Averroismo

Enciclopedia Dantesca (1970)

averroismo

Cesare Vasoli

Con questo termine, non del tutto proprio, si suole indicare quella corrente o tendenza del pensiero filosofico occidentale dei secoli XIII e XIV che, in sede di interpretazione dei testi aristotelici, si richiamò ai commenti di Averroè (v.), accettandone esplicitamente anche quelle conclusioni - soprattutto il principio dell'eternità del mondo e la concezione dell'intelletto possibile (v.) unico e separato per tutta la specie umana - che sembravano contrastare con alcuni motivi fondamentali della tradizione religiosa e teologica cristiana.

Com'è noto, i commenti averroistici cominciarono a essere conosciuti in Occidente solo dopo il 1212, per mezzo della versione latina di Michele Scoto, astrologo e filosofo che operava alla corte di Federico II di Svevia. Tali versioni si diffusero abbastanza presto nei grandi centri universitari, come Bologna, Padova e Parigi; e anzi, secondo la testimonianza di Ruggero Bacone, i commenti averroistici sarebbero stati diffusi a Parigi già intorno al 1230, incontrando notevole interesse da parte dei professori e dei maestri specialmente della facoltà delle Arti. È difficile dire quando alla diffusione di questi testi e al loro uso nei vari corsi universitari seguì lo sviluppo di un atteggiamento filosofico che non si limitava soltanto a sottolineare, come Alberto Magno, la distinzione tra l'esercizio della filosofia e la spiegazione teologica, ma accettava proprio quei motivi averroistici capaci di accentuare il netto distacco tra l'orizzonte speculativo della dottrina aristotelica e i principi essenziali delle verità di fede. È probabile però che tale tendenza si manifestasse e maturasse poco dopo il 1260, se nel 1267 Bonaventura da Bagnoregio poteva già attaccare duramente gli averroisti. Nel 1270, poi, il vescovo di Parigi Stefano Tempier condannava esplicitamente quindici tesi sostenute da alcuni maestri parigini, alcune delle quali (unità dell'intelletto possibile, negazione del libero arbitrio, eternità del mondo, determinismo astrologico, mortalità dell'anima individuale) possono essere ricondotte all'influenza del commento averroista. Nello stesso anno il maestro domenicano Egidio di Lessines scriveva ad Alberto Magno comunicandogli quindici proposizioni di tal genere insegnate " dai più eminenti maestri delle scuole parigine " e invitandolo a confutarle. Alberto, che aveva già discusso gli " errori teologici " di Averroè, si affrettò appunto a scrivere il De Quindecim problematibus ove prendeva risolutamente posizione contro queste dottrine e i loro sostenitori, mentre Tommaso d'Aquino scriveva contemporaneamente l'opuscolo De Unitate intellectus contra averroistas, dove la critica alle concezioni sostenute dagli averroisti è evidentemente dominata dalla preoccupazione di ben distinguere l'uso lecito dei testi aristotelici dalle conclusioni affermate dai maestri eterodossi. Tra costoro il più eminente, o almeno quello che i contemporanei considerarono come l'esponente più tipico di questa tendenza, era appunto Sigieri di Brabante (v.) che, insieme a Boezio di Dacia e Berniero di Nivelles, dovè essere al centro delle polemiche filosofiche e universitarie di questi anni.

Le confutazioni e le dispute dei maggiori maestri francescani e domenicani non impedirono che le dottrine averroistiche, esemplate in particolar modo in alcuni scritti di Sigieri (De Aeternitate mundi, De Intellectu, De Anima intellettiva, Liber de felicitate) continuassero a diffondersi a Parigi, soprattutto nell'inquieto ambiente della facoltà delle Arti, e che taluni maestri continuassero a professare la tesi dell'eternità del mondo e di tutti i generi e le specie naturali, ad accettare l'ipotesi di un assoluto determinismo astrologico che sottometteva tutti gli eventi mondani alla fatale influenza dei corpi astrali, a sostenere, sia pure con sottili e abili sfumature, che l'intelletto possibile e materiale era proprio unicamente dell'intera specie umana. Ciò indusse papa Giovanni XXI, l'ex professore di logica e medico Pietro Ispano, a promulgare, il 18 gennaio 1277, un solenne ammonimento ai maestri parigini delle Arti. Infine, il 7 marzo dello stesso anno, Stefano Tempier promulgava un nuovo decreto d'interdizione e di condanna riguardante ben 219 proposizioni, con l'espresso divieto di sostenerle anche soltanto quali dottrine vere solo dal punto di vista della ragione, ma false dal punto di vista della fede. Atteggiamento, questo, che sviluppava la tipica distinzione averroistica tra i tre ‛ piani ' della verità filosofica, dell'argomentazione teologica e della mera fede e che, più tardi, venne definito con il termine infelice e ambiguo di " doppia verità ".

