AVORIO

Enciclopedia Italiana (1930)

AVORIO (fr. ivoire; sp. marfil; ted. Elfenbein; ingl. ivory)

Vittore RAVIZZA
D. L. Q. Carlo ALBIZZATI Luisa BECHERUCCI

Il termine italiano, come quelli francese e inglese, deriva dal latino ebur; quello spagnolo è originario da parola araba (nāb al-fīl "dente d'elefante") che si ritrova ancora nel commercio, e non solo ai mercati d'origine, per indicare le zanne d'elefante (marfili).

Per quanto come avorio, secondo taluni, non si debba intendere che il materiale ricavato dalle difese dell'elefante, si può oggidì ammettere che il termine avorio si applichi anche a materiale ottenuto da zanne di altri animali, ed indichi quella modificazione della dentina (sostanza che costituisce i denti) che mostra linee o striature di colore leggermente diverso. Tali striature nella sezione trasversale alla lunghezza si sviluppano ad archi di cerchio, e formano delle minute losanghe o rombi curvilinei, quasi un fine reticolato, mentre nella sezione longitudinale sono disposte in modo da ricordare l'aspetto del legno di fitta ed uniforme venatura.

Commercialmente vanno sotto il nome d'avorio, oltre alle zanne d'elefante, anche quelle di mammut e di mastodonte (avorio fossile), d'ippopotamo e di tricheco e talora anche la difesa del narvalo.

L'avorio risulterebbe per circa due terzi di fosfato tricalcico e per un terzo di sostanza organica azotata, come la colla, che funziona da mastice o legante; esso contiene inoltre una percentuale variabile d'umidità, tracce di carbonato e fluoruro di calcio, di fosfato di magnesio, ecc.

Trattando a freddo con acidi l'avorio, se ne scioglie la parte minerale, e rimane una massa con la forma primitiva, semitrasparente, elastica, quasi gelatina.

Avorio d'elefante. - I marfili, cioè le zanne o difese dell'elefante, hanno forme, dimensioni, peso, durezza ecc., che variano a seconda della provenienza. I marfili d'Asia sono meno curvi e assai più piccoli di quelli d'Africa; si noti che in questo continente dànno avorio anche le femmine d'elefante, mentre in Asia esse sono di regola sprovviste di difese: i maschi hanno zanne più grandi e le migliori sono quelle di esemplari bene sviluppati adulti, non vecchi.

Nel marfilo si distinguono: punta, sboccola e cuore.

La sboccola, o cavità alla base della zanna, è più profonda ed ampia quanto maggiore è l'età dell'elefante; essa si prolunga in un canale sottile, detto cuore, che giunge sino alla punta, talora rendendosi impercettibile; ove sia molto visibile non è possibile utilizzare l'avorio per farne, ad es., palle da bigliardo. Si chiamano vuoti i marfili nei quali la sboccola supera la metà della lunghezza; mezzivuoti quando essa non raggiunge tale lunghezza; pieni quelli ove è appena accennata.

Si possono ritenere zanne grosse quelle sopra i 25 kg., medie quelle fra i 18 e i 25 kg., le altre, sotto i 18 kg., sono piccole, e costituiscono la maggioranza. A differenza dei denti, le zanne non hanno la superficie coperta da smalto, tranne che alla punta; però per il resto, lo strato esterno, formato da parte ossea, è più duro, e viene detto epidermide; esso deve essere eliminato per lavorare l'avorio.

Le zanne giungono ai porti delle coste d'Africa avvolte in budello che, applicato fresco, aderisce tenacemente essiccando e costituisce una buona protezione durante il trasporto.

I due principali tipi d'avorio sono: l'avorio duro, e l'avorio tenero. In generale l'avorio d'Africa è più duro di quello d'Asia; inoltre nell'africano stesso si fa distinzione anche fra il duro della parte occidentale (Guinea, Niger, Camerun, Congo, Angola) e il tenero dell'Africa orientale e settentrionale (regione dei Grandi Laghi, retroterra della Somalia, dell'Etiopia, del Sudān, Egitto ecc.).

Il valore della distinzione tra avorio duro e tenero è alquanto imprecisato: il duro è più difficile a lavorare, ha qualcosa del vetroso e del trasparente ed è più sensibile agli sbalzi di temperatura, incrinandosi più facilmente.

In generale l'avorio è tanto più apprezzato quanto più fina, e quindi meno visibile, è la sua struttura. Il tono di colore dell'avorio dipende dalla sua provenienza. L'avorio africano ha tono più giallino dell'asiatico, ma questo però ingiallisce poi; inoltre gli elefanti giovani dànno avorio di tono verdiccio e gli adulti giallognolo.

Si dice che il migliore avorio sia quello del Siam, molto compatto, a grana finissima, bianco alquanto rosato, che ben raramente arriva in Europa; viene usato precipuamente in Giappone e in Cina.

Varî sono i difetti dell'avorio; occorre pratica ed occhio per valutarne l'importanza; oltre alle fessure nel senso della lunghezza, che sono spesso profonde, ci sono le screpolature disposte trasversalmente; le cicatrici e le deformazioni, che possono apparire come anelli sporgenti; le fave o grossi punti biancastri (quasi piselli di osso incastrati nell'avorio), ecc. Taluni difetti vengono mascherati con artifici idonei, ma causano forte scarto in lavorazione.

Mercati dell'avorio. - L'Africa, dove l'elefante è selvaggio, è la grande produttrice d'avorio; si può dire che ai mercati europei e americani non perviene allo stato di materia prima (marfili) che l'avorio africano, anche se spedito da Bombay, poiché a questo posto fa spesso capo quello concentrato a Zanzibar, ma dato da regioni dell'Africa Orientale.

Oltre a Zanzibar anche Mozambico, Mogadiscio e Massaua, nonché l'Egitto, sono sbocchi dell'avorio di queste zone, ma numerosi sono ora pure quelli dell'Africa Occidentale; però per il commercio europeo-americano i mercati più importanti sono quelli di Anversa e Londra. Amburgo che era andato acquistando pure notevole importanza fino alla grande guerra, dopo non l'ha più ripresa. Lo sviluppo del mercato d'Anversa, che comincia col 1888, è andato di pari passo con la valorizzazione del Congo da parte belga, naturalmente a scapito di Londra. Un altro mercato di discreta entità è Liverpool.

Venticinque o trenta anni fa l'entità, in peso, delle vendite di avorio ad Anversa superava soltanto del 10-20% quella di Londra; dal 1922 in poi invece alla capitale inglese non si fa che un terzo o una metà di quanto si faccia ad Anversa.

Si noti però che la quantità totale di avorio giunta sui mercati europei è andata quasi dimezzandosi dal 1880-1890 ad oggi; si è infatti scesi da 850.000 a 450.000-400.000 kg. annui, che si calcola corrispondano a 30.000 elefanti uccisi. Tanto a Londra quanto ad Anversa le vendite si fanno per asta pubblica a determinate date (una volta per trimestre per ciascun mercato).

I criterî di classifica dei marfili variano alquanto da un mercato all'altro, tanto ai porti d'imbarco in Africa ed Asia quanto in quelli europei. Quanto più lunga, diritta, grossa, piena e sana (senza screpolature o difetti, con sboccola e cuore piccoli) è la zanna, tanto più elevato è il prezzo per kg., perché è possibile ricavarne pezzi di maggiori dimensioni. Il prezzo varia inoltre da anno ad anno a seconda della domanda e dell'offerta, ecc.

Il peso medio dei denti portati sul mercato è andato diminuendo un po'; secondo le statistiche d'Anversa, da 9-11 kg. del 1888-90 si scende a 7,5-8,5 kg. dal 1922 in poi; più forti sono le variazioni dei prezzi praticati nei varî anni.

A Londra, p. es., per marfili da palle da bigliardo si quotò per cwt. (112 libbre = 50,8 kg.):

Per quanto riguarda il prezzo delle varie categorie di marfili si noti che, p. es., nel 1913 ad Anversa furono quotati da 12 a 15 franchi per kg. i marfili adatti a fare anelli (zanne con sboccola e cuore sviluppato [bangles]), da 23 a 26 franchi quelli adatti per piccole palle da bigliardo, e 38-45 franchi quelli per grandi biglie (scrivellose). I denti piatti sani sono quotati quasi come quelli tondi.

Altri tipi d'avorio. - Si chiama avorio fossile quello dato dalle lunghe zanne di mammut e di mastodonte che si trovano, talvolta assieme al corpo degli animali conservatosi per la bassa temperatura, in quasi inesauribili depositi, sulle coste più settentrionali della Siberia o delle sue isole. Questo materiale, usato nell'Estremo Oriente da tempi remotissimi, sarebbe stato noto a Teofrasto; però venne introdotto in Europa nel sec. IX dell'era volgare dagli Arabi, e in abbondanza ne giunse nel secolo scorso, quando s'intensificò l'estrazione in Siberia. Negli ultimi anni il consumo europeo si è ridotto assai, mentre in Cina e Giappone se ne fa sempre largo impiego per lavori di scultura. L'avorio fossile ha colore grigiastro, quasi leggermente plumbeo; spesso è difettoso per fessure minute, talora è perfetto come l'avorio fresco d'elefante; in generale è più fragile.

L'avorio d'ippopotamo è più elastico e più compatto di quello d'elefante, inoltre ingiallisce assai meno facilmente. Dei quattro canini d'ippopotamo che dànno avorio, i due superiori sono diritti e quelli inferiori ricurvi; essi sono assai più sottili delle zanne d'elefante, a forma meno conica, a sezione triangolare con spigoli smussati; arrivano talora a 60 cm. di lunghezza (normalmente 30-40 cm.) e sono cavi per quasi metà lunghezza; pesano da 0,5 a 3 fino a 4 kg., hanno superficie scanellata coperta da smalto assai duro, che si deve eliminare per mettere in lavorazione il dente (si usa perciò tuffare alternativamente in acqua caldissima e fredda la zanna perché lo smalto si disgreghi). Questo avorio è più difficile a lavorare di quello d'elefante; per la buona durezza serve anche a fare denti artificiali, manici di coltelli, ecc.

Avorio di tricheco o di cavallo marino: le due difese del maschio pesano quasi il doppio di quelle della femmina, arrivando talora fino a 80 cm. di lunghezza (generalmente 50 cm.) e a 8-10 kg. di peso; hanno sezione ellittica, sono cave per due terzi della loro lunghezza; lo strato esterno è costituito da un tessuto osseo detto cemento. Ingiallisce facilmente; si usa per manici di bastone, ecc.

Lavorazione dell'avorio. - L'avorio è molto elastico e duro, si scolpisce, si sega, si tornisce, su per giù come l'osso; non può essere plasmato a caldo, cioè piegato, come si fa con il corno; si dice che gli antichi sapessero modellarlo e saldarlo. Per lavorare l'avorio si impiegano utensili di acciaio, od anche di carborundum (mole); all'oggetto finito si dà la politura con pietra pomice in polvere, e poi con tripoli e sapone.

Si usa talora imbianchirlo con acqua ossigenata; una volta si impiegava trementina con ammoniaca ed esposizione alla luce e, pare, anche calce. La produzione di palle da bigliardo costituiva in passato per i paesi europei il maggior consumo: consumo che è ancora uno dei più importanti. Essa richiede zanne piene, di cui s'impiega solo la porzione ove il diametro è sufficiente; perciò da un dente normalmente non si possono ricavare che cinque palle, delle quali solo tre debbono ritenersi di prima qualità. La zanna viene suddivisa, con tagli trasversali alla sua lunghezza, in pezzi quasi a forma di tronco di cono, d'altezza e diametro di poco superiori a quelli della palla da ricavarne. Ogni pezzo viene dapprima sgrossato alquanto a mano, riducendolo quasi tondo; poi lo si lavora sul tornio incastrandolo per metà in uno speciale astuccio di legno con apposita cavità semisferica e centrato sul tornio. Avanti all'orlo di tale astuccio, con una punta si incide sulla superficie d'avorio un cerchio di profondità opportuna, si ruota di 90° il pezzo, così che il cerchio cada in un piano passante per l'asse del tornio, e si tornisce la metà sporgente quanto occorre perché scompaia appena la traccia del cerchio. Rigirata la palla, se ne finisce allo stesso modo l'altra metà. Le palle vanno lasciate stagionare, talora per varî anni, e rettificate per eliminare le deformazioni che vi si producono naturalmente. In quanto ad elasticità e inalterabilità, sempreché siano tenute con riguardo, soprattutto evitando troppo forti e repentini sbalzi di temperatura, le palle d'avorio per bigliardo sono insuperabili; negli ultimi decennî però svariati surrogati, sempre più perfezionatisi, fanno aspra concorrenza soprattutto per il loro minor prezzo. Per gli anelli che vengono ancora parecchio richiesti in varî paesi, si impiegano di solito le zanne (bangles) a sboccola molto sviluppata.

