MORI, Attilio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MORI, Attilio

Maurizio Bertolotti

MORI, Attilio. – Nacque a Mantova il 16 marzo 1810 da Pietro Giuseppe, orefice, e da Rosa Gherlinzoni.

Frequentato con ottimo profitto il liceo nella città natale, conseguì il 17 settembre 1831 la laurea di ingegnere architetto presso l’Università di Pavia. Già all’epoca era coniugato con Giovanna Sartori, dalla quale nel 1830 ebbe Temistocle e nel 1835 Icilio. Dopo aver compiuto la pratica prescritta, nel 1841 ottenne dall’Imperial Regia Delegazione provinciale l’autorizzazione a esercitare la professione. Non corrisponde quindi a verità che l’autorizzazione gli fosse stata negata per motivi d’ordine politico, come alcuni sostennero. Vero è invece che sempre nel 1841 fu respinta la sua domanda di essere inserito nell’elenco dei periti del tribunale.

L’agricoltura mantovana, interessata da un modesto ma innegabile processo di modernizzazione capitalistica, era il settore dell’economia locale che offriva allora agli ingegneri le più remunerative occasioni di occupazione. Per questo, e non perché gli fosse preclusa l’attività di ingegnere, Mori si dedicò alla conduzione dei fondi agricoli di sua proprietà (di complessivi 30 ettari) e accettò nel 1846 l’incarico di amministratore delle tenute dei nobili Francesco e Livio Benintendi.

Lo animavano spirito imprenditoriale e fiducia nel progresso che caratterizzavano la borghesia rurale mantovana del tempo e che echeggiano in una lettera traboccante di amor di patria indirizzata all’amico Enrico Dolcini il 21 giugno 1860: «Mediante i progressi meccanici l’agricoltura a già guadagnati molti terreni paludosi e spingendo maggiormente le intraprese si riescirà a vincere maggiori ostacoli e fare del nostro paese la più bella e ricca plaga mondiale».

Proprio dalle fila della nuova borghesia rurale mantovana alla quale Mori va ascritto, per elezione se non per nascita, provenne la maggior parte dei giacobini del Triennio e della robusta leva patriottica del 1848. In Mori l’adesione alla religione della patria e del progresso maturò forse nelle aule dell’ateneo pavese. Certo è che nel 1839 era tra i sorvegliati dalla polizia: in un rapporto della primavera di quell’anno è presentato malevolmente come un «giovane di limitatissimo ingegno [e] di limitate fortune», conosciuto come «il cagnotto, ossia difensore dei liberali per la sua forza fisica». Sebbene l’affiliazione alla Giovine Italia non risultasse provata dal rapporto, vero è che tra i liberali con i quali egli fu allora accusato di aver brindato alla «Nazione Italiana», due almeno – Carlo Gonzales e Livio Benintendi – erano legati all’organizzazione mazziniana.

Con Benintendi il sodalizio di Mori era, a un tempo, economico e politico. Da un registro della polizia del 1853 si apprende che prima del 1848 Mori aveva intensi rapporti «con persone esaltate e spiegate nemiche del Governo Austriaco» e che scoppiata la rivoluzione egli «figurò tra i più esaltati ». Risulta in effetti appartenere al Comitato provvisorio, che il 19 marzo assunse a Mantova la guida del moto insurrezionale, e tra coloro che avrebbero voluto da parte del Comitato stesso una condotta più audace e risoluta. Allorché fu chiaro che la rivoluzione volgeva al fallimento, abbandonò la città e si diresse a Gazzuolo dove – come ricorda Federico Negretti, storico della «colonna mantovana» – tra la fine di marzo e i primi di aprile progettò e promosse con altri «generosi» la costituzione del corpo di volontari denominato «bersaglieri mantovani Carlo Alberto».

Avvalendosi dell’amnistia, alla fine della guerra rientrò in città, dove – si legge nel citato registro di polizia del 1853 – «tenne sempre contegno sospetto e nemico al Governo ». L’incontro del 2 novembre 1850 da cui prese avvio la congiura mazziniana detta di Belfiore si tenne nella casa del fuoriuscito Benintendi, e ad accogliere i 20 congiurati fu Mori che, con Enrico Tazzoli e Carlo Marchi (più tardi sostituito da Giovanni Acerbi), fu chiamato a dirigere il Comitato. La partecipazione significativa del clero, la vasta e capillare ramificazione del movimento, il ruolo determinante giocato in essa dagli esponenti della nuova borghesia rurale furono i tratti peculiari della cospirazione mazziniana del 1850 in terra mantovana.

