AVANGUARDIA SOVIETICA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Avanguardia sovietica

Pietro Montani

Con questa espressione ci si riferisce, complessivamente, all'insieme dei movimenti artistici che, al seguito di un'immediata adesione del gruppo futurista, si riconobbero nella rivoluzione russo-bolscevica dell'ottobre 1917 e tentarono di progettarne l'identità culturale prima che gli apparati di Stato se ne assumessero il compito in modo esclusivo e autoritario decretando (nel 1934, ma solo come atto terminale di un processo già da lungo tempo in corso) la poetica ufficiale del realismo socialista (v. realismo). La vicenda dell'a. s., pertanto, si concentra in poco più di un decennio (ma gli anni davvero cruciali furono quelli tra il 1922 e il 1927) e, per quanto attraversata da tensioni e contrasti interni talora radicali, resta comunque caratterizzata da alcuni aspetti unificanti che la rendono ben riconoscibile nel più ampio contesto dell'avanguardia storica. Su tutti: la concretezza del pronunciamento politico e la notevolissima elaborazione teorica. Ciò appare con particolare evidenza nel caso dell'avanguardia cinematografica, in quanto il cinema venne immediatamente percepito come un potente strumento di 'agitazione' e, al tempo stesso, come una forma espressiva dotata di potenzialità ancora largamente inesplorate. Per i più importanti cineasti sovietici degli anni Venti, in tal modo, la pratica creativa risultò indissociabile dalla riflessione teorica sull'autonomia formale del cinema e dalla lotta, spesso aspra, per legittimare e difendere un progetto politico. A tutto ciò va aggiunto che nella quasi totalità dei casi i registi attivi nell'industria cinematografica russa prerivoluzionaria espatriarono tra il 1917 e il 1918, per cui il grande cinema sovietico fu opera di un gruppo di artisti assai giovani, provenienti da esperienze disparate (teatro, pittura, studi scientifici), i quali si appropriarono del nuovo mezzo solo dopo la rivoluzione e in rapporto ai suoi valori e riuscirono a immettervi una carica innovativa tanto più rilevante quando si pensi che la nazionalizzazione dell'industria cinematografica venne decretata nell'agosto 1919, con il conseguente, capillare controllo da parte del Commissariato del popolo per l'istruzione attraverso l'istituto giuridico della censura preventiva e quello economico del finanziamento.La contiguità tra il cinema dell'a. s. e l'idea di un'arte rivoluzionaria deve essere ribadita. Benché una parte della storiografia più recente abbia ritenuto di dover ridimensionare l'essenziale originalità dell'avanguardia cinematografica sovietica rispetto alla produzione degli anni precedenti la rivoluzione, resta il fatto che la ricerca di possibili antecedenti deve fermarsi alla registrazione di alcuni episodi di modestissimo interesse. Si può qui ricordare che nel 1913-14 il gruppo futurista Oslinyj chvost (Coda d'asino) realizzò un breve film intitolato Drama v kabare futuristov n. 13 (Dramma nel cabaret futurista n. 13), di cui si sono conservati alcuni frammenti dai quali è difficile concludere che si sia trattato di qualcosa di più che un semplice divertissement indicativo soltanto di un certo gusto per il grottesco e la parodia. Al film presero parte rappresentanti del movimento futurista, tra cui il giovane Vladimir V. Majakovskij, che all'epoca, tuttavia, nutriva un sostanziale scetticismo sulle sorti del cinema. Più tardi Majakovskij avrebbe cambiato opinione, ma il suo rapporto con il cinema (di cui si parlerà ancora più avanti) restò quanto meno contrastato, oscillante tra la partecipazione semiseria, come sceneggiatore e come attore, a produzioni del tutto convenzionali (quali Baryšnja i chuligan, 1918, La signorina e il teppista, tratto da un racconto di E. De Amicis, realizzato con Evgenij T. Slavinskij e Ne dlja deneg rodivšijsja, 1918, Non nato per il denaro, tratto da J. London e diretto da Nikandr Turkin) e la proposta di progetti virtualmente innovativi (come Kak poživaete?, 1926, Come