Per gli oggetti piatti e sottili, come ad es. tasti da pianoforte, pettini ecc., bisogna ridurre prima il dente in lastrine, tagliandolo nel senso della sua lunghezza, perché le lastre ricavate in senso trasversale vanno soggette a forti deformazioni (incurvandosi irregolarmente), né vi si può porre riparo.

Per fare pettini e pettinine le lastre d'avorio ricavate idoneamente e stagionate si lavorano alla sega, come si fa con l'osso; però l'avorio' per la sua elasticità e durezza consente una fittezza di denti assai maggiore (80-90 per pollice).

I centri di lavorazione dell'avorio sono diversi: in Italia, per palle da bigliardo e pettini, Genova, in qualche altra città ci sono piccoli nuclei, non a carattere industriale. In Inghilterra: Sheffield per manici di coltelli, Londra per biglie e tasti da pianoforte ed articoli da fumatori e da toletta, spazzole ecc. In Francia: Parigi, per svariati generi; mentre a Dieppe, che già aveva grande importanza, non esiste quasi più questa industria; qualcosa si fa a St. Claude nel Giura. In Germania la lavorazione dell'avorio per articoli svariati, tra cui moltissimi ninnoli ecc., è bene sviluppata, soprattutto a Geislingen nel Württemberg, ed a Ehrbach nell'Assia. Negli Stati Uniti si lavora prevalentemente l'avorio per biglie e tasti.

Avorio artificiale o falso. - Così si chiamano varî surrogati dell'avorio, ottenuti sia con polvere e frantumi di vero avorio o di osso ecc., riuniti con sostanze adesive adatte e compressi fortemente, sia da sostanze minerali, che dànno il bianco e il peso (insieme, talora, con materiale alquanto fibroso), e da leganti (gomma, colla, celluloide), che dànno elasticità e tenacità.

Avorio vegetale. Sotto questa denominazione si comprendono i semi di alcune piante appartenenti alla famiglia delle Palme; e più esattamente il loro endosperma, a pareti cellulari straordinariamente inspessite per accumulo di cellulosa di riserva, il quale, sia per la durezza, sia per il colore, con opportuna lavorazione presenta apparenza simile all'avorio animale. I più importanti, per l'applicazione industriale che se ne fa (fabbricazione di bottoni, detti bottoni di frutto), sono i seguenti.

a) Semi di alcune specie del genere Phytelephas e principalmente della Ph. macrocarpa R. et P. (fr. ivoire végétal; sp. corozo, cabeza de negro; ted. Elfenbeinnuss, Steinnuss; ingl. ivory nut, corozo nut), alberi dell'America tropicale, il cui frutto è un sincarpio globoso ponderoso, della grandezza d'una testa di uomo, rivestito d'un pericarpio tubercolato, e risultante dalla concrescenza di varî frutti, ciascuno dei quali è scompartito in quattro o più cavità, ognuna contenente un seme. Questi sono irregolarmente ovoidali, a sezione triangolare con gli angoli smussati e con due facce piane e una convessa, della lunghezza di 4-5 cm. e della grossezza di 3-4, e pesanti da 20 a 100 grammi. Tolto il tegumento, che rappresenta il 15% del seme greggio, l'interno è costituito di un albume che, quando il seme è fresco, è facilmente intaccato dal coltello, ma che, disseccandosi, diventa durissimo; nella parte inferiore del seme v'è una cavità dentro la quale è contenuto l'embrione. Essiccandosi, si producono fenditure nell'albume; il valore dei semi, oltre che dalle dimensioni, dal peso e dalla forma, dipende anche dall'entità di queste fenditure.

b) Semi della Hyphaene thebaica Mart. dell'alto Egitto e del Sūdān, rappresentata in Eritrea dalle sottospecie H. nodularia Becc. ed H. dankaliensis Becc., e in Somalia dalla H. benadirensis Becc., comprese tutte sotto la denominazione volgare di palma dum. Albero dioico, il cui tronco può raggiungere 15-20 metri d'altezza e 50 cm. di diametro, più volte biforcato, coronato da un ciuffo di grandi foglie a ventaglio. Frutti riuniti a grappolo, irregolarmente globosi, lisci e lucidi, di color nocciola, con mesocarpo spugnoso zuccherino ed endocarpo legnoso; essi sono di grandezza variabile secondo la specie: nella H. nodularia, che ha i più grandi, misurano 8 × 7 cm. Ogni frutto contiene un seme subgloboso-ovato, che nella specie ora detta misura millimetri 35-38 × 42, il cui endosperma ha lo spessore di 8-9 mm. e racchiude una cavità interna più o meno grande. Anche tutte le altre parti della pianta vengono sfruttate: i tronchi come travi, le foglie per farne lavori di intreccio d'ogni genere e crine vegetale, e, quando sono giovani e tenere, si usano come foraggio; i gusci dei frutti valgono come combustibile, sviluppando le calorie di una buona torba; gl'indigeni usano anche estrarre da queste piante una sorta di vino, come si fa da altre palme, e mangiano come ortaggio la gemma terminale e l'apice dei tronchi giovani e dei rami. La palma dum interessa specialmeme l'Italia per la sua abbondanza tanto nell'Eritrea, quanto nella Somalia. I semi di essa, provenientì principalmente dalla regione del Barca, costituiscono uno dei principali oggetti d'esportazione dalla Colonia Eritrea; essi vengono estratti dal frutto e, interi o tagliati, spediti per la massima parte in Italia, dove la fabbricazione dei bottoni ha acquistato grande importanza. L'esportazione annua da Massaua si calcola fra i 30 e i 40 mila quintali.

L'avorio nell'arte. - Arte antica. - Il pregio di questa materia plastica fu noto ai primi abitatori dell'Europa, quando il mammut poteva fornirla. Nelle zanne dello scomparso elefante europeo, figurine femminili di un realismo ripugnante, ma di stile originalissimo e grandioso, furono scolpite nell'ultimo periodo paleolitico. Gli esemplari (fig. 1 a, b) trovati a Brassempouy in Francia ne dànno esattamente l'idea; di carattere simile se ne rinvennero anche in Germania. Dalla Francia provengono anche le figurine di renne riprodotte alla figura 1 c.

In Egitto la piccola scultura eburnea cominciò nell'età preistorica: l'arte somiglia alquanto a quella dei negri moderni che, per molte ragioni, si possono considerare in uno stadio poco diverso di civiltà e che praticano in gran parte la medesima tecnica (v. benin). Con l'epoca dinastica appaiono già lavori d'alto valore artistico: alla 1a dinastia si ascrive la statuina di un re con la corona bianca dell'alto Egitto (fig. 2, da Abido). Alla 4a appartiene il ritratto di Cheope (Khufu; fig. 3), il Faraone della grande piramide, ed è un capolavoro della piccola scultura egizia. Dal medio impero si fece largo uso di rilievi in avorio per incrostazioni di mobili e altri oggetti di lusso: un esempio, cospicuo per finezza stilistica, è il fiore di loto della fig. 4. L'iscrizione funebre dello scultore Iritesen mostra che l'avorio era lavorato anche da artisti che trattavano altre materie.

Assai rari i manufatti eburnei nelle civiltà più antiche della Mesopotamia: la figurina di donna di Tello (figura 5), è poco posteriore al re Gudea (circa 2500 a. C.) e riproduce un tipo statuario usuale. Ma già nel II millennio sembra che la Siria abbia tenuto il primato della produzione: Hittiti e Fenici lavorarono copiosamente fin verso il 600 a. C. Frammenti di cofanetti incrostati si rinvennero a Byblos, e risalgono a periodo molto antico. Gli avorî della civiltà micenea sembrano in maggioranza lavori siriaci o imitazioni di quelli. Così il manico di specchio, il grifone, e la testa virile (fig. 6); hittita è la forma dell'elmo. Magnifici esemplari di questo stile a Enkomi (Cipro). Minoica originale deve ritenersi invece la figurina di saltatore (fig. 7), trovata nel palazzo di Cnosso. La serie più numerosa e importante, databile nei secoli IX e VIII a. C., proviene dagli scavi di Ninive (Birs Nimrud, Mesopotamia); di arte assira soltanto poche lamine con figure in graffito. Magnifici documenti per lo stile siro-fenicio sono i piccoli rilievi decorativi traforati con figure di grifoni (fig. 8 a). Più volte troviamo motivi egizî variati e adattati, come la dea nuda che tiene un fior di loto, senza dubbio Astarte (fig. 8 d), il gruppo araldico di due sfingi alate (fig. 8 c). Una delle cose più fini e originali di quel trovamento è la donna seduta del piccolo rilievo (fig. 8 b): probabilmente riproduce la statua d'un tempio. Il gran popolo navigatore e mercante recò oggetti simili un po' da per tutto nel Mediterraneo: l'Etruria, la Sardegna, la Spagna ci hanno specialmente tramandato nelle loro tombe le scatole da unguento, le placchette dei piccoli mobili, i pettini, le figurine sacre e altri ninnoli e utensili d'avorio, smerciati dal negoziante semita. Di stile egittizzante fenicio sono una pisside nella tomba Regolini-Galassi di Cere (fig. 9; Vaticano), le crustae di quella Bernardini di Preneste (figura 10); una figurina d'Astarte con la chioma in foglia d'oro dalla Marsiliana d'Albegna, che ha riscontri meno antichi a Efeso e a Tharros (Museo di Cagliari). I pettini dalla Spagna, come quello a fig. 12 (Museo del Louvre), sono identici ad altri rinvenuti in Siria.

Gli scavi del santuario di Artemide a Efeso hanno messo in luce figurine di stile finissimo, dove sembra perdurare l'influsso hittita: specialmente notevoli la sacerdotessa e il megabyzos (eunuco sacro) della fig. 11; si possono datare verso il secolo VII a. C. La prima palesa già caratteri d'arte ionica.

Nello stile orientalizzante il Lazio e l'Etruria ci hanno fornito molti oggetti in tombe del sec. VII o del principio del VI; parecchi costituiscono, quanto all'origine, problemi non ancora risolti: cos) le braccia (fig. 13) e le tazze della tomba Barberini di Preneste (fig. 14), con fregi di animali che già palesano una maniera peculiare e somigliano stranamente ai rilievi (battenti?) lapidei di camere funebri tarquiniesi, i quali riproducono senva dubbio intagli. in legno. Ciò fa pensare che già si lavorasse l'avorio in Italia e che i primi artefici fossero giunti d'Oriente: di stile hittita sono gli strani gruppi d'un leone che reca un uomo sul dorso (fig. 15). A Cartagine s'è trovato un piccolo rilievo con iscrizione etrusca che nomina il proprietario punico. Chiusi ci ha dato le situle (una al Louvre; fig. 16) che da parecchi indizî si credono di lavoro etrusco. In quel tempo erano già usate in Italia le tavolette eburnee spalmate di cera, sopra le quali si scriveva con lo stilo: una della Marsiliana d'Albegna ha l'alfabeto inciso sull'orlo.

In Grecia il periodo geometrico, o medioevo ellenico, dà pochissimo: la pupattola della fig. 17, è quasi certamente il pezzo più notevole, e non si può nemmeno escludere che sia lavoro importato. Non molto posteriori sono i rozzi tentativi di figurine femminili usciti da tombe di Rodi. La stipe del tempio d'Artemide Orthia a Sparta documenta copiosamente la produzione greca del sec. VII. Una scena che sembra riconnettersi al mito di Elena, presenta l'antico rilievo della fig. 18. Notevoli le statuine trovate nella medesima stipe: già costruita con vigoria quella d'uomo stante, (fig. 19), importante il gruppo di due donne sedute (fig. 20), che riproduce probabilmente statue di culto. Il commercio orientale recava la materia prima di qua dall'Egeo, e sopravvive il ricordo di qualche opera insigne: scolpite in avorio erano le carni delle figure femminili nei fregi a rilievi che ornavano il famoso cofano di Cipselo, lavoro corinzio databile poco dopo il 600 a. C.