Quando la trama venne a conoscenza della polizia alla fine del dicembre 1851, Mori era già in carcere con l’accusa di aver diffuso una stampa satirica. La sua posizione si aggravò allorché, alla luce delle deposizioni di Omero Zannucchi dell’1° aprile 1852 e delle successive di Luigi Castellazzo e di Tazzoli, fu evidente al giudice Alfred Kraus che egli era uno dei capi della congiura. Come si evince dalle sue memorie e dagli atti del processo, Mori respinse ogni accusa sino al costituto del 10 dicembre nel quale, forse impressionato dalle impiccagioni di Giovanni Zambelli, Angelo Scarsellini, Tazzoli, Bernardo Canal e Carlo Poma, si risolse a confessare. Il 2 febbraio 1853, infine, fu posto a confronto con l’amico Giuseppe Finzi, da lui affiliato, a carico del quale peraltro Mori non aggiunse nulla più di quanto era stato a suo tempo riferito prima da Castellazzo, poi da Tazzoli. Con sentenza del 3 marzo 1853 fu riconosciuto colpevole di alto tradimento e condannato alla pena di morte, commutata per decisione di Radetzky in quindici anni di carcere in ferri. Ne scontò più di tre nella fortezza di Josephstadt in Boemia, da cui fu liberato grazie al condono di Francesco Giuseppe del 3 dicembre 1856.

Al periodo della prigionia Albany Rezzaghi (1956) attribuisce (senza spiegare su quali basi) la stesura di una memoria intitolata Del grande processo politico fatto dal militare in Mantova dal Dicembre 1851 al Marzo 1853. Il manoscritto originale è scomparso; una trascrizione, compiuta da Rezzaghi nei primi anni Cinquanta, appare incompleta. Quanto della memoria è giunto sino a noi risulta comunque storicamente rilevante: documentando le pesanti pressioni fisiche e psicologiche esercitate sui prigionieri, aiuta infatti a comprendere perché quasi tutti finirono con il confessare. Rilevante anche quanto Mori riferì sui suoi rapporti in carcere con Castellazzo. È plausibile che questi gli avesse confidato di avere ceduto a causa delle bastonature subite, come sostenne per tutta la vita. Meno plausibile è che Castellazzo gli avesse confessato di aver rivelato agli inquirenti la cifra del registro di Tazzoli, circostanza che Castellazzo negò sempre e che fu smentita dagli atti del processo. Credibile è invece che Castellazzo avesse addossato ad altri, in primo luogo a Tazzoli, responsabilità che dagli atti del processo risultano principalmente sue. Mori affermava infine di avere respinto gli inviti a confessare rivoltigli da Castellazzo. Viene così smentita l’accusa lanciata nel 1884 da Finzi a Castellazzo di essere il responsabile del cedimento di Mori. Se si aggiungono i rilievi che Mori muoveva a Tazzoli per le sue gravi leggerezze, si comprendono le ragioni per cui Rezzaghi, convinto sostenitore delle tesi accusatorie di Finzi, ripetute e sviluppate da Alessandro Luzio (con cui Rezzaghi rimase sempre in rapporti di amicizia), abbia preferito non pubblicare le memorie di Mori. Poiché la parte finale dello scritto risulta perduta, è comunque impossibile immaginare in quale modo Mori svolgesse il racconto della sua confessione – argomento che doveva molto imbarazzarlo se si pensa ai pungenti strali che aveva lanciato, in nome dell’etica del sacrificio, contro quanti avevano ceduto prima di lui.

Negli anni della prigionia Mori non rinunciò ad occuparsi dell’educazione dei figli, ai quali fu sempre legato da affetto intenso. Particolarmente significativa è la corrispondenza con Icilio, la cui svogliatezza preoccupava i genitori e che fu mandato a studiare all’Università di Genova.

