude che le leggi dell'elettrodinamica classica non sono adatte alla descrizione dei fenomeni atomici. Niels Bohr ha dato nel 1913 delle leggi da sostituire a quelle classiche per il calcolo dei sistemi atomici. Già al tempo in cui sono state enunciate, queste leggi non erano date in una forma tale da potersi considerare definitive. Esse tuttavia contenevano in sé tali elementi di verità che, pur nella loro forma incompleta, diedero impulso, per una dozzina di anni, a uno sviluppo senza precedenti della fisica atomica. Il campo in cui esse si sono dimostrate più feconde è stato naturalmente quello della spettroscopia, i cui problemi sono più intimamente legati a quelli della struttura dell'atomo, ed in esso lo sviluppo della teoria di Bohr ha permesso di costruire da un ammasso caotico di dati incoerenti un edificio armonico e sistematico. Ma anche nei campi più svariati della fisica, dalla teoria del magnetismo alla chimica fisica, la teoria di Bohr ha portato ovunque a risultati inattesi, permettendo di coordinare, almeno per la parte qualitativa, un numero veramente enorme di fenomeni.

Restava tuttavia un notevole disagio per quanto riguarda specialmente la parte concettuale della teoria; in molti casi infatti si era costretti, per poter interpretare i diversi fenomeni, a ricorrere a dei compromessi fra le trattazioni classiche e le nuove teorie, che erano indizio sicuro che la teoria di Bohr doveva ancora subire delle modificazioni essenziali.

Dopo numerosi tentativi inutili, si riuscì finalmente, principalmente per opera del Heisenberg e dello Schrödinger, a dare alla teoria una forma priva di quelle contraddizioni intrinseche che caratterizzavano la teoria di Bohr. La nuova teoria, la cosiddetta meccanica quantistica, oltre a permettere di raggiungere tutti i risultati della teoria di Bohr, ha permesso di andare assai oltre, sia nel campo qualitativo, sia in quello quantitativo. E, benché oggi forse sia ancora prematuro un giudizio definitivo su di essa, si può certamente affermare che essa segna un progresso essenziale verso la costruzione definitiva della meccanica atomica.

Si è potuto dimostrare che i risultati della teoria di Bohr possono considerarsi una prima approssimazione a quelli della meccanica quantistica. Per modo che molti risultati qualitativi possono ottenersi anche col metodo di Bohr, che presenta il grande vantaggio di fornirci un modello di atomo facilmente accessibile all'intuito, mentre gli schemi della meccanica quantistica, allontanandosi profondamente dalla meccanica e dalla cinematica ordinarie e, perfino, dall'ordinario modo di concepire i fenomeni fisici, richiedono, per poter essere compresi nella loro essenza, una laboriosa iniziazione. Per questa ragione ci limiteremo qui ancora al metodo di Bohr, accennando solo, alla fine di questo articolo, ai criterî fondamentali su cui è basata la nuova meccanica.

Le ipotesi fondamentali introdotte dal Bohr possono enunciarsi nel modo seguente: i movimenti degli elettroni dell'atomo sono determinati dalle leggi della meccanica classica; non però tutti i loro movimenti meccanicamente possibili possono in realtà venire realizzati, ed i movimenti realmente possibili costituiscono soltanto una successione discreta fra tutti i moti meccanicamente possibili. I moti realmente possibili si dicono stati stazionarî oppure stati quantici dell'atomo.

Ci occuperemo più oltre dei metodi per la loro determinazione; osserviamo intanto che, dall'aver ammessa l'esistenza degli stati quantici, segue anche che l'energia interna dell'atomo può assumere soltanto certi valori discreti

Come si è osservato, secondo l'elettrodinamica classica si dovrebbe ammettere che gli elettroni irradiassero continuamente nello spazio, durante il loro movimento, dell'energia elettromagnetica. Il Bohr ammette invece che il meccanismo dell'irradiazione sia totalmente differente, e precisamente che finché l'atomo si trova in uno stato stazionario esso non irradî affatto. L'irradiazione dell'energia elettromagnetica o, che è lo stesso, della luce, è invece secondo il Bohr legata al passaggio discontinuo dell'atomo da uno stato quantico ad un altro. Se Ei ed Ek sono le energie dei due stati, l'energia interna dell'atomo viene in questo processo, che è detto salto quantico, a variare di EiEk; tale differenza di energia viene, secondo il Bohr, emessa sotto forma di radiazione monocromatica, la cui frequenza si calcola con la formula

dove h è quella stessa costante universale, detta costante di Planck, che interviene nella teoria dello spettro del corpo nero e nella teoria dell'effetto fotoelettrico, ed il cui valore, secondo i dati più attendibili, è dato, in unità C. G. S., da h = 6,54•10-27.

Per ben comprendere le origini di questa ipotesi, bisogna tener presente che, quando il Bohr emise la sua teoria, era già noto, specialmente in seguito ai lavori dell'Einstein sopra l'effetto fotoelettrico, che quando si ha uno scambio di energia tra la materia e la radiazione, tra l'energia W scambiata e la frequenza della radiazione passa la relazione

La (2) non è altro che un'applicazione della (3) al processo del salto quantico.

Consideriamo ora i tre salti quantici Ei Ek, Ek Es, Ei Es; le frequenze corrispondenti ad essi sono

Si riconosce subito che

cioè: la somma oppure la differenza delle frequenze di due righe spettrali può coincidere con la frequenza di una terza riga dello stesso atomo. Questa osservazione era stata fatta empiricamente assai prima della teoria di Bohr, ed è nota col nome di principio di combinazione di Rydberg-Ritz. La formula (2) si presta a semplificare molto la descrizione dello spettro di un elemento; in base ad essa infatti per conoscere le frequenze di tutte le righe spettrali che l'atomo può emettere, basta conoscerne i cosiddetti termini spettroscopici, che non sono altro che le energie degli stati stazionarî dell'atomo divise per h. Indicando con νi il termine imo si avrà dunque:

Una volta noti i termini, basta formarne tutte le differenze a due a due per ottenere tutte le frequenze che l'atomo può emettere; è bene notare però che, per ragioni che discuteremo in seguito, tutte le frequenze dello spettro di un atomo possono rappresentarsi come differenze di termini, non però tutte le differenze di termini corrispondono a frequenze che l'atomo può emettere effettivamente.

L'esistenza reale degli stati quantici e la legge espressa dalla (2) trovano la loro dimostrazione più convincente nelle esperienze che ora descriveremo e che furono eseguite per la prima volta da J. Franck e G. Hertz, e proseguite poi principalmente per opera del Franck e della sua scuola. Esporremo prima l'idea base di tali esperienze, e accenneremo poi brevemente al modo per eseguirle effettivamente. Consideriamo perciò l'urto tra un elettrone ed un atomo e supponiamo che, prima dell'urto, l'atomo si trovi nello stato fondamentale, cioè nello stato quantico di energia più piccola. Secondo il valore dell'energia cinetica dell'elettrone urtante, l'urto può avvenire in modo differente; indichiamo con E1, E2,..., En,... le energie degli stati stazionarî, e supponiamole disposte in ordine crescente; sia poi T l'energia cinetica dell'elettrone urtante. Per semplicità supporremo l'atomo fermo prima dell'urto e, data la sua massa relativamente molto grande, supporremo che esso resti fermo anche dopo l'urto con l'elettrone. Prima dell'urto l'atomo dovrà trovarsi nello stato di energia minima E1; dopo l'urto esso dovrà ancora trovarsi in uno stato quantico; la sua energia interna potrà dunque variare soltanto di uno dei valori: o E2E1, E3E1, E4E1,... Se ora è T E2E1 è realizzabile soltanto la prima di queste possibilità, poiché l'elettrone non ha energia sufficiente a trasportare l'atomo in nessuno stato quantico diverso da quello fondamentale; l'urto avviene dunque senza scambio di energia tra l'elettrone e l'atomo; un tale urto si dice perciò urto elastico. Se invece T > E2E1 può ancora aversi un urto elastico, ma può anche accadere che l'atomo passi dallo stato fondamentale allo stato di energia E2, diminuendo corrispondentemente di E2E1 l'energia cinetica dell'elettrone; un urto di questo secondo tipo si dice urto anelastico. Via via che l'energia cinetica dell'elettrone urtante va crescendo, vengono a formarsi nuove possibilità di urti anelastici; p. es. quando T raggiunge il valore E3E1 si ha la possibilità dell'eccitazione del terzo stato quantico, e così di seguito. Un altro tipo caratteristico di urto anelastico avviene quando l'energia dell'elettrone urtante diventa sufficiente a strappare un elettrone dall'atomo urtato, diventa cioè maggiore della cosiddetta energia di ionizzazione. In questo caso il risultato dell'urto può essere di spezzare l'atomo in un ione positivo e in un elettrone.