L'arte ionica del secolo VI produsse finissimi rilievi; provengono da tombe etrusche, e i più belli (fig. 21) sono conservati al Louvre. Ma tra gli Elleni la zanna dell'elefante fu presto adoperata nella grande scultura. D'avorio e d'ebano erano i cavalli dei Dioscuri ad Argo, attribuiti ai Dedalidi Dipeno e Scilli, della prima metà del sec. VI. In quel secolo stesso dev'essere cominciata la tecnica crisoelefantina, di cui qualche accenno si trova in figurine orientali più antiche: eburnee le carni, in oro sbalzato le vesti, le chiome e gli attributi. Tali simulacri si facevano soltanto alle divinità; il costo, ne limitava di molto il numero. Nel periodo di maggiore prosperità, Fidia costruì in quel modo le due statue colossali, di Atena Parthenos ad Atene (alta circa 12 m.) e di Zeus in Olimpia (alta circa 11 m., seduto). Erano grandi armature in legno che reggevano i pezzi impiallacciati d'avorio e le lamine d'oro. Le notizie d'autori antichi sul modo di lavorare le zanne sono favolose e inconcludenti. Il tipo più usitato di statuaria crisoelefantina s'è potuto studiare in due frammenti di stile fidiaco d'una statua d'Atena al Vaticano; le dimensioni erano un po' minori del vero, per poter ottenere il viso in un sol pezzo. Più tardi si eseguirono anche statue di principi: Leocare fece quelle della famiglia d'Alessandro per il santuario d'Olimpia. La produzione durò fino all'età romana: Pasitele fece un Giove ai tempi di Cicerone; Germanico divinizzato ebbe pure una statua di quella materia. Nella piccola arte si continuò senza dubbio a lavorare: Colote, allievo di Fidia, eseguì in oro e avorio la mensa delle corone per i giuochi olimpici, ornata di rilievi. Purtroppo non si può citare alcun oggetto del sec. V da porre a confronto con l'età arcaica. E pochissimi sono pure quelli del IV: degno d'essere ricordato il piccolo rilievo trovato a Cartagine (fig. 22) con Afrodite seduta sul cigno. In una tomba del Ponto (Russia meridionale) sono stati rinvenuti alcuni frammenti di lamine adornate d'incisioni finissime ravvivate da colori, che sono specialmente pregevoli per la storia della pittura (fig. 23).

Le monarchie ellenistiche, e specialmente la corte dei Lagidi in Alessandria, fecero grande uso d'avorio. Ma i lavori d'arte rimasti sono scarsissimi, e non si saprebbe citar nulla che superi la figurina di pigmeo del museo di Firenze, di provenienza etrusca e databile circa al 300 a. C. Meno antica pare quella di Sileno, trovata a Sidone dal Contenau pochi anni or sono (fig. 24).

In Roma l'avorio, senza dubbio per influsso etrusco, era in uso fin dall'età regia per le insegne dei consoli e dei trionfatori; poi con l'introdursi del lusso ellenistico vennero in voga specialmente i mobili, e più che altro i letti, incrostati di piccoli rilievi: tra i molti avanzi che se ne conservano domina però l'osso di bue, surrogato economico che prevalse anche nella miriade di piccoli oggetti, come scatole da unguenti e da incenso, manici di coltellini e di rasoi, stili da scrivere, amuleti, ecc. Interessanti sono le bambole snodate, anch'esse quasi sempre d'osso. Eredi del fasto delle corti greco-orientali, i Cesari usarono pure copiosamente l'avorio. Properzio (II, 31) ricorda le porte del tempio d'Apollo Palatino, eretto da Augusto, che recavano scolpite in tal materia la fuga dei Celti da Delfi e la strage dei Niobidi. Ma quello che ci resta è ben poco.

Una delle cose più fini d'età imperiale è un piccolo ritratto (fig. 25) del sec. II circa. Notevoli anche un telamone di Pompei e un rilievo discoidale con Apollo in trono, da Ercolano, al museo di Napoli, una statuina d'attore tragico, da Rieti, al Petit Palais di Parigi, con policromia ben conservata. Le placchette son quasi tutte mediocri: abbozzata vigorosamente quella del Vaticano (fig. 26), forse del sec. I. La produzione continuò anche nelle provincie e specialmente in Egitto. Ma le cose più insigni sono quelle dell'epoca più tarda e specialmente i dittici cerati, o codicilli eburnei, dal sec. IV al VI, pervenutici numerosi e ben conservati, in massima per merito delle chiese che li riposero nei loro tesori (v. più avanti).

La tecnica di lavorazione non si può credere che sia mai stata diversa da quella moderna. I Romani usarono talvolta tingere l'avorio in rosso e forse in nero, se pure questo colore, riscontrato in qualche oggetto di scavo, non s'è prodotto sotterra per sostanze venute a contatto. La policromia delle figure fu d'uso generale in quasi tutte le arti antiche.

Bibl.: Preistoria europea: J. Déchelette, Man. d'archéol. préhist., I, Parigi 1908; M. Hörnes-O. Menghin, Urgesch. d. bild. Kunst, Vienna 1915. - Egitto e Mesopotamia: W. M. Flinders Petrie, Arts et métiers de l'ancienne Égypte (trad. Capart), Bruxelles 1912; L. Heuzey, Antiq. chaldéennes, Parigi 1902. - Civiltà egea: G. Perrot e Ch. Chipiez, Hist. de l'art dans l'antiq., VI, Parigi 1894; R. Dussaud, Les civilisations préhelléniques, 2ª ed., Parigi 1914. - Hittiti e Fenici: F. Poulsen, Der Orient u. die frühgriechische Kunst, Berlino 1912. - Etruria arcaica: P. Ducati, Storia dell'arte etrusca, Firenze 1927. - Grecia arcaica: F. Poulsen, op. cit. - Statuaria greca: A. C. Quatremère de Quincy, Jupiter Olympien, Parigi 1814; C. Albizzati, in Journal of Hellenic studies, II (1916), p. 373 sgg. - Avorî incisi del Ponto: E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung d. Griechen, II, Monaco 1923. - Si vedano inoltre gli articoli Ebur di A. Jacob, in Daremberg e Saglio, Dict. d. antiq., II, Parigi 1892, p. 444 segg. ed Elfenbein di H. Blümner, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie d. class. Altertumswiss., V, Stoccarda 1905, colonna 2356 segg.

Arte della tarda età imperiale e della prima età cristiana. - L'arte dell'intaglio in avorio prese grande sviluppo negli ultimi secoli dell'Impero romano, quando, con la decadenza della cultura classica e, di conseguenza, della grande statuaria che era stata una delle sue massime affermazioni, prevalsero nella plastica quegl'intenti pittorici evidenti specialmente nei rilievi usati a ornamento dei sarcofagi. A porre in atto questi intenti, per cui diveniva necessaria la continua variazione superficiale e il moltiplicarsi dei piani di rilievo così da dare più vivace contrasto tra le parti illuminate e quelle in ombra, mirabilmente si prestava l'avorio, adatto, per la sua minor durezza rispetto al marmo e per la possibilità di eleganti levigatezze, a ogni raffinata lavorazione. Questo spiega perché i maggiori capolavori plastici della tarda età imperiale si trovino appunto negli esemplari numerosi e notevolissimi d'intaglio in avorio, principale la serie dei dittici, doppie tavolette unite con una cerniera, intagliate sulla faccia esterna, spalmate di cera per la scrittura nell'interna, che si usavano donare in occasione di qualche fausto avvenimento, come l'entrata in carica di alti funzionarî, specialmente consoli, ai quali soltanto, in epoca posteriore, fu limitato l'uso dei dittici stessi. Oltre a questi, importanti per stabilire la cronologia di avorî stilisticamente affini, portando in genere, oltre all'immagine del funzionario, un'iscrizione col suo nome, possediamo oggetti varî appartenenti alla suppellettile dell'affermantesi culto cristiano, quali le pissidi, scatole cilindriche usate per riporvi le sacre specie o l'incenso, cofanetti per reliquie, e la grande cattedra vescovile detta di Massimiano a Ravenna.

La questione della provenienza e datazione di questo vasto materiale è delle più complesse, rientrando nella questione più generale dei rapporti artistici di allora tra Roma e l'Oriente, e non può dirsi affatto risolta, sebbene abbia ricevuto nuova luce da recenti studî. Mentre infatti si era creduto di poter localizzare fiorenti officine per la lavorazione dell'avorio nelle principali città dell'Italia imperiale, cioè a Roma, Ravenna, Milano, Monza, la conoscenza sempre maggiore dell'arte dell'Impero d'Oriente ha permesso di riportare molti tra i più belli avorî, conservati ai principali centri di quella vastissima zona, dove, per le tradizioni ellenistiche ivi maggiormente persistenti, si elaborava quello stile pittorico caratteristico dell'arte paleocristiana.

Sebbene finora non si sia raggiunta nessuna certezza in merito a questi studî, appare molto verisimile il riferimento alla maggior città dell'Asia anteriore, Antiochia, d'un capolavoro come la pisside di Berlino (Kaiser-Friedrich-Museum; figura 27) col Sacrificio d'Abramo e i Santi Pietro Paolo e Giovanni, del sec. IV o V, prima supposta lavoro romano, in cui la classicità è evidente nella derivazione iconografica delle varie figure e, più, nella loro nobiltà, nel modo con cui in esse si riflette, come sui sarcofagi contemporanei di eguale provenienza, il pieno possesso dell'essenzialità del tipo umano proprio dell'arte classica. E così è probabile l'origine siriaca di un'altra importante opera: la lipsanoteca di Brescia (Museo cristiano; tav. CXXXIX), cofanetto per reliquie, ora ricomposto, con figurazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento non dissimili per l'iconografia dai sarcofagi romani, ma ben superiori ad essi per il chiaro senso della composizione, ritmica nelle larghe pause tra le varie figure, per la raffinata compiutezza di ogni parte.

Più certa è la provenienza dalle officine di Alessandria d'Egitto di un gruppo di opere, fra cui la cattedra di Massimiano, ora nel palazzo vescovile di Ravenna (tavola CXL), che ne riflettono lo stile costituito da un vigoroso substrato ellenistico e da influssi pittorici siriaci, originalmente interpretati in rapide abbreviazioni impressionistiche. Questo stile bene si vede nella grande opera, già a torto supposta ravennate, mirabile per la indissolubile unione architettonica delle varie parti, in cui le grandi figure di apostoli e i rilievi con le Storie di Giuseppe e del Cristo, di grande scioltezza compositiva e d'influsso palestinese nell'iconografia ispirata ai vangeli apocrifi, sono conchiusi in un tutto strettamente organico dal fine ricamo delle zone ornamentali.

Questi modi, evidenti anche in avorî trovati in Alessandria stessa, si ritrovano nelle altre opere dello stesso gruppo (pissidi con Storie di S. Mena, a Londra nel British Museum, e con la Leggenda di Atteone, a Firenze nel Museo Nazionale, ecc.): principale la grande valva di dittico ora al Louvre, conosciuta col nome di Avorio Barberini, del tipo più complesso, detto "in cinque parti" perché costituito da quattro tavolette laterali intorno a una centrale, usato specialmente nei dittici dedicati a un imperatore. Questa, mancante di una delle parti laterali, ha al centro la figurazione equestre supposta con scarso fondamento di Giustiniano o Costantino il Grande, e in basso una caratteristica rappresentazione di personaggi orientali recanti doni varî, tra cui grandi denti d'elefante, ed è suo grande pregio l'aver evitata ogni fredda imitazione della statuaria monumentale per affermare una propria vivacità figurativa, d'accordo con il rapido e sprezzante trattamento alessandrino dell'avorio.

Ancora controversa, sebbene a evidenza orientale, e la provenienza di altre opere del sec. V o VI, come il dittico col Poeta e la Musa (Monza, Duomo) di complesso senso pittorico nei panneggi e nel tentativo prospettico dell'architettura dello sfondo; lo splendido Arcangelo del British Museum (fig. 28), frammento di dittico in cinque parti, solenne immagine di maestà che richiama la potente idealizzazione dello stile che s'andava elaborando in Bisanzio e, d'officine diverse, il cosiddetto dittico di Murano (una valva al Museo di Ravenna, l'altra nella Biblioteca Rylands a Manchester), a soggetto cristiano, usato come copertina di libro sacro, e l'altro dittico con Storie di S. Paolo e con la figurazione di Adamo che dà i nomi agli animali (Firenze, Museo Nazionale; v. riproduzione alla voce adamo), notevole per l'euritmia con cui gli animali stessi spartiscono lo spazio presso la figura nobilmente classica di Adamo.