state?, una sorta di fantasticheria del poeta a partire da alcuni dettagli della vita quotidiana, ricca di trovate e di trucchi visivi) che restarono sulla carta per l'opposizione, reiterata e durissima, della censura. Non troppo diverso è il caso di Vsevolod E. Mejerchol′d, uno dei massimi interpreti della sperimentazione teatrale, il quale prima della rivoluzione aveva manifestato interesse per le autonome potenzialità spettacolari del cinema mortificate dalla produzione corrente. Nel 1915 Mejerchol′d ridusse per lo schermo The picture of Dorian Gray di O. Wilde (affidando il ruolo del protagonista a un'attrice, Varvara Janova), ma il risultato stilistico del film è incomparabile con i coevi allestimenti scenici del grande regista e con la potenza visionaria di quelli successivi. Resta da segnalare, il caso di Lev V. Kulešov, l'unico tra i protagonisti dell'a. s. attivo (come scenografo) già nella seconda metà degli anni Dieci. Tuttavia, per quanto la precocità di Kulešov sia fuori discussione, dal collaboratore diciassettenne di un buon artigiano come fu Evgenij F. Bauer (il regista con cui lavorò in prevalenza) non sarà lecito aspettarsi niente di più che l'assorbimento di una cultura dell'immagine fondata sul principio di una marcata stilizzazione del movimento e della prestazione attoriale che il Kulešov 'maturo' (in realtà poco più che ventenne) avrebbe portato a un grado di completezza, anche teorica, da attribuire per intero alla sua peculiare poetica.Per definire più dettagliatamente i caratteri salienti dell'a. s. sarà opportuno prendere le mosse proprio dalla poetica di Kulešov. Non ci si soffermerà qui sul celebre 'effetto' cui è tradizionalmente legato il nome di Kulešov se non per metterne in evidenza il principio teorico di base, ossia la comprensione del montaggio (v.) come operazione costruttiva dalla quale dipende per intero il senso dei materiali visivi selezionati e combinati. Per Kulešov, in altri termini, l'elemento 'profilmico' perde tendenzialmente ogni rilevanza, risultando invece determinante la costruzione cui viene sottoposto: così ‒ secondo una delle numerose declinazioni del cosiddetto effetto Kulešov ‒ la medesima inquadratura di un volto inespressivo verrà interpretata come un'immagine che comunica angoscia e disperazione oppure avidità e desiderio a seconda che il montaggio la correli con una bara in cui giace un cadavere o con un piatto di minestra fumante. Kulešov mostrava in tal modo che lo spazio e il tempo del film possono costituirsi nella piena indipendenza da quelli reali e, insieme, che il montaggio cinematografico inclina spontaneamente all'ordine discorsivo, differenziandosi da ogni figuratività di tipo pittorico e da ogni naturalismo riproduttivo o psicologico.

Questa determinazione artificiale o convenzionale dell'immagine, che la rende 'leggibile' ben oltre l'illusione di realtà e dunque la fornisce di una grande duttilità semantica, è il contributo specifico di Kulešov al cinema dell'avanguardia sovietica. In questo, egli fu davvero il padre di tutti quei cineasti (quasi sempre più anziani di lui) che concepirono il film come una strutturazione discorsiva complessa e anticipò la teoria formalista del cinema (v. formalismo) che nel 1927 ne avrebbe ripreso e articolato le idee di fondo assimilando i principi costruttivi del film a quelli del testo verbale. Ma l'apporto di Kulešov si spinge oltre e si farebbe torto alla sua incontenibile attitudine a incrementare l'inventario aperto delle figure del discorso filmico se si appiattisse il suo convenzionalismo su una concezione astrattamente antinaturalista. In realtà basta dare un'occhiata al suo primo capolavoro, Neobyčajnye priključenija Mistera Vesta v strane bol′ševikov (1924, Le straordinarie avventure di Mr West nel paese dei bolscevichi) per rendersi conto della ricchezza di soluzioni narrative specifiche con cui il montaggio, sfruttando fino in fondo le risorse di uno sguardo decentrato (ossia di un'enunciazione visiva che si sposta di volta in