Azione di classe risarcitoria

Diritto on line (2014)

Romolo Donzelli

Abstract

Viene esaminata la nuova azione collettiva risarcitoria di classe prevista dall’art. 140 bis del codice del consumo, con specifico riferimento ai soggetti del giudizio, al suo oggetto, nonché ai suoi effetti.

Il quadro normativo

L’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento strumenti di tutela giurisdizionale collettiva è avvertita da tempo. Dagli anni Settanta ad oggi il novero delle azioni collettive è andato via via crescendo e sono oramai diversi i rimedi volti a tutelare situazioni giuridiche a carattere sovraindividuale. Tuttavia, l’azione di classe ex art. 140 bis c. cons. costituisce il primo rimedio collettivo a carattere effettivamente risarcitorio. La disposizione appena indicata è stata introdotta con l’art. 2, co. 446, l. 24.12.2007, n. 244, ma, differita più volte la sua entrata in vigore, con l’art. 49 della l. 23.7.2009, n. 99 ne è stato completamente rivisto ed ampliato il testo, prevendendo, inoltre, che la sua applicazione fosse limitata agli illeciti posti in essere dopo l’entrata in vigore della suddetta legge, ovvero dopo il 15 agosto 2009. Da ultimo, poi, la disposizione in questione è stata nuovamente modificata dall’art. 6 del d.l. 24.1.2012, n. 1 convertito con modificazioni dalla l. 24.3.2012, n. 27.

L’oggetto del giudizio

In generale

L’azione ex art. 140 bis c.cons. opera all’interno di un ristretto ambito di applicazione. Più precisamente l’azione di classe tutela diritti soggettivi: a) che hanno un contenuto risarcitorio o restitutorio; b) che appartengono alle categorie previste dal co. 2 dell’art. 140 bis c. cons. e cioè sono: b1) diritti derivanti dall’applicazione della medesima clausola contrattuale contenuta nelle clausole generali di contratto ex art. 1341 c.c. o nei moduli o formulari predisposti dal legislatore per disciplinare uniformemente i rapporti con i consumatori; b2) diritti derivanti da illeciti contrattuali posti in essere nei confronti dei consumatori in maniera reiterata e uniforme, ovvero tali da essere apprezzati in una dimensione unitaria ed omogenea; b3) diritti derivanti dall’utilizzo dello stesso tipo di prodotto o servizio; b4) diritti derivanti dalla stessa pratica commerciale scorretta; b5) diritti derivanti dallo stesso comportamento anticoncorrenziale. Tuttavia, l’ambito di applicazione appena indicato determina solo il perimetro maggiore entro cui si può muovere il giudizio di classe, poiché al suo interno operano ulteriori criteri selettivi. Al fine di determinare più specificamente l’oggetto del giudizio all’interno del perimetro applicativo appena descritto, occorre procedere ad alcune considerazioni di ordine preliminare, che discendono dalle modifiche apportate dall’art. 6 del d.l. n. 1/2012 convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2012. La recente novellazione, infatti, ha inciso sulla precedente disciplina dell’oggetto nei seguenti termini: a) ha chiarito che l’oggetto del giudizio è limitato ai diritti soggettivi dei consumatori caratterizzati dall’evidente «omogeneità»; b) nel caso in cui il giudizio di classe si arresti ad una pronuncia di condanna generica, ha previsto che la liquidazione delle somme dovute, alternativamente al separato avvio di giudizi individuali di completamento, possa realizzarsi per evidenti ragioni di economia processuale all’interno di una specifica fase del giudizio collettivo; c) ha allargato l’oggetto della tutela ricomprendendovi gli interessi collettivi dei consumatori.

