ATTORI

Enciclopedia Italiana (1930)

ATTORI

Angelo TACCONE
Giacomo CAPUTO Silvio D'AMICO

Nell'antichità greco-romana. - Gli attori del teatro greco non furono mai in numero superiore a tre. L'introduzione del primo attore viene dalla tradizione attribuita a Tespi: con questa introduzione il dramma, per quanto in forma rudimentale, è nato. In forma anche più primitiva si può anzi dire ch'esso era già nato quando il capo del coro, che eseguiva il canto in onore di Dioniso, tra l'una parte e l'altra di quel canto si era messo a recitare e a dialogizzare con gli altri membri del coro. Com'è naturale lo sviluppo del dramma con un solo attore non poteva essere che singolarmente lineare: certo l'unico attore poteva rappresentare più personaggi, ma non li poteva naturalmente rappresentare se non l'uno dopo l'altro. Un progresso grandissimo si compie il giorno che Eschilo introduce il secondo attore; un altro, decisivo pel teatro greco, allorché Sofocle introduce il terzo, che è poi accettato anche da Eschilo nell'ultima fase della sua produzione. Al di là del terzo attore nessuna forma del teatro greco, né tragico, né satirico, né comico, procedette. Di Tespi si dice che le parti dell'unico attore da lui introdotto fossero sostenute da lui stesso. Eschilo apparve qualche volta come attore nei suoi drammi: Sofocle non più. Si presentò bensì Sofocle una volta nel suo Tamiri a sonare l'arpa e un'altra nella sua Nausicaa a giocare con molta abilità alla palla, ma parti di vero attore più non sostenne. Quella dell'attore divenne ben presto una professione che richiedeva preparazione specialissima e lunghissima; gli attori pertanto vennero poco a poco persino a costituire una vera corporazione; di più, il fenomeno a cui assistiamo spesso nel teatro moderno, ove l'attore prende talora più importanza quasi dell'autore, non fu estraneo neppure all'antica scena greca, in ispecie nel quarto secolo, quando il successo di un dramma incominciò a dipendere più dall'abilità del protagonista che dal genio del poeta. Effetto di ciò fu che certe parti del dramma furono dal poeta composte sovente in servizio dell'attore, per dargli modo cioè di spiegare il suo particolare virtuosismo. Si dice per vero che già Sofocle non fosse ignaro di tale procedimento: dalle tragedie che ci restano non possiamo però ricavare conferma dell'affermazione.

I tre attori (ὑποκριταί: più tardi, nel sec. IV, Διονύσου τεχνῖται), che tennero le scene da Sofocle in poi, portavano rispettivamente il nome di protagonista, deuteragonista, tritagonista. Il protagonista naturalmente sosteneva la parte del personaggio principale, ma oltre a quella alcune altre (il sostenere parecchie parti era reso possibile all'attore greco dall'uso della maschera), nelle quali riusciva a raccogliere non pochi né poco calorosi applausi: p. es. la parte del nunzio che, data l'importanza dei racconti del nunzio nel dramma greco, richiedeva appunto spesse volte non comune abilità. Il tritagonista assumeva in genere le parti dei re, dei tiranni, parti che non richiedevano in massima grandi attitudini psicologiche, ma semplicemente una voce poderosa e buone attitudini alla declamazione. Per la stessa ragione il tritagonista sovente diceva il prologo: così sappiamo che il prologo dell'Ecuba euripidea fu detto da Eschine come tritagonista. Le parti d'importanza media erano assunte dal deuteragonista.

In origine il poeta si sceglieva i suoi attori, o meglio, diciamo, i suoi protagonisti che pensavano poi essi ad associarsi il deuteragonista o anche il tritagonista. Così sappiamo d'un Cleandro protagonista preferito di Eschilo e d'un Tlepolemo protagonista assai gradito a Sofocle. Ma in seguito, circa la metà del sec. V, quando la condizione di attore ebbe ricevuto riconoscimento ufficiale, i tre protagonisti vennero scelti, forse in base ad una gara, dall'arconte: ogni protagonista si sceglieva poi i suoi due collaboratori. Tutti erano pagati dallo stato. I tre protagonisti erano assegnati a sorte ai tre poeti concorrenti, o più precisamente pare che i poeti estraessero a sorte il diritto di scelta del protagonista. Più tardi, forse a metà del sec. IV, perché nessuno avesse ingiusti privilegi, i tre protagonisti rappresentavano ciascuno una tragedia di tutti e tre i concorrenti.

Oltre i veri e proprî attori, agivano sulla scena attica personaggi muti e personaggi che pronunziavano solo poche parole: questi personaggi, insieme con un eventuale coro secondario, erano indicati col nome complessivo di παραχορηγήματα, perché tutti, sembra, dovevano essere forniti dal corego oltre il vero e proprio coro. Personaggi muti erano, p. es., servi, guardie, bambini, masse di popolo e simili. Personaggi che pronunziano poche parole sono, per es., il bambino dell'Alcesti e quello dell'Andromaca, le figlie del Megarese negli Acarnesi aristofanei. Cori secondarî sono, per es., quello dei ragazzi nelle Vespe, quello delle rane nella commedia omonima e quello dei cacciatori nell'Ippolito.

Tanto gli attori tragici quanto i satireschi e i comici portavano speciali costumi (v. sotto) e maschere (v. maschera).

Per ben comprendere quanto fosse difficile il compito di un buon attore sulla scena attica, occorre riflettere che oltre le parti recitate vi erano in ogni specie di dramma attico parti cantate (canti dalla scena e canti amebei) e parti dette in recitativo (specie quelle scritte in anapesti). Anche si rifletta che se la maschera dava all'attore possibilità di rappresentare più parti, magari assai diverse l'una dall'altra, gli toglieva quel grande sussidio dell'arte mimetica che è la varia espressione del volto: l'espressione restava sempre unica per ogni parte, e cioè quella fissata nella maschera. Grandissimo studio doveva quindi l'attore mettere nell'arte del porgere, per dare espressione efficacissima al gesto. La vastità poi del teatro all'aperto richiedeva non comuni doti di potenza e chiarezza di voce: infine la mancanza di quell'umile ma essenziale figura del teatro moderno che è il suggeritore, portava seco di necessità che la memoria d'un grande attore dovesse essere d'una prontezza e d'una tenacia fenomenali.

Gli attori greci godevano grande stima e, quando furono raccolti in corporazioni, fruirono anche di singolari privilegi, quali quello di potersi muovere liberamente anche attraverso stati che fossero in reciproca guerra e persino quello dell'esenzione dal servizio militare. Spesso li troviamo anche nominati ambasciatori con incarichi delicatissimi: così avvenne a Tessalo, grande attore tragico prediletto da Alessandro il Macedone.

Anche i guadagni di alcuni attori toccarono cifre iperboliche, altrettanto strabilianti quanto quelle raggiunte dai grandi attori moderni. Sappiamo p. es. del famoso attore tragico Polo egineta, che una volta fu retribuito con un talento pel suo lavoro di due giorni (i talento = più di cinquemila lire di moneta aurea: di più si consideri che il potere d'acquisto della moneta era a quei tempi almeno quintuplo di quello della moneta nostra d'anteguerra). Naturalmente, però, tali fortune toccavano solamente ai grandi protagonisti.

Altri famosi attori tragici furono Nicostrato del V e Teodoro del IV secolo. Di Nicostrato si dice che raggiungesse tale perfezione, specie nell'esposizione dei lunghi racconti dei nunzî, che divenne proverbiale la frase "fare qualche cosa come Nicostrato" per significare farla alla perfezione. E di Teodoro si narra che una volta in Tessaglia producesse con la sua recitazione tale effetto sul brutale tiranno Alessandro di Fere, che questi si vide costretto a lasciare il teatro, perché, com'egli stesso disse poi a Teodoro, si vergognava di farsi vedere così commosso davanti alle finte sofferenze d'un attore, egli che non soffriva punto delle vere dei suoi concittadini.