Nelle lettere da Josephstadt e in quelle che gli indirizzò dopo il ritorno a Mantova, Mori proponeva al figlio – con periodare sentenzioso – un ideale di vita incentrato sulla dedizione alla famiglia, alla patria e all’umanità. Certo il mondo era «una scena d’illusioni e d’inganni » (risuona qui l’eco del disincanto a cui aveva dato luogo la tragica esperienza del processo), onde il figlio dovrà essere guardingo nello scegliere gli amici e raffrenare i sentimenti con la ragione; tuttavia – come scriveva il 6 settembre 1857 in una lettera da cui emerge chiaro il fondo mazziniano della sua cultura – badasse Icilio di non esagerare nella «riflessione », perché questa poteva trasformarsi in «pusillanimità», che finisce per chiuderci nel cerchio di uno «schiffoso egoismo». Sono questi i sentimenti che alimentarono l’entusiasmo di Mori nel momento in cui i figli decisero di prendere le armi: Icilio si arruolò nell’esercito regolare nel giugno 1859, e Temistocle raggiunse Garibaldi in Sicilia con la spedizione Medici nel luglio 1860. Allorché ai primi di novembre apprese che questi era caduto in un’imboscata a Isernia, Mori sublimò lo strazio nell’orgogliosa rivendicazione dei meriti patriottici della famiglia e nella religiosa devozione a Garibaldi , «il più grande cittadino del secolo».

Sin dalla fine del giugno 1859 Mori si era trasferito da Mantova a Gazzuolo, dove rimase stabilmente in seguito alla divisione della provincia sancita dal trattato di Zurigo. Qui nel 1860 diresse il Comitato mantovano di soccorso a Garibaldi, e poi fino al 1863 l’attivissimo Comitato di provvedimento per Roma e Venezia, che dietro impulso del centro genovese provvide all’assistenza ai reduci dell’esercito meridionale impossibilitati a far rientro alle loro case; condusse capillari ricerche sulla consistenza del movimento garibaldino e dei suoi simpatizzanti nel mantovano; promosse la nascita di società operaie di mutuo soccorso, di comitati femminili, di sezioni di tiro a segno; organizzò il sostegno alle proposte di Garibaldi per l’armamento nazionale; propagandò il suffragio universale; coordinò infine un’azione di spionaggio ad ampio raggio nella parte non liberata della provincia.

I tratti del patriottismo di Mori e le sue opinioni politiche in questi anni sono documentati, oltre che dalla corrispondenza con Icilio, da quella con l’amico Achille Sacchi e con Finzi, Benintendi e Negretti. La sua principale aspirazione fu non solo l’indipendenza e l’Unità dell’Italia, ma altresì il ritorno alla grandezza e alla potenza antiche. Condizione questa che si sarebbe verificata solo in virtù del sangue degli Italiani: per vendicare Villafranca occorreva dunque chiamare l’intera nazione alle armi sotto le insegne della fratellanza. La totale identificazione di Mori con il programma di Garibaldi finiva con il trascendere l’adesione politica per acquisire il carattere della venerazione religiosa. La particolare circostanza che i figli militassero l’uno nell’esercito piemontese, l’altro nelle schiere di Garibaldi spiega la sua insistenza sulla concordia nazionale. Il repubblicanesimo e il democratismo di Mori – ai quali non rinunciò mai, come conferma il suo continuo adoperarsi per il successo di candidati democratici nelle elezioni politiche e amministrative – non si manifestarono altrimenti che nell’invocazione, contro le mene della diplomazia, della nazione in armi. Ciò spiega perché potesse trovarsi in perfetta sintonia con l’amico Finzi il quale, dalla sponda monarchica cui stava per approdare, sosteneva la necessità di una risolutiva azione militare. Del resto, Mori non fu per nulla interessato al progetto di costituzione di un partito della democrazia, a gettare le basi del quale sarebbero dovuti servire, negli intenti di Agostino Bertani, i comitati di provvedimento.

Morì l’8 aprile 1864 in seguito a un improvviso malore che lo colpì mentre si recava in calesse a Cividale (Cremona) per un’iniziativa a sostegno della candidatura di Benedetto Cairoli. Migliaia di persone intervennero, due giorni dopo, ai solenni funerali.