I diritti individuali omogenei

Prima delle modifiche apportate con il d.l. n. 1/2012, l’esatta determinazione del requisito di omogeneità era particolarmente controversa. Secondo una prima lettura i diritti tutelati dall’azione dovevano essere completamente identici (App. Torino, 27.10.2010, in Foro it., 2010, I, 3530; Trib. Roma, 11.4.2011, ivi, 2011, I, 3424; Trib. Roma, 16.9.2011, in www.classactionromanettuno.org; cfr. anche App. Roma, 27.1.2012, in Corr. giur., 2013, 103; Trib. Napoli, 18.2.2013, inedita). Secondo un’altra lettura, invece, i diritti tutelati dall’azione dovevano essere solo parzialmente identici, cioè omogenei (App. Torino, 23.9.2011, in Foro it., 2011, I, 3422; Trib. Roma, 25.3.2011, ivi, 2011, I, 1889; Trib. Napoli, 9.12.2011, in www.ilcaso.it ; App. Milano, 3.5.2011, ibidem; Trib. Roma, 27.4.2012, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 903). Con la recente novellazione la questione interpretativa è senz’altro risolta nel secondo senso, poiché il d.l. n. 1/2012 ha eliminato dal testo della legge i riferimenti all’identità, sostituendoli con il requisito di omogeneità. Come conferma la lettura del co. 12 della norma (cfr. infra), dunque, i diritti da tutelare potranno dirsi omogenei al ricorrere delle tre seguenti condizioni: a) la loro fattispecie causale ha una parte (necessaria) comune, ed una parte (eventuale) differenziata; b) la parte comune deve coprire almeno le questioni giuridiche in fatto e in diritto sulla base delle quali è dato accertare la responsabilità della parte imprenditoriale; c) la parte differenziata, come detto eventuale, può coprire l’arco delle questioni da cui dipende l’estensione della responsabilità, ovvero la determinazione del quantum. È dubbio se per la determinazione esatta della parte comune occorra rifarsi ai principi giurisprudenziali elaborati con riguardo all’azione ordinaria di condanna generica, ovvero che sia sufficiente per procedere ex art. 140 bis che i diritti dei consumatori abbiano in comune solo il fatto potenzialmente produttivo di danno (cfr. Trib. Roma, 27.4.2012, cit.; cfr. App. Milano, 9.11.2013, in Giur. it., 2014, 603 con nota di A. Giussani). Diversamente, qualora si ritenga che le finalità dell’azione di classe postulino un grado di comunanza maggiormente esteso, il requisito di omogeneità dovrebbe rilevarsi in quei diritti che si differenziano esclusivamente sotto il profilo prettamente liquidatorio, non potendosi escludere, ad esempio, un comune nesso di causalità.

Gli interessi collettivi

Sempre con riferimento all’oggetto del giudizio, va evidenziato l’inciso introdotto dal d.l. n. 1/2012 nel co. 1 dell’art. 140 bis c. cons., che attualmente indica gli interessi collettivi dei consumatori quali oggetto di tutela alternativo ai diritti individuali omogenei. La nuova previsione è di difficile interpretazione. Si può in primo luogo ritenere che il singolo consumatore nel proporre la domanda di classe possa anche richiedere l’inibitoria dei comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori, nonché ottenere che vengano disposte le misure idonee previste all’art. 140, lett. b), c. cons. Diversamente, si potrebbe sostenere che il riferimento agli interessi collettivi implicitamente comporti la legittimazione ad agire – iure proprio – anche delle associazioni dei consumatori, eventualmente anche per richiedere il risarcimento del danno subìto dall’interesse collettivo indifferenziato dei consumatori, come talora riconosciuto in materia ambientale. Qualora non si voglia accedere a nessuna delle due soluzioni appena prospettate, il richiamo degli interessi collettivi – come sostenuto da parte della dottrina – perde del tutto di significato.

I soggetti dell’azione

Il proponente

Il co. 1 dell’art. 140 bis c. cons. prevede che la domanda di classe possa essere proposta da «ciascun componente della classe» ed il co. 6 richiede ai fini dell’ammissibilità della domanda che non sussista un conflitto di interessi ed inoltre che il proponente sia «in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe». Il proponente è, dunque, colui che «propone» la domanda di classe e che agisce per la classe (cfr., infatti, Trib. Roma, 25.3.2011, cit.; App. Milano, 3.5.2011, cit.; Trib. Torino, 27.5.2010, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 869, che ha ritenuto carente d’interesse ad agire il proponente che non versava nella stessa situazione prospettata in riferimento alla classe). La legittimazione ad agire è individuale, ma ciò non significa, come ritiene parte della giurisprudenza (cfr. ad es. Trib. Torino, 4.6.2011, in Foro. it., 2011, I, 2523; Trib. Torino, 7.4.2011, in Corr. giur., 2011, 1108), che anche l’azione sia individuale, bensì solo che ogni singolo membro della classe ha il potere, se ne ricorrono i presupposti, di avviare il giudizio collettivo. L’azione di classe è, infatti, un’azione rappresentativa, con effetti suoi propri, e costituisce uno strumento distinto, alternativo ed ulteriore rispetto all’azione individuale. La legge ammette che il consumatore appartenente alla classe possa anche agire mediante associazioni a cui dà mandato o comitati cui partecipa. La norma costituisce un’eccezione all’art. 77 c.p.c., secondo cui la rappresentanza processuale volontaria non può essere disgiunta da quella sostanziale. Va, dunque, escluso che la domanda possa essere dichiarata inammissibile qualora manchi il conferimento del potere sostanziale di transigere e conciliare la controversia (in questo senso, v. correttamente App. Torino, 23.9.2011, cit; Trib. Napoli, 9.12.2011, cit.; contra, tuttavia, Trib. Torino, 28.4.2011, Foro it., 2011, I, 1888; Trib. Torino, 7.4.2011, cit.).