Se però queste opere maggiori e le molte di minore importanza, ad esse affini, si sono potute con qualche probabilità riferire all'Oriente, altre sembrano non potere invece separarsi da Roma primo il bellissimo dittico con le iscrizioni Symmachorum e Nichomachorum (una valva a Parigi, Museo di Cluny, l'altra a Londra, Victoria and Albert Museum, fig. 29) eseguito in occasione di qualche fausto avvenimento che unì le due famiglie, potenti in Roma nel sec. IV. Di derivazione classica quanto all'iconografia, esso si distingue per la spaziosità compositiva e la finezza d'esecuzione, concordando in queste qualità, oltre che con avorî cristiani (le Marie al Sepolcro, Milano, collez. Trivulzio; frammenti di cofanetto, Londra, British Museum, ecc.), con dittici di funzionarî romani; quello, ad es., bellissimo di Rufio Probiano (Berlino, Staatsbibliothek), prefetto di città in anno non ben precisato, quello di Anicio Probo del 406 (Aosta, Cattedrale; fig. 30), quello di Felice del 428 (Parigi, Cab. des Medailles), ecc. Questa circostanza e le rispondenze coi rilievi lignei della porta romana di Santa Sabina inducono a ritenere che questo gruppo di opere fosse eseguito in Roma nei secoli IV e V, ma da artisti orientali, probabilmente siriaci, la cui presenza non fa meraviglia in un grande centro di scambî culturali quale la capitale dell'Impero d'Occidente. Che però le tradizioni importate in Roma da queste officine decadessero durante il sec. V, lo mostrano i dittici romani copiosi in questo secolo; il primo di essi con data sicura, quello citato di Anicio Probo, con immagini dell'imperatore Onorio, ancora si unisce alla raffinatezza di quello dei Simmachi, come la valva del museo di Brescia con la scritta Lampadorium e rappresentazioni di corse nel circo; mentre gli ultimi, di Boezio del 507 (Brescia, Museo Cristiano) e di Basilio (Firenze, Museo Nazionale), appaiono invece profondamente decadenti nelle goffe proporzioni, nell'incerto rilievo, sebbene notevoli per la ricerca di dare individualità ai volti delle figure.

Avorî bizantini. - La serie dei dittici consolari provenienti da Costantinopoli, che appartengono quasi tutti al sec. VI, ci mostra invece che nella capitale dell'Impero d'Oriente non si esaurisce il potere creativo, ma si costituisce, per l'armonica fusione delle molteplici tendenze che ivi confluiscono da ogni parte del vastissimo Impero, uno stile originale improntato a principî d'idealizzazione.

Nell'immagine del console, astrattamente composto nella pompa delle insegne del grado e sue attribuzioni (cfr. i dittici di Anastasio, del 517, a Parigi, Cab. des Médailles; a Berlino, Kaiser-Friedrich-Museum; a Londra, Victoria and Albert Museum, ecc.), seduto sul trono, spesso tra le due personificazioni di Roma e di Costantinopoli, in atto di dare il segnale degli spettacoli del Circo, figurati in alcune scene sul basso della tavola, mentre in alto sono per lo più il nome del personaggio e i ritratti imperiali, è già la grandiosità compositiva dell'arte bizantina, la sua non trita raffinatezza, la nobiltà degli schemi in cui essa tende a conchiudere le sue forme. E questo stile, evidente nei più belli fra i dittici (di Anastasio, di Areobindo, del 506, a Parigi, Louvre e Museo di Cluny, a Leningrado, Ermitage, ecc.; di Magno, del 510, a Milano, Museo archeologico e a Parigi, Cab. des Méd.), si prosegue nell'avorio (Firenze, Museo Nazionale; fig. 32) rappresentante un'imperatrice, forse parte centrale di un dittico in cinque parti, notevole per lo sfarzo decorativo e per il robusto rilievo, e certo anteriore al sec. VII-VIII, a cui era stato riferito, mostrando la propria capacità di toccare alte vette, se ad esso, come è probabile, va riunito il dittico con tre personaggi variamente identificati (Monza, Duomo; fig. 31), in cui riaffiorano in nuova ed originale elaborazione le più ideali qualità della statuaria greca.

L'importanza dell'avorio, come unico rappresentante della plastica bizantina, più che la toreutica e le incisioni su gemme e su steatite ad esso assai inferiori, non diminuisce nei secoli seguenti, col cessare, per le invasioni arabe, d'ogni attività produttiva dei centri orientali. Prosegue, in perfetta continuità, la sua profonda elaborazione stilistica che doveva portare ai capolavori del sec. XI, e, tralasciata nel periodo della lotta iconoclastica la rappresentazione di soggetti religiosi, ricerca il proprio repertorio iconografico nell'antichità classica e nell'arte orientale, specialmente persiana, la cui tendenza decorativa si riflette anche nello stile. Prodotti caratteristici di questo periodo, tra i secoli VIII e XI, sono cofanetti e corni da caccia, ritenuti talvolta addirittura orientali.

I cofanetti, a torto riferiti al sec. V o VI, presentano una forma costante, quadrangolare, con coperchio piano oppure a piramide tronca e sono adorni di riquadri o fasce ornamentali con soggetti mitologici, in genere adoperati senza intendere il loro significato (riprova della più tarda datazione), o zoomorfici secondo le predilezioni dell'arte persiana, la cui stilizzazione decorativa si riflette anche nei tormentati contorni delle figure. Ciò è evidente nel cofanetto già nella cattedrale di Veroli (ora a Londra, Victoria and Albert Museum; fig. 33) col Ratto d'Europa e altre figurazioni, giustamente ritenuto il più bell'esemplare esistente.

Sembra che a questi siano affini i rilievi della cattedra di S. Pietro, custodita nella grande Basilica romana, e per ora inaccessibile. I cofanetti furono probabilmente imitati in Italia e forse si possono riportare fino ai secoli XI e XII quelli con soggetti religiosi e rappresentazioni della Genesi (cfr. i rilievi di uno di essi smembrato a Pesaro, Museo Oliveriano, ecc.) ispirate alla miniatura. Il valore di queste opere va ricercato nella compiuta organicità della loro decorazione, che permette di considerarle non semplici prodotti industriali, ma vere manifestazioni d'arte.

Ma nei secoli XI e XII, lo stile plastico bizantino, più che nei cofanetti, si ritrova in altri rilievi, dove appare pieno e originale, costituito sui principî d'idealizzazione derivati dall'arte ellenistica e da quella orientale, in forme la cui calma euritmia compositiva e il valore attivo degli spazî scanditi dalle figure immobili nel loro isolato raccoglimento permettono la creazione di capolavori, quale, principalissimo tra i rimasti, il trittico Harbaville del Louvre (tav. CXLII). Si tende a localizzarlo cronologicamente tra un reliquiario della cattedrale di Cortona dell'epoca di Niceforo Foca (963-69) e un rilievo (Parigi, Bibl. Naz.) con Gesù Cristo in atto di benedire l'imperatore Romano (1068-1071) e sua moglie Eudossia, notevole anch'esso per il senso euritmico pienamente ellenistico della composizione. Il trittico in questione, ornato a tergo della rappresentazione della croce gemmata tra due cipressi, è un esempio di quelle profonde elaborazioni del simbolismo religioso che l'arte bizantina seppe creare ed esprimere in forme artistiche perfettamente rispondenti. Opere contemporanee a questa si trovano assai frequenti, non tutte però d'eguale finezza, talvolta anzi monotona traduzione di miniature di evangeliarî, come l'Entrata in Gerusalemme di Berlino (Kaiser-Friedrich-Museum). Vedremo in seguito quale influsso lo stile plastico bizantino di questo periodo esercitasse anche sull'arte d'Occidente; forse ne mostrano il disfacimento alcuni avorî del museo di Ravenna, a torto ritenuti di fabbricazione italiana. Riflessi se ne ritrovano nella copertina del salterio di Melisenda (Londra, British Museum), del sec. X, accanto a ornati puramente orientali; e una secolare prosecuzione senza grandi variazioni se ne ebbe nella suppellettile della chiesa ortodossa, come mostrano i due piatti liturgici (panagie) del Museo Vaticano, opere russe del sec. XVII.

Età carolingia. - Mentre in Oriente l'intaglio in avorio seguiva lo sviluppo dello stile bizantino, in Occidente riceveva un vigoroso impulso, dopo l'età paleocristiana, durante il regno di Carlo Magno e dei suoi successori. In questo periodo, antecedente alla ricostituzione del senso plastico propria dell'età romanica (secoli XI e XII) e al conseguente risorgere della statuaria, l'intaglio in avorio rappresenta ancora l'unica affermazione del rilievo, e in esso proseguono le tradizioni dell'ultima arte classica accanto a nuovi accenti proprî dell'arte carolingia, di cui sono riflessi i diversi elementi costitutivi. L'avorio segue il progredire di quest'arte, a cui fornisce le copertine per i manoscritti, formate in genere da una targhetta intagliata, circondata da un'ampia cornice d'oreficeria, e ne riflette lo stile minutamente narrativo e le innovazioni iconografiche, dando, p. es., alla scena della Crocifissione, prediletta per le copertine degli evangeliarî, uno sviluppo caratteristico, per l'aggiunta delle personificazioni del Sole e della Luna, della Chiesa e della Sinagoga, della Terra e dell'Oceano, e di scene complementari, come le Marie al Sepolcro, ecc. Sulle copertine dei salterî diviene invece frequente la rappresentazione di David in atto di dettare i salmi, e di complessi soggetti, quasi un commento letterale dei salmi stessi.

Gl'intenti pittorici derivati dall'influsso della miniatura, improntano l'avorio in tutte le sue applicazioni, di cui principali, in questo periodo, le numerose legature di manoscritti, accanto ad oggetti varî: pettini liturgici, usati nella consacrazione dei vescovi, cofanetti, flabelli ecclesiastici (un unico, bellissimo esemplare nel Museo Nazionale di Firenze, ecc). Sono però meno evidenti in un gruppo più primitivo (secoli VIII-IX), che riflette avorî orientali del sec. V o VI, pur sovrapponendovi i proprî intenti linearistici, come appare nella copertina dell'evangeliario di Lorsch (tav. CXLI; una valva al Museo Vaticano, l'altra al Victoria and Albert Museum a Londra) manifestamente ispirata a un dittico in cinque parti, nel frammento con l'Arcangelo Michele a Lipsia (Staatsbibliothek) ed in altri molti. Essi vengono man mano a predominare per il crescente influsso della miniatura, dando opere notevoli per il rapido impressionismo e la vivacità figurativa, come la copertina del salterio di Carlo il Calvo (metà circa del sec. IX; Parigi, Biblioteca Nazionale), tra i più belli esemplari di questa maniera, e un notevole numero di avorî ad essa affini.

La localizzazione di queste officine si può determinare solo con molta approssimazione lungo il medio e basso corso del Reno e quello della Mosella. Più sicuramente si può accentrare in Metz un vasto gruppo, caratterizzato dalla derivazione stilistica nettamente classica e dal frequente ripetersi di certi soggetti, primissima la Crocifissione, secondo il tipo iconografico sopra notato, evidente, p. es., nei belli esemplari dell'evangeliario della chiesa di Gannat, di quello della Biblioteca Nazionale di Parigi (fondo lat.; 9453) non lontani dal pettine di S. Eriberto a Colonia (Kunstgewerbemuseum), in cui la rappresentazione è semplificata per lasciare ogni sviluppo al ricco e armonico ornato vegetale.

Non insolito, negli avorî carolingi, l'uso dell'oro e della pasta vitrea per dare evidenza maggiore all'ornamentazione, altra riprova della tendenza di quest'arte ad avvicinarsi sempre più alla pittura. Quando a questi intenti, scarsamente plastici, presiedette l'organicità d'un sistema decorativo, si ebbero veri capolavori, come la copertina dell'evangeliario di S. Gallo (tav. CXLIII), attribuita al semileggendario monaco Tuotilo del sec. IX, in cui l'artista subordina ogni parte della composizione e la composizione stessa al suo unico mezzo d' espressione: il parallelismo cioè delle molteplici curve, riducendo anche la figura umana a un rabesco; o la copertina del lezionario di Francoforte (Cambridge, Fitzwilliam Museum; Francoforte, Biblioteca), ispirata ai dittici paleocristiani anche nella maggiore plasticità, in cui la rigida simmetria compositiva bene si accompagna alla geometrizzazione di ogni singola parte, con profonda coerenza ornamentale.