Passiamo ora a descrivere schematicamente le esperienze che hanno permessa la verificazione delle previsioni teoriche esposte sopra, e che, come si è detto, furono per la prima volta eseguite da Franck e Hertz. L'apparecchio di Franck e Hertz (fig. 2) era costituito essenzialmente d'un tubo contenente un filamento F di tungsteno che poteva venir scaldato per mezzo di una corrente elettrica in modo da emettere elettroni per effetto termoionico. Il tubo conteneva inoltre una griglia G ed una placca P. Tra griglia e placca è inserito un galvanometro; tra filamento e griglia viene inserita, per mezzo di un dispositivo potenziometrico, una differenza di potenziale V regolabile a piacere, che serve ad accelerare gli elettroni uscenti dal filamento e ad imprimere ad essi una energia cinetica eV. (In pratica conviene generalmente tenere anche la placca ad un potenziale leggermente superiore a quello della griglia per ostacolare l'accumularsi di cariche negative tra griglia e placca). Il tubo è pieno di un gas a pressione ridotta oppure di un vapore.

L'esperienza si fa costruendo il diagramma che rappresenta la corrente di placca, segnata dal galvanometro, in funzione del potenziale V. Appena il potenziale raggiunge un valore tale che l'energia cinetica da esso impressa agli elettroni sia sufficiente a produrre urti anelastici, accade che gli elettroni che subiscono tali urti nello spazio compreso tra griglia e placca perdono gran parte della loro velocità in modo che essi si trattengono a lungo in tale spazio caricandolo negativamente. Questa carica spaziale negativa ha naturalmente per effetto di ostacolare l'ulteriore passaggio degli elettroni provenienti dal filamento, cosicché il diagramma potenziale-corrente viene a subire un brusco abbassamento ogni volta che l'energia impressa dal potenziale V agli elettroni diventa sufficiente ad eccitare un nuovo stato quantico. Parimenti anche il potenziale di ionizzazione dell'atomo viene contrassegnato da un angolo brusco del diagramma (questa volta in senso opposto), sicché l'esame del diagramma permette senz'altro di misurare direttamente l'energia dei varî stati quantici e l'energia di ionizzazione.

La misura diretta delle energie degli stati quantici ci dà inoltre la possibilità di verificare l'ipotesi del Bohr espressa dalla formula (2). Supponiamo infatti p. es. di misurare il potenziale V che corrisponde alla eccitazione del secondo stato quantico; l'energia cinetica dell'elettrone sarà e V (e = 4,77•10-10 e. s.); si avrà quindi E2E1 = e V; se con ν indichiamo la frequenza della riga emessa dall'atomo nel passaggio tra il secondo stato quantico e lo stato fondamentale dovremo dunque avere, in virtù di (2)

Per es. nel caso del mercurio la riga spettrale corrispondente al salto tra i detti stati quantici è la riga λ = 2536 Å, che ha la frequenza

La (5) ci dà dunque per questo caso

unità assolute elettrostatiche, cioè 4,86 volt. In realtà Franck e Hertz trovarono col mercurio la prima discontinuità per un potenziale di 4,9 volt che, nei limiti dell'errore sperimentale, coincide molto bene col valore teorico.

Il problema della determinazione teorica delle frequenze delle righe spettrali che un atomo è capace di emettere si riduce, come si è visto, alla determinazione degli stati stazionarî dell'atomo; poiché noti questi, e note per conseguenza le loro energie, la (2) permette di calcolare senz'altro le frequenze. Vogliamo ora appunto occuparci di questo problema, e lo esamineremo perciò nel suo sviluppo storico. Quando il Bohr espose per la prima volta la sua teoria, ne fece l'applicazione all'atomo di idrogeno. Meccanicamente l'unico elettrone dell'idrogeno può descrivere attorno al nucleo una ellisse di tipo kepleriano. Nelle sue prime considerazioni il Bohr si limitò alla considerazione delle sole orbite circolari, e tra queste scelse, come orbite corrispondenti agli stati stazionarî, quelle la cui quantità di moto areale è un multiplo intero di h/2 π. Vediamo come questa ipotesi permetta effettivamente di calcolare gli stati stazionarî dell'idrogeno e le loro energie. Supponiamo perciò di avere un sistema atomico costituito da un nucleo di carica elettrica Z e e da un solo elettrone; quando si faccia Z = 1 questo sistema non sarà altro che un atomo d'idrogeno; per Z = 2 esso è invece un ione positivo di elio (He+). Indichiamo con r la distanza dell'unico elettrone dal nucleo; tale distanza resterà costante durante tutto il moto, poiché ci siamo limitati alle sole orbite circolari; sia poi ω la velocità angolare dell'elettrone. Scrivendo che la forza centrifuga equilibra l'attrazione coulombiana tra nucleo ed elettrone abbiamo

Secondo questa formula naturalmente, dato r, si può sempre trovare una velocità angolare ω tale che essa venga soddisfatta. Ciò vuol dire che meccanicamente sono possibili orbite circolari di raggio qualsiasi; vediamo ora come la condizione di Bohr permetta di estrarre da questa infinità continua di orbite circolari una successione discreta che costituisce la successione degli stati stazionarî dell'atomo. Osserviamo perciò che la quantità di moto areale risulta espressa da m r2 ω. Secondo il Bohr dovremo dunque avere

dove n rappresenta un numero intero. Le due ultime equazioni si possono risolvere rispetto a r e ad ω, e si trova così

Troviamo così appunto una successione discreta di orbite, i cui raggi vanno crescendo come i quadrati dei numeri interi. Ponendo nella prima delle (6) al posto delle varie costanti universali che vi figurano i loro valori numerici, e ponendo Z = 1, si trova r = 0,53•10-8n2. Ponendo in questa espressione n = 1 troviamo che il raggio della prima orbita stazionaria dell'idrogeno è 0,53•10-8 cm. Questo valore coincide, come ordine di grandezza, coi valori delle dimensioni atomiche noti dalla teoria cinetica dei gas.