Gli attori romani, detti da principio ludii o ludiones e poi histriones con parola importata dall'Etruria (accanto ad histrio si trova poi anche actor, e s'incontrano altresì le denominazioni di artifices scaenici o semplicemente di artifices o di scaenici), non erano in numero limitato come nel teatro greco: alcune delle commedie di Plauto e di Terenzio richiedono persino sette attori. La cosa fu dovuta anche alla mancanza, da principio, dell'uso della maschera. Anche le comparse furono in massima molto più numerose nel teatro romano, come fu in massima assai più spettacolosa che nel teatro greco la messa in scena. Si sa da Cicerone di un dramma durante il quale era rappresentata sulla scena addirittura una battaglia con fanteria e cavalleria.

Anche nel teatro romano, come nel greco, da principio l'autore fu pure istruttore e attore principale, ma ben presto questi due ultimi uffici passarono al capo della compagnia. La compagnia portava il nome di grex o di caterva; i suoi membri si dicevano gregales; le donne ne furono, come nel teatro greco, escluse o, per lo meno, non vi furono ammesse che molto tardi, pare all'epoca del basso impero (furono invece sempre ammesse nelle compagnie mimiche). Oltre gli attori veri e proprî ogni compagnia comprendeva anche un cantante (cantor) e un flautista (tibicen). Le comparse si chiamavano col nome di operarii. Anche i coristi non erano a Roma, come in Grecia, dei dilettanti, ma dei professionisti.

Tutta questa massa di gente era reclutata fra gli schiavi e i liberti, poichè gli attori presso i Romani erano infames (anzi nel caso che un ingenuus si fosse fatto attore, anch'egli diveniva legalmente infamis, rimanendo così privo di alcuni fra i diritti civili). Alla testa d'ogni compagnia stava un direttore (dominus gregis) ch'era d'abitudine un liberto. La scelta dei drammi da rappresentare era generalmente lasciata del tutto a lui, senza che v'intervenissero punto coloro che facevano le spese dell'allestimento degli spettacoli. Il dominus gregis comprava direttamente dall'autore i drammi ed era poi padrone di rappresentarli quante volte volesse. Anche quando si trattava di riportare alla ribalta un vecchio dramma, chi decideva era appunto il dominus gregis. Si capisce come dall'abilità di questi direttori potesse ben sovente dipendere il successo d'un autore drammatico. Ma è anche ovvio che, facendo essi la parte del protagonista, spesso si curassero piuttosto di scegliere drammi dove potessero far loro bella figura, piuttosto che drammi d'un reale grande valore. S'è conservato il nome di alcuni di questi direttori: T. Publilio Pellione che rappresentò la commedie di Plauto; L. Ambivio Turpione e L. Atilio di Preneste che rappresentarono le commedie di Terenzio; Minucio Protimo e Cincio Falisco che introdussero nel teatro romano l'uso della maschera.

Veri concorsi drammatici tra i poeti non pare siano esistiti a Roma; esistettero invece concorsi fra i direttori di compagnia, ma sembra in epoca abbastanza tarda, a cominciare dalla seconda metà del sec. II d. C. Il premio del vincitore era una palma.

Anche a Roma i grandi attori giunsero a realizzare altissimi guadagni. A testimonianza di Plinio il Vecchio, Roscio guadagnava mezzo milione di sesterzi all'anno (cfr. anche Cic., Pro Roscio comoedo, VIII, 23) ed il suo collega Esopo, nonostante fosse molto prodigo, lasciò una sostanza di venti milioni di sesterzî.

Oltre la vera e propria retribuzione gli attori ricevevano di consueto da colui che dava gli spettacoli certe gratificazioni dette corollaria; erano da principio corone d'oro e d'argento: durante l'Impero furono doni in denaro o in natura.

Bibl.: Cfr. in particolare A. Müller, Lehrbuch der griechischen Bühnenaltertümer, Friburgo in B. 1886, p. 170 segg.; A. E. Haigh, The Attic Theatre, 3ª ed., Oxford 1907, p. 221 segg.; O. Navarre, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiq. gr. et rom., III, i, p. 210 segg.; Warnecke, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. klass. Altertumswiss., VIII, col. 2116 segg.

Il costume. - Oltre alla maschera, quello che designava l'attore antico era il costume. Esso era convenzionale, diverso a seconda del genere drammatico e del personaggio rappresentato, e serviva ad integrare il carattere di questo e l'espressione mimica. Fonti scritte e monumenti figurati, specialmente vasi, pitture morali e statuette di terracotta, ci offrono al riguardo notizie e rappresentazioni, che, per quanto non sempre concordanti fra loro, compongono tuttavia un quadro abbastanza chiaro. Tra gli autori antichi, oltre a quelli che accennano all'argomento più o meno direttamente, compresi gli stessi scrittori teatrali, Polluce è quello che nel suo Onomasticon ne tratta specificamente.

Del costume dei personaggi nobili nel dramma satiresco in Grecia, Polluce non dice nulla. Ma la lacuna è colmata dalla rappresentazione del coro sull'anfora del Museo di Napoli, nella quale Eracle ed un personaggio regale hanno costume eguale a quello delle rappresentazioni tragiche: solo il chitone è più corto, e ciò in armonia con la vivacità propria del genere. Polluce invece (IV, 118) nota che Papposileno e i suoi figli portavano generalmente sulle spalle pelli di animali, cerbiatto, capra, pantera. Nella ricordata rappresentazione vascolare del Museo di Napoli i Satiri sono nudi e la selvaggia loro natura è indicata da una pelle avvolta alle anche. In particolare, Papposileno vi è rappresentato con un maglione villoso, che riveste tutto il corpo (χορταῖος, μαλλωτὸς χιτών: Polluce, loc. cit.; Suida, s. v. χορταῖος). Non manca la pelle ferina sulla spalla, in altri monumenti sostituita da un mantello, come in una statua del Museo di Berlino. Ai Satiri Pani sul cratere di Pandora del British Museum sono aggiunte le corna e i calzari della forma di piedi caprini.

