MILANI, Aureliano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MILANI, Aureliano.

Stefano Pierguidi

– Nacque a Bologna nel 1675. Secondo Zanotti il padre era macellaio, come quello di Ludovico Carracci, con il quale egli avrebbe avuto qualche parentela. Il percorso formativo del M. fu piuttosto travagliato: dopo aver ricevuto i principî dell’arte pittorica dallo zio Giulio Cesare Milani, fu brevemente alla scuola di L. Pasinelli e poi a quella dell’ormai anziano C. Gennari. Fondamentali furono gli anni trascorsi sotto la protezione del conte A. Fava, nel cui palazzo il M. ebbe la possibilità di studiare i fregi ad affresco dei Carracci.

L’esperienza maturata nella cerchia degli artisti che lavoravano per il conte Fava fu alla base del progetto di restaurazione neocarraccesca portato avanti dal M. nel corso di tutta la sua carriera. Due disegni, nella Biblioteca comunale dell’Archiginnasio e nella Pinacoteca nazionale di Bologna (Le arpie insozzano la mensa dei Troiani), sono chiaramente ispirati all’omonimo affresco di palazzo Fava.

Zanotti riferisce che insieme con A.M. Cavazzoni, conosciuto sempre in palazzo Fava, il M. copiò per il marchese F. Angelelli la Resurrezione di Annibale Carracci oggi al Louvre, che nel 1689 il senatore A.M. Angelelli aveva donato, con lascito testamentario, alla chiesa del Corpus Domini. Dello studio condotto su quel testo capitale il M. fece tesoro poco dopo, al momento di eseguire la Resurrezione ovale per S. Maria della Purità (oggi nel palazzo arcivescovile di Bologna).

Databile intorno al 1690 dovrebbe essere l’Ercole e Acheloo oggi nel castel Thun in Trentino.

Il senatore F. Ghisilieri nel 1685 aveva riaperto a Bologna l’Accademia degli Ottenebrati, dove ci si esercitava con il disegno, soprattutto sul tema del nudo: quell’esperienza ebbe vita breve, ma intorno al 1690 culminò con l’episodio di una gara a cui, secondo Zanotti, avevano preso parte G.G. Dal Sole, G.A. Burrini e G.M. Crespi. Il ritrovamento delle tele, che recano i nomi degli autori sul retro insieme con il numero di inventario della collezione Ghisilieri, ha permesso di stabilire che a quella gara avevano partecipato anche altri tre pittori: Pasinelli, M. Franceschini e lo stesso Milani.

Nell’Ercole e Acheloo il M. adottò una materia cromatica molto ricca, quasi grondante, che raramente si ritroverà nel corpus dell’artista. In seguito, per monsignor A. Ghisilieri, il M. avrebbe eseguito un Ercole che uccide Caco citato da Zanotti, identificabile con una tela di collezione privata (Pirondini), che ha più o meno le stesse dimensioni dell’Ercole e Acheloo: è difficile stabilire la datazione di quest’opera, nata evidentemente per affiancare quella precedente, ma è probabile che preceda il trasferimento del M. a Roma.

Gravato da una famiglia numerosissima (sposatosi all’età di ventiquattro anni, ebbe nove figli), il M. aveva continuamente bisogno di lavorare per mantenere la prole: tra i suoi primi protettori fu il padre servita G.B. Bernardi, che gli procurò alcune commissioni. Nel 1705 affrescò l’Annunciazione sulla facciata del dormitorio del convento dei serviti, all’interno di una quadratura opera di C.G. Carpi.

Lo scorcio dell’angelo è il segno, forse, di un aggiornamento condotto sulle soluzioni più moderne di D.M. Canuti, reduce dai successi romani, ma la solidità d’impianto della figura della Vergine tradisce l’indole più autentica dell’artista. Del 1708 è infatti un compassato Enea uccide Turno (Parigi, Galerie Canesso), in cui si riconosce l’influenza del G. Reni più monumentale (il Sansone vittorioso della Pinacoteca nazionale di Bologna).

All’inizio del secondo decennio del Settecento risale il capitolo più importante, e meglio documentato, della prima maturità del M.: i dipinti eseguiti per Francesco Farnese, duca di Parma e Piacenza.