Lo spettro dell'idrogeno. - Le formule (6) ci permettono anche di calcolare l'energia En dell'nmo stato quantico. Tale energia, infatti, è la somma dell'energia cinetica

e dell'energia potenziale

Ponendo per r ed ω i valori (6) troviamo dunque

Questa formula, insieme con la (2), ci permette di calcolare la frequenza della riga spettrale emessa dall'atomo nel salto quantico tra gli stati nmo e nmo. Si trova precisamente

Ponendo in questa formula Z = 1 dobbiamo trovare le frequenze dello spettro dell'atomo d'idrogeno. E ciò è verificato molto bene dall'esperienza; ponendo infatti n′ = 1 e dando ad n i valori 2, 3, 4,... si trovano le frequenze delle righe della cosiddetta serie di Lyman; ponendo n′ = 2, n = 3, 4, 5,... troviamo invece la serie di Balmer (che è la più antica serie spettrale nota sperimentalmente); facendo infine n′ = 3 e dando ad n i valori 4, 5, 6,... si trova la serie di righe infrarosse di Paschen. Oltre allo spettro dell'idrogeno atomico, la formula (8) può anche darci, facendo in essa Z = 2, lo spettro dell'ione positivo di elio He+; in particolare facendo Z = 2, n′ = 4, n = 5, 6, 7,... si trovano le righe di una serie spettrale osservata per la prima volta da Pickering nello spettro di alcune stelle di elevata temperatura. Tale serie era stata in un primo tempo attribuita erroneamente all'idrogeno; dopo che il Bohr ebbe riconosciuto teoricamente che essa era invece da attribuirsi all'He+ riuscì effettivamente al Paschen di osservarla in un tubo di scarica contenente elio puro.

Le condizioni di Sommerfeld. - La regola data da Bohr per la scelta delle orbite stazionarie nel caso dei moti circolari venne in seguito generalizzata dal Sommerfeld e dal Wilson in modo da poterla applicare ad una classe di movimenti assai più generale, e precisamente ai sistemi il cui moto è multiplamente periodico. Se il sistema ha f gradi di libertà e q1, q2,..., qf sono le coordinate generali, scelte in modo che ciascuna sia una funzione periodica del tempo, con un suo proprio periodo, e se p1 p2... pf sono i momenti coniugati alle q, le condizioni di Sommerfeld si possono scrivera nella forma

dove n1, n2,... nf sono numeri interi (numeri quantici), e gl'integrali vanno estesi a un periodo della corrispondente coordinata.

Il Sommerfeld ha fatto vedere che le condizioni (9) permettono effettivamente di distaccare, dalla successione continua delle orbite meccanicamente possibili, una successione discreta di movimenti particolari che corrispondono agli stati quantici del sistema. Così nel caso di un oscillatore armonico, risulta dalle (9) che l'energia degli stati quantici può prendere solo uno dei valori

dove n è un intero e ν è la frequenza dell'oscillatore; che cioè l'energia dell'oscillatore deve essere un multiplo intero di h ν. Le condizioni di Sommerfeld ci conducono così a un risultato che, sotto diverse forme, era già stato trovato da Max Planck nelle sue classiche considerazioni sopra lo spettro del corpo nero, che lo condussero alla prima enunciazione della teoria dei quanti.

Le orbite ellittiche dell'idrogeno. - Le condizioni (9) furono poi applicate dal Sommerfeld all'atomo di idrogeno. Nel caso di un sistema costituito da un nucleo di carica Z e da un elettrone si trova che l'energia dei diversi stati quantici si può ancora rappresentare con la formula (7), che può anche scriversi

ove si è indicato con

una costante universale, detta costante di Rydberg.

Si trova però che, per un dato valore di n e quindi dell'energia, vi sono diverse orbite distinte per forma e per posizione. Precisamente, per ogni valore di n esistono n possibili forme di orbita che si sogliono indicare con i simboli n1 n2... nn e che sono delle ellissi di differente eccentricità; n1 è l'orbita di maggiore eccentricità; nn è l'orbita meno eccentrica, che non è altro che un cerchio, il cui raggio è dato dalla formula (6). Il numero n che, conformemente alla (11), determina l'energia dell'orbita, prende il nome di numero quantico totale; le n orbite n1 n2... nn di differente eccentricità e di eguale energia, si distinguono mediante il loro numero d'ordine k = 1, 2,..., n che prende il nome di quanto azimutale. Si trova che esso misura la quantità di moto areale dell'orbita, ove si prenda per unità h/2 π.

Struttura fina. - Finché si quantizza il movimento dell'atomo di idrogeno applicando per il suo calcolo la meccanica classica, non si trova dunque, con la considerazione delle orbite ellittiche, nessun termine spettroscopico in più di quelli già dati dalla teoria semplicista fatta considerando le sole orbite circolari. Le cose cambiano quando, nel calcolo del movimento, si sostituisce alla meccanica classica quella relativistica. Secondo questa, come è noto, la massa dell'elettrone deve considerarsi come una funzione della velocità, la quale tende all'infinito quando la velocità dell'elettrone tende alla velocità della luce, ciò che ha in particolare come effetto l'impossibilità di imprimere all'elettrone una velocità maggiore di quella della luce. L'effetto della variabilità della massa sopra il moto dell'elettrone può descriversi come una perturbazione del moto kepleriano che sarebbe descritto dall'elettrone ove valesse la meccanica classica: l'elettrone continua a descrivere un'ellisse kepleriana, soltanto questa non conserva una posizione invariabile nello spazio, ma è animata da un movimento di rotazione uniforme nel suo piano, con velocità angolare molto piccola in confronto alla frequenza del moto orbitale dell'elettrone. Oltre a questo effetto sopra l'aspetto cinematico del moto elettronico, la perturbazione relativistica ha anche un'altra conseguenza importante: abbiamo detto che, nel caso della meccanica classica, si trova che tutti gli n movimenti di numero quantico totale n hanno la stessa energia, e dànno quindi luogo a termini spettroscopici coincidenti; ciò non è più vero per la meccanica relativistica; in questo caso si trova infatti che quegli n stati quantici hanno energie leggermente differenti tra di loro, cosicché un termine che, con la meccanica classica, avremmo dovuto ritenere semplice, ci risulta invece, con la considerazione relativistica, costituito di n termini assai ravvicinati tra di loro.

Naturalmente questa molteplicità dei termini ha anche per effetto una molteplicità delle righe che la teoria precedente ci aveva date come semplici. Ora l'esperienza dimostra che le righe emesse dall'idrogeno e dall'elio ionizzato, quando le si osservino con strumenti di potere risolutivo assai elevato, risultano effettivamente costituite di numerose componenti assai vicine tra loro, presentano cioè, come si dice, una struttura fina. Anche dal lato quantitativo le previsioni della teoria di Sommerfeld si mostrano in buon accordo con l'esperienza, e sono state perciò considerate, fin quasi ad oggi, una delle prove più convincenti della esattezza delle condizioni (9). A questo proposito tuttavia la situazione si è andata alquanto modificando negli ultimi tempi, ed oggi si ha ragione di ritenere che la coincidenza tra l'esperienza e la teoria di Sommerfeld della struttura fina sia piuttosto casuale; ciò dipende dal fatto che oggi si ritiene generalmente che l'elettrone, oltre alla sua carica elettrica, possegga anche un momento magnetico, e la struttura fina si interpreta come dovuta all'azione simultanea della perturbazione relativistica e di quella dovuta al momento magnetico; per maggior chiarezza tuttavia noi rimandiamo al seguito la discussione di questa questione, accontentandoci per il momento della spiegazione relativistica della struttura fina.

Effetti Zeeman e Stark. - Come la perturbazione relativistica porta ad una differenziazione delle energie degli n stati stazionarî che hanno lo stesso numero quantico totale, così ogni altra perturbazione ha in genere lo stesso effetto. In particolare si può produrre artificialmente una tale perturbazione, ponendo l'atomo emittente in un campo esterno, elettrico o magnetico; dobbiamo dunque prevedere che i livelli energetici di un atomo di idrogeno emittente in un campo esterno elettrico o magnetico siano multipli, e che quindi siano multiple anche le righe spettrali da esso emesse in tali condizioni; è noto che una tale molteplicità delle righe emesse in un campo esterno può effettivamente osservarsi sperimentalmente, e prende il nome di effetto Zeeman per il caso del campo magnetico, e di effetto Stark per il caso del campo elettrico.