Nella tragedia, gli attori usavano un chitone che scendeva sino ai piedi (χιτὼν ποδήρης: Luciano, Iup. trag., 41), avente maniche lunghe sino al polso (χειρίδες: Luc., loc. cit.) e stretto da una cintura sopra la vita (μασχαλιστήρ: Poll., V, 16; Strab., XI, 530), e un mantello (ἐπίβλημα) che poteva avere varie forme e denominazioni (Polluce, IV, 116), ma che fondamentalmente era o un ἱμάτιον, e quindi ampio, liberamente adattato al corpo, o una χλαμύς, e periò corta, da fissarsi con un fermaglio sotto il collo o sulla spalla. Colori varî e ricchi ornamenti costituivano quella ποικιλία propria dell'abbigliamento tragico (Polluce, IV, 115; VII, 53; Esichio, s. v. ποικίλον). Tutto questo trova riscontro in una bella serie di vasi e di rilievi, fra cui va ricordato il cratere di Andromeda del Museo di Berlino, l'anfora di Medea del Museo di Monaco, il rilievo del Pireo del Museo Nazionale di Atene, e il rilievo fittile di P. Numitorio Ilaro del Museo delle Terme (Roma); in pitture, come quella su marmo di Ercolano, e quelle della Casa del Centenario a Pompei, infine in musaici (di Porcareccia) e in qualche prodotto di arte minore, quale una statuetta di avorio dipinto al Petit Palais di Parigi. A parte le questioni sorte, queste rappresentazioni ci hanno istruito su alcuni particolari, taciuti nella tradizione scritta, come p. es. sulla maggiore o minore lunghezza del chitone, o ci hanno meglio illuminato su altri, di cui essa pure ci dava nozione: tale la varietà dell'abbigliamento. Dioniso si distingueva per una caratteristica veste crocea (κροκωτός: Polluce, IV, 117; Suida, s. v. κροκωτός). A personaggi come Atreo ed Agamennone, o ad altri a essi pari, conveniva il κόλπωμα, un mantello tipico (Polluce, IV, 116); gl'indovini si riconoscevano per una maglia di lana, avviluppante il corpo, l'ἀγρηνόν (Polluce, IV, 116; Etym. magn., s. v. ἀγρηνπόν); la dignità dei re si palesava nella ξυστίς (Polluce, IV, 116; Arpocrazione, s. v.), mantello di color purpureo, riconoscibile nel re con scettro, su dipinto murale di Ercolano. La regina portava un chitone anch'esso purpureo, lungo da strisciare per terra (συρτὸς πορϕυροῦς: Poll., IV, 118 e VII, 67; Suida, s. v. ὀρϑοστάδια); chiaramente esso è indicato nell'Andromaca del citato rilievo di P. Numitorio Ilaro; non così è del παράπηχυ λευκόν (Poll., IV, 118 e VII, 53; Esichio e Fozio s. v.), tutto bianco con orlo purpureo, che la regina portava sul chitone. I guerrieri, oltre che dalla spada, erano distinti da una clamide purpurea (ἐϕαπτίς, Poll., IV, 116; V, 118), che avvolgevano al braccio sinistro; l'ἐϕαπτίς era anche dei cacciatori. In casi speciali si manteneva dai personaggi il costume nazionale; così Astianatte, nel citato rilievo di P. Numitorio Ilaro, è dalle anassiridi e dal berretto frigio designato quale troiano; così appare la tiara sul capo di Cefeo, re barbaro, nel ricordato cratere di Andromeda. Non si dimentichi il caso del vaso di Assteas con rappresentanza di Eracle furioso, il quale porta schinieri, chitone sottile, breve, fermato solamente alla spalla sinistra (ἐξωμίς), clamide ed elmo di tipo pestano.

In alcune circostanze dolorose erano indicati speciali colori. Anche allora il nero denotava lutto (Poll., IV, 117): in Eschilo, Elettra liba sulla tomba d'Agamennone, vestita di nero (Choeph., 10 seg.). Senso largo di disgrazia avevano sia il nero stesso, sia le tonalità scure di altri colori (Poll., ibid.), dei quali però la determinazione è incerta. Gli esiliati vestivano di bianco (Poll., ibid.), forse perché su questo colore potevano spiccare maggiormente i segni pietosi del lungo errare: così in Sofocle è Edipo (Oed. Col., 1597); ed anche allora l'abito cencioso era segno d'indigenza (Poll., ibid.). Gli attori tragici infine, allo scopo di rimettere in proporzione il corpo ingrandito dalla maschera e sollevato dal coturno (v.), s'imbottivano di petto e di ventre posticci (προγαστρίδιον e προστερνίδιον: Luc., De salt., 27; Iup. trag., 41 e Sall., 27), retti da una stretta maglia (σωμάτιον: Poll., IV, 115 e Fozio, s. v. σωμάτια) che il chitone dissimulava.

Del costume nella commedia antica ci informa qua e là l'opera stessa di Aristofane. L'ἀμϕιμάσχαλος (Eq., 881) e l'ἐξωμίς (Lysistr., 661) erano i vestiti per i personaggi virili, i quali usavano, oltre allo ἱμάτιον (Plut., 881; Thesm., 214; Eccl., 75) e alla χλαμύς (Λψσιστρ., 987), anche il τριβώνιον (Plut., 897; Vesp., 1131), mantello corto e di stoffa grossolana. L'abbigliamento femminile parrebbe consistere in un chitone giallo (κροχωτός), stretto da una cintura (στρόϕιον) e in un mantello (ἱμάτιον) con bordo purpureo (ἔγκυκλον). Così si traveste da donna Mnesolico nelle Thesmophoriazusae (250-251; cfr. Lysistr., 113,931).

Numerosi sono gli accenni al fallo di cuoio e di eccessivo sviluppo, che gli attori ostentavano (ad es. Arist., Nub., 537 e scolio). Il senso del ridicolo era accentuato dalla sfericità del ventre e delle natiche, ottenuta col sistema delle imbottiture, trattenute da maglione. Nel vaso del Museo dell'Ermitage (Leningrado) due degli attori non hanno che questo; ma le statuette che conserviamo di solito mostrano anche un corto chitone, che nel fine bronzo di Dodona, caricatura di eroe della tragedia, è aperto sul fianco, ma stretto da una cintura. Sull'allestimento dei cori di animali, quali li abbiamo in Aristofane, fanno luce specialmente due vasi: quello dell'Antiquarium di Berlino, con cavalieri su coreuti chini, camuffati con pelle equina sul capo e sul dorso, e quello del British Museum con coreuti camuffati da uccelli. Parrebbe che gli attori della commedia di mezzo avessero conservato lo stesso costume di quella antica, appunto perché il vaso dell'Ermitage risale al tempo in cui quella commedia stessa maturò.

Gli attori della commedia nuova, dall'elenco che Polluce (IV, 118 segg.) fa dei chitoni e dei mantelli, si arguisce che vestissero come nella vita ordinaria. In realtà questa commedia conservò sotto il chitone il maglione e per i personaggi grassi anche il προγαστίδιον, ma abolì gli accessorî burleschi. Ciò si rispecchia nel rilievo con scena comica di Napoli, nei musaici di Dioscoride, in dipinti murali, in numerose statuette. I varî tipi sono facilmente riconoscibili: schiavi, parassiti, etère, adulatori, contadini, millantatori, ruffiani, cuochi, giovani e vecchi, succinti sempre, e dal mantello adattato in tutte le fogge, talora con attributi di chiara allusione al tipo rappresentato.

La loro identificazione era aiutata anche dai colori del costume (Poll., IV, 118 segg.), giacché per ogni maschera ve n'erano di particolarmente assegnati: il servo, p. es., portava un mantello bianco (Poll., IV, 119) e tale difatti lo ha in un affresco pompeiano ora a Palermo.

Per il costume delle rappresentazioni delle feste cabirie, i pochi vasi beotici proverebbero l'uso del maglione, del chitone corto, del mantello oltre che delle imbottiture, ecc. Per quello della commedia fliacica, v. fliaciche scene.

Nel teatro romano, la tragedia di derivazione greca mantenne il costume d'origine, com'è evidente dal rilievo sepolcrale di Flavio Valeriano, dalla scena su una lucerna di Ostia e dalla matrice per pane (crustulum) pure di Ostia. La tragedia, invece, di soggetto nazionale adottò la toga praetexta, propria dei dignitarî romani, e ne trasse il nome (fabula praetexta o praetextata). Così, la commedia palliata, di argomento greco, mantenne il costume d'origine (Diomede, in Keil, Gramm. lat., 489, 18; ma specialmente Donat., De com.), e le miniature del codice vaticano di Terenzio ne sono un singolare documento tardo. La togata, invece, di soggetto romano, usò la popolare toga bianca e senza bordo (Evanzio, De trag. et. com.; Giovanni Lido, De mag. reip. rom., I, 40).

Del costume del pantomimo abbiamo un documento nel rilievo eburneo di Berlino: l'attore ha chitone manicato, cinto alla vita, breve mantello sulle spalle, spada al fianco con balteo di cordoncino, lira nella mano sinistra, tre maschere nella destra e corona ornata di bende in capo: si può pensare che vi fosse rappresentato il pantomimo stesso.