Età ottoniana. - L'intaglio in avorio carolingio, decaduto in Francia dal sec. X all'XI, ebbe invece grandissimo sviluppo nella Germania del corrispondente periodo ottoniano, dove si diffuse da Occidente, per la via del Reno e della Mosella, e fiorì in forme proprie nelle varie officine monastiche. Molto difficile è per ora distinguerle. In tutte però compare, accanto a generali rispondenze con l'arte carolingia, qualche maggiore intenzione naturalistica e plastica, lontano presagio del romanico. Quanto all'influsso bizantino, a cui un tempo si volle attribuire la rigogliosa fioritura di questo periodo, si può dire che si manifestò pienamente solo in un momento più tardo, e non per l'immigrazione di artisti orientali al seguito di Teofania, moglie di Ottone II, ma piuttosto per quella dei capolavori bizantini dei secoli X e XI.

Con l'aumentare della produzione aumenta la varietà delle applicazioni dell'avorio: copertine, secchielli liturgici, cofanetti, paliotti, altari portatili, questi ultimi costituenti un gruppo stilistico a parte, i cui più belli esemplari sono appunto quelli del convento di Melk sul Danubio.

Nella Germania occidentale, accanto alla prosecuzione della scuola carolingia di Metz nelle sue tradizioni sottilmente narrative (Storia dell'infanzia di Cristo, a Berlino, Kaiser-Friedr.-Mus.; altre storie evangeliche a Liegi, Cattedrale, ecc.), che fortemente influirono sulle officine belghe contemporanee, si distingue per vigoroso naturalismo il gruppo, localizzabile sulla Mosella, il cui capolavoro è la legatura dell'evangeliario di Echternach (Gotha, Landesmuseum) circa del 990, di più decisa espressione plastica. Centro di grande importanza e d'irradiazione artistica nella Germania settentrionale diviene Colonia, le cui officine monastiche (monastero di S. Pantaleone, ecc.) proseguiranno la loro attività anche nel periodo seguente. L'imitazione bizantina si esplica invece maggiormente nella Germania orientale, ed è evidente in un gruppo di opere (copertine di Würzburg, Biblioteca dell'università; frammenti nella Staatsbibliothek di Monaco di Baviera) localizzabili nel convento benedettino di S. Michele a Bamberga, la cui derivazione da rilievi bizantini è provata anche dai complicati ornati a traforo.

Mentre in Francia e in Germania si mantenevano nell'avorio le tradizioni plastiche, e si elaboravano le idee artistiche che dovevano poi esplicarsi nel periodo romanico, scarsissime opere restano in Italia, e d'incerta origine. Così il fare pittorico che caratterizzava gli avorî di S. Gallo si riflette nella cosiddetta Pace del duca Orso (tav. CXLIV; Cividale, Museo) del sec. VIII, di scarsa importanza artistica, se si tolga una certa maggior robustezza quasi romanica di rilievo; mentre lo scadimento della plastica contemporanea appare pieno nel dittico proveniente dal monastero di Rambona (tav. CXLV; Roma, Museo cristiano Vaticano), probabilmente del sec. X, rozzo e informe. Solo, in epoca ottoniana, mostra nobiltà di fattura il secchiello donato dall'arcivescovo Gotifredo (974-979), oggi nel duomo di Milano (fig. 34), in tutto simile a un avorio coi ritratti di Ottone imperatore e della sua famiglia (Milano, collezione Trivulzio), sebbene per entrambi sia incerta la fabbricazione italiana, e più probabile la provenienza dalla Germania, anche se non possano unirsi al gruppo di avorî sparsi nei varî musei d'Europa e notevoli per la chiara e robusta stilizzazione ornativa, i quali facevano forse parte d'un paliotto donato da Enrico II alla cattedrale di Magdeburgo.

Quanto all'attività degli altri paesi d'Europa, notiamo di passaggio i cofanetti anglosassoni con iscrizioni runiche (v. esemplare a Firenze, Museo Nazionale), in genere d'osso di balena o di dente di tricheco, materiali che cominciavano a essere largamente usati in sostituzione dell'avorio.

Età romanica. - Assai meno fervida di quella che abbiamo notata nel periodo carolingio e ottoniano, è l'attività di produzione nel periodo romanico (secoli XI e XII), durante il quale l'attenzione convergeva, in ogni paese europeo, intorno al ricostituirsi della grande scultura monumentale, e la rinnovata ricerca di più vasta sintesi espressiva doveva logicamente portare a un decadimento dell'intaglio in avorio, per sua stessa natura minuzioso e quasi analitico nella sottigliezza dei suoi mezzi d'espressione. Ciò che ancora ne possediamo non ci mostra infatti niente di nuovo né di sostanzialmente diverso da quanto si affermava contemporaneamente sulle facciate delle cattedrali, ma della grande scultura riflette la nobiltà e la ricerca di più decisa espressione plastica, e insieme il confluire dei più diversi elementi, non ultimi quelli orientali.

In Francia, nei secoli XI e XII, mentre la scultura monumentale prendeva un preponderante sviluppo, rari e di scarsa significazione sono i prodotti dell'intaglio in avorio, sebbene non ne manchi qualcuno assai fine, specialmente in un genere che in quest'epoca ha grande diffusione, i tau e i ricci di pastorale (v. p. es. il bellissimo tau già nella collezione Soltikov, ora al South Kensington Museum a Londra, con rappresentazioni dei segni zodiacali). Specialmente il dente di tricheco viene usato in questo periodo nella Germania, che tiene il primato in quest'arte, proseguita nelle officine già fiorenti nell'epoca precedente, ed ha il principale centro d'attività e d'irradiazione a Colonia, il cui influsso si estende fino in Vestfalia e in Sassonia (Hildesheim) ed è evidente anche là dove esistevano forti tradizioni proprie, come presso i benedettini del Monte S. Michele a Bamberga.

Appunto a Colonia risale la creazione d'un tipo di reliquiario di forma eminentemente architettonica, in cui all'avorio che forniva l'ornamentazione figurata si univa l'oreficeria, anch'essa fiorente sul Reno per opera di celebrati maestri. Se ne hanno esempî al Victoria and Albert Museum e nella collezione del duca di Cumberland, e sembrano riferibili al monastero di S. Pantaleone. Recenti studî ritengono poi fabbricata a Colonia una serie di cofanetti in osso, prima vanamente riferiti alla Francia o all'Oriente, di omogenea composizione, con figure di santi e di profeti ristrette e raccolte in sé stesse, come quelle che ornavano i grandi edifici contemporanei sotto strette arcatelle disposte in più zone, talvolta a dare un vero e proprio organismo architettonico, come nel grande cofano in forma di basilica nel Museo d'antichità di Stoccarda.

Lo stile renano di Colonia, oltre che in tutta la Germania, si diffuse nel Belgio, venendo ivi a contatto con forme più propriamente francesi, e in quest'epoca ebbero importante produzione i paesi scandinavi, ai quali, come alla Scozia, si possono riferire molte serie di pezzi per il gioco della dama e degli scacchi giunte fino a noi (v. i molti esemplari del British Museum e del Museo di Copenaghen).

Un'attività particolare si ebbe in Spagna, dove in un periodo precedente gli Arabi, abili intagliatori d'avorio, avevano lasciato tracce in quest'arte. Ma di saldezza tutta romanica sono invece opere come l'arca di S. Millán de la Cogolla a Logroño, non immune da influssi germanici, e i crocifissi di S. Isidoro di León, dai complicati ornati arabeggianti, di S. Marco di León, ecc., opere tutte di soli da e vigorosa bellezza.

In Italia la produzione di questo periodo, pur non presentando grande omogeneità stilistica, s'affermò, meglio che nel periodo anteriore, in opere insigni. Sembra che nell'Italia meridionale esistessero officine d'intagliatori che al preponderante influsso bizantino univano romanico senso della forma e reminiscenze arabe nelle parti ornative; capolavoro ne è il paliotto tuttora esistente nella cattedrale di Salerno, probabilmente del sec. XII (fig. 35), vasta opera ora scomposta, formata in origine di targhette contenenti un ciclo completo di rappresentazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento. A quest'officina si uniscono altri avorî (Firenze, Museo Nazionale; Parigi, Louvre, ecc.) affini per carattere, e pure all'Italia meridionale, unica parte della penisola in cui l'intaglio eburneo sia stato comunque vitale, va forse riferita la cassettina con deliziosi ornati arabeggianti nella chiesa di Civita di Bagnoregio.

Sempre rimanendo nell'orbita dell'influenza musulmana, dobbiamo poi ricordare una serie particolare di oggetti: i cofanetti di lastre d'avorio con ornati profilati a inchiostro e riempiti di colore, in cui si uniscono a partiti puramente decorativi figure umane e animali, talvolta con scritte arabe, riferiti anche alla Mesopotamia e alla Siria, ma più probabilmente eseguiti in gran parte in Sicilia. nel periodo normanno d'influenza araba (secoli XI-XII).

Epoca gotica. - L'intaglio in avorio ricevette grande incremento nel periodo gotico (secoli XIII-XV), in cui alle generali preferenze stilistiche, portanti all'esteriore raffinatezza, bene corrispose la possibilità d'ogni raffinatezza insita nella materia. Fiorì specialmente là dove il gotico aveva costituito più decisamente i suoi canoni: in Francia, con massimo centro, secondo i più recenti studî, a Parigi. La produzione fu svariatissima, di uso sacro e profano, prestandosi l'avorio così alla fabbricazione di statuette, dittici, trittici, tabernacoli, ricci di pastorale, come a quella di pettini, cofanetti, cornici di specchi, tavolette da scrivere, ecc. Questo vasto materiale non fu, naturalmente, tutto eseguito a Parigi, ma le varie regioni, sia di Francia sia di altri paesi, si mostrano interamente subordinate al centro di produzione, trovando solo raramente accenti proprî. Nei suoi rapporti con la grande statuaria, l'intaglio in avorio gotico non precorre né segue pedestremente; risorge quando già essa si affermava ad apparare le cattedrali, e gareggia con essa nelle sue prime grandi affermazioni. Più tardi si costituisce in tradizioni proprie nelle varie officine, e secondo quelle si svolge, riflettendo però la linea di sviluppo generale dello stile gotico, intenta a complicare sempre più i proprî mezzi d'espressione, fino a degenerare nel vacuo e nel trito, durante il sec. XV.

Riguardo all'iconografia non innova, ma, pur seguendo la miniatura, sceglie tra le usuali rappresentazioni quelle che più si prestano a una composizione semplice ed armonica. Più tardi tende a rendere più complessa l'espressione psicologica dei varî personaggi, prediligendo le scene tratte dalla Passione di Cristo, per il loro maggiore accento drammatico; e talvolta, come nelle statuette della Vergine (tav. CXLVII), che passano dall'imponenza dell'immagine in Maestà al tipo della Madonna madre sorridente al figlio, riflette dagl'inizî quel naturalismo che dovrà affermarsi nell'arte internazionale del primo Quattrocento.

Se questi sono i caratteri generali della scultura d'avorio gotica, osservandoli nelle singole opere, notiamo, dopo un breve periodo preparatorio (gli appartiene forse il Cristo di Herlufsholm ora al Museo di Copenaghen), capolavori di altezza estetica non inferiore a quelli della statuaria contemporanea, come la grandiosa ed equilibrata Incoronazione della Vergine del Louvre (fig. 36), di estrema raffinatezza così nella forma come nell'espressione manifesta nel tenue sorriso, e la Deposizione dello stesso museo, armonica di profonde rispondenze, sia negli atteggiamenti che si compongono in suprema euritmia, sia nella grande finezza dei profili, del modellato superficiale, del sentimento che anima le varie figure.

La grande e tranquilla nobiltà dell'arte dugentesca traspare poi nei dittici montati con cerniere e talvolta, ma raramente, legati in oro e argento, con soggetti religiosi di chiara iconografia, che prendono poi varî aspetti, talvolta con le scene incorniciate da architetture, o semplicemente riquadrati, oppure ornati sulle cornici da una serie di rosette stilizzate. Questi, di cui belli esemplari si trovano al South Kensington Museum a Londra (dittico del Tesoro di Soissons) e al Museo Vaticano, complicano poi sempre più il loro tipo, aumentando il numero delle rappresentazioni; e dividendole nei varî scomparti per mezzo di colonnette, come nell'esemplare della collezione Carrand (Firenze, Museo Nazionale; tavola CXLVIII), certo non anteriore alla seconda metà del sec. XIV.

