Averroè

Dizionario di filosofia (2009)

Averroe


Averroè

Nome con il quale è noto in Occidente il filosofo, giurista, medico e astronomo arabo di Spagna Abū l-Walīd Muḥammad ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrākesh 1198). Della sua vasta produzione solo una minor parte è giunta nel testo originale, e il più in versioni ebraiche e latine. Così è avvenuto per i suoi commenti ad Aristotele, divisi in tre gruppi (commento grande, medio, breve), nei quali la differenza più che nella lunghezza sta nel metodo di esegesi del testo: al commento analitico o letterale si affianca la parafrasi ad sensum o infine l’epitome in cui ne è esposta la struttura argomentativa essenziale

L’accordo tra religione e filosofia

Non direttamente esegetici, ma mirati a dimostrare la legittimità della ricerca filosofica in seno all’Islam, sono invece il Tahāfut al-tahāfut (in versione latina dall’ebraico: Destructio destructionis), puntuale confutazione della Distruzione o Incoerenza dei filosofi di al-Ghazzālī, e altre due opere, ignote al mondo latino, a carattere l’una teologico, al-Kashf ‛an manāhiǵ al-adilla («Lo svelamento dei procedimenti della dimostrazione»), l’altra giuridico, Faṣl al-maqāl (Trattato decisivo), sull’accordo tra religione e filosofia. Riprendendo un tema già presente al pensiero arabo, in essa A. distingue gli uomini, e conseguentemente i discorsi che a loro si indirizzano, in tre tipi o classi: retorico (il cui fine è teorico e pratico), dialettico, e dimostrativo. Se le immagini e le norme della fede hanno carattere persuasivo o retorico perché si rivolgono a chi è incapace di cogliere la dimostrazione, la teologia, il cui discorso non è necessario, è dialettica. Al vero, e non a una sua immagine, giunge quindi solo la filosofia che usa il discorso argomentativo, dichiarato obbligatorio dallo stesso Corano. Non vi sono dunque diverse verità, ma diversi modi di rapportarsi alla stessa verità. La filosofia non smentisce la fede, allo stesso modo in cui questa non può toccare la filosofia. Ogni contraddizione tra le due non è che apparente; la locuzione di dottrina della «doppia verità» deriva non dal testo di A., per altro ignoto ai latini, ma dall’espressione dei critici dell’averroismo (➔). Vanno poi ricordati, oltre a uno scritto di diritto, la parafrasi (giunta in versione ebraica) della Repubblica (➔) di Platone (nella parafrasi di Galeno), e il De substantia orbis (in latino e in ebraico), una raccolta di diversi opuscoli consacrati al De coelo aristotelico, che ebbe notevole impatto sul mondo latino. Grande ammiratore di Aristotele, A. combatte spesso Avicenna come deviante dal peripatetismo puro. Ne critica, per es., la nozione di necessario e la dimostrazione dell’esistenza di Dio, che è per A. fisica e non metafisica (Dio è primo motore). L’intento di liberare il pensiero aristotelico dalle deformazioni neoplatoniche dei pensatori precedenti conduce A. a rifiutare la tesi (pur accolta in un primo momento) che dall’uno non derivi che l’uno e a riformare l’idea della causalità divina e del suo atto «creatore». La causa divina è causa di tutte le intelligenze separate, è principio motore e agente dell’Universo. La materia coeterna a Dio, più che ricevere le forme dal di fuori, le contiene ab aeterno in potenza. Le cose quindi si formano, in quanto dalla materia le intelligenze superiori traggono all’atto le forme.

La teoria dell’intelletto

Il tema che maggiormente attrasse, anche criticamente, l’interesse della cristianità fu la teoria dell’intelletto e del suo rapporto con l’anima umana, alla quale A. lavorò incessantemente, giungendo – secondo alcune ipotesi critiche – a tre soluzioni o a tre diverse tappe della stessa soluzione nel tempo. Contro la concezione dominante nella filosofia araba, A. separa dall’anima non solo l’intelletto agente universale, ma anche l’intelletto potenziale o materiale (perché, come la materia, è in potenza). Questo non è parte razionale dell’anima umana, ma è semplice, ingenerato, incorruttibile e immortale e costituisce un intelletto unico per tutti gli uomini. Impersonale è quindi l’immortalità. Questa teoria, che spiega l’universalità del conoscere, rendendo però estranea all’anima umana individuale l’intelligenza (che si unisce ai singoli solo per ricevere dalle fantasie plurime le immagini sensibili, essenziali ad attuare la sua potenzialità), e nega quindi l’immortalità individuale, fu combattuta sul terreno filosofico da Tommaso d’Aquino (De unitate intellectus contra averroistas, 1270). L’esegesi di A. fu determinante per lo sviluppo della filosofia in Occidente; enorme diffusione ebbero i suoi commenti e notevole fu anche la circolazione della sua opera medica (Kulliyyāt at-ṭibb («Principi generali di medicina»; trad. lat. Colliget). Nel mondo islamico, cui A. aveva destinato il proprio progetto filosofico, la sua posterità fu invece limitata e la storiografia ha in passato collocato dopo A. la «fine» della filosofia nell’Islam, secondo una tesi che successivamente è stata tuttavia rimodulata e come tale respinta.

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