Infine gli attori del mimo, sorpassando ogni convenzionalismo e avvicinandosi di più alla vita, fecero a meno del costume scenico (Plutarco, Quaest. symp., VII, 8, 4, 712 E), come si desume anche dal gruppo dei μυμόλογοι di una lucerna d'Atene, rappresentanti i personaggi del mimo intitolato: "Εκυρα ("la suocera").

Bibl.: O. Navarre, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiquités, III, i, p. 217 segg.; M. Bieber, Denkmäler zum Theaterwesen im Altert., Berlino-Lipsia 1920, pp. 87-178 e passim, con ricca bibliografia.

Nell'età medievale e moderna. - Il vocabolo attore è uno dei molti che, quando ci si riporta al Medioevo, mutano di significato. Riferendoci a tutte le forme, diversissime tra loro, del teatro medievale, dobbiamo abbandonare il concetto di attore quale si era formato nel mondo classico, sia greco sia latino. E il primo punto da notare è questo: che nel Medioevo la più gran parte del teatro drammatico non è recitata da attori professionisti.

Nel dramma sacro. - Non sono, di fatto, persone che esercitino il mestiere dell'attore, gl'interpreti di quello che costituisce la creazione nuova, più diffusa, potente e feconda di frutti, nell'arte drammatica medievale: il dramma sacro. Nato nel tempio, in quella forma che gli eruditi hanno poi battezzato col nome di dramma liturgico, esso ha come primitivi interpreti i ministri stessi del santuario, ossia sacerdoti e chierici. Finché rimane strettamente connesso alla liturgia, come un cauto e rigido ornamento del rito, i brevi dialoghi in cui esso s'effonde sono recitati o cantati dai preti, che indossano paramenti sacri appena modificati qua e là per suggerire questo o quel personaggio (il quaie spesso è anche femminile). E poco a poco una timida, simbolica, sommaria messinscena comincia ad accompagnarsi a quel dialogo, sempre meno breve, e al quale si mescolano le prime frasi in volgare: provenzale, francese, tedesco, italiano, ecc. (drammi misti). Quando infine la sacra rappresentazione vera e propria, svincolandosi sempre più dalle formule canoniche e impersonali e uscendo dal tempio, comincia a trattare, con libertà di particolari, argomenti religiosi ma non più legati alla liturgia, e adotta per intero la lingua parlata dal popolo, allora i laici ne divengono definitivamente gli interpreti. Questo però senza escludere sempre e dappertutto i preti (è tipico l'episodio del parroco Nicolle che nel 1437, a Metz, rappresentando la parte di Gesù nella Passione, rischiò di morire estenuato sulla croce cui era appeso). E rimane ben fermo che l'attività dei pii artisti ha scopo essenzialmente religioso, e carattere tutt'affatto occasionale.

L'organizzazione della sacra rappresentazione nell'Europa cattolica del Medioevo, spesso favorita e sempre sorvegliata dall'autorità ecclesiastica, non differisce da paese a paese, se non in particolari che lasciano tuttavia intatti certi caratteri comuni. I suoi attori, fino alla Rinascenza tutti uomini, sono riuniti in confraternite o in corporazioni stabili, o anche in società costituite per l'occasione. Spesso si tratta di giovanetti, preferiti anche per la loro attitudine a sostenere, meglio degli adulti, parti di donne: tranne che la rappresentazione si faccia in conventi di monache, dove tutti i personaggi sono interpretati da donne. Le recite, a cui prendono parte talora centinaia di persone vestite con costumi sfarzosi (Cristo quasi sempre in mantello di porpora) hanno luogo in chiesa, in oratorî, in istituti ecclesiastici e religiosi; oppure, spessissimo, all'aperto; in Inghilterra, addirittura nei cimiteri. Si tengono di di preferenza in occasione di feste religiose; talvolta anche in osservanza d'un pubblico voto (a un uso simile dobbiamo, anche oggi, la perpetuata tradizione della Passione di Oberammergau in Baviera). Perciò lo spettacolo è anche, per lo più, gratuito; sempre gratuito era stato anzi nelle origini. La novità essenziale del suo apparato scenico, d'importanza fondamentale perché essa capovolgerà tutta la tecnica del dramma moderno (cfr. specialmente gli Spagnuoli e gl'Inglesi dei secoli XVI e XVII) è in questo: che la scena non rappresenta un luogo ma, simultaneamente, tutti i luoghi in cui l'azione deve svolgersi. Quindi gli attori, passando continuamente dall'uno all'altro, non hanno limiti di tempo e di spazio, possono percorrere tutti i regni del mondo di qua, e di quello di là: infatti, sotto il palcoscenico spesso è raffigurato l'inferno, e sopra, il Paradiso. Carattere speciale ebbero le rappresentazioni sacre in Spagna, specie quelle degli autos sacramentales, nati dalle celebrazioni del Corpus Domini (v. spagna: Teatro).

Lo stile della recitazione era declamato, solenne nelle parti principali, buffonesco e realistico in quelle dei personaggi comici. Di quanto valesse l'arte di questi attori religiosi, noi moderni non possiamo tuttavia farci un'idea, se non pensando al favore popolare con cui le loro recitazioni furono seguite per secoli. E cioè fino a quando il pio uso cessò, fra il sec. XVI e il sec. XVII, in quasi tutta Europa.

Attori medievali dilettanti. - Altro genere d'attori non professionisti, anzi tipicamente dilettanti, si ebbe pure nel Medioevo, fra gli eruditi e gli studenti; oppure fra scrivani e artigiani, i quali si compiacevano sia nell'esumazione o nell'imitazione dell'antica commedia classica, sia nella rappresentazione, per diletto proprio o altrui, di farse popolaresche. Di recite di commedie antiche o imitate dall'antico nell'alto Medioevo, non abbiamo notizie sicure. Pare, tuttavia, che dalle suore dell'abbazia benedettina di Gandersheim fossero rappresentati i drammi di Rosvita (v.).

In Francia, fra i secoli XIV e XVI abbiamo corporazioni potentissime che, nate ufficialmente con lo scopo di recitare drammi sacri, in realtà rappresentarono anche pantomime, quadri viventi, e soprattutto farse, tra cui le più famose di quei secoli. Tali le Basoches, corporazioni fra gli scrivani di procuratori, d'avvocati e di magistrati, le cui origini sono molto remote, e che si conquistarono tanti privilegi da costituire (come del resto altre corporazioni) un piccolo stato nello stato: con loro leggi e costumi, tribunali, moneta, e perfino un re. Agli stessi secoli si fa risalire, sempre in Francia, la nascita degli Enfants Sans-Souci (o Galants Sans-Souci), attori buffoneschi, che rappresentavano per divertimento soties e moralités; e delle sociétéś joyeuses, fra cui famosa la cosiddetta Mère folle, e i Connards o Cornards. Altri attori più o meno occasionali erano gli studenti, che recitavano commedie e farse, sia in latino, sia in volgare: le recite latine furono spesso incoraggiate a scopi culturali o di polemica religiosa, e in Germania Johannes Sturm, il celebre rettore di Strasburgo, nel '500 imponeva ai suoi allievi almeno una recita per settimana: tradizione scolastica che, più tardi, nella Germania meridionale e nell'Austria condusse alle spettacolose magnificenze del dramma gesuitico e che, come si sa, in molti paesi non è spenta nemmeno oggi.