La teoria quantistica dell'effetto Stark fu svolta indipendentemente dall'Epstein e dallo Schwarzschild nel 1916, e costituisce una delle più brillanti applicazioni delle condizioni di Sommerfeld. Nel caso dell'atomo di idrogeno posto in un campo magnetico esterno, la separazione delle variabili può ottenersi usando coordinate paraboliche, per modo che è possibile applicare direttamente al sistema le condizioni di Sommerfeld, e determinare in conseguenza l'energia in funzione dei numeri quantici. La teoria svolta sopra queste basi rende conto in modo completo dei risultati sperimentali ottenuti dallo Stark. dal Lo Surdo e da altri, permettendo di prevedere teoricamente con grande esattezza la posizione delle numerose componenti in cui si scindono le righe dell'idrogeno.

Parimenti può svolgersi senza difficoltà e in ottimo accordo con l'esperienza la teoria dell'effetto Zeeman dell'idrogeno. Esso conduce a prevedere che quando un atomo si trova in un campo magnetico, il piano dell'orbita del suo elettrone assuma delle orientazioni determinate rispetto alla direzione del campo esterno. Siccome l'atomo, per effetto delle cariche elettriche in movimento nell'interno di esso, possiede un momento magnetico proprio, si avrà dunque che la componente di questo, parallela al campo, non potrà prendere un valore qualunque, come avverrebbe se non ci fosse l'orientazione quantistica, ma potrà prendere soltanto una successione di valori discreti.

È riuscito a Stern e Gerlach di dimostrare in modo assai diretto la reale esistenza di queste componenti discrete del momento magnetico, approfittando delle deviazioni subite da un sottile fascio di atomi, nell'attraversare un campo magnetico inomogeneo. Osserviamo perciò che un dipolo magnetico situato in un campo magnetico non omogeneo è soggetto ad una forza proporzionale alla componente del dipolo nella direzione del campo e alla inomogeneità del campo. Se dunque, come risulta dalla teoria quantistica dell'effetto Zeeman, la componente parallela al campo del momento magnetico atomico può prendere solamente certi valori discreti, dovremo attenderci che un sottile pennello di atomi proiettati attraverso a un campo magnetico disuniforme si divida in tanti fascetti separati, corrispondentemente ai diversi valori della componente del momento. Stern e Gerlach riuscirono a constatare sperimentalmente questo fatto, ed essi poterono misurare il momento magnetico dell'atomo che trovarono eguale a quello predetto dalla teoria di Bohr.

Difficoltà per la teoria di Sommerfeld. - Il brillante successo delle condizioni di Sommerfeld nell'interpretazione teorica della struttura fina e dell'effetto Stark fecero sorgere per qualche tempo la speranza che gli ulteriori problemi della fisica dell'atomo dovessero ridursi semplicemente ad un'applicazione matematica delle condizioni (9). A questo proposito può osservarsi quanto segue. La applicazione diretta delle condizioni di Sommerfeld può farsi soltanto, come sopra si è osservato, a sistemi periodici e multiplamente periodici. Ora, mentre l'atomo di idrogeno imperturbato, e anche perturbato da un campo elettrico o magnetico esterno, appartiene sempre a questa categoria di sistemi e può quindi senz'altro venire trattato coi metodi esposti, ciò non avviene più appena si passa a sistemi atomici un po' più complicati, come per esempio allo studio dell'atomo neutro di elio. Già in questo caso ci si trova infatti di fronte al problema dei tre corpi (il nucleo e i due elettroni) ed il sistema non è più multiplamente periodico, cosicché l'applicazione diretta delle condizioni (9), anche a prescindere dalle difficoltà matematiche, diventa ineffettuabile. In queste condizioni si pensò di applicare alla fisica dell'atomo il metodo delle perturbazioni usato nella meccanica celeste per la determinazione dei moti dei pianeti. I metodi della teoria delle perturbazioni, adattati opportunamente ai problemi della dinamica atomica, permettono di descrivere formalmente il moto di un sistema atomico qualsiasi sotto forma di moto multiplamente periodico, per mezzo di sviluppi in serie non convergenti, ma solamente semiconvergenti, tali cioè che, prendendo per ogni caso un opportuno numero di termini, si ottiene una rappresentazione del moto effettivo con approssimazione grandissima. Fatto questo, è possibile applicare formalmente le (9) anche allo studio di sistemi più complicati dell'atomo di idrogeno e, in primo luogo, all'atomo di elio. E questo fu fatto effettivamente, ma non condusse ad alcun risultato conclusivo; in quanto che i metodi elaborati si mostrarono bensì adatti alla spiegazione qualitativa dei fatti sperimentali, ma del tutto insufficienti a spiegarne i particolari quantitativi. Queste circostanze valsero a scuotere alquanto la fiducia nella verità assoluta delle condizioni di Sommerfeld e si venne formando poco alla volta la convinzione che l'accoppiamento della meccanica classica con le condizioni (9) non potesse servire ad altro che ad una interpretazione qualitativa, utilissima in pratica, ma non esatta, dei fatti sperimentali.

Furono fatti per questo negli ultimi anni numerosi tentativi per arrivare a costruire una nuova meccanica adatta alla trattazione dei problemi della fisica atomica e forse solo negli ultimissimi tempi si è giunti ad una crisi risolutiva nella trattazione di questo importantissimo problema. Riservandoci di accennare più tardi a questi studî, vogliamo ora passare ad esaminare qualitativamente la teoria degli spettri degli atomi complessi servendoci come base del metodo di Bohr-Sommerfeld, nella fiducia che questo, pur non potendoci dare una rappresentazione esatta della realtà, sia tuttavia sufficiente a fornircene le caratteristiche principali. Uno dei più validi mezzi per questo esame qualitativo ci è dato dal principio di corrispondenza di Bohr, che stabilisce un collegamento fra i risultati della teoria classica e i risultati quantistici.

Esso afferma che l'intensità, lo stato di polarizzazione e la frequenza delle righe che un atomo può emettere od assorbire quando si trova in un certo stato somigliano all'intensità, allo stato di polarizzazione ed alla frequenza delle righe che l'atomo, trovandosi nello stesso stato quantico, emetterebbe secondo l'elettrodinamica classica; al limite per grandi numeri quantici, questa somiglianza tende a diventare identità.

Conviene osservare una caratteristica indeterminazione che si riscontra tutte le volte che si ricorre al principio di corrispondenza. Secondo la teoria quantistica, l'emissione di una riga spettrale è legata al passaggio tra due stati dell'atomo; nell'applicazione del principio di corrispondenza resta dunque indeterminato se fare corrispondere l'intensità e lo stato di polarizzazione della riga agli elementi analoghi della teoria classica relativi allo stato quantico di partenza o a quello di arrivo. In pratica si ottiene in genere la migliore approssimazione alla realtà prendendo una media tra gli elementi dei due stati.

Ogni indeterminazione viene naturalmente a sparire per grandi numeri quantici, per il qual caso gli elementi dello stato iniziale e di quello finale sono praticamente identici; ed in questi casi il principio può condurre a risultati esatti.

Un altro caso importante in cui il principio di corrispondenza conduce a risultati rigorosamente esatti è quello in cui nello sviluppo del movimento in serie di Fourier vengano a mancare alcune delle componenti armoniche, sia per lo stato iniziale che per quello finale; in questi casi l'intensità delle righe corrispondenti è da porsi esattamente eguale a zero; o, che è lo stesso, i salti quantici che corrisponderebbero all'emissione o all'assorbimento di tali righe hanno probabilità nulla. Essi si dicono perciò salti quantici proibiti. Questo caso particolare del principio di corrispondenza si dice ordinariamente principio di selezione (Auswahlprinzip).

I salti quantici proibiti sono assai frequenti nei sistemi atomici; si trova p. es. che sono proibiti i salti tra due stati quantici di un atomo, escluso il caso in cui il quanto azimutale k varia di 1.