Per chiarire il carattere di quelle tendenze dottrinali che furono spesso confuse sotto l'unico nome di a., è però opportuno osservare che le tesi condannate dal Tempier erano di carattere, significato e origine assai diverse. Insieme alle dottrine dell' ‛ amore cortese ' di Andrea Cappellano e a tesi già condannate nel corso del XII secolo o comprese nelle condanne di Amalrico di Bène (1204, 1210, 1215) sono infatti comprese nel divieto episcopale anche le concezioni più caratteristiche di Avicenna e di Averroè, le dottrine di Sigieri e dei suoi amici e, addirittura, alcune proposizioni tomiste. Ma gli ‛ errori più gravi ' sono rappresentati da dottrine che non sono specificamente averroistiche, bensì riflettono piuttosto la larga influenza della scienza araba, la presenza di forti componenti astrologiche (ad es. il cosiddetto " oroscopo delle religioni ") e la ribellione dei ‛ filosofi ' e dei maestri delle Arti alla supremazia dei teologi. Tra queste proposizioni troviamo appunto l'idea che la lex christianorum contenga,come tutte le ‛ leggi ' o sette religiose, elementi mitici e falsità e imposture, l'affermazione che la teologia è fondata su ‛ favole ' e non reca agli uomini alcuna vera conoscenza, l'insistente teorizzazione della superiorità dei filosofi (quod sapientes mundi sunt philosophi tantum) e dell'autonomia della ragione umana che basta da sola a conoscere il bene e a praticare quelle virtù speculative e pratiche nelle quali consiste la sola felicità possibile per l'uomo. E non basta: se il decreto si riferisce esplicitamente a quelle tesi (eternità del mondo, unità specifica dell'intelletto possibile, rigoroso determinismo fisico ed etico) che costituiscono realmente il nucleo dottrinale dell'a. latino, non mancano le condanne di posizioni e atteggiamenti di carattere esplicitamente magico-astrologico, riferibili ad altre fonti e altre tradizioni. Anche la condanna del 1277 e i successivi provvedimenti presi dalle autorità ecclesiastiche (v. SIGIERI di BRABANTE) non impedirono che le tesi averroistiche continuassero a essere professate in modo più o meno coperto e che gli scritti dei principali rappresentanti di questa corrente filosofica (e soprattutto di Sigieri) circolassero nelle scuole, insieme, naturalmente, ai Commenti di Averroè ormai impostisi in tutti i maggiori centri di cultura filosofica e scientifica dell'Occidente.