In Italia fra i primi entusiasmi del Rinascimento, ossia nella seconda metà del '400, gli studenti rappresentavano Plauto e Terenzio in latino, davanti a un pubblico colto, nelle scuole, o in palazzi pubblici, o in case di signori e mecenati. Così Pomponio Leto fece recitare opere dei due commediografi latini nella sua Accademia romana; sempre a Roma, nel 1499, fu data la Mostellaria, in casa del cardinal Colonna; e in seguito i Menecmi addirittura nel palazzo pontificio, presente il papa Alessandro VI, per festeggiare le nozze fra Lucrezia Borgia e Alfonso d'Este. A Firenze pare che, oltre i latini, si sia rappresentato anche il Pluto d'Aristofane, in greco. Fra un atto e l'altro gli spettatori - signori, ambasciatori, artisti, scrittori, dame - erano dilettati dalle cosiddette moresche, o intermezzi coreografici di carattere fantasioso, per lo più orientale. Poi le commedie furono recitate in traduzioni italiane: di solito fiacche parafrasi, al nostro gusto stucchevolissime. E studenti, e accademici, e colti signori dilettanti, continuarono di regola a esser gl'interpreti così della nostra commedia umanistica al principio del '500 (del Trissino, del Firenzuola, del Dolce, dello stesso Ariosto, ecc.) come del dramma pastorale (del Poliziano, del Tasso, del Guarino, ecc.).

Attori medievali professionisti. - Ma, accanto a tutti questi dilettanti, anche nel Medioevo si sono avuti attori, almeno in certo senso, professionisti. La guerra senza quartiere bandita per lunghi secoli dalla Chiesa contro di loro, prima come superstiti eredi di tradizioni pagane, poi come dicitori e rappresentatori di sconcezze, ci prova che dunque in quei secoli, bene o male, vagabondi e perseguitati dall'autorità religiosa, ma favoriti dal popolo e spesso anche dai signori, essi continuarono a esistere. In una lettera a Simmaco, Teodorico esprime grande ammirazione per i mimi. Pare che proprio grazie a costoro l'uso della maschera, ereditato dai Greci e dai Romani, si perpetuò in tutto il Medioevo.

Fu già osservato che l'arte dei giullari era, soprattutto, "arte del dire"; ossia, nota il de Bartholomaeis, declamazione. Ma fra i giullari bisogna distinguere moltissime specialità: saltatores, balatrones, thymelici, nugatores, scurrae, bufones, gladiatores, praestigiaiores, palestritae. Gli ioculatores o ioculares propriamente detti erano già un grado più su. Histriones si chiamavano, propriamente i sonatori di strumenti musicali. Se non che il De penitentia di Tommaso de Chabham (o Chobham), subdecano di Salisbury (secolo XIII), distinguendo tre specie di istrioni, parla di quelli che "si trasformano e si trasfigurano con danze e gesti turpi, ovvero denudandosi sconciamente, ovvero coprendosi d'orride maschere": ecco degli attori. In Spagna si chiamavano remedadores quelli il cui mestiere era mimum agere, gestus alicuius ridicule exprimere, gesticulari (Diccionario de la lengua Castellana, dell'Accademia spagnola, 7ª ed., Madrid 1824).

Si sono avanzate molte ipotesi sul fatto che le composizioni dialogate, dette (come i loro interpreti) mimi tanto nell'antichità quanto nel Medioevo, e le commedie-elegie medievali, fossero destinate alla privata lettura o alla pubblica recitazione. Pare che, nel Medioevo, le commedie-elegie fossero lette in pubblico da un solo dicitore, il quale variando la voce recitava tutte le parti. E alla recitazione d'un unico giullare erano destinati, si afferma, molti poemi specialmente dialogati.

In Francia, i veri e proprî attori di professione si vogliono derivati dai joueurs de personnages, rappresentatori di scherzi o forse, diremmo noi, di macchiette, agli stipendî dei principi, dei municipî, e perfino degli alti prelati; primo esempio di comici sovvenzionaii da signori, da sovrani, e, nei tempi moderni, dagli stati. Ma chi crea definitivamente e diffonde in Europa l'organizzazione di compagnie drammatiche nel pieno senso della parola, sono i comici dell'arte italiani.

I comici dell'arte. - La commedia dell'arte (v.) nasce nel '500, per resistere in vita oltre due secoli. E, per quanto si riferisce agli attori, la prima ed essenziale delle sue caratteristiche, come recentemente ha illustrato anche il Croce, è stata quella di darci per la prima volta compagnie regolari, di comici professionisti, detti "dell'arte" appunto perché traggono la propria esistenza esclusivamente dall'arte che esercitano. Da loro comincia la vera e propria organizzazione delle compagnie teatrali, sostanzialmente superstite fino ad oggi; ossia d'attori provenienti da uno speciale addestramento tecnico, vocale, ginnico, acrobatico, e alle volte anche culturale, i quali vivono dando spettacoli.

Altra caratteristica della commedia dell'arte è la stilizzazione dei suoi personaggi in tanti tipi fissi, o maschere: il vecchio, il dottore, il capitano, gli zanni, gl'innamorati, le servette, ecc. (e qui va notato che i comici dell'arte furono i primi, nel '500, ad affidare le parti femminili ad attrici, in tutto il resto dell'Europa ancora bandite dalla scena). Tipi fissi debbono essere già esistiti anche nella farsa medievale, e in commedie più recenti. Fra esse, in Italia, famose quelle dell'autore-attore dilettante Angelo Beolco (1502-1542), detto il Ruzzante appunto dal personaggio ch'egli aveva creato, e che interpretava con grandissima abilità. Ma queste maschere, affidate di solito allo stesso attore (qualcuno ne interpretò più d'una, p. es. Silvio Fiorillo, celebre come Pulcinella e come Capitano), hanno avuto influenza sul teatro moderno, in quanto hanno, in certo senso, creato i cosiddetti ruoli, su cui in seguito si costituirono le compagnie moderne.

Terza caratteristica dei comici dell'arte fu la recitazione improvvisa, o a soggetto, ch'essi alternavano a quella, meno frequente, di commedie e tragedie regolarmente scritte. Gli ultimi studî hanno dimostrato in che senso debba intendersi questa denominazione di improvvisa: in realtà, anche nelle commedie non scritte, gli attori si servivano largamente di formule apprese a memoria, che inserivano con destrezza, variandole in modo opportuno, dove a loro conveniva. La loro stragrande spontaneità e vivacità, la loro straordinaria virtù espressiva, la loro magnifica potenza mimica, disciplinate da quella tecnica ch'essi furono i primi ad adottare metodicamente e a tramandarsi di padre in figlio, assicurarono ai comici dell'arte il più gran successo non solo in Italia ma in tutta Europa: Francia, Austria, Germania, Spagna, Polonia, Inghilterra, Russia, ecc., dove vennero preferiti per lungo tempo anche alle compagnie di attori locali, formatesi sul loro esempio.

Attori professionisti europei dal sec. XVI al XVIII: 1. Francia. - Le piccole troupes girovaghe che già dal '400 andavano in giro per la Francia, recitando drammi, commedie e farse, non erano composte se non di amateurs, appassionati dell'arte che però vivevano d'altri proventi. Solo nel '500 incontriamo veri attori: Pontalais, comico apprezzatissimo sotto il regno di Francesco I; Jean Serre; il conte de Salles. In quel secolo, solo al tempo di Ronsard incominciano ad esistere attori riuniti in compagnie regolari, sotto la direzione d'un capo che li paga, o attori che vivono dividendosi gl'incassi. Molti di questi comici, fors'anche perché vergognosi del loro mestiere, usano un soprannome, spesso dovuto al personaggio o al ruolo che usano incarnare: celebri su tutti Turlupin, attore di farse al teatro dell'Hôtel de Bourgogne a Parigi, e Tabarin, che recitava in piazza, presso il Ponte Nuovo nella stessa città.