Spettri ottici e spettri dei raggi X. - Consideriamo un atomo di numero atomico Z costituito da un nucleo di carica Z e e da Z elettroni di carica − e. Ciascuno di questi si muove sotto l'azione dell'attrazione verso il nucleo e delle repulsioni esercitate dagli altri Z = 1 elettroni. Ora è facile convincersi che, in una prima grossolana approssimazione, l'azione degli Z − 1 elettroni si può identificare con l'azione di una distribuzione sferica di elettricità negativa circostante al nucleo, la cui carica complessiva sia appunto (Z − 1) e. La forza agente sopra un elettrone potrà dunque, con questa rappresentazione, porsi eguale alla forza che verrebbe esercitata dal solo nucleo se questo avesse il numero di cariche Z − α, dove α rappresenta il numero degli elettroni che sono più vicini al nucleo dell'elettrone che si considera. Vogliamo ora esaminare due casi particolari specialmente interessanti:

1. L'elettrone che si considera è molto vicino al nucleo.

2. L'elettrone che si considera è molto lontano dal nucleo.

Nel primo caso il numero α che esprime l'azione di schermo degli elettroni sopra la carica nucleare sarà molto piccolo, per modo che Z − α sarà assai prossimo a Z. In prima approssimazione il moto dell'elettrone potrà dunque considerarsi come se avvenisse sotto l'azione del nucleo soltanto. A proposito della teoria dell'atomo di idrogeno noi abbiamo già studiata la quantizzazione del moto di un elettrone sotto l'azione di un nucleo di carica Z e, e abbiamo visto che le energie degli stati quantici erano date (11) da

essendo R il numero di Rydberg ed n il numero quantico totale dell'orbita. I salti quantici degli elettroni profondi daranno dunque luogo all'emissione di righe le cui frequenze possono rappresentarsi approssimativamente con la formula

Naturalmente, perchè questa formula sia valida, è necessario che m ed n siano numeri interi assai piccoli, altrimenti le orbite corrispondenti diventano di raggio grande, e non è più lecita la approssimazione fatta col porre Z − α = Z. Se poniamo p. es. n = 1, m = 2 si trova

Osserviamo che le frequenze rappresentate dalle formule (13) e (14) crescono rapidamente al crescere di Z. Cosicché per Z > 10 esse vengono a prendere dei valori che corrispondono alle frequenze dei raggi Röntgen (circa 1000 volte maggiori delle frequenze della luce visibile). E si riscontra infatti che p. es. la (14) è eguale approssimativamente alla frequenza di una delle più intense radiazioni caratteristiche dello spettro dei raggi X dell'elemento di numero atomico Z (precisamente della cosiddetta riga Ke). Naturalmente un'approssimazione migliore si trova tenendo conto dell'azione di schermo degli elettroni sopra la carica nucleare. Tenendo conto di questa, alla (14) si deve sostituire l'espressione

dove α è una costante assai prossima ad 1.

La formula (15), che fu trovata per la prima volta empiricamente dal Moseley, ha anche molta importanza in quanto permette una determinazione sperimentale sicura del numero atomico di un elemento, per mezzo della misura della frequenza della sua riga Kα.

La formula (13), ove la si completi col tener conto dell'azione di schermo degli elettroni e della variazione relativistica della massa con la velocità (che nel caso dei raggi X può produrre degli effetti assai notevoli) permette di render conto in modo assai soddisfacente di tutte le proprietà spettroscopiche nel campo dei raggi Röntgen; noi non possiamo però entrare qui in dettagli relativamente ad esse.

Prima di lasciare queste considerazioni vogliamo tuttavia osservare che esse permettono una classifica degli elettroni di un atomo secondo il loro numero quantico totale; più è piccolo questo numero e più gli elettroni sono prossimi al nucleo. Il complesso di tutti gli elettroni aventi lo stesso numero quantico totale n costituisce il cosiddetto strato (o anello) elettronico nmo. Il primo di questi anelli si chiama anche anello K, il secondo anello L, il terzo anello M, ecc.

Esaminiamo il caso 2, cioè quello di un elettrone più lontano dal nucleo di tutti gli altri elettroni dell'atomo. In questo caso si potrà considerare in prima approssimazione che l'elettrone si muova sotto l'azione di un nucleo avente carica eguale alla somma algebrica della carica Z e del nucleo dell'atomo e delle cariche degli altri elettroni che sono in numero di Z − 1 e hanno ciascuno carica − e. Risulta dunque che il nostro elettrone può considerarsi mobile sotto l'azione di un centro di carica e; esso viene dunque a trovarsi, in questa approssimazione, nelle stesse condizioni dell'elettrone di un atomo di idrogeno, e la sua energia, salvo il segno, viene perciò espressa in prima approssimazione da R h/n2; osserviamo poi come la nostra approssimazione corrisponda tanto meglio alla realtà, quanto più l'elettrone è lontano dal resto dell'atomo, e cioè quanto più n è grande. Effettivamente l'osservazione spettroscopica ci insegna che gli spettri degli atomi possono rappresentarsi combinando tra di loro dei termini dati da formule del tipo

dove n prende valori interi, e α è una costante che dipende dall'atomo che si considera e dalla particolare successione di termini di cui ci si occupa. R ha invece sempre il valore della costante universale che abbiamo chiamata numero di Rydberg e che figura anche nella formula per lo spettro balmeriano dell'idrogeno. Ora si riconosce immediatamente che l'espressione approssimata R h/n2 per le energie dagli stati quantici del nostro elettrone dà luogo al termine spettroscopico R/n2 il quale, per n assai grande, viene praticamente a coincidere col termine (16). Si trova in particolare in ciò la spiegazione del perchè la costante R della (16) ha, per tutti gli atomi, lo stesso valore che essa ha per l'atomo di idrogeno.

A conferma dell'esattezza di queste considerazioni si può prendere in esame il comportamento spettroscopico di un ione positivo, cioè di un atomo dal quale sono stati tolti uno o più elettroni (per fissare le idee supporremo che sia stato tolto un solo elettrone). Il nostro ione è costituito allora d'un nucleo di carica Z e e da Z − 1 elettroni; se ci riferiamo al solito all'elettrone più esterno, esso si moverà sotto l'azione della carica Z e del nucleo e delle Z − 2 cariche − e degli altri elettroni. In prima approssimazione potremo anche qui supporre che il nucleo e gli Z − 2 elettroni formino una sola carica concentrata di valore 2 e. In questa approssimazione dunque le energie degli stati stazionarî dell'elettrone saranno date dalla (12) ove deve porsi Z = 2; esse risultano dunque

queste energie dànno luogo ai termini

Siamo dunque indotti, con le stesse considerazioni svolte per il caso degli atomi neutri, ad attenderci che negli spettri degli ioni debbano figurare delle successioni di termini rappresentabili con la formula

Ora si riscontra effettivamente che, finché un atomo viene eccitato ad emettere in un modo non troppo energico, come p. es. nella fiamma oppure nell'arco elettrico, nel suo spettro sono prevalenti le righe che possono rappresentarsi per mezzo di termini del tipo (16), e che sono caratteristiche dell'atomo neutro; quando poi l'eccitazione diventa tanto forte da strappare dall'atomo un elettrone, come avviene spesso nei vapori e gas eccitati per mezzo della scintilla elettrica, si trovano nello spettro delle righe rappresentabili con termini del tipo (17), che sono caratteristiche degli ioni positivi. Per la circostanza che gli spettri degli atomi neutri sono prevalenti nell'arco elettrico, mentre gli spettri degli ioni sono prevalenti nella scintilla, si dà in genere agli spettri degli atomi neutri il nome di spettri d'arco, e agli spettri degli ioni il nome di spettri di scintilla.