Lo sviluppo caratteristico del gotico, notato per i dittici, si può egualmente osservare per i trittici da essi derivati, per i tabernacoli a sportelli, con al centro una statua della Vergine, o con la rappresentazione della Crocifissione. Numerosissime e importanti le statuette isolate, delle quali abbiamo già osservato la variazione iconografica; non tutte d'ugual merito, ma alcune sono bellissime, come la Madonna della Sainte-Chapelle, ora al Louvre. Si è supposto che alla forma del dente d'elefante sia dovuto l'ondeggiante movimento di queste figure: ma se per esso si mise a profitto l'indole della materia, l'origine di tal movimento va ricercata soltanto nella predilezione dello stile gotico per l'andamento curvilineo dei profili.

Non inferiori, né per quantita né per qualità, sono gli oggetti di uso profano, principalissime, tra gli altri, le scatole per specchi portatili e i cofanetti, le cui figurazioni riflettono non solo la galante e raffinata vita della nobile società del tempo, ma anche la cultura letteraria, sia nelle scene di soggetto amoroso, sia in quelle tolte alla novellistica e alla poesia: le storie della castellana di Vergi, di Perceval, di Tristano e Isotta, ecc.

Questa produzione, nonostante la sua intensità, è ben lungi però dall'importanza che hanno gli avorî dell'alto Medioevo come unici rappresentanti della plastica, e capaci in essa d'innovazioni stilistiche. Riflette lo stile affermatosi nella scultura monumentale contemporanea, senza però aggiungere una sola parola al grande linguaggio artistico da essa creato; peraltro la comprensione delle più squisite qualità dell'arte gotica, il concordare con esse delle naturali possibilità dell'avorio determinano l'alto valore di molte di queste opere, anche se esse non possano considerarsi se non come prodotti di una raffinata e fiorente industria artistica.

Il sec. XIV ne vide in Francia l'ultima fase, trascurata nel materiale sempre più scadente, in ultimo quasi completamente sostituito dall'osso, impoverita nella fantasia rappresentativa, ridotta a una servile imitazione dell'incisione, allora assai in voga in sostituzione della miniatura, diminuita fino nel rilievo che a malapena aggetta sul fondo sgraffito a fitto reticolato. Ebbero un temporaneo favore le "paci" eseguite secondo questo sistema, e alcuni cofanetti, caratteristico quello del museo di Cluny riproducente illustrazioni della Bibbia Pauperum; e, sebbene non mancasse qualche opera ancora memore della primitiva finezza, come la scacchiera con intagli di stile borgognone al Museo Nazionale di Firenze e la splendida arpa ornata di gigli al Louvre, a poco a poco ogni manifestazione si spense, col perdersi delle tradizioni di lavoro e d'arte che avevano fatto grande l'avorio gotico.

Negli altri paesi d'Europa si ebbero vicende non molto dissimili, nella piena subordinazione al dominante stile francese. Presero sviluppo in Inghilterra faticosi lavori a traforo, di cui due complicatissimi esemplari restano al Metropolitan Museum di New York. In Germania invece qualche accenno di maggior naturalismo caratterizzò specialmente le opere degl'inizi del '400, in cui ebbero favore certe statuette d'avorio misto ad argento e rame, come il S. Giorgio a cavallo della collezione Rothschild, e molte altre.

In Italia, sebbene sembrino ad essa riferibili alcune statuette, e si ricordi per artisti come Andrea da Pontedera l'attività d'intagliatori in avorio, non si ha una certezza assoluta se non nei riguardi di Giovanni Pisano, a cui appartiene la Madonna, parte d'un tabernacolo eseguito nel 1299 per il duomo di Pisa che tuttora la possiede (tav. CXLVII), opera di chiaro influsso francese ma libera da ogni formula, per il drammatico spirito dell'artista, nell'intensità dello sguardo, in cui è tutta la potenza sintetica dell'arte italiana.

Ma in Italia l'intaglio in avorio doveva ricevere aspetto caratteristico e conseguire ampia diffusione industriale alla fine del sec. XIV e all'inizio del XV attraverso le officine degli Embriachi. Queste, che prendono il nome dal loro iniziatore, Baldassare, di un ramo fiorentino dell'antica famiglia genovese, fiorirono specialmente a Venezia, sebbene non possa escludersi una loro diffusione in tutta l'Italia settentrionale, e si dedicarono a una speciale lavorazione dell'osso, unendolo, secondo una geniale innovazione decorativa, alla tarsia lignea detta alla certosina. La vasta produzione di queste officine, ancora attive nella prima metà del sec. XV, non è tutta omogenea per qualità, e comprende inoltre, accanto ad opere di grandi dimensioni come il dossale d'altare in dente d'ippopotamo della certosa di Pavia, e quelli dell'abbazia di Poissy, ora al Louvre, altari portatili, cofani come le cosiddette arche viscontee ora smembrate (già a Milano), cofanetti, i più di forma poligonale con coperchio a piramide, specchi murali, pettini, spilloni, ecc. Ma se i grandi dossali hanno maggiore importanza dal lato tecnico e iconografico, lo stragrande numero di storiette in essi contenute, che distrae in più parti la nostra attenzione, l'eccessiva simmetria data dal continuo susseguirsi delle piccole lamelle d'osso curvate, impediscono loro di raggiungere l'organicità, spesso profondamente artistica, di molti cofanetti. In questi la conchiusa forma architettonica, il fare un motivo ornamentale della curvatura delle tavolette d'osso, la vivace policromia risultante non solo dal contrasto tra il bianco delle superficie scolpite e le cornici più scure, ma da colorazioni sovrapposte, secondo una tecnica già usata nel Medioevo, producono un notevolissimo effetto decorativo, di fronte al quale passano in seconda linea le qualità propriamente artistiche degl'intagli. In essi la tradizionale iconografia d'oltralpe è tradotta in modi che risentono dell'origine artistica fiorentina di Baldassare degli Embriachi; ma sotto i suoi successori, e col decadere dello stile gotico, anche queste officine decaddero, producendo opere sempre inferiori, in cui si ripetevano gli stessi soggetti macchinalmente, in forme prive di quella finezza che, in questo genere d'opere, aveva spesso tenuto luogo di vera ane.

Rinascimento. - Il Rinascimento, inteso a grandi e sintetiche affermazioni artistiche, doveva logicamente rifuggire dalla minuzia dell'intaglio in avorio, e lo trascurò quasi del tutto, cosicché gli esemplari ne sono scarsissimi in t) gni paese, e, se anche si trovano, manLano di significato proprio, ripetendo invece, immiseriti, i più superficiali aspetti della grande arte.

In Italia, dove sempre maggiormente sintetica fu la visione artistica, gli esemplari quattrocenteschi si contano sulle dita, e sono dati specialmente dal cofanetto della cattedrale di Graz, con figurazioni tolte dai Trionfi del Petrarca, ripetizione di esemplari mantegneschi che inducono a riportare queste opere a un'officina dell'Italia, che dovette produrre anche altri esemplari, esistenti al Louvre e al Museo Nazionale di Firenze. Un'altra opera creduta del Quattrocento italiano è un trittico (Louvre) di complessa architettura gotica e con figurazioni religiose che lontanamente riflettono i modi della scultura fiorentina, tanto che si è voluto riconoscervi uno degli intagli eseguiti da Benedetto da Maiano per Mattia Corvino; ma v'è ragione di dubitare dell'autenticità, mentre è noto che sono frequenti, e non tutte di tempo recente, le falsificazioni d'intagli in avorio, seppure non specialmente italiani e del Rinascimento.

Né maggior quantità di opere possediamo del '500, sebbene più volte si sia tentato di attribuirne al Cellini, al Francavilla e a Michelangiolo stesso. Ripete una composizione michelangiolesca un avorio (Firenze, Museo degli Argenti; fig. 37) rappresentante la Deposizione, ma neppure per questo c'è permesso fare il nome di nessun grande artista, perché troppo si allontana dalla sintetica visione cinquecentesca la minuta imitazione pittorica propria di questo lavoro. Come in Italia, l'intaglio in avorio decadde in Francia e in Germania, mostrando la propria incapacità a servire alle nuove esigenze artistiche. Solo ricordiamo in Francia alcuni sporadici esemplari che rispecchiano tutta la tradizionale finezza dell'arte francese, come il bellissimo corno da caccia della collezione Rothschild, un cornetto da polvere attribuito a Jean Goujon, una Madonna del Louvre, variamente ritenuta anche spagnola o fiamminga, in Germania alcune statuette falsamente attribuite al Dürer o a Hans Sebald Beham, per concludere che l'avorio in questo momento è interamente subordinato alle arti maggiori, senza poter riuscire tuttavia, per i limiti imposti dalla sua stessa natura, a rifletterne le più elevate qualità.

Sei e Settecento. - L'epoca barocca (secoli XVII e XVIII) segna in questo campo una rifioritura, favorita dall'affluire sui mercati europei, per opera specialmente del commercio olandese, d'una maggior quantità di avorio. Si deve però intendere questa rinascita solo come un intensificarsi della produzione, perché difficilmente questa raggiunge una qualche significazione estetica. In genere, anche in questo periodo, si imitano le arti maggiori, si riproduce nell'avorio la scultura quale gli artisti del '600 l'avevano voluta, del tutto subordinata, come la pittura contemporanea, a principî d'irrequieto luminismo. Questi, che per attuarsi richiedono notevole ampiezza di dimensioni, degenerano nella scultura in avorio, che è di proporzioni minori, in modi triti e vacuamente capricciosi. Inoltre, portando, per la difficoltà della loro attuazione, a un perfezionarsi della tecnica, favoriscono il virtuosismo, e solo raramente, quando ci si limiti a prodotti puramente industriali, sono capaci di dare esemplari non del tutto sgradevoli, tanto più se considerati nel quadro più vasto dell'ornamentazione contemporanea. Quando si vuole uguagliare o superare l'agitazione spirituale, materiale, luministica, della scultura secentesca, si giunge a ibride, mostruose creazioni; tipica la Caduta degli Angeli del Museo Nazionale di Monaco di Baviera.

La lavorazione dell'avorio ebbe incremento, nel Sei e Settecento, specialmente nelle Fiandre e in Germania.

Nelle Fiandre, la grande ammirazione per l'esuberante pittura del Rubens attirò nell'orbita di lui i principali intagliatori, che videro nel materiale da loro impiegato il mezzo più adatto per riprodurre plasticamente le lucenti curve dei nudi rubensiani. A questo scopo predilessero i soggetti da lui prescelti, baccanali, putti, ecc., e se poco possediamo di Francesco Duquesnoy (1594-1644) detto, a Roma dove dimorò a lungo, il Fiammingo, l'influsso del Rubens è evidente nei rilievi di Gerhard van Opstal (circa 1595-1668; fig. 39), notevoli per una certa grazia spaziosa di composizione, e, più, in quelli di Luca Faid'herbe (1617-1697; fig. 38) che per più di tre anni era stato scolaro del grande maestro, il quale pure sembra prediligesse la scultura in avorio. Un quarto artista fiammingo, Francis van Bossuit (1635-1692), imita invece i lavori della plastica berniniana veduti in un suo lungo soggiorno in Italia; e se l'asservimento alle arti maggiori ci impedisce un'entusiastica ammirazione per i lavori suoi e degli artisti suoi contemporanei, non si può negare che essi sappiano anche comporre opere di piena omogeneità decorativa, come le caraffe e i boccali da birra in cui la consonanza fra le sagome curvilinee della loro forma e i rotondi profili dell'intaglio che li investe determina un significato ornamentale non indifferente.

Quest'intaglio, ancora contenuto in Fiandra nei limiti d'una linea d'arte, ebbe in Germania una strabocchevole fioritura, determinata anche dal grande favore di cui godette presso le corti principesche, specialmente di Baviera e di Sassonia, nonché presso quella imperiale di Vienna.