In una lettera al duca del 24 nov. 1710 il M. si impegnò a eseguire sei quadri a soggetto biblico; del 29 maggio 1712 è il pagamento finale, probabilmente a saldo. Il ciclo, dettagliatamente descritto in un inventario del palazzo ducale di Colorno del 1731, era costituito da quattro tele grandi, divise in due coppie di pendants (La regina di Saba di fronte a Salomone e il Giudizio di Salomone da una parte; Ester di fronte ad Assuero e il Trionfo di Mardocheo dall’altra) e da due sovraporte più piccole raffiguranti, sempre a pendant, Assuero si fa leggere il Libro delle Cronache e Aman chiede perdono ad Ester. Tre delle sei tele, giunte insieme con le altre a Napoli con tutta la collezione Farnese nel 1734, sono state identificate nelle Gallerie di Capodimonte e, tra il 1960 (le prime due) e il 1996 (la terza), sono state trasferite al Museo civico di Piacenza: si tratta del Giudizio di Salomone, dell’Ester di fronte ad Assuero e del Trionfo di Mardocheo. Le tele, teatrali e fastose, non mostrano ancora quell’esibito studio del nudo che avrebbe caratterizzato le prove successive del Milani. Il 27 marzo 1713 il M. sottoscriveva la ricevuta per il saldo di tre dipinti circolari, identificabili con quelli citati nell’inventario del palazzo ducale di Parma del 1731 raffiguranti la Creazione del Sole e della Luna, la Creazione della Terra e Dio separa la terra dalle acque (perduti o non ancora rintracciati), per i quali rimangono tre disegni preparatori a Windsor Castle (Royal Library). Questi ultimi, particolarmente rifiniti, potrebbero in realtà essere dei fogli di presentazione: si tratta di eccezionali prove accademiche, con prestiti dal linguaggio del Correggio (Antonio Allegri) che confermano quanto scritto sia da Zanotti sia da Crespi, secondo i quali i disegni del M. erano avidamente collezionati.

Il 9 nov. 1714 il M. scriveva a Parma al marchese A. Pallavicino, suggerendogli i soggetti per quattro tele raffiguranti episodi omerici: per questi dipinti, non identificati, rimangono alcuni disegni preparatori all’Accademia Carrara di Bergamo e alla Fondazione Cini di Venezia (Mazza, 1995, 1999).

Dalla corrispondenza con il marchese si apprende che il ciclo era stato terminato entro l’autunno del 1718, quando il M. parlava al suo committente di un’altra serie di quattro tele, questa volta con episodi tratti dall’Eneide, in via di ultimazione o già in giacenza nel suo studio (non identificati; uno, Le Arpie insozzano la mensa dei Troiani, si vedeva ancora nel palazzo di Parma in una foto del 1944, e a esso sono forse ricollegabili i due disegni già menzionati, ispirati all’affresco dei Carracci di palazzo Fava). Nel luglio del 1719 il M., allora a Roma, raccomandava al marchese di far dare della chiara d’uovo ai tre centrosoffitti circolari, raffiguranti Ercole e Anteo, Ercole e Iole e Ercole riceve da un giovane la camicia di Nesso, ancora esistenti nel palazzo di Parma.

Nel 1718 vennero tumulate le ossa del beato Bonaparte Ghisilieri sotto l’omonimo altare nella chiesa bolognese di S. Maria della Vita: è probabile che l’evento venisse celebrato con la messa in opera della pala d’altare del M. raffigurante la Madonna col Bambino, s. Gerolamo e il beato Ghisilieri, programmaticamente neocarraccesca. Con la perdita, nel corso del secondo conflitto mondiale, della Lapidazione di s. Stefano già in S. Maria della Purificazione (per la quale rimane un disegno preparatorio nella collezione Jeffrey E. Horvitz), la pala in S. Maria della Vita rimane l’unica importante opera pubblica del M. a Bologna. Il M., infatti, voleva da tempo trasferirsi a Roma: il generale L.F. Marsili aveva mandato a papa Clemente XI, a quello scopo, un grandissimo e affollato disegno del M., accompagnandolo con una lettera di lodi, ma non aveva ottenuto alcun risultato. Lo stesso Marsili avrebbe poi fornito il M. delle lettere di raccomandazioni necessarie per tentare il successo a Roma. Databili a cavallo tra il periodo bolognese e quello romano, sono le quattro grandi Storie di Sansone, oggi nelle collezioni della Banca popolare dell’Emilia Romagna, commissionate sempre dal marchese Pallavicino e destinate alla sua villa di Busseto.