Ancora un'ultima osservazione a questo proposito: si osserva sperimentalmente che lo spettro di scintilla d'un elemento ha una struttura spiccatamente simile allo spettro d'arco dell'elemento che lo precede nel sistema periodico (legge di spostamento). Vediamo come può interpretarsi questa legge con la teoria di Bohr. Osserviamo perciò che due atomi contigui nel sistema periodico hanno numero atomico, e quindi numero di elettroni, differente di uno. Se quindi confrontiamo un atomo con l'ione positivo dell'elemento che lo segue nel sistema periodico, troviamo che essi hanno lo stesso numero di elettroni e differiscono solamente per la carica nucleare.

Resta dunque assai comprensibile che questa analogia di struttura dei due sistemi si estrinsechi in una analogia degli spettri da essi emessi. In modo particolarmente tipico si osserva l'analogia tra lo spettro dell'idrogeno e quello dell'elio ionizzato: dalla (12) risulta infatti, come si è osservato, che i termini, e quindi anche le frequenze delle righe dell'elio ionizzato, si ottengono semplicemente moltiplicando per 4 i termini e le frequenze delle righe dell'idrogeno.

Vogliamo ora esaminare un po' più particolarmente i differenti termini che costituiscono lo spettro di un atomo. Abbiamo visto che, in prima approssimazione, l'atomo può scindersi in due parti: l'elettrone più esterno (detto elettrone luminoso), e il complesso del nucleo e degli altri elettroni (che si chiama nocciolo). Abbiamo poi visto che si può approssimativamente sostituire l'azione del nocciolo sopra l'elettrone luminoso con quella di una unica carica concentrata, di valore e per gli spettri d'arco, 2 e per gli spettri di scintilla. Un'approssimazione maggiore può poi ottenersi ammettendo che la forza esercitata dal nocciolo, pur essendo sempre una forza centrale, non obbedisca però alla legge newtoniana. In questa ipotesi si trova che l'energia degli stati stazionarî, oltre che dal quanto totale n viene anche a dipendere dal quanto azimutale k; essa può scriversi approssimativamente sotto la forma (16) (oppure [17], se si tratta di spettri di scintilla); la costante α che figura in quella formula dipende soltanto da k e non da n. Si può anzi prevedere che essa debba avere valori tanto più grandi quanto più piccolo è k; infatti per k piccolo l'orbita dell'elettrone viene ad avere una forma molto allungata e passa quindi molto vicino al nucleo; ora è appunto vicino al nucleo che la forza agente sopra l'elettrone presenta le divergenze maggiori dalla legge newtoniana, e quindi per tali orbite resta maggiore la differenza dei termini da quelli balmeriani.

Ricordiamo ora che, fissato il valore di n, il quanto azimutale k può prendere gli n valori 1, 2, 3,..., n, a ciascuno dei quali corrisponde un diverso valore di α nella formula (16). Concludiamo dunque che ad ogni termine dello spettro dell'idrogeno vengono, in questa approssimazione, a corrispondere n termini più o meno differenti tra loro. Parimenti, se diamo a k un valore fisso, n può prendere i valori k, k + 1, k + 2,...; e troviamo così una successione di termini rappresentabili con la (16). Per indicare i termini con quanto totale n e quanto azimutale k si usa spesso la notazione nk. Un'altra notazione assai frequente è la seguente. I termini per cui k = 1 si indicano con la lettera s, quelli per cui k = 2 con la lettera p, quelli per cui k = 3 con la lettera d, quelli per cui k = 4 con la lettera f, ecc. Il numero quantico totale si suole scrivere prima della lettera che indica il quanto azimutale. Per es. il termine per cui n = 3, k = 2 può indicarsi col simbolo 32, oppure coll'altro 3 p.

È importante la seguente osservazione: risulta dal principio di corrispondenza che nell'atomo imperturbato sono possibili soltanto quei salti quantici in cui il quanto azimutale k varia di ± 1. I termini s possono dunque combinarsi soltanto coi termini p, i termini p soltanto con gli s e coi d, i termini d soltanto coi termini p ed f, ecc.

Queste considerazioni, insieme con altre in cui si tiene conto delle diverse possibili orientazioni delle orbite degli elettroni di uno stesso atomo tra di loro e rispetto agli assi magnetici degli elettroni, le quali cause dànno luogo a una molteplicità dello spettro assai maggiore di quella descritta nella teoria schematica qui esposta, forniscono la chiave per la interpretazione qualitativa di tutti gli spettri atomici; non possiamo però qui entrare in particolari a questo proposito, e rimandiamo per essi alle opere speciali.

Disposizione degli elettroni in un atomo. - L'orbita di qualunque elettrone di un atomo può sempre classificarsi per mezzo dei suoi due numeri quantici n, k. Si presenta allora il problema di determinare quanti sono gli elettroni di un atomo per cui n e k hanno dei valori dati. Tale problema ha un'importanza assai grande, perchè la sua risoluzione permette notevoli previsioni sopra il comportamento chimico dell'atomo e sopra le sue proprietà spettroscopiche, sia nel campo degli spettri luminosi, sia in quello dei raggi X. Ci manca lo spazio per descrivere in particolare gli importantissimi studî svolti sopra questo argomento spmialmente per opera di Bohr, Stoner e Pauli; ci limiteremo perciò ad un riassunto molto sommario. Il criterio fondamentale sul quale si basa oggi la classificazione degli elettroni è il seguente: se in un atomo esiste un elettrone il cui moto è caratterizzato da certi numeri quantici, si è riconosciuto che nell'atomo non può esistere nessun altro elettrone i cui numeri quantici siano tutti eguali a quelli del primo (come numeri quantici che caratterizzano un elettrone bisogna considerare, oltre n e k, anche due altri numeri m1 ed m2 che caratterizzano l'orientazione dell'orbita e dell'asse magnetico dell'elettrone rispetto a un campo esterno). Ciascuna quaterna di numeri quantici n, k, m1, m2 determina in altre parole un posto che può essere occupato al massimo da un solo elettrone. Con considerazioni che qui non riportiamo si trova che il numero dei posti per cui n e k hanno valori fissati è dato da 4 k − 2. Questo è dunque il limite superiore per il numero degli elettroni del tipo nk. Ci potranno perciò essere al massimo 2 elettroni 11, 2 elettroni 21, 6 elettroni 22, ecc. Ne segue che l'anello K, per cui n = 1, potrà contenere al massimo due elettroni, l'anello L, per cui n = 2, può contenere fino a 8 elettroni, ecc.

L'unico elettrone dell'idrogeno avrà come orbita più stabile un'orbita 11, e parimenti i due elettroni dell'elio saranno entrambi legati in orbite 11; se però si passa a considerare il litio, che contiene tre elettroni, si trova che soltanto due di questi possono esser legati in orbite 11, e l'altro dovrà perciò andare ad occupare un'orbita 21; nel berillio si hanno due elettroni in orbite 11 e due altri in orbite 21, nel boro due elettroni 11, due elettroni 21 e uno 22; e se consideriamo il neon, che ha 10 elettroni, troviamo che due di essi occuperanno i due posti 11, e gli altri 8 occuperanno gli 8 posti 21, 22.

Con queste considerazioni, integrate con altre, basate specialmente sopra certe anomalie negli spettri dei raggi X, si è giunti a costruire la seguente tabella che dà la disposizione degli elettroni in ogni atomo:

Accenniamo brevemente a qualche applicazione di questa tabella. Si riconosce intanto immediatamente da essa che i gas nobili, che sono gli elementi chimicamente più stabili, corrispondono a configurazioni particolarmente simmetriche degli elettroni più esterni. Osserviamo infatti che l'elio e il neon corrispondono al completamento degli anelli elettronici K ed L, mentre per tutti gli altri gas nobili si ha per gli elettroni esterni una configurazione identica a quella del neon. Parimenti si può osservare che per tutte le successioni di elementi chimicamente omologhi il numero e la disposizione degli elettroni più esterni è sempre lo stesso; tale numero si trova poi in connessione con la valenza e col carattere metallico oppure elettronegativo dell'elemento. Un altro esempio caratteristico della connessione tra le proprietà chimiche e la disposizione degli elettroni ci è dato dal gruppo delle terre rare; si trova infatti che per tali elementi si viene completando l'anello N, mentre gli elettroni più esterni conservano, durante tutta la formazione del gruppo, una configurazione immutata; ciò spiega come le proprietà chimiche di questo gruppo di elementi siano assai simili, tanto che la loro separazione riesce difficilissima.