In quel secolo, l'Hôtel de Bourgogne era ancora, nella capitale francese, l'unico teatro; il quale, originariamente in possesso della Confrérie de la Passion, fu dato in affitto nel 1578 a una troupe di professionisti, diretta da Agnan Sarout: ad essa succedettero altre compagnie francesi, italiane e, più tardi, spagnole. Ma circa la metà del secolo successivo, e precisamente nel 1660, Parigi aveva quattro compagnie permanenti: la troupe royale, che recitava all'Hôtel de Bourgogne; la troupe del Théâtre du Marais; più una compagnia italiana, e la iroupe di Molière, le quali recitavano a turno nel teatro del Petit Bourbon. Le prime tre compagnie erano, in diversa misura, sovvenute dal re; la quarta, ossia quella di Molière, cominciò a esserlo solo nel 1665; ma sotto la protezione di Luigi XIV conquistò un indiscusso primato, dando origine a quello ch'è tuttora il massimo teatro di Francia. La loro organizzazione economica era, di solito, ben regolata: i comici dividevano gl'incassi in tante parti uguali: di esse gli attori di primaria importanza toccavano una parte intera, quelli di secondo rango mezza parte, gli infimi e i giovanissimi un quarto. Più si assicuravano anche per la vecchiaia, con un sistema di modeste pensioni. Quanto all'esistenza miseranda degli attori che facevan parte di compagnie randagie, la descrizione più viva ce l'ha lasciata Scarron, nel suo Roman comique.

2. Spagna. - Anche in Spagna, come dappertutto, i primi artisti nomadi che esercitano il mestiere dell'attore vivono miserabilmente: si veda la descrizione che ne fa nel Viaje entretenido Agostino de Rojas, e quel che ne dicono il Quevedo in Zahurdas de Pluton, e lo stesso Lope de Vega nel celebre Nuevo arte de hacer comedias. L'attore-autore che gli Spagnoli salutano come il fondatore del loro teatro, quegli che Cervantes chiamò "il gran Lope de Rueda" (1500-1564), era un battiloro di Siviglia, il quale aveva abbandonato la sua antica professione per dirigere una compagnia di comici vagabondi. Costoro recitavano, in baracche improvvisate, commedie, colloquî e pasos, in cui Lope de Rueda sosteneva la parte del protagonista; Cervantes ricorda che tutto il suo bagaglio entrava in un sacco: "quattro giubbe con qualche gallone, quattro barbe e quattro parrucche"; ciò gli bastava per incarnare i suoi quattro tipi principali che erano uno scemo, un mezzano, una negra e un basco.

Nel sec. XVI Madrid possedeva due teatri, quello della Confraternita della Passione, e quello della Soledad. I loro introiti servivano a soccorrere i malati e i poveri: donde la protezione della Chiesa, contro le minacce della censura e dell'autorità civile. Quando nel 1574 venne a Madrid una compagnia italiana, quella d'Alberto Ganassa, si costruì per essa un terzo teatro, nel corral (cortile) della Pacheca. Questi teatri erano frequentati da un pubblico assai misto e tumultuoso: gli attori dovevano fare i conti non solo con le urla e con i fischi, ma anche con lo scoppio di petardi, e col lancio di frutta, largamente fornite da venditori ambulanti. Di ciò si lagna ancora Lope de Vega; mentre Cervantes, nel pubblicare le sue opere sceniche, avverte con qualche orgoglio ch'esse "furon tutte rappresentate senza che il pubblico lanciasse né cocomeri né altri proiettili".

Solo più tardi, con l'elevarsi del tono nel dramma, grazie a Lope de Vega, a Tirso da Molina, a Calderón e agli altri, nei teatri spagnoli, o almeno nei principali, s'introdusse una relativa disciplina, di cui i primi ad avvantaggiarsi furono gli attori. Le loro compagnie, ordinatamente costituite, ebbero comici specializzati nei varî ruoli: el galán e el barba, el traidor e el gracioso, la dama e la preciosilla, la primera actriz e el primer actor. Quello da cui non sempre riuscirono a salvarsi, nonostante la pietà ufficialmente ostentata da molti fra essi che s'iscrivevano a confraternite e corporazioni religiose, furono le accuse che i rigoristi movevan loro, d'immoralità e d'empietà: accuse che provocarono contro di essi i divieti di Filippo III, revocati soltanto da Filippo IV suo figlio. Dopo questa revoca le compagnie si moltiplicarono; la sola Madrid arrivò a contarne fino a quaranta. Parecchi autori, a cominciare dal gran Calderón - che il regale amico Filippo IV aveva nominato direttore delle feste e degli spettacoli reali - agli autori-attori Vélez de Guevara, Diamante e Villegas, dirigevano in persona le interpretazioni sceniche delle opere loro. Le nuove ostilità contro le compagnie, sempre di natura morale e religiosa, continuate saltuariamente in tutto il sec. XVIII, non riuscirono a soffocare la grande passione del popolo per lo spettacolo e per i suoi artisti, nonostante la lamentata decadenza dei commediografi.

3. Inghilterra. - Importanza grande, e non solo nel teatro del loro paese, hanno avuto gli attori inglesi. Una compagnia girovaga di attori inglesi era già nel 1417 a Costanza, durante il concilio; ma l'importanza vera degli attori incomincia con l'epoca della Riforma. Quel periodo di vita intensissima, di lotte civili e religiose, di grandi innovazioni politiche, scientifiche, economiche e filosofiche, di passioni e di misfatti, di turbamenti profondi e d'idolatria per l'arte, trovò un'eco tumultuosa nell'arte più atta a esprimere il bollore dei contrasti: il teatro. Tragedie imitate dai modelli classici, drammi allegorici, commedie più o meno buffonesche, farse stravaganti, e, genere prediletto dal nascente nazionalismo, drammi storici, si recitavano davanti a un pubblico eterogeneo, dove i signori si mescolavano col popolo, in cortili o in sale di veri e proprî teatri, di cui il primo fu creato a Londra nel 1572. A questi spettacoli le donne non intervennero, da principio, se non col volto mascherato. Gli attori, talvolta ricchi di genialità, erano quasi sempre poveri istrioni vagabondi; e non è da stupire se il gusto degli spettatori s'incontrasse con loro nel feroce e nel truculento oppure nello sguaiato.

Per una legge votata dal parlamento nel 1571, le compagnie che non volevano esser considerate come randagie, vennero obbligate a ottenere un "privilegio" da un pari del regno, o da un personaggio di più alto rango: patrizî della corte o la stessa regina. Nel 1587, oltre tre compagnie di giovinetti - boy-actors, coristi della cattedrale di San Paolo, della Cappella reale, e degli studenti di Westminster - c'erano a Londra altre sei compagnie d'attori privilegiati. Le rappresentazioni, annunciate da squilli di tromba, si tenevano sullo sfondo di scene che stilizzavano il palcoscenico multiplo medievale, di cui abbiam detto sopra; raffiguravano cioè, simultaneamente, più luoghi (sala interna, sala superiore, balcone, collina, ecc.); alle volte s'aggiungeva alle scene, per facilitarne la comprensione, un cartello indicatore. Durante la recita, i clowns improvvisavano scherzi e lazzi non scritti dall'autore (quelli che davano fastidio ad Amleto). Alla fine della recita, gli attori si inginocchiavano, e recitavano in coro una preghiera per la regina.

Le parti femminili erano affidate a giovinetti. Gli attori avevano cura dello splendore dei costumi, ma non della loro fedeltà storica. Molti fra essi furono anche autori: a cominciare da Shakespeare, che s'interessò sempre direttamente alle rappresentazioni dell'opera sua, e nell'Amleto espose, per bocca del suo protagonista, le proprie critiche agli abusi e ai vizî della violenta e indisciplinata recitazione contemporanea.