Soprattutto gli studi del Grabmann, del Nardi e del Kristeller hanno posto in rilievo la diffusione di testi e di idee genericamente ‛ arabizzanti ', ma anche specificamente averroistiche, nella cultura scolastica italiana del tardo Duecento e dei primi del Trecento, mentre è ben nota l'influenza delle dottrine averroistiche nell'ambiente della corte federiciana e poi nella corte di Manfredi. In particolare il Nardi ha sottolineato l'adesione a motivi e concetti averroistici da parte di poeti e uomini di cultura di cui è inutile ricordare i rapporti diretti o indiretti con il giovane D., come Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti. Tali affermazioni, nettamente contrastanti, specie nel caso del Cavalcanti, con le interpretazioni fornite dal Casella, sostenitore di una sostanziale ispirazione mistica e platonizzante degli stilnovisti, hanno suscitato vivaci reazioni da parte di altri studiosi, come il Favati; mentre interpreti e storici di altre tendenze hanno preferito piuttosto insistere sul carattere genericamente arabizzante più che averroistico delle dottrine che circolavano negli ambienti di cultura medici e scolastici dell'età di Dante. Il problema (che per un'adeguata risoluzione richiederebbe una ricostruzione ancora più compiuta e organica della cultura filosofica dei maggiori centri italiani tra la fine del Duecento e gl'inizi del Trecento), è ancora oggi al centro delle discussioni sul carattere dell'ispirazione filosofica di D. e delle diverse fasi di evoluzione del suo pensiero. E, per buona parte, resta ancora strettamente connesso a quello, altrettanto cruciale, che concerne i rapporti tra D. e Sigieri di Brabante, sia per la determinazione dell'effettiva influenza di alcune dottrine sostenute dal maestro brabantino, sia per l'esatta valutazione del giudizio formulato da D. nei celebri versi di Pd X 136-138.

Bibl. - Per la vasta letteratura relativa a questo soggetto, cfr. M. Gorge, L'essor de la pensée au moyen ȃge, Parigi 1933; ma vedi in particolare: M. Mandonnet, Sigier de Brabant et l'averroisme latin au XIIIe siècle, Friburgo 1899, Lovanio 1908-19112; É. Gilson, La dottrine de la double verité, in Études de philosophie médiévale, Strasburgo 1921; M. Grabmann, Der lateinische Averroismus des XIII Jahrbunderts und seine Stellung zur christlichen Weltanschauung, Monaco 1931; ID., Kaiser Friederich II und seine Verhältnis zur aristotelischen und arabischen Philosophie, in Aus der Geisteswelt des Mittelalters, II, Miinster 1936, 103-137; A. Masnovo, Alberto Magno e la polemica averroistica, in " Rivista di filosofia neoscolastica " XXIV (1932) 164-170; ID., Ancora Alberto Magno e l'a. latino, ibid. 318-325; D. Salman, Alberi " le Grand et l'averroisme latin, in " Revue des sciences philosophiques et théologiques " XXIV (1935) 38-64; Th. Greenwood, L'humanisme avverroiste en France et les sources du rationalisme, in " Rev. Univ. Ottawa " XVI (1946) 187-214; M. Grabmann, L'aristotelismo italiano al tempo di D. con particolare riguardo all' Università di Bologna, in " Rivista di filosofia neoscolastica " XXXVIII (1946) 260-277; F. Alessio, Aspetti moderni nel pensiero degli averroisti del XIII secolo, in " Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere " LXXXVI (1953) 261-296; M. GoRCE, El Averroismo y la storia de la " doble verdad ", in " Cristianidad " II (1945), 235-238; F.W. Muller, Der Rosenroman und der lateinische Averroismus des XIII Jahrhunderts, Francoforte sul M. 1947; C.I. Ermatiger, Averroism in Early Fourteenth Century Bologna, in " Mediaeval Studies " XV (1954) 35-36; P.O. Kristeller, A Philosophical treatise from Bologna dedicate to Guido Cavai canti: Magister Jacobus de Pistorio and his " Quaestio de felicitate ", in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze 1955, 425-463. Per indagini più circoscritte e specifiche, cfr. B. Nardi, Sigieri di Brabante e le fonti della filosofia di D., Spianate 1912; ID., Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, 46, 48, 357-360, 364; ID., D. e la cultura medievale, Bari 1949, 92-152, 253, 273, 308, 325, 327, 331; ID., Nel mondo di D., Roma 1944, 237-238; ID., Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 20-25, 28-31, 32-35, 190-219, 238-267. Ma cfr. anche dello stesso autore: Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma 1945; Note per una storia dell'a. latino. L'a. bolognese del secolo XIII e Taddeo Alderotto, in " Rivista di storia della filosofia " IV (1949) 11-22; Noterella polemica sull'a. di Guido Cavalcanti, in " Rassegna di Filosofia " III (1954) 47-71, e G. Favati, Guido Cavalcanti, Dino del Garbo e l'a. di Bruno Nardi, in " Filologia romanza " II (1955) 67-83.