Fonti e Bibl.: Notizie sulla famiglia Mori si ricavano dai registri dell’Anagrafe antica dell’Arch. storico comunale di Mantova. Per i beni della famiglia si vedano i Libri partitari del Comune di Bagnolo San Vito, in Arch. di Stato di Mantova, Archivio del Catasto, regg. 1106 e 1108. Il mandato di amministrazione conferito a Mori da Francesco e Livio Benintendi è in ASMn, Archivio notarile, notaio Pietro Cessi di Mantova, atto n. 1352 del 2 settembre 1846. La fonte principale per lo studio del pensiero e dell’opera è costituita dal Fondo Attilio Mori conservato presso la Biblioteca comunale di Mantova, su cui si veda Fondo Attilio Mori. Regesti, Mantova 1999. Nelle sezioni I-III è compresa documentazione relativa al Comitato mantovano di soccorso a Garibaldi e al Comitato di provvedimento per Roma e Venezia (con corrispondenza di Mori); nella sez. IV si conservano carte relative alle attività economiche e corrispondenza con familiari, parenti e amici, nonché documentazione posteriore alla sua morte. Le lettere ad Achille Sacchi sono conservate nell’Archivio della famiglia di Achille Sacchi e di Elena Casati Sacchi, proprietà di Giacomo Cattaneo di Bologna (le riproduzioni fotografiche dei documenti di questo archivio sono consultabili presso l’Istituto mantovano di storia contemporanea). Il rapporto di polizia del 1839 è in Archivio di Stato di Mantova, I.R. Delegazione provinciale, Atti riservati, b. 94; quello del 1853 è nel Prospetto degli individui della città e della provincia di Mantova, i quali siccome resi osservabili per parte presa ai trambusti politici 1848, e massime spiegate successivamente in senso antipolitico, ibid., b. 205: questo registro è pubblicato in Compromessi politici nel Mantovano 1848-1866, a cura di R. Giusti, Mantova 1966 (il rapporto su Mori a p. 118). Gli atti del processo di Belfiore sono conservati ibid., I.R. Auditorato di guarnigione, Processo dei Martiri di Belfiore (i costituti di Mori in b. 7, f. IV; b. 1, f. 27/A; b. 2, f. 170; b. 4, f. 444). La trascrizione, opera di A. Rezzaghi, del ms. di Mori, Del grande processo politico fatto dal militare in Mantova dal dicembre 1851 al marzo 1853, è posseduta da Silvia Rezzaghi di San Giacomo delle Segnate (Mantova) ed è stata pubblicata (secondo criteri non rigorosi sotto il profilo filologico) in Dopo Belfiore. Le memorie di A. M. e di mons. Luigi Martini (edizione di Albany Rezzaghi) e altri documenti inediti, a cura di C. Cipolla, Milano 2011, pp. 79-161. Su Mori si vedano le orazioni funebri dell’avvocato Nicolini [non risulta il nome] e di P. Giacometti in Funebri cerimonie e parole commemorative in onore dell’ingegnere A. M. di Mantova morto in Cividale l’8 aprile 1864, Milano 1864. Inoltre: F. Negretti, Memorie storiche della Colonna Mantovana dalla sua formazione al suo scioglimento nella guerra d’indipendenza 1848-49, Cremona 1865, pp. 21 e 64 n. 1; A. Luzio, I Martiri di Belfiore e il loro processo, I-II, Milano 1905, I, cap. 2; A. Rezzaghi, La congiura di Belfiore nelle memorie inedite del cospiratore A. M., in Atti del XXXI congresso di storia del Risorgimento italiano, Mantova... 1952, Roma 1956, pp. 246-253; R. Giusti, Dalla presa di Mantova (1797) alla prima guerra d’indipendenza (1848-49), in Mantova. La storia, III, Da Guglielmo III duca alla fine della seconda guerra mondiale, a cura di L. Mazzoldi - R. Giusti - R. Salvadori, Mantova 1963, pp. 259-526: pp. 455, 458, 473, 517; R. Salvadori, Dalla congiura di Belfiore alla fine della seconda guerra mondiale, ibid., pp. 527-735: pp. 533, 537, 563; M. Vaini, Mantova nel Risorgimento. Itinerario bibliografico, 2a ed. riv. e corretta, Mantova 2000 (1a ed. 1976), pp. 81, 94, 108; Id., L’Archivio di A. M.e le «Memorie» di Giuseppe Rovinetti, in Fondo Attilio Mori. Regesti, cit., pp. 11-24.

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