volta dall'uno all'altro personaggio), riesce ad articolare il racconto sul piano di un'irresistibile, e spesso autoironica, affabulazione. Con sovrana leggerezza, Kulešov mescola i generi e le forme (dal western al poliziesco, dal comico al grand guignol) e riesce a rigenerare il tutto in una coerente concatenazione di peripezie prendendosi gioco, al tempo stesso, dell'ingenuo Mr West che, in missione a Mosca, si raffigura i bolscevichi come selvaggi sanguinari, e dei bolscevichi veri, che non sanno far niente di meglio che autorappresentarsi in rituali collettivistici e parate ufficiali.Al convenzionalismo stilistico di Kulešov fa dunque riscontro la tendenza a un'intertestualità parodistica e autoriflessiva. L'immagine costruita, in altri termini, si riconosce tributaria di altre immagini e si denuncia, talora, come tale. Anche questo è un tema formalistico, ma sarebbe un errore (lo si vedrà meglio tra poco, con Dziga Vertov) cogliervi soltanto un fatto di gusto o, peggio, una precoce estenuazione manieristica. Era in gioco, in realtà, una politica dell'immagine cinematografica, più precisamente una perentoria rivendicazione di autonomia che, nei suoi primi atti, non poteva che guardare con favore ai generi 'bassi' grazie ai quali il cinema si era reso inassimilabile ad altre forme dello spettacolo. Ciò spiega l'americanismo e il 'chaplinismo' dell'a. s. nel cui nome ‒ è l'esempio più esplicito ‒ si costituì, nel 1922, la FEKS (Fabrika Ekscentričeskogo Aktëra, Fabbrica dell'attore eccentrico) guidata da Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg. Ma spiega anche, della medesima a. s., la peculiare tendenza a un'autoriflessione che mira a tematizzare, il potere di coinvolgimento e di fascinazione del cinema. La più interessante esperienza cinematografica di Majakovskij, Zakovannaja fil′moj (1918, Incatenata dal film), scritta dal poeta e realizzata da N. Turkin, si inserisce in questo contesto. Il poeta vi interpreta la parte di un pittore in crisi che durante la proiezione di un film (intitolato Il cuore dello schermo) viene preso da irresistibile passione per un'attrice (interpretata da Lilja Brik, la donna con cui Majakovskij strinse una relazione rimasta celebre per la sua irregolarità e il suo pathos). A proiezione ultimata, mentre il pittore indugia nella sala ormai deserta, lo schermo si illumina di colpo e l'attrice ne discende, 'in carne e ossa', per raggiungere l'innamorato e seguirlo nel suo studio (quest'ultima scena, appena pochi metri, si è conservata). Zakovannaja fil′moj non si segnala tanto per la trovata ingegnosa (e fortunata: come non ricordarne la ripresa da parte di Woody Allen, nel 1985, in The purple rose of Cairo?), quanto per l'intreccio tra finzione e realtà nel quale, al di là delle ingenuità dell'invenzione narrativa, è messa a tema la capacità del cinema di sconfinare nella vita e di introdurvi modificazioni. Fatte le debite proporzioni, l'intera a. s. si sforzò di restituire all'esperienza artistica quell'efficacia pratica che il film di Majakovskij mette in scena nel registro semplificato di un eros trascinante. D'altronde, l'idea che l'arte potesse svincolarsi dai ceppi della 'fruizione estetica' e reimmettersi nella vita solo in virtù di un'erotica e di una politica ‒ in altre parole, ripensando sé stessa come una forza capace di sottrarre i suoi temi e le sue forme alla cerchia stretta e soggettivistica del giudizio di gusto per spingerli nello spazio aperto e pluralistico della polis ‒ fu un'idea cui l'intera avanguardia su-bordinò la sua comprensione dell'esperienza spettacolare. Non è un caso, del resto, che il credo costruttivista di un'"arte come costruzione della vita" trovasse il più fertile terreno di confronto nella rivista "Lef" (periodico del Levyj Front Iskusstva, LEF, Fronte di sinistra delle arti, gruppo letterario-artistico fondato alla fine del 1922), di cui Majakovskij fu il pilastro. La vicenda del LEF fu determinante per il progetto specificamente politico dell'avanguardia sovietica.

