DRAMIS, Attanasio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DRAMIS, Attanasio

Francesco M. Biscione

Nacque a San Giorgio Albanese in Calabria Citeriore (oggi provincia di Cosenza) il 1° maggio 1829 da Giuseppe, cospiratore liberale, e da Teresa De Simone, primo di sei figli, appartenente al gruppo etnico albanese.

Compì gli studi presso il collegio italo-greco di San Demetrio Corone (vivaio, per motivi etnici e politici, del movimento risorgimentale) tra il 1842 e il '48, e li strinse amicizia con Agesilao Milano, albanese anch'egli. Partecipò alla rivoluzione del 1848, che in Calabria Citeriore - anche per iniziativa di Domenico Mauro e dei suoi fratelli - ebbe un segno di protesta contadina con occupazioni di fondi: il D. si batté a Campo Tenese insieme con Giuseppe Ricciardi contro le truppe del generale F. Lanza e, insieme con il padre, fu tra i protagonisti del movimento a San Giorgio.

Sedata l'insurrezione, fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Cosenza, dal quale nell'agosto 1851 tentò, con altri prigionieri politici, un'ingenua e sfortunata evasione con le armi; ferito e riconsegnato alla giustizia, fu sottoposto al tribunale militare e, sebbene nel dicembre 1851 la gran corte criminale della Calabria Citeriore ne ordinasse la scarcerazione in relazione ai fatti del '48, venne liberato solo alla fine del 1852 per grazia di Ferdinando II (concessa per la supplica del padre del D. che, assumendosi tutte le responsabilità, difendeva il figlio "vittima del paterno esempio").

Nel maggio 1856, d'accordo con il comitato segreto del partito d'azione di Cosenza - favorevole alla strategia della guerra per bande -, si infiltrò, con A. Milano e sotto falso nome, nelle fila dell'esercito borbonico allo scopo di verificare la possibilità di un'azione insurrezionale. Presi contatti con il comitato segreto di Napoli, che il Milano giudicò inetto al punto di non riconoscerne l'autorità e decidere di agire di propria iniziativa, il D. non poté impedire, pur essendo in disaccordo, che l'amico mettesse in opera l'attentato al re Ferdinando (dicembre 1856), subendone così le conseguenze: il Milano fu impiccato e il D., arrestato con altri calabro-albanesi, fu trattenuto quasi quattro anni senza processo nel carcere di Santa Maria Apparente e finalmente liberato nel giugno 1860 dietro la pressione politica dello sbarco garibaldino in Sicilia.

Il fallito attentato a Ferdinando ebbe per il D. uno strascico polemico: nel 1895 il quotidiano romano La Capitale lo accusò di essere tra i responsabili dei tentato regicidio. Egli rispose pubblicando una lettera aperta ASua Eccellenza cavalier Francesco Crispi, Napoli 1895, che costituisce un'utile fonte storica e autobiografica (in Cassiano, pp. 135-152).

Raggiunta Palermo e messosi a disposizione di Garibaldi, questi gli affidò l'incarico di costituire una legione di volontari che cooperasse con le camice rosse nella risalita della Calabria. Sciolta l'amministrazione comunale di San Giorgio e trasferiti i poteri al comitato municipale, il D. reclutò tra i contadini calabro-albanesi i volontari di un battaglione di quella che sarebbe divenuta la legione Sprovieri, nella quale il D. e i suoi uomini combatterono dalla Calabria al Volturno, separando i propri destini dal grosso delle truppe dopo la resa di Capua.

Nel '62 il D. seguì nuovamente Garibaldi: fu nominato capitano comandante della guardia nazionale calabrese e mobilitato contro il brigantaggio, agli ordini del generale E. Cosenz. Egli guidò, nell'agosto 1863, lo scontro che portò alla morte del noto brigante Paolo Serravalle (ne dà conto un suo rapporto in Atti delle Commissioni centrali e provinciali dell'Italia meridionale per soccorrere i danneggiati del brigantaggio..., I, Napoli 1863, pp. 200 ss.).