Fra il sec. XVI e il XVII il gusto del teatro in Inghilterra si diffuse talmente, che già nell'anno 1600 la sola Londra contava non meno di sei teatri stabili. A cominciare dal 1586 (quando compaiono per la prima volta alla corte di Dresda) numerose compagnie inglesi si recarono a recitare anche in Germania; e, sebbene il loro nuovo pubblico non ne intendesse la lingua, la potenza della loro mimica assicurò loro un grande successo; e per alcuni decennî gli attori delle compagnie tedesche sorte a loro imitazione assunsero anch'essi il nome di englische Komödianten.

4. Germania. - In Germania, alle origini del teatro moderno (1400-1500), troviamo i Fastnachtsspiele, scene carnascialesche eseguite da popolari ioculatores su palcoscenici improvvisati o in stanze d'osteria, con abbondanza di lazzi sguaiati ed osceni, che soltanto più tardi per opera di Hans Folz e soprattutto di Hans Sachs cedettero il posto a un'arte più degna. Ebbero in Norimberga il massimo sviluppo, ma rapidamente si diffusero per tutta la Germania, con grande sollazzo del popolo che vi assisteva. Cosicché, quando giunsero i commedianti inglesi con la loro arte teatralmente realistica, trovarono in certo modo il terreno preparato ed ebbero facilmente partita vinta sopra l'artificiale e meccanica recitazione che presso le corti continuava ad essere regolata secondo le norme di declamazione prescritte dai Meistersinger. Il soggiorno stabile di compagnie inglesi in Germania durò fino oltre la metà del secolo XVII; e l'imitazione da parte di attori tedeschi incominciò assai presto: l'Opus theatricum di Jacob Ayrer, già in molta parte ispirato alla nuova maniera di teatro, è del 1618; e in principio le compagnie che si vennero costituendo non mancarono di buoni elementi, per lo più giovani studiosi sedotti dalle attrattive di una vita d'artista libera e vagabonda. Ma, abbandonate a sé stesse, in un ambiente culturale molto diverso da quello a cui i commedianti inglesi avevano attinto la loro forza, perdettero in breve tempo ogni freno di arte e di dignitosa esistenza. Solo con Johannes Velten parve per un momento che una vera grande compagnia tedesca stesse per formarsi, quando Giovanni Giorgio III di Sassonia lo accolse a Dresda alla sua corte con tutti gli attori e le attrici della sua troupe: Molière, Corneille, Calderón furono allora rappresentati con intendimenti d'arte accanto a Andreas Gryphius e a qualche altro poeta nazionale. Ma l'intrapresa poté durare soltanto dal 1685 al 1697, fino alla morte del principe. Poi le sorti del teatro tedesco precipitarono. Gli spettacoli si ridussero a macchinose Haupt-und Staatsaktionen con grossolani colpi di scena e dialogo improvviso, intonato al rozzo gusto del pubblico. Vitale rimase soltanto la figura del personaggio comico, che già al tempo dei commedianti inglesi aveva avuto una parte così importante che, di solito, il Prinzipal la riservava a sé stesso. Sotto i nomi di Pickelhering, di Jean Potage o Schanpitage e soprattutto di Hanswurst (v.), continuò ancora a vivere e a divertire. A Vienna, contribuendovi l'influenza della nostra commedia dell'arte, la genialità di attori come Stranitzky e Prehauser e, infine, Laroche, creatore di Kasperle, ne trasse anzi un colorito e vivace teatro popolare, destinato a grandi sviluppi. Ma, in generale, nella Germania devastata e impoverita dalla guerra, imbarbarita nei costumi, la condizione degli attori divenne miserevole. Riuniti in troupes randagie, ridicolmente ligi all'interna gerarchia dei ruoli, e al tempo stesso disordinati nella vita, crapuloni, andavano ramingando di paese in paese. Disprezzati dal mondo borghese, trascurati dalle corti, erano ridotti - malgrado un certo spirito bohème che conservavano - a poco più che saltimbanchi. La riforma di Gottsched (metà del sec. XVIII) fu una reazione contro tale stato di cose: pur imponendo una pedantesca imitazione del teatro francese, riportò il teatro a dignità di arte e l'attore a dignità di artista. Infine, quando la compagnia Ackermann assunse l'impresa del teatro d'Amburgo, Lessing, divenutone il drammaturgo, creò in Germania, ad un tempo, il teatro nazionale e l'attore moderno. Dopo pochi decennî, sorto in Germania con Goethe e con Schiller un teatro nazionale, verso l'800, le condizioni erano così mutate, che la compagnia girovaga quasi scompariva, sostituita da teatri stabili di città o di corte.

5. Russia. - In Russia per lunghissimo tempo il popolo, poverissimo di letteratura e servo dell'ostilità del suo clero contro gli spettacoli, non conosce altre forme teatrali se non quelle offertegli da rozzi giullari, gli skomoròchi. Solo nella seconda metà del '600, in seguito a un ukaz dello zar Alessio, cominciano ad arrivare in Russia grossolani attori stranieri, cui a poco a poco se ne mescolano di indigeni, in rappresentazioni curiosamente bilingui (p. es. tedesco e russo). Ma sono ancora spettacoli religiosi; e vi assistono soltanto lo zar, la corte, i boiardi. Con Pietro il Grande, anche il pubblico estraneo può accedervi. Poi arrivano attori francesi, e attori e cantanti italiani, portando gli uni e gli altri gli spettacoli del loro paese. Sul principio del '700, sotto la zarina Anna I, alle rappresentazioni fatte a corte da comici dell'arte italiani, si alternano intermezzi recitati da giovani russi che appartengono al corpo dei cadetti. A metà del secolo, la zarina Elisabetta ama tanto gli spettacoli di corte, che multa quei cortigiani i quali non vi assistono. Infine, gli zar istituiscono i teatri imperiali. E allora gli attori russi cominciano a fiorire, divenendo anch'essi preziosi strumenti dei poeti e del dramma russo che va sorgendo. Assistendo all'interpretazione d'un celebre attore del tempo suo, lo Ščèpkin, Nicola Gogol' sente svegliare in sé la passione per il teatro. E Alessandro Ostrovskij, il creatore della commedia russa dell'800, dopo aver cominciato col leggere in pubbliche riunioni le sue opere, finisce con l'esser nominato dallo zar condirettore dei teatri imperiali di Mosca: posto che tenne con grande zelo sino alla morte.

Gli attori moderni. - In Italia la riforma di Carlo Goldoni, meglio che uccidere la commedia dell'arte, la trasformò, traendo dalle irrigidite maschere un'umanità sempre viva: donde la creazione di quei ruoli che, nelle nostre compagnie, le sostituirono. Ma a cominciare da questo momento, in Italia e fuori, la storia degli attori non si può dissociare dalla storia della poesia drammatica, di cui riflette in sé il vario mutar di tendenze e di stile.