Nel 1923 uscirono su "Lef" (nello stesso numero, il terzo) due brevi ma fondamentali testi di carattere teorico e programmatico destinati a segnare, in modo profondo, il dibattito in seno all'a. s. e a indirizzarne i futuri sviluppi. Il primo ‒ Kinoki. Perevorot (I Kinoki. Un rivolgimento) ‒ fu firmato da Dziga Vertov e dal suo gruppo, i Kinoki (Cineocchi), all'epoca impegnati nella produzione della Kinopravda (Cineverità o "Pravda" cinematografica), un cinegiornale concepito in modo fortemente innovativo; il secondo ‒ Montaž attrakcionov (Il montaggio delle attrazioni) ‒ fu firmato da Sergej M. Ejzen-štejn, all'epoca ancora regista teatrale e aderente al Proletkul′t (Cultura proletaria), un raggruppamento dell'estrema sinistra. Ai manifesti di Vertov ed Ejzenštejn seguirono Kinoglaz (1924, Cineocchio) e Stačka (1925; Sciopero), due film che per la diversità e il radicalismo delle rispettive proposte si possono considerare come le due polarità intorno alle quali si sarebbe organizzato il lavoro politico dell'a. s. nei brevi anni del suo massimo dispiegamento creativo nel cinema. Vertov rifiutava in blocco il cinema di finzione auspicando una 'cinematografia non recitata'. "Un film psicologico, poliziesco, satirico o di qualsiasi altro tipo ‒ scriveva nel manifesto del 1923 ‒ a tagliarne via tutte le immagini lasciando solo le didascalie, ci darà lo scheletro letterario del film. Su questo scheletro noi potremo costruire altri intrecci cinematografici, realisti, simbolisti, espressionisti o come più vi piace. Non per questo le cose cambieranno. Il rapporto resterà lo stesso: uno scheletro letterario più illustrazioni cinematografiche. Tali sono, senza eccezione, tutti i film, nostri e stranieri" (trad. it. in L'occhio della rivoluzione, 1975, p. 34). Contrapponendosi frontalmente a questa concezione dell'immagine come mera illustrazione di un testo letterario soggiacente (e cioè all'intera produzione esistente), Vertov si era convinto che il cinema potesse assolvere al compito, del tutto autonomo, di riorganizzare il mondo visibile in base a criteri di intelligibilità che l'occhio umano utilizza in modo inconsapevole e difettoso mentre l'occhio meccanico, il kinoglaz, è capace non solo di potenziare in massimo grado ma anche ‒ e questo punto è decisivo ‒ di esplicitare nel visibile stesso. Così, l'ampio progetto intitolato Kinoglaz (di cui Vertov non poté realizzare che un frammento) prevedeva che a una prima raccolta di materiali operata in modo intenzionalmente casuale e impressionistico (Žizn′ vrasploch, ovvero La vita colta sul fatto, fu il titolo di questa prima ricognizione) facessero seguito altre cinque 'serie' di film che a quei materiali avrebbero dato una forma sempre più elaborata, provvedendo via via a scomporli e a rimontarli creando nuovi nessi, a integrarli e a commentarli con altre immagini, a interpretarli e a riferirli a ulteriori temi in un movimento potenzialmente illimitato. Ma non basta: il progetto di Vertov (la 'cinematizzazione delle masse', come lo aveva definito), di cui Kinoglaz doveva rappresentare una sorta di manifesto per immagini, comportava che questo lavoro di raccolta, elaborazione e commento si estendesse 'a rete' coinvolgendo un numero crescente di corrispondenti nelle varie Repubbliche dell'Unione in modo da produrre un'inedita forma di spazio pubblico virtuale non troppo dissimile da quello che solo di recente è stato reso accessibile dalle tecnologie elettroniche.

La portata politica del progetto vertoviano non ha bisogno di commenti. Ci si limiterà qui a osservare che il suo dirompente potenziale democratico fu colto con lucidità dagli organismi preposti alla gestione della cinematografia, i quali soffocarono sul nascere il Kinoglaz tagliandogli i finanziamenti. Così, della grande impresa mediatica immaginata da Vertov non resta che il primo passo, quella "vita colta sul fatto", cioè, che ha prodotto l'erronea assimilazione del progetto vertoviano alla poetica del cosiddetto cinema-verità. Questo diffuso giudizio è a tal punto fuorviante da lasciarsi sfuggire il contributo teorico saliente di Vertov. Al di là delle valenze politiche, infatti, anche se non indipendentemente da esse, l'esperienza di Vertov è decisiva per comprendere fino in fondo la cultura dell'immagine dell'a. s. in uno dei suoi aspetti essenziali, quello dell'autoriflessività. Ciò che Kinoglaz aveva potuto dichiarare solo sul piano