Il ciclo di Busseto si articolava in sette tele, le quattro grandi della Banca popolare e tre sovraporte, non identificate. Nel dicembre del 1718 il M. ricevette l’acconto per i dipinti; nel 1720 riferiva al marchese che aveva iniziato cinque quadri (tre dei grandi e due dei piccoli), ma le tele sarebbero state terminate solo nel 1722, poiché il M. era molto impegnato con i lavori commissionatigli da F. Paolucci. Per il Sansone uccide i Filistei (per il quale rimane un rifinito studio alla National Gallery of Canada di Ottawa) il M. si rifece, ancora una volta, al già citato Sansone vittorioso di Reni, sebbene l’eccessiva enfasi sul nudo e sulla muscolatura dei protagonisti, sia in questa tela sia nel Sansone con le porte di Gaza e soprattutto nel Sansone alla macina, conferisca ai dipinti un tono quasi da parodia, non certo una misura classica. Si è infatti parlato di una «manierona» del M. (Roli, 1964), che a volte sembra recuperare i modi di P. Ribaldi. Questo tour de force sarebbe già stato criticato da Canotti il quale, in una postilla autografa alla sua Storia dell’Accademia …, avrebbe commentato: «Oh quanti muscoli sgangherati vi debbono essere» (p. 160).

Nel giugno del 1719 il M. lasciò Bologna e il 18 luglio già scriveva da Roma al marchese Pallavicino informandolo di essere arrivato in città con un suo figlio. Il M. iniziò a lavorare per il cardinale forlivese F. Paolucci de Colboli, da poco titolare della diocesi suburbicaria di Albano: il 13 dic. 1719 il M. comunicava a Pallavicino di essere appena tornato a Roma da Albano, dove aveva affrescato il soffitto della navata centrale della cattedrale.

Quest’opera, il S. Bonaventura portato in cielo dagli angeli, insieme con la decorazione della calotta absidale con il Martirio di s. Pancrazio, è andata perduta nel corso dei rifacimenti ottocenteschi della cattedrale, dove rimangono oggi solo le due modeste pale d’altare con la Madonna col Bambino e i ss. Carlo Borromeo, Bonaventura e Pietro Igneo e la Madonna con i ss. Gregorio Magno e Luigi Gonzaga e le anime purganti.

Nel 1722 il M. scriveva ancora al marchese accettando di prendere come aiuto P. Boschi per eseguire i lavori, anch’essi commissionatigli da Paolucci, ai Ss. Giovanni e Paolo. Per la basilica, restaurata dal cardinale, il M. licenziò ben sei pale d’altare (una è perduta, e delle altre cinque due si conservano oggi in sacrestia), di cui la migliore è certamente il Martirio dei martiri scillitani, firmato e datato 1722.

Nella pala dei Ss. Giovanni e Paolo la critica ha riconosciuto una tangenza con i modi di M. Benefial. Alla vena antiretorica e antibarocca di questo pittore romano il M., nel suo progetto di restaurazione carraccesca, fu certo vicino. Così come lo fu ai modi di P.L. Ghezzi, al quale era stato in passato attribuito il Miracolo del pane del beato Nicolò Albergati (collezione privata), gustosa ricostruzione di un episodio di storia recente, confluito poi nel corpus del Milani. Questi recuperò infatti dai Carracci anche una certa propensione all’osservazione del naturale, di cui massima testimonianza sono i pendants raffiguranti un Mercato (Pesaro, Musei civici) e una Missione (Marano di Castenaso, collezione Molinari Pradelli), citati da Zanotti come opere eseguite dal M. per Marsili subito dopo il suo arrivo a Roma, e databili quindi al 1719-20 circa. Nel primo il M. raffigurò una vivace scena di genere, sullo sfondo della facciata settecentesca di S. Maria in Cosmedin; nel secondo la predica di un padre, forse dell’Ordine della Missione. Le due scene di genere, ricche di spunti aneddotici, sono peraltro trattate dal M. con una pennellata raffinatissima, che prelude all’arte dei Gandolfi.

In occasione dell’anno giubilare 1725 Paolucci commissionò la decorazione della sua cappella in S. Marcello al Corso, per la quale il M. dipinse tre tele: la nobile pala d’altare con Cristo appare a s. Pellegrino Laziosi, uno dei suoi capolavori, e i due laterali con Il miracolo della Madonna del Fuoco di Forlì e La guarigione di un cieco, in cui l’accademismo del M. lascia spazio a un fare più popolaresco. Della pala rimane il bozzetto, oggi nel convento dei padri serviti di Bologna, forse inviato dal M. a Bernardi, suo primo protettore.