Si può dire grosso modo che, almeno nella maggior parte delle nazioni europee, fra cui gli scambî furon più frequenti, nei primi decennî dell'800 molti attori predilessero, dove più dove meno, una recitazione di tipo classicista, per la quale ci si può richiamare in Francia al Talma, in Germania alla scuola di Weimar diretta da Goethe, in Italia all'alfieriano Morrocchesi: sebbene contemporaneamente infierisse la moda francese dei melodrammi avventurosi, farraginosi e assurdi, ma che offrivano pretesti passionali a molti acclamati interpreti. Presto però, ossia circa il 1815 in Germania e circa il 1830 negli altri paesi, la ventata romantica commosse del tutto dizione e atteggiamenti; anche la Rachel, recitando in Francia le tragedie classiche, come facevano gli attori raccolti da Schreyvogel a Vienna, al Burgtheater, mirò a rivelarne l'intima passionalità. Gli attori in genere si feeero un vanto di agire, parlare, vivere, con intensità e verità nuove: tale p. es., accanto alla nostra grande Ristori, la riforma di Gustavo Modena, almeno per il gusto dei contemporanei (ché noi posteri, leggendo nel noto libro del Bonazzi la minuta descrizione di alcune sue gagliarde interpretazioni, forse giudichiamo altrimenti). A ogni modo anche la conquistata scioltezza della nuova commedia borghese (da Scribe a Augier e a Dumas figlio) contribuì a render la recitazione sempre più disinvolta. L'avvento del naturalismo, il Theâtre libre dell'Antoine (v.) in Francia, la Freie Bühne in Germania e, poco più tardi, il teatro d'arte di Stanislavskij a Mosca, ci ridussero al nudo verismo: verista fu, nella sua prima maniera, la stessa Duse. Un'evoluzione diversa ebbe invece il teatro britannico dove, durante la prima metà del secolo era succeduto a Kean, l'attore-bohémien, Macready, l'attore-gentleman, intelligente e colto suscitatore d'autori; al suo regno tenne dietro, negli ultimi decennî del secolo, quello di Enrico Irving, dotto e geniale interprete del teatro shakespeariano, e apostolo del teatro di poesia.

Infine, tra il morire dell'800 e il principio del '900, gli attori europei si sono, in genere, raffinati, impreziositi; hanno mirato a una recitazione sempre più sintetizzata: stilizzata nel tragico e grottesca nel comico. A ciò oggi mirano soprattutto i Russi, le cui severissime scuole, sorta di fraterie laiche sotto la guida dei novissimi riformatori, tendono a dissolvere la recitazione nel balletto e nella pantomima. E i valori visivi sono ormai, data la grandissima cura che si concede alla scenografia, una delle prime preoccupazioni dell'artista drammatico contemporaneo: donde il fenomeno di molti attori i quali recitano abitualmente in una lingua che non è la loro, senza che la loro pronuncia esotica dia luogo a scandali, appunto perché la visione sta prendendo il sopravvento sulla dizione. Anche i Tedeschi e i popoli loro confinanti (Polacchi, Cecoslovacchi, ecc.) sembrano avviati per questa strada, attraverso una serie di esasperati procedimenti tecnici, e meraviglie anche meccaniche d'apparato scenico: il loro grande maestro è stato Max Reinhardt, a cui oggi è succeduta una folla di geniali metteurs-en-scène, in gran parte ebrei. In Francia, dove gli attori della Comédie-Française si propongono di continuare per quanto è possibile la tradizione accademica e l'interpretazione autentica dei testi classici, i teatri d'avanguardia hanno attuato, specie sotto la guida di Jacques Copeau (v.) e dei suoi allievi, importanti riforme moderne, nel senso della semplicità e di una squisita essenzialità. Quanto agl'Inglesi d'oggi, essi paiono in genere accurati e leccati, ma, al nostro gusto latino, forse alquanto freddi; lontani quasi sempre dal tumultuoso romanticismo che nei secoli andati diede loro la gloria. Degli attori italiani diremo che, dopo avere coi grandi artisti già citati, e col Salvini, con Ernesto Rossi, con Ermete Novelli e soprattutto con Eleonora Duse, suscitato il plauso d'Europa e d'America, oggi sembrano cercare, attraverso tentativi che si succedono ansiosamente dal principio del secolo, una loro via nuova.

E qui sono da fare alcune considerazioni, importanti anche per l'arte, sulle condizioni morali dell'attore in genere. Tenuto per tanto tempo in una condizione sociale d'inferiorità, oggi l'attore ha riconquistato, in tutti i paesi civili, un posto adeguato all'elevatezza della sua missione; è considerato come un artista, alla pari degli altri, e gli sono concessi onori anche ufficiali. Del che forse una delle ragioni è da ricercarsi nell'importanza del teatro nella vita moderna, e nelle sanzioni che spesso, se non sempre, gli stessi governi le hanno dato. In molti paesi infatti, e specie in Germania, in Russia, in Francia, oltre che in Ceco-Slovacchia, in Polonia, in Romania, ecc. esistono teatri sovvenzionati, o direttamente gestiti, dallo stato, che con ciò proclama implicitamente gli attori suoi collaboratori a fini di natura etica ed estetica. In altri paesi, come l'Inghilterra e l'America, lo stato non s'ingerisce d'arte drammatica; ma a ciò sopperiscono volontariamente mecenati privati ed enti culturali, dando così all'opera dell'attore un palese riconoscimento dell'élite nazionale.

Accogliendo il voto di Shakespeare nell'Amleto ("E perchè questi attori son vagabondi? una residenza fissa converrebbe loro molto di più e per la loro reputazione e per il loro profitto"), la massima parte delle compagnie costituite con scopi propriamente artistici si sono così sottratte, quasi dappertutto, alle miserie materiali e morali e ai danni estetici che l'esistenza nomade recava, ponendo la propria sede in teatri stabili, dove sia possibile attendere pacatamente alla loro missione. In Italia invece, dove, come s'è visto, è nata l'organizzazione delle moderne compagnie drammatiche, molte e complesse cause hanno ancora impedito la riforma. La conseguenza più evidente si è che, mentre negli altri paesi si è cercato di ricondurre l'attore, specie in questi ultimi tempi, alla sua funzione d'interprete, sotto la guida di un concertatore e direttore che ormai nello spettacolo scenico ha la parte preponderante, in Italia e nei paesi dove le compagnie vagabonde ancora sussistono, la frequente e improvvisatrice bravura dei singoli continua a prevalere sulla scena. Perciò accade che, mentre fra gli attori italiani, i dialettali in ispecie, si contano ancora oggi genialissimi eredi degli antichi comici dell'arte, la grande compagnia d'interpreti, invece, secondo il nuovo gusto, in Italia è ancora difficile a trovarsi. Situazione imputabile, più che agl'individui, a un sistema; di cui non par dubbio che gli sforzi, da trent'anni ormai tenacemente rinnovati, debbano finire con l'aver ragione.

Bibl.: A. D'Ancona, Origini del teatro in It., 2ª ed., Torino 1891; V. De Bartholomaeis, Le origini della poesia drammatica in Italia, Bologna 1924; I. Sanesi, La Commedia, I (il secondo non è mai uscito), Milano 1911; E. Del Cerro, Nel regno delle maschere, Napoli 1914; C. Mic, La Commedia dell'arte, Parigi 1927; A. Royer, Histoire universelle du théâtre, voll. 6, Parigi 1869-1878; L. Petit De Julleville, Les comédiens en France au Moyen-Âge, Parigi 1885; G. Cohen, Histoire de la mise-en-scène dans le théâtre religieux du Moyen-Âge, Parigi 1926; E. Lintilhac, Histoire générale du théâtre en France, voll. 5, Parigi 1909-11; N. Diaz De Escovar e F. De P. Lasso De La Vega, Historia del teatro español, voll. 2, Barcellona; K. Mantzius, History of the theatrical art in ancient and modern Times, versione dal danese, con prefaz. di W. Archer, voll. 6, Londra; A. Nicoll, The Development of the Theatre, Londra 1927; Ph. E. Devrient, Geschichte der deutschen Schauspielkunst (nuova ed.), 2 voll., Lipsia 1905; M. Martersteig, Das deutsche Theater im 19. Jahrhundert, 2ª ed., Lipsia 1924; L. Eisenberg, Biographisches Lexicon der deutschen Bühne im XIX. Jahrhundert, Lipsia 1903; J. Bab, Das Theater der Gegenwart, Lipsia 1928. E cfr. anche le collezioni; Schriften der Gesellschaft für Theatergeschichte, Berlino, 39 voll., fino al 1929; Theatergeschichtl. Forsch., Lipsia, 36 voll., fino al 1929.

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