programmatico ma che, in seguito, sarebbe diventato l'oggetto esplicito ed esclusivo del film più noto di Vertov, Čelovek s kinoapparatom (1929, L'uomo con la macchina da presa), è infatti l'accertamento del carattere costitutivamente doppio e speculare dell'immagine cinematografica in quanto dipendente dalle proprietà degli eventi posti sotto osservazione e, insieme, dallo sguardo che le seleziona e le determina come proprietà visibili. Vertov percepì con la massima chiarezza che il Kinoglaz organizza il mondo fenomenico solo in quanto ne fa parte, gli è interno, e dunque è al tempo stesso un occhio che vede e un occhio che è visto, soggetto e oggetto di una visione che in tal modo si denuncia come strutturalmente duplice. Si tratta di un accertamento che, prima ancora di essere assunto in una poetica, riguarda la natura stessa dell'immagine cinematografica, di cui dichiara l'intima riflessività coordinandola con l'idea di una ricezione distanziata e critica.Il progetto politico vertoviano prevedeva uno spettatore talmente consapevole e attivo da farsi, a sua volta, produttore. Diverso è il caso del giovane Ejzenštejn che, dalle pagine di "Lef", proclamava senza mezzi termini che bisognava "modellare lo spettatore secondo una tendenza (disposizione d'animo) desiderata" e che "lo strumento di questa elaborazione è fornito da tutte le parti costitutive dell'apparato teatrale [...] riportate, in tutta la loro eterogeneità, sotto un'unica categoria che ne legittima la presenza: la loro natura di attrazioni" (trad. it., in Il montaggio, a cura di P. Montani, 1986, p. 220). Il manifesto sul montaggio delle attrazioni era riferito al teatro, ma Ejzenštejn si stava già convincendo che solo il cinema avrebbe potuto istituire la figura di uno spettatore totalmente assorbito da uno spettacolo concepito, a sua volta, come un'esperienza totalizzante. È fuor di dubbio che il modello a cui Ejzenštejn si richiamava era quello dello spettacolo antico, ma solo per quanto attiene al requisito del coinvolgimento pieno e incondizionato. Quanto alle forme, invece, Ejzenštejn dimostrava un'assoluta originalità di pensiero nel momento in cui l'idea di un'esperienza capace di "modellare lo spettatore" veniva messa in rapporto con il concetto di 'attrazione', vale a dire, secondo le sue parole, con "qualsiasi elemento che eserciti sullo spettatore un effetto sensoriale e psicologico [...] tale da produrre determinate scosse emotive le quali, a loro volta, tutte insieme, determinano in chi percepisce la condizione per recepire il lato ideale e la finale conclusione ideologica dello spettacolo" (p. 220). Compaiono qui (evidenziati dal corsivo) i due aspetti decisivi del concetto di 'attrazione', quelli che, al di là del linguaggio provocatorio del manifesto del 1923, avrebbero segnato in modo profondo e guidato con grande coerenza l'intero sviluppo del pensiero teorico di Ejzenštejn e del suo cinema. Con il primo ci si garantiva la possibilità di valorizzare i materiali sensibili dello spettacolo senza alcun limite e senza alcuna pregiudiziale: "qualsiasi elemento", infatti, può entrare a far parte del grande dispositivo "sensoriale e psicologico" previsto dal montaggio delle attrazioni, dal "colore della calzamaglia della primadonna" a "un colpo a salve esploso sotto le poltrone degli spettatori" (p. 220). Ejzenštejn faceva suo, come è evidente, un caratteristico pronunciamento del Futurismo, già ben chiaro, per es., nel manifesto italiano del 1913 sul Teatro di varietà. Ma lo reinterpretava ‒ lo si è già accennato ‒ nella prospettiva di un recupero dell'esperienza antica dello spettacolo, come attesta il secondo aspetto decisivo del concetto di 'attrazione': la sua correlazione necessaria con un "lato ideale", ovvero con un'elaborazione di pensiero da ritenere tanto più ricca quanto più numerose ne siano state le 'occasioni' sensibili fornite dalla macchina spettacolare. Resta da chiedersi su quali temi si sarebbe dovuta esercitare questa correlazione plurima tra figure sensibili e figure di pensiero di cui il montaggio delle attrazioni si costituisce come lo spazio d'esperienza. Detto altrimenti: quali dovevano essere i mythoi, le storie essenziali che lo spettacolo è chiamato a rappresentare? La risposta si trova in Stačka, il film che Ejzenštejn girò nell'anno successivo alla pubblicazione del suo manifesto, e nelle riflessioni teoriche che lo accompagnarono. Con il