Numerosissimi gli artisti che vi lavorarono e numerosissime le opere in cui essi riversarono i capricci del loro virtuosismo e della loro fantasia, piegando l'avorio a ogni più difficile e innaturale applicazione. Ce ne restano nelle ricche raccolte, come il Grünes Gewölbe di Dresda, il Museo Nazionale di Monaco, ecc., esemplari d'ogni varietà, riproduzioni di monumenti maggiori, rilievi varî, e grandi piatti ornamentali e boccali esasperatamente ornati, crocifissi. Né mancano veri e proprî mobili, come gli scrigni (1618-1624) di Christoph Angermair (Monaco, Museo Naz.; fig. 40) in cui la parte decorativa, nello sforzo di riprodurre grandi figurazioni pittoriche, mostra un'estrema abilità tecnica, non compensata dall'effetto fastoso ma scarsamente artistico dell'insieme. Spesso gli artisti si specializzarono in determinati generi, come Simon Troger (sec. XVIII) che unì l'avorio all'ebano in piccoli movimentati gruppi (Monaco, Mus. Naz.), seguito nell'innovazione tecnica dal suo scolaro Krabensberger, autore di statuette di mendicanti, e Michael Maucher, minuziosissimo intagliatore di grandi piatti e boccali decorativi. Talvolta, in alcune città come Norimberga e Gieslingen, la lavorazione dell'avorio divenne retaggio di famiglie d'artigiani, p. es. di quella norimberghese degli Zick, e fu esercitata non solo nella comune tecnica dell'intaglio, ma in quella diffusissima della tornitura, che permetteva la fabbricazione di trionfi e di vasi, conservati in alcuni esemplari anche nel Museo degli Argenti a Firenze, eseguiti da Marcus Heiden di Coburgo (1630). L'intento di provare la propria abilità in compiti sempre più difficili diffuse un altro di quei generi di cui specialmente Norimberga sembrò compiacersi: l'intaglio di microscopiche dimensioni, esercitato da Leopold Promer. Si usò poi l'avorio per riproduzioni anatomiche da cui la macabra fantasia degli artefici derivò quelle teste cadaveriche semidecomposte e verminanti, eseguite da Cristoforo Harrich (morto nel 1630) ed usate per ammonizione morale. È chiaro però che non si può annettere importanza artistica a queste bizzarre esercitazioni, e neppure alla maggior parte dei prodotti sopra ricordati, tra i quali più si distinguono per la maggior compiutezza decorativa i bei boccali da birra dei bavaresi Georg Petel e Bernhard Strauss (Vienna, Kunsthistoriches Museum; Londra, South Kensington Museum).

In Francia, officine d'intaglio si concentrarono a Dieppe in Normandia, di cui è ignota ogni attività anteriore a questo periodo, sebbene attestata fino dal sec. XIV. Vi lavorarono una quantità di artisti, notevoli tra di essi Michel Anguier (1614-1636), Jean Cornu (morto nel 1710), e specialmente David Le Marchand (morto nel 726), che si segnalò per certi ritratti in medaglioni ovali d'avorio distinti da una chiara sobrietà, ben diversa dai virtuosismi germanici. Le officine di Dieppe decaddero alla fine del sec. XVIII, nentre mantenne la propria importanza fino alla metà del secolo scorso l'altro centro francese di lavorazione: Saint-Claude nella ranca Contea. Gli artisti di questa città, Jean Baptiste Guillermine (1643?-99), Joseph Villerme (morto verso il 1720), Jean Cavalier (che operò tra il 1680 e il 1707), proseguono i generi coltivati anche a Dieppe, ritratti, crocifissi, ecc., senza portare all'intaglio in avorio nessun contributo eccezionale.

Intagliatori tedeschi furono in Italia, specialmente a Firenze, alla corte di Cosimo III: ad uno di essi, il norimberghese Balthasar Stockhamer (morto verso il 1700), appartiene un gruppo del Museo degli Argenti, evidente imitazione della statuaria, figurante il compianto ai piedi della Croce, mentre Melchior Barthel (Dresda 1625-1672) è autore d'un grande crocifisso dello stesso museo. Anche artisti italiani lavorarono l'avorio in questo periodo senza superare di molto gli stranieri, e talvolta imitandone il virtuosismo, come il siciliano Filippo Planzone (operò fino al 1636), autore di un Cavallino chiuso in una rete, scavato con essa in un unico pezzo d'avorio (Firenze, Museo degli Argenti; fig. 41). Il veneziano Antonio Leoni, durante la sua permanenza presso la corte di Düsseldorf, eseguì varie opere, in cui cercò di rendere plasticamente, forse per influsso dell'intaglio tedesco, grandiose composizioni pittoriche affollate di personaggi (Monaco, Mus. Naz.; fig. 42).

Infine, tra il 1700 e il 1800, Giuseppe Maria Bonzanigo (1740-1820) si distinse per intagli microscopici, piccoli bassorilievi di vario soggetto, e si può dire che con lui e con i suoi seguaci si chiuda la tradizione dell'intaglio in avorio in Italia.

Sec. XIX ed epoca attuale. - Nel sec. XIX la lavorazione artistica di questo materiale scompare quasi dappertutto, nonostante i vani tentativi di rianimarla, nelle esposizioni di Dresda (1892) e di Berlino (1894), e in quella belga del 1894, che avrebbe voluto essere il punto di partenza per una rinascita. Disgraziatamente i varî artisti che vi presero parte non richiesero all'avorio niente di sostanzialmente diverso da ciò che erano abituati a chiedere a materiali di ben altre possibilità, come il marmo. Per di più, riflettendo nelle piccole opere le contraddizioni stilistiche proprie dell'arte di quel momento, ingombra da residui di passata rettorica e con intenti di rinnovamento non ancora precisati, crearono una serie di mediocri soprammobili, non intendendo che un'originale produzione di avorî intagliati non era possibile se non si teneva conto, come nell'epoca gotica, della capacità espressiva della nobile materia.

Questa rinascita si attende ancora, né, in Italia, l'intravediamo in prodotti come quelli della scuola di Torre del Greco, dove, accanto alla tartaruga e al corallo, si lavora anche l'avorio, in modo tecnicamente perfetto ma finora senza un indirizzo veramente originale. E forse non sarà lecito sperarla se non quando la faticosa elaborazione di idee artistiche, proprie dell'attuale momento, avrà costituito un nuovo stile.

Arti orientali. - Mentre l'intaglio artistico dell'avorio seguiva in Occidente lo sviluppo finora considerato, con non minore rigoglio fioriva in Oriente, favorito, più che dall'abbondanza della materia prima, dal concordare delle sue particolari possibilità espressive con la ricca fantasia decorativa propria di quei popoli.

Grande incremento ricevette nella civiltà musulmana, cui il divieto religioso negava la rappresentazione delle immagini e quindi la grande statuaria, riducendo la plastica a puri scopi decorativi in servizio dell'architettura e delle arti minori. In queste l'avorio ebbe parte importantissima e fu ampiamente lavorato in tutti i paesi dove si estese l'arte islamica, comprese la Sicilia e la Spagna, la cui produzione viene quindi a rientrare nell'ambito orientale. Negli stati della penisola iberica, fiorenti di raffinata cultura, fu usato in massima parte per oggetti di lusso, specialmente scatole e cofanetti destinati a contenere gioielli e profumi, e spesso insigniti del nome di un sovrano. Questo nome, incluso in iscrizioni dai caratteri di squisito effetto ornamentale, ha facilitato, anche quando non era accompagnato da una data esplicita, la localizzazione e la fissazione cronologica di queste opere, giunte a noi molto spesso nei tesori delle chiese, dove furono conservate a custodia di reliquie. Si è così riconosciuta massimo centro di produzione, nella seconda metà del secolo X, Cordova, splendida sede del califfato ommiade. Gli oggetti usciti dalle sue officine si distinguono per la ricca fantasia decorativa, per cui - influsso, forse, delle stoffe persiane - la figura umana sapientemente stilizzata fornisce, come le forme vegetali, svariati motivi ornamentali. Belli esempî offrono le due scatole cilindriche del Louvre (anno 357 dell'ègira, 968 d. C., già nella collezione Riaño; tav. CXLVI) e del Victoria and Albert Museum (359 dell'ègira, 970 d. C., n. 368, 1880, già nella collezione Webb), con figure di musici e di cavalieri, e, più, il cofanetto della cattedrale di Pamplona (395 dell'ègira, 1005 d. C.; tav. CL), rettangolare, con coperchio a piramide tronca, in cui la genialità di un artista ha utilizzato e coordinato nella stretta omogeneità dello stile i caratteri dell'iscrizione, le figurazioni, i minuti ornati vegetali che le cingono da ogni lato, riuscendo a un insieme incomparabile per fasto e altezza d'arte.

Segue cronologicamente la produzione di Cordova quella delle officine di Cuenca, nella prima metà del sec. XI. Sebbene assai notevole, appare inferiore alla precedente nello stesso materiale adoperato, a lamine più piccole, sicché più lamine sono necessarie per una sola faccia d'un cofanetto. Ne viene una certa limitazione per l'ornatista, il quale poi, con minore fantasia, esclude la rappresentazione figurata e ripete con monotonia gli stessi motivi animali e vegetali. Il virtuosismo prevale sull'opera d'arte, e si predilige il traforo risaltante su sfondi di legno o di cuoio dorato. Ciò nonostante, escono anche da queste officine oggetti di prim'ordine, come il cofanetto della cattedrale di Palencia (441 dell'ègira, 1049-1050 d. C., ora a Madrid, Museo Nazionale Archeologico) in cui la minuta decorazione è contenuta nell'euritmia della disposizione ornativa generale.

Dopo i prodotti di questa scuola, durata fino alla metà circa del sec. XI, la produzione musulmana in Spagna decade completamente: essa s'industrializza e perde d'individualità, tanto che talvolta è difficile distinguerla da quella, pure musulmana, di Sicilia, di Siria, ecc. Trova favore l'avorio misto col legno o con l'osso (cofanetto della cattedrale di Tortosa), o traforato fino a perdere consistenza (scatola cilindrica della cattedrale di Saragozza), o, infine, non intagliato, ma dipinto o profilato a inchiostro secondo una tecnica che ricordammo usata anche in Sicilia nel sec. XIII (cofanetto della Cappella Palatina di Palermo) e che dovette essere usata anche in Siria. Si giunge con queste opere svariate al sec. XV, nel quale si ha l'ultima geniale manifestazione dell'avorio arabo di Spagna nelle impugnature delle spade di Granata (fig. 44), attribuite all'epoca dell'ultimo califfo musulmano, Boabdil, e, siano esse di avorio solo, o misto a smalto e oreficeria, degne della grande tradizione decorativa precedente.

Un'altra applicazione dell'avorio elevata dagli Arabi a genere d'arte fu la tarsia in legno, largamente usata per la suppellettile interna delle moschee, specialmente in Egitto, sebbene anche Gerusalemme ne possegga ricchi esemplari nella moschea el-Aqṣā (sec. XII). La leggiera decorazione, a minuti disegni in prevalenza geometrici, rivestì i minbar (pulpiti), i cofani, le scatole, i leggii (kursī) per il Corano, ecc.; tra i quali bellissimi la tavola esagonale incrostata d'avorio e legni colorati e la scatola per il Corano, posseduti dal museo arabo del Cairo e provenienti dalla moschea del sultano Sha‛bān (1363-1376).

È incerto poi se appartengano all'arte dei Fāṭimidi d'Egitto o ai paesi dell'Asia minore, che pure lavorarono artisticamente l'avorio, certe targhette (Firenze, Museo Nazionale, collezione Carrand; tavola CXLIX) con figure di musicisti, di squisita finezza, improntate a uno stile che ha scarso riscontro con quello dei paesi finora considerati. Notiamo infine la piena individualità raggiunta dall'intaglio in avorio musulmano in Persia, dove persisteva il ricordo delle tradizioni decorative del periodo sāsānide, come fa fede il meraviglioso vaso d'avorio del Louvre con leoni e pavoni affrontati, e rabeschi svolti con la libertà e l'euritmia evidenti anche in un medaglione del Museo delle arti decorative a Parigi, ornato di turchesi, e nelle bellissime armi (impugnature di spade, pistole, ecc.).