Spettri delle molecole. - Passiamo ora a un rapido esame degli spettri emessi dalle molecole (spettri di bande). Per semplicità ci limiteremo alla considerazione delle molecole biatomiche; esse sono costituite dai nuclei, nei quali è concentrata praticamente tutta la massa della molecola, e da un certo numero di elettroni, che descrivono attorno ai due nuclei orbite più o meno complicate. Data la loro piccolissima massa, gli elettroni saranno animati da moti assai più rapidi di quelli dei nuclei, cosicché, in prima approssimazione, il moto degli elettroni potrà considerarsi indipendente dal lento movimento dei nuclei; in analogia a quanto si è visto nel caso degli atomi, noi ammetteremo che gli elettroni possano assumere soltanto certi moti quantisticamente privilegiati, ed indicheremo l'energia di uno di questi moti con Ecl. Corrispondentemente ad ogni stato quantico del movimento elettronico, resta fissata una distanza dei due nuclei per cui questi possono essere in equilibrio; il loro moto (a prescindere da un eventuale moto traslatorio di tutta la molecola) sarà duplice: una vibrazione, in cui la distanza tra i due nuclei oscilla attorno alla distanza di equilibrio, e una rotazione attorno a un asse passante per il centro di gravità della molecola. In prima approssimazione noi considereremo separatamente il contributo di questi due tipi di movimenti all'energia della molecola. L'energia corrispondente al moto oscillatorio è data da n h ν, essendo ν la frequenza propria dell'oscillazione dei due nuclei; tale frequenza sarebbe costante, se la forza di legame tra i due nuclei fosse rigorosamente elastica; in realtà, essendo tale forza soltanto quasi-elastica, essa dipenderà un po' anche da n. L'energia dovuta al moto rotatorio si calcola osservando che, per le condizioni di Sommerfeld, la quantità di moto areale della molecola deve essere un multiplo intero di h/2 π; se J è il momento di inerzia della molecola e ω la sua velocità angolare avremo dunque

L'energia di rotazione risulta perciò espressa da

Sommando l'energia dei moti elettronici con quelle del moto oscillatorio e rotatorio dei nuclei troviamo infine, come energia di uno stato stazionario della molecola,

Si trova in pratica che, in questa espressione dell'energia, il termine più importante è quello elettronico, viene poi quello oscillatorio e da ultimo quello rotatorio. Osserviamo anche che le posizioni di equilibrio dei due nuclei e le forze tra essi agenti dipendono in larga misura dal moto elettronico; cosicché i valori di ν e di J verranno a variare notevolmente in un salto quantico in cui varî il moto elettronico, mentre resteranno approssimativamente costanti se cambia soltanto lo stato di oscillazione o di rotazione dei due nuclei. Si trova poi, con una semplice applicazione del principio di corrispondenza, che in un salto quantico il quanto di rotazione m può variare soltanto di ± 1 oppure di 0.

Vogliamo ora studiare le frequenze delle righe che vengono emesse corrispondentemente ad un salto tra due stati quantici del tipo (18). Cominciamo perciò con l'osservare che la differenza delle energie di due stati quantici, e quindi la frequenza emessa nel salto quantico tra di essi, avrà diverso ordine di grandezza secondo che nel salto quantico varia oppure no il tipo di movimento degli elettroni; si trova generalmente che nel primo caso la frequenza emessa appartiene allo spettro visibile e a quello ultravioletto, mentre nel secondo appartiene all'infrarosso. In questo secondo caso Eel, ν, J non variano nel salto quantico; troviamo perciò come frequenza emessa, ricordando la (2), e indicando con accenti le quantità che si riferiscono allo stato finale,

Risulta dal principio di corrispondenza che in questo caso m′ può prendere soltanto i valori m ± 1; la frequenza emessa diventa dunque

Se teniamo costanti n ed n′ e facciamo variare soltanto m, la formula precedente ci dà tante righe che hanno tra loro differenza di frequenza costante = h/8 π2 J; una tale successione di righe costituisce una banda infrarossa. L'osservazione di queste bande è specialmente importante in quanto permette di misurare il momento di inerzia delle molecole.

Nel caso che nel salto quantico varî anche la configurazione elettronica (caso delle bande visibili e ultraviolette), troviamo come frequenza emessa, se m′ = m ± 1:

oppure, se m′ = m:

se facciamo variare m in queste formule otteniamo una successione di righe che costituisce la banda. Si riscontra subito che tali righe presentano un caratteristico addensamento per un particolare valore di m, e a questo addensamento corrisponde la cosiddetta testa della banda.

Statistica degli stati quantici. - Vogliamo ora accennare brevemente a un altro importante capitolo della fisica atomica, e precisamente allo studio degli equilibrî che si stabiliscono ad una data temperatura tra i varî stati quantici di un atomo. Il problema è questo: supponiamo di avere, in un ambiente mantenuto a temperatura uniforme T, un numero N molto grande di atomi eguali; indichiamo poi con n1, n2, n3,... il numero di questi atomi che si trovano rispettivamente negli stati quantici di energia E1, E2, E3,... Si tratta di determinare questi numeri. Il caso più semplice quello in cui tutti gli stati stazionarî hanno energie differenti tra loro; in questo caso si trova, con una applicazione della termodinamica e della meccanica statistica, che i numeri n1, n2, n3,... sono proporzionali a

essendo k la costante di Boltzmann. Il fattore di proporzionalità si determina subito per mezzo della condizione n1+n2+n3+...=N. Nel caso che i diversi livelli energetici possano essere realizzati in più di un modo, i numeri n1, n2, n3,... risultano invece proporzionali a

Le g1, g2, g3,... sono costanti dette pesi statistici, eguali al numero dei modi nei quali è possibile realizzare i corrispondenti livelli.

Da quanto si è detto risulta che in generale sono più probabili gli stati di energia più piccola, dato che per essi il fattore esponenziale ha il massimo valore. Generalmente anzi i valori delle energie sono tali che, per temperature non elevatissime, la grande maggioranza degli atomi si trova nello stato di minima energia; per tale ragione questo stato si dice fondamentale.

Questa circostanza ha particolare importanza nello studio dello spettro di assorbimento di un vapore freddo (o, almeno, non molto caldo). In questo caso infatti gli atomi del vapore si troveranno tutti praticamente nello stato fondamentale, per modo che potranno venire assorbite soltanto quelle radiazioni che corrispondono al passaggio dell'atomo dallo stato fondamentale ad un altro stato quantico e non quelle che corrispondono al salto tra due stati, nessuno dei quali sia il fondamentale. A questa circostanza è dovuto il fatto che non tutte le righe di emissione si osservano anche in assorbimento. Si intende che se il vapore assorbente è ad alta temperatura oppure fortemente eccitato per mezzo di una scarica elettrica, per modo che si trovino presenti in esso notevoli percentuali di atomi in stati diversi da quello fondamentale, potranno essere assorbite anche le righe che partono da questi stati.