suo primo film, Ejzenštejn tentò, infatti, un esperimento, tanto semplice quanto genialmente innovativo, che consisteva nel ricavare una configurazione drammaturgica complessa non da una storia ma dalle strutture costitutive di un fenomeno tipico della modernità: lo sciopero in quanto forma della lotta di classe. È dunque lo sciopero il mythos che il film organizza in un eterogeneo montaggio di attrazioni sensoriali e in tal modo lo offre a uno spettatore totalmente coinvolto in quella macchina emozionale affinché egli lo 'senta' e lo 'pensi' originalmente. Anche in questo caso, come nel caso di Vertov, non è necessario sottolineare la profonda intelligenza politica del progetto cinematografico ejzenštejniano, di cui piuttosto andrà ribadito il costituirsi come un secondo polo rispetto a quello del Kinoglaz. Infatti, come Ejzenštejn ebbe modo più volte di sottolineare in aperta e dura polemica con Vertov, mentre Kinoglaz si metteva fuori dal dominio dell'arte, decretandone l'ormai definitiva condanna al vuoto rituale della 'fruizione estetica', Stačka inaugurava un modo nuovo di ripensare la funzione pratica dell'arte. Ma il modo era 'nuovo' proprio in quanto capace di ricollegarsi non estrinsecamente all'esperienza totalizzante, etico-politica e insieme estetica, dello spettacolo antico. Un altro punto va ancora messo in rilievo. Sia Stačka sia Kinoglaz, i due più importanti risultati cinematografici dell'a. s. e della sua innovativa cultura della comunicazione e dell'immagine, sono film che, al contrario di Mister Vest, l'altro grande capolavoro di quegli anni, rifiutano ogni compromesso con l'istanza teatrale e letteraria del cinema di finzione. Entrambi scuotono, e con pari forza, le fondamenta del cinema corrente, entrambi rivendicano al nuovo mezzo espressivo una totale autonomia. Ma mentre l'orientamento vertoviano, ove fosse stato coerentemente sviluppato, avrebbe dato vita a qualcosa come una rete multimediale interattiva, quello ejzenštejniano mirava, sia pure ancora oscuramente, ad aprire nuove frontiere all'esperienza narrativa (dopo il romanzo joyciano, affermerà Ejzenštejn negli anni Trenta, solo il cinema può far ulteriormente evolvere la forma del racconto).

Questo rilievo è importante perché nella seconda metà degli anni Venti e fino a quando fu ancora possibile la libera sperimentazione, il cinema dell'a. s. finì per riconoscersi, con crescente consapevolezza, proprio nella tendenza a ripensare profondamente la dimensione del racconto. In parte, senza dubbio, si trattò di un arretramento, spiegabile in base a motivazioni contestuali e pragmatiche: le direttive ufficiali in materia di politica culturale cominciavano infatti a pretendere dal cinema la rinuncia agli sperimentalismi e l'allineamento su posizioni più convenzionali e di più facile consumo. Ma non è meno vero che si trattò anche di una maturazione nel corso della quale, almeno per tutti gli anni Venti, la cultura dell'immagine dell'a. s. non solo non rinunciò alle sue opzioni di fondo, ma tentò di garantirle nell'unico modo possibile: quello di mostrarne la forza e la vitalità anche nel contesto di una normativa estetica imposta dall'alto. Ne fanno fede i film più notevoli di questi anni: Mat′ (1926; La madre) di Vsevolod I. Pudovkin, Šinel′ (1926, Il cappotto) di Kozincev e Trauberg, Po zakonu (1926, Secondo la legge) di Kulešov, Staroe i novoe (1929; Il vecchio e il nuovo) di Ejzenštejn, Zvenigora (1928) di Aleksandr P. Dovženko, opere del tutto inassimilabili se non per il tentativo, che invece le accomuna, di esplorare lo spazio del racconto al fine di cogliervi configurazioni di senso e strutture comunicative interdette alla letteratura perché più originarie del testo scritto. Non è un caso che tre dei film citati, Mat′, Šinel′ e Po zakonu, siano tratti, rispettivamente da M. Gor′kij, N.V. Gogol′ e J. London, quasi a mostrare che il cinema può avere accesso diretto a certe regioni profonde dell'immaginario narrativo di cui nel testo scritto non resta che la traccia, assumendole come materia di un'elaborazione specifica e particolarmente versatile. Anche questa, sia pure in tono minore, fu una politica dell'immagine: ed è verosimile, del resto, che proprio questo esito 'maturo' del cinema dell'a. s. si sia dimostrato quello più resistente all'usura del tempo risultando ancora suscettibile di riprese e sviluppi.

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