L'importanza avuta dall'avorio nella civiltà musulmana come uno dei massimi rappresentanti della plastica non trova riscontro in India, dove invece la statuaria ebbe alte manifestazioni. Vi fu però largamente lavorato fino dai tempi più antichi, e lo attestano ricordi epigrafici e letterarî, come un'iscrizione sull'arco sud dello Stūpa di Sanchi (circa sec. II d. C.), da cui si ricava che la corporazione degl'intagliatori d' avorio di Bhilsā aveva dedicato ed eseguito parte delle sculture in pietra che lo ornano, e l'accenno nel dramma Il carretto d'argiha di Śūdraka (sec. V d. C.) al portale d'avorio della casa di Vasantasena. Il fatto che gli stessi artisti lavoravano la pietra e l'avorio conferma che l'avorio era del tutto ligio ai modi della scultura, come appare dal vastissimo materiale a noi giunto, ancora scarsamente esplorato e delimitato cronologicamente. Gli svariati oggetti che lo costituiscono, cofani, pezzi da gioco di scacchi, braccialetti, pettini, manichi di ventagli, di scacciamosche, di grandi parasoli, si distinguono quasi tutti per una lavorazione tecnicamente raffinatissima, per quanto ligia del tutto alla fastosa plastica, di cui spesso ripetono anche i soggetti. Furono eseguiti in ogni parte dell'India, che ebbe officine in ogni suo centro, a Delhi, Benares, Surat (specialmente scacchi), Bombay, e, nel sud, Travancore, dove molto si ripeterono le sculture ornamentali dei templi del Deccan, Mysore, ecc. La divisione stilistica è ostacolata anche dall'intrecciarsi delle varie correnti artistiche in un paese posto al centro degli scambî tra l'Estremo Oriente e i paesi occidentali. E così, p. es., solo approssimativamente si può datare al sec. XVI l'avorio del Museo Nazionale di Firenze (collez. Carrand; fig. 43) forse parte di cofanetto, con danzatrici dai concitati movimenti costretti nell'eleganza ornamentale del rabesco, e solo con incertezza il Migeon assegna al periodo delle conquiste musulmane nell'India un pezzo da gioco di scacchi figurante un re su un elefante, già nell'abbazia di S. Dionigi, oggi al Cabinet des Medailles della Biblioteca Nazionale di Parigi. Dai musulmani fu anche importata in India la tarsia, che ebbe fino ai nostri giorni lavorazione notevole specialmente nel Panjāb: l'influenza straniera non fu però, in genere, favorevole all'arte dell'avorio indiano e, dopo le conquiste portoghesi e inglesi, la produzione, pur distinguendosi sempre per l'abilità tecnica, s' industrializzò, favorita dall'esportazione sui mercati europei. Si ebbero opere ibride, in cui permangono non assimilate tendenze europee e orientali, per esempio mobilio intarsiato, oggetti d'uso religioso cristiano, ecc. E la decadenza perdura anche oggi.

Nella Cina, che ebbe una civiltà plastica di grandissima importanza, scarsa fu la lavorazione artistica dell'avorio, per quanto si sappia, per il sec. XVII-XVIII, di officine d'intagliatori impiantate nello stesso palazzo imperiale. Si segnalano alcune statuette, in specie quelle figuranti la dea Kuan-yin col figlio tra le braccia, e alcuni oggetti, tra cui astucci da pennelli, appoggia-mano, ecc. In genere però l'avorio non vive di vita propria, ma ripete il linguaggio della scultura; né si può annettere valore d'arte alle sfere concentriche lavorate a traforo con paziente virtuosismo, provenienti da Canton, di dove provengono pure i modelli di ville e giardini, conservati in gran parte al Victoria and Albert Museum.

In Giappone invece le industrie artistiche raggiunsero una perfezione mai raggiunta altrove, sia per l'accurata lavorazione, sia per il senso poeticamente decorativo degli artisti, abili a circoscrivere in una personale linea d'arte ogni aspetto più fugace del mondo esteriore: la maggior fioritura dell'avorio giapponese non è che un episodio del vigoroso impulso ricevuto da queste industrie, dopo la decadenza della grande scultura d'origine cinese, dalla fine del sec. XVII alla metà del XIX. Fu in questo periodo che il gusto per l'impressione suggeritrice di ampî sviluppi fantastici, caratteristico dello spirito giapponese, si espresse genuinamente nei piccoli oggetti, più di quanto non avesse potuto nelle grandi statue di bronzo e di legno delle epoche precedenti. Ad ogni fonte i Giapponesi attinsero i soggetti delle loro decorazioni, senza predilezione per la figura umana di fronte alle forme vegetali e animali, come quella delicatamente idealizzate. E questo loro raffinato sentire intuì la possibilità di bellezza connaturata alle preziose materie prime, tra cui l'avorio. Negli inro (scatole da medicina) e negli astucci da pipa esso s'unì felicemente al bambù e ad altre sostanze e fu lavorato da valenti artisti tra cui, più antichi, Riukei, Hauzan, e, più eccellente di tutti, Ikkō, che incrostò di poetiche decorazioni d'avorio meravigliosi astucci da pipa di bambù.

Da solo fu usato per i netsuke, fermagli che i nobili Giapponesi portavano per sostenere le corde degli oggetti attaccati alla cintura, scatole e astucci varî ecc., e, subito dopo il legno, l'avorio fu la materia prediletta tra le molte altre adoperate: corallo, ambra, cristallo, ecc. Fu scelto sempre nelle sue varietà più perfette, di una bianchezza suscettibile di prendere invecchiando una delicata patina leggermente gialla, e diede raffinata veste ai molti soggetti: figure grottesche, maschere, gruppi animali e vegetali, ecc., colti con grazia e immediatezza d'impressione (fig. 45). Per quanto l'evoluzione di questi oggetti ci sia oscura e possa supporsi dal sec. X al XV, li troviamo concretati come espressione d'arte alla fine del sec. XVII, e il sec. XVIII, seconda metà, segna l'apice del loro ascendere sia come moda, sia come bellezza. Sono infatti di questi anni e dei primi del secolo seguente i maggiori artisti che legarono a essi i loro nomi. Tra quelli che più specialmente lavorarono l'avorio ricordiamo, nel sec. XVIII, Hidemasa, Ki-sui, Tomoshika (servo che si annoda un sandalo, giovine che macina una medicina, già esposti a Parigi nel 1900), Tomotada, che predilesse il soggetto del bove coricato, Okatomo di Kioto, dedicatosi specialmente a fiori, piante, uccelletti, e i celebri Miwa; nel sec. XIX, Minkoko, Noriaki e Noritami, autori di piccole maschere di vivace e satirica espressione, e moltissimi altri. Si copiavano inoltre molte celebrate opere d'intagliatori in legno. La produzione dei netsuke mantenne dignità d'arte finché il Giappone lavorò per i proprî usi. Quando, dopo il 1868, si stabilirono contatti coi mercati europei, si fabbricarono netsuke in grande quantità per l'esportazione, a tutto scapito della finitezza dei singoli pezzi, sempre più scadenti anche quanto alla materia prima, artificialmente invecchiata con foglie di tè.

Ricordiamo infine, in Africa, il gruppo di oggetti conosciuto col nome di arte di Benin perché eseguito intorno alla città di questo nome (Golfo di Guinea, presso le foci del Niger), da dove i Portoghesi fino dai secoli XIV e XV esportavano in Europa l'avorio greggio (v. africa: Arte). Sembra che dai Portoghesi gli indigeni apprendessero il tipo di lavorazione, perché accanto a certi feticci d'uso locale (denti d'elefante intagliati) con decorazioni puramente africane, trovate nei templi di Benin durante la spedizione inglese del 1896, vi sono calici, corni, cucchiai, dove questa ornamentazione è mista curiosamente a forme imitate da oggetti europei. Notevoli i calici decorati a rettili, ornati geometrici, ecc., col piede circondato da grottesche figurine sedute (v. gli esemplari del Museo etnografico a Roma). Si tratta sempre però di prodotti di tipo popolare lontani, a differenza delle opere in precedenza considerate, da ogni grande significato d'arte (v. benin).

V. Tavv. CXXXIX-CL.

Bibl.: v. la parte dedicata agli avorî in opere generali, come: F. X. Kraus, Geschichte der christlichen Kunst, voll. 2, Friburgo in B. 1896-97; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, Milano 1901 segg., I, II, III, IV, VII, iii; A. Michel, Histoire de l'art, Parigi 1905 segg.; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I (Il Medioevo), Torino 1927; ed anche: L. von Sybel, Christliche Antike, Marburgo 1906-09; Ch. Diehl, Manuel d'art byzantin, Parigi 1910, 2ª ed., voll. 2, ivi 1925-26; O. M. Dalton, Byzantine Art and Archaeology, Oxford 1911, 2ª ed., ivi 1928; O. Wulff, Altchristliche und byzantinische Kunst, I, Berlino 1914: II, 1918; F. Cabrol, Dictionnaire d'archéologie chrétienne, Parigi 1906 segg., alle voci: Diptyques e Ivoires (H. Leclercq), IV, i, col. 1094 segg.; VII, ii, col. 1925 segg.; A. Kingsley Porter, Romanesque Sculpture on the Pilgrimage Roads, Boston 1923, testo e vol. I delle tavole; ed in opere speciali sulle arti minori, come: J. Labarte, Histoire des arts industriels, Parigi 1864 segg.; E. Molinier, Histoire générale des arts appliqués à l'ndustrie, I, Parigi 1896; A. Maskell, Ivoires, Londra 1905; O. Pelka, Elfenbein, 2ª ed., Berlino 1923. Ottimo e copiosissimo materiale illustrativo trovasi in: H. Graeven, Frühchristliche und mittelalterliche Elfenbeinwerke in photographischer Nachbildung I, i, Aus Samml. in England, I, Roma 1898; II, Aus Samml. in Italien, ivi 1900; A. Goldschmidt, Die Elfenbeinskulpturen aus der Zeit der karolingischen und sächsischen Kaiser, I, Berlino 1914; II, ivi 1918; id., Die Elfenbeinskulpturen aus der romanischen Zeit, I, Berlino 1923; II, ivi 1926; R. Koechlin, Les ivoires gothiques français, Parigi 1924; R. Delbrück, Die Consulardiptychen, Berlino, 1926 segg.; Antike Denkmäler, a cura del Deutsche Arch. Inst. IV, 1927; (Dittico del poeta e della musa, Monza; copertina, Milano, Tesoro del Duomo).

V. inoltre A. Haseloff, Ein altchristliches Relief aus der Blütezeit röm Elfenbeinschnitzerei, in Jahrb. der kaiserl. Kunstsamml., XXIV (1903), p. 47 segg.; H. Graeven, Heidnische Diptychen, in Mitth. der Kommiss. des Arch. Instituts in Rom, XXVIII (1913); E. Capps, The Style of the Consular Diptychs, in The Art Bulletin, X (1927), pp. 61-101; H. Graeven, Antike vorlagen byzantinischer Elfeinbenreliefs, in Jahrb. d. preuss. Kunstsamml., XVI (1897); A. Venturi, Museo archeologico di Cividale. Un cofano civile bizantino, in Le Gallerie Nazionali Italiane, III (1897), p. 261 segg.; H. Graeven, Ein Reliquienkästchen aus Pirano, in Jahrb. d. kunsthist. Samml. des Allerhöchst. Kaiserh., XX (1899), p. 5 segg.; J. von Schlosser, Die Werkstatt der Embriachi in Venedig, in Jahrb. d. kunsthist. Samml. d. Allerhöcst. Kaiserh., XX (1899), p. 220 segg.; Ch. Scherer, Elfenbeinplastik seit der Renaissance, Lipsia 1904; J. Ferrandis, Marfiles y azabaches españoles, Barcellona 1928; D. Drew Egbert, North Italian Gothic Ivories in The Museo Cristiano of the Vatican Library, in Art Studies VII (1929), pp. 169-206; O. von Falke, Elfenbeinhörner, I, Ägypten u. Italien, in Pantheon, IV (1929), pp. 511-17.

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Per l'avorio musulmano: G. Migeon, Les arts plastiques et industriels, in Manuel d'art musulman, I, 2ª ed., Parigi 1927; E. Diez, Bemalte Elfenbeinkästchen und Pyxiden der islamischen Kunst, in Jahrb. d. preuss. Kunstsamml., XXXI (1910), p. 116 segg.; E. Kühnel, Sizilien und die islamische Elfenbeinmalerei, in Zeitschr. f. bild. Kunst., 1914, p. 162 segg.; E. Diez, Die Kunst der islamischen Völker, Berlino 1915; G. C. Migeon, L'Orient musulman, Parigi 1922; E. Kühnel, Maurische Kunst, Berlino 1924; A. Gayet, L'Art Persan, Parigi 1895.

Per l'avorio indiano: M. Maindron, L'Art Indien, Parigi 1898; V. A. Smith, A History of Fine Art in India and Ceylon, Oxford 1911; E. Diez, Die Kunst Indiens, senza data ma posteriore al 1925.

Per l'avorio cinese: M. Paléologue, L'Art Chinois, Parigi 1887; S. W. Bushell, Victoria and Albert Museum Chinese Art, I, Londra 1914.

Per l'avorio giapponese: L. Gonse, L'Art japonais, Parigi 1886; Histoire de l'art du Japon, opera pubblicata dalla Commissione imperiale giapponese all'Esposizione universale di Parigi, 1900, a cura di Tadamasa Hayashi; H. Brockhaus, Netsuke, 2ª ed., Lipsia 1905; O. Grosso, Storia dell'arte giapponese, Bologna 1925; O. Kümmel, Die Kunst Chinas und Japans, Berlino 1929.

Per l'avorio di Benin: R. Pettazzoni, Avori scolpiti africani in collezioni italiane, in Boll. d'arte, V (1911), p. 388 segg.; VI (1912), p. 56 segg.

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