Un altro problema di statistica atomica è quello della determinazione dell'equilibrio termico di dissociazione; se si dissocia un atomo A strappandogli un elettrone e, esso si trasforma in un ione positivo A+ conformemente ad una specie di reazione chimica la cui equazione (nel senso chimico) è

Analogamente a quello che succede nelle dissociazioni chimiche, anche in questo caso si stabilisce, ad ogni temperatura, un equilibrio tra atomi, ioni ed elettroni. Il Saha ha calcolato questo equilibrio per mezzo degli stessi procedimenti termodinamici che servono per il caso delle dissociazioni chimiche, riuscendo a stabilire quale percentuale di atomi si ionizza in date condizioni di temperatura e di pressione. La teoria di Saha ha avuto applicazioni specialmente importanti nel campo dell'astrofisica; infatti dall'intensità relativa delle righe d'arco e di scintilla nello spettro di una stella, essa permette di trarre interessanti conclusioni sopra la temperatura e le condizioni fisiche alla superficie della stella.

L'elettrone rotante. - Se si considera l'elettrone come un punto materiale, la molteplicità dei termini, che risulta dalle precedenti teorie, è minore di quella che si osserva sperimentalmente. Questa difficoltà, che sembrò per molto tempo gravissima, è stata risolta da Goudsmit e Uhlenbeck con l'ipotesi dell'elettrone rotante. Essi ammettono precisamente che gli elettroni, oltre alla carica elettrica, abbiano anche un momento magnetico e un momento meccanico, e si comportino dunque come corpuscoli elettrici animati da un moto di rotazione attorno al loro asse; per questa ragione tale ipotesi è detta dell'elettrone rotante. Le diverse possibilità di orientazione dell'asse dell'elettrone rotante permettono di spiegare tutte le molteplicità spettrali che si osservano. L'ipotesi ha permesso inoltre di interpretare l'effetto Zeeman anomalo e moltissimi fatti spettroscopici, tanto che, benché ne manchino fino ad oggi prove dirette, essa viene generalmente considerata, almeno nelle sue linee essenziali, corrispondente alla realtà.

La nuova meccanica. - Altri studî importantissimi attualmente in corso tendono a risolvere le difficoltà dell'adattamento della meccanica ai problemi della fisica atomica, difficoltà alle quali abbiamo più volte accennato nel corso di questo articolo.

La nuova meccanica, costruita per questo scopo, intacca profondamente i principî della meccanica e della cinematica abituali. Essa si è sviluppata in due forme, una dovuta al Heisenberg e l'altra allo Schrödinger. Queste, pur avendo avuto origine e metodi totalmente diversi, hanno finito col fondersi e integrarsi una con l'altra, così che oggi esse non sono che due parti dello stesso edificio.

Il Heisenberg parte dall'osservazione che la determinazione simultanea della posizione e della velocità degli elettroni di un atomo è un elemento non direttamente accessibile all'esperienza, la quale ci permette soltanto di osservare la radiazione che viene emessa dall'atomo. Ora si può pensare che l'attuale impossibilità di determinare simultaneamente la posizione e la velocità degli elettroni in un atomo sia contingente ai mezzi usati per determinarla; ma si può anche pensare, e questo è il punto di vista del Heisenberg, che tale impossibilità sia insita nella cosa stessa e che ogni mezzo sperimentale, per quanto raffinato, non permetta di osservare la posizione e la velocità altro che con un certo limite di approssimazione.

Se, ammesso questo, noi partiamo dal principio che nella fisica non sia legittimo considerare altro che quegli elementi che sono accessibili, sia pure in linea teorica, all'esperienza, dobbiamo concludere che la teoria dell'atomo, quale l'abbiamo esposta, è ingombrata da elementi artificiosi, e che gli unici elementi che possano legittimamente figurarvi sono gli elementi della radiazione che l'atomo può emettere. Ora è riuscito al Heisenberg, coadiuvato specialmente dal Born e dal Jordan, di dar forma matematica alle idee esposte, costruendo una nuova meccanica quantistica in cui non figurano altri elementi oltre quelli osservabili direttamente; lo strumento matematico adatto allo studio di questa nuova meccanica è il calcolo delle matrici; precisamente l'elemento della matrice avente gli indici i e k corrisponde alla radiazione che viene emessa nel salto quantico tra gli stati imo e kmo.

Un altro tentativo di costruzione di una nuova meccanica più adatta di quella ordinaria allo studio dei problemi atomici è dovuto allo Schrödinger, che vi è arrivato approfondendo e precisando alcune idee espresse per primo da L. de Broglie. Questi autori partono da un'analogia, osservata fin dai tempi del Hamilton, tra la meccanica classica e l'ottica geometrica. Si trova infatti che il moto di un punto materiale è eguale al moto di un gruppetto di onde di estensione assai limitata, purché si attribuisca al mezzo ottico in cui si muove questo gruppetto di onde un indice di rifrazione variabile da punto a punto, che sia una opportuna funzione del potenziale meccanico a cui è soggetto il punto materiale; i principî variazionali della meccanica corrispondono, in questo, al principio parallelo di Fermat dell'ottica geometrica. Ora è ben noto che l'ottica geometrica dà risultati praticamente esatti finché le lunghezze che intervengono nei varî problemi sono molto grandi in confronto alla lunghezza d'onda, mentre, quando tali lunghezze divengono assai piccole, intervengono delle complicazioni dovute alla diffrazione, che richiedono la sostituzione dell'ottica ondulatoria all'ottica geometrica. Ora il tentativo dello Schrödinger consiste nel costruire una meccanica che, nel senso spiegato, sia analoga all'ottica fisica invece che a quella geometrica. In questa nuova meccanica, detta meccanica ondulatoria, l'esistenza di stati stazionarî discreti si presenta come naturale conseguenza delle equazioni fondamentali; gli stati stazionarî del sistema meccanico vengono infatti a corrispondere alle varie frequenze proprie di un sistema oscillante.

Come si vede anche da questi brevissimi cenni, i due tentativi innovatori del Heisenberg e dello Schrödinger partono da punti di vista totalmente diversi, per non dire opposti. È perciò assai notevole il fatto che è riuscito allo Schrödinger di dimostrare che i risultati a cui essi conducono sono identici, così che essi possono considerarsi come due aspetti differenti della stessa cosa.

Quanto ai risultati concreti finora raggiunti da queste nuove teorie, parve in un primo tempo che essi dovessero ridursi a pochi ritocchi quantitativi, in quei casi in cui la teoria del Sommerfeld si mostrava in lieve disaccordo con l'esperienza. Studî seguenti hanno invece dimostrato che la portata delle nuove teorie, a prescindere dalla loro importanza concettuale, è ben più vasta. Esse si sono infatti ormai mostrate feconde di idee completamente nuove, nel campo della teoria dell'irradiazione, che per la prima volta viene costituita su basi razionali; nel campo della chimica, ove trovano la loro spiegazione naturale i fenomeni della valenza; nella teoria del ferromagnetismo; nella teoria dei fenomeni radioattivi di cui oggi si intravede la possibilità; nella teoria dei metalli, che va continuamente perfezionandosi. Certamente si tratta di teorie assai recenti, su cui è quindi ancora difficile un giudizio, e su cui ancora molto lavoro dovrà esser fatto prima che esse arrivino a un assestamento definitivo.

Bibl.: Nella impossibilità di indicare, sia pure sommariamente, l'enorme numero di lavori particolari sopra gli argomenti svolti in questo articolo, ci limitiamo a indicare alcuni dei principali trattati, ai quali rimandiamo per una bibliografia più particolareggiata.

A. Sommerfeld, Atombau und Spektrallinien, Brunswick 1926; N. Bohr, Über den Bau der Atome, Berlino 1925; M. Born, Vorlesungen über Atommechanik, Berlino 1925; M. Born, Probleme der Atomdynamik, Berlino 1926; L. Brillouin, La théorie des quanta et l'atome de Bohr, Parigi 1922; Geiger-Scheel, Handbuch der Physik, XXII, Berlino 1926; F. Hund, Linienspektren und periodisches System der Elemente, Berlino 1927; E. Fermi, Introduzione alla fisica atomica, Bologna 1928.

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