Trasferitosi a Napoli, dove lavorò come impiegato del Comune e poi come appaltatore daziario, collaborò al mazziniano Popolo d'Italia di Giorgio Asproni e si avvicinò al circolo radicale che faceva capo a Carlo Gambuzzi, Alberto Tucci, Giuseppe Fanelli, Saverio Friscia. Tra costoro era diffusa la delusione per l'esito della rivoluzione nazionale ed era manifesta (sulla scia di Cattaneo e Pisacane) la critica allo Stato accentratore, responsabile del permanere delle miserrime condizioni delle masse meridionali. Lo stesso D., propenso a considerare esaurite le tematiche repubblicane mazziniane (e tanto più i loro aspetti religiosi) e certo che ben più ampio spazio dovesse darsi alla questione sociale, rifiutò la presidenza della falange mazziniana meridionale.

I limiti teorici del mazzinianesimo e l'esito risorgimentale furono elementi centrali del dibattito politico postunitario tra i democratici del partito d'azione, dibattito che si svolse in parte parallelamente alla discussione europea che vedeva l'affrontarsi nell'Associazione internazionale dei lavoratori delle tendenze repubblicane, anarchiche, socialiste. Già isolato nell'ambito dell'Internazionale, Mazzini stesso, interpellato dal gruppo di Napoli, rifiutò di trasformare il motto "Dio e popolo" in "Libertà e giustizia", come i napoletani avrebbero voluto.

Ad alimentare la discussione giunse a Napoli nel giugno 1865 il grande avversario di Mazzini, M. Bakunin, proveniente da Firenze e attratto nel Mezzogiorno d'Italia dal miraggio della rivoluzione contadina. Il rivoluzionario russo si inserì, portandovi le proprie argomentazioni e la propria ricca personalità, nella discussione del gruppo, con cui, in specie con il D., stabilì affettuosi rapporti d'amicizia. Anche se la critica del mazzinianesimo era già avviata e l'adesione alle tematiche sociali proposte dall'Internazionale costituiva il compimento pressoché naturale di quel tipo di discussione, e anche se a rigore non poteva essere definita bakunista l'associazione cui il gruppo diede vita alla fine del 1866, la presenza di Bakunin ebbe senz'altro la funzione di accelerare e vivificare gli esiti dell'itinerarlo che avrebbe portato al prevalere tra gli intellettuali di estrazione risorgimentale delle tematiche internazionaliste (cfr. Libertà e giustizia, a cura, di M. Ralli, Salerno 1977).

L'associazione Libertà e giustizia (Friscia presidente, Gambuzzi e il D. segretari) - che ebbe un settimanale con lo stesso titolo (agosto-dicembre 1867), diretto da Pier Vincenzo De Luca - elaborò la linea del giornale e il programma ispirandoli al radicalismo repubblicano e al socialismo: suffragio universale, revocabilità dei mandati elettivi, magistratura indipendente ed elettiva, libertà di stampa e di culto, imposta unica e progressiva sul reddito, autonomia amministrativa dei Comuni, emancipazione del lavoro dal servaggio sociale, ecc. La crisi del gruppo (ne è testimonianza il carteggio di Bakunin del periodo 1867-69 con gli amici italiani) intervenne poco dopo la fondazione allorché molti affiliati parteciparono nelle file garibaldine alla guerra del 1866.

Inizia qui il progressivo distanziarsi del D. dal ruolo del protagonista ricoperto negli anni precedenti. Egli, che intanto aveva messo su famiglia, fu di nuovo costretto a cercare un'occupazione per il sostentamento. Partecipò nel 1869 - con Gambuzzi, Fanelli, Carlo Cafiero e altri - alla costituzione della federazione napoletana dell'Internazionale, della quale ancora nel 1872 il prefetto di Napoli lo annoverava tra i soci più pericolosi. Sciolta la federazione con decreto 20 apr. 1877 a seguito della rivolta di San Lupo guidata da Cafiero ed E. Malatesta, egli concorse alla sua ricostruzione nel 1878-79.

Il D. morì a Napoli nel novembre del 1911.

Fonti e Bibl.: D. Cassiano, Democrazia e socialismo nella comunità albanese di Calabria: A. D. Napoli 1977, con indicazioni bibliografiche e documentarie.

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