Nel 1729, in occasione della beatificazione di Vincenzo de’ Paoli, i padri della Missione commissionarono al M. la pala con la Predica del b. Vincenzo de’ Paoli per l’altare maggiore della loro chiesa di Montecitorio (oggi al collegio Leoniano); tre anni dopo il M. firmava e datava la Decollazione di s. Giovanni Battista per la chiesa dei Bergamaschi. Del dicembre del 1732 è poi il contratto per la decorazione ad affresco della volta della galleria degli Specchi in palazzo Doria-Pamphilj, della quale già Zanotti, da Bologna, scriveva: «Io sento dire, che questa sia l’opera più stimata, ch’egli abbia fatto fin’ora» (p. 165).

Il ciclo, raffigurante la Caduta dei giganti, Storie di Ercole e le Allegorie delle quattro parti del mondo costituisce una summa del neocarraccismo del M., avendo come imprescindibile punto di riferimento la decorazione della galleria Farnese. Si tratta, quindi, di un’opera tutta rivolta al passato, a partire dalla ripresa dello schema a quadri riportati, sostanzialmente isolata e anomala nel panorama della pittura romana contemporanea, e anzi in forte controtendenza con le novità di S. Conca e L. Giordano. Secondo Zanotti, il M. «avendo potuto scegliere gli argomenti delle sue favole, a suggetti s’è rivolto, che di nudi musculosi, e fieri abbisognano, estimando, che qui consista la somma del suo sapere» (p. 165): non c’era effettivamente alcun legame iconografico tra gli episodi della Caduta dei giganti e quelli con Ercole come protagonista, e l’ossessione del M. per la raffigurazione dei nudi raggiunge qui il parossismo.

Sempre del 1732 sono gli affreschi del M. nella calotta absidale della chiesa della Maddalena con Cristo predica alle turbe. L’attività tarda del M. non conta episodi di grande rilievo.

Nel 1737 eseguì le pitture degli apparati del triduo per la beatificazione di Giuseppe da Leonessa e gli stendardi processionali per la cerimonia di canonizzazione di Vincenzo de’ Paoli. Nel 1739 riprese, in controparte, l’invenzione della sua Predica di Vincenzo de’ Paoli in un disegno (Parigi, Louvre) da cui Jean-Charles Allet trasse un’incisione. Per celebrare il loro santo, i padri della Missione avviarono la ricostruzione della chiesa di Montecitorio, consacrata nel 1743: al termine dei lavori la citata pala del M. fu spostata sull’altare della seconda cappella a sinistra, decorata in quell’occasione dallo stesso M. con affreschi nella piccola cupola (Gloria di angeli) andati perduti con la distruzione della chiesa. Nel 1741, alla morte di G. Lanfredini, colui che aveva sovvenzionato la costruzione della chiesa della Missione, il M. era stato chiamato a stimare i dipinti della collezione del cardinale, che aveva nominato la Congregazione sua erede universale. Nel 1739, due anni prima di morire, il generale dell’Ordine dei camilliani, per il quale il M. aveva lavorato alla chiesa della Maddalena, si ritirò nel suo paese natale in Piemonte, Occimiano, nella cui chiesa dei camilliani furono collocate tre pale d’altare del M., oggi nella parrocchiale dello stesso paese: un’Assunzione della Vergine, un Transito di s. Giuseppe e una Apparizione di Cristo a Camillo de Lellis. La composizione della prima, l’unica di notevole qualità, si basa su un disegno datato 1726 (Filadelfia, Pennsylvania Academy of fine arts), che il pittore riutilizzò ancora una volta nel 1742 per la pala d’altare della chiesa della congregazione di Propaganda Fide a Castelgandolfo, commissionatagli per interessamento di Benedetto XIV. Del 1742 sono la ricevuta d’acconto e i pagamenti relativi alla Deposizione con i ss. Francesco Saverio e Caterina in S. Maria del Suffragio a Porto San Giorgio nelle Marche, e dello stesso anno è l’affresco, datato, con la Natività della Vergine in S. Maria Maggiore.

Non si conosce la data di morte del M., avvenuta a Bologna, dove si era recato per rivedere la chiesa della Certosa, prima del 20 sett. 1749, data della lettera di A. Longhi a Zanotti che ne dà notizia.

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S. Pierguidi