Gli aderenti

Il co. 3 dell’art. 140 bis c. cons. disciplina la figura dell’aderente, prevendendo in primo luogo che «i consumatori e utenti che intendono avvalersi della tutela di cui al presente articolo aderiscono all’azione di classe, senza ministero di difensore anche tramite posta elettronica certificata e fax». L’atto di adesione deve contenere, oltre all’elezione di domicilio, l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto fatto valere e, con la relativa documentazione probatoria, deve essere depositato in cancelleria, anche tramite l’attore, nel termine di cui al co. 9, lett. b), ovvero entro il termine perentorio fissato dal giudice con l’ordinanza che ammette la domanda. L’adesione produce gli effetti sulla prescrizione previsti dagli artt. 2943 e 2945 c.c.; effetti che decorrono dalla notificazione della domanda, qualora il proponente abbia già raccolto adesioni tra i consumatori della classe o, per coloro che abbiano aderito successivamente, dal deposito dell’atto di adesione. Ancora il co. 3 dell’articolo, da un lato, dispone che «l’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo» e, dall’altro, rinvia al co. 15, stando al quale le rinunce e le transazioni intercorse tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi abbiano espressamente consentito; si aggiunge, inoltre, che gli stessi diritti sono fatti salvi anche nei casi di estinzione del giudizio o di chiusura anticipata – rectius, in rito – del processo. Tanto la figura del proponente quanto quella dell’aderente appaiono difficilmente comprensibili alla luce delle categorie tradizionali. Parte della dottrina ha proposto una lettura negoziale del rapporto che intercorre tra proponente e aderenti, impiegando, con diverse sfumature, l’istituto del mandato. Tuttavia il testo della legge affida al controllo giudiziale di adeguata rappresentatività il compito di consentire che gli effetti dell’attività processuale del proponente ricadano sugli aderenti e non ad un vincolo negoziale tra attore ed appartenenti alla classe; inoltre, i consumatori possono aderire anche senza dover passare per il proponente, ovvero depositando per conto proprio l’atto di adesione in cancelleria. Con l’esercizio del potere di adesione, dunque, il consumatore «fa valere» in ambito giurisdizionale il proprio diritto «avvalendosi» della tutela richiesta, cioè facendo propria la domanda di tutela giurisdizionale già avanzata dalla classe mediante il proponente, sotto il controllo del giudice e secondo le regole ed i limiti previsti dall’art. 140 bis c. cons., con il risultato che la pronuncia di merito ottenuta farà stato «anche» nei suoi confronti. Il co. 10 dell’articolo esclude l’intervento di terzi ai sensi dell’art. 105 c.p.c., sicché, stando all’interpretazione dottrinale di gran lunga maggioritaria ed alla giurisprudenza, l’aderente non acquista la qualità di parte in senso processuale (cfr. espressamente Trib. Torino, 27.5.2010, cit.; Trib. Torino, 4.6.2011, cit.; App. Torino, 27.10.2010, cit.). Non essendo parte processuale, l’aderente non dovrà nemmeno essere destinatario di un’eventuale condanna alle spese (contra, tuttavia, Trib. Milano, 13.3.2012, in www.ilcaso.it ; Trib. Napoli, 18.2.2013, cit.).

L’intervento

Come già anticipato parlando dell’aderente, il co. 10 esclude l’intervento dei terzi ex art. 105 c.p.c., sicché, ammessa la domanda di classe, gli altri consumatori potranno partecipare al giudizio solo in via di adesione. Tuttavia la norma lascia aperti taluni interrogativi tra cui l’ammissibilità degli interventi ex artt. 106 e 107 c.p.c. Parte della dottrina, rimarcando la ratio sottesa al divieto d’intervento previsto dal co. 10, ha ritenuto che detto divieto riguardi anche le altre figure previste agli artt. 106 e 107 c.p.c. Di contro, altre letture, facendo leva sul dato letterale e con l’intenzione di evitare un’eccessiva compressione del diritto di difesa del convenuto, hanno ritenuto ammissibile la chiamata del terzo per comunanza di causa, nonché la chiamata del garante; osservando, peraltro, che, in parziale deroga all’art. 40, co. 3, c.p.c., tutte le controversie così eventualmente cumulate si debbano svolgere con il rito speciale previsto dall’art. 140 bis c. cons. Il problema si pone anche in riferimento alle associazioni titolari dell’azione inibitoria ai sensi degli artt. 139-140 c. cons.; tuttavia, diversamente da quanto detto in precedenza, in questo caso la lettera del co. 10 costituisce un ostacolo difficilmente superabile anche in via di interpretazione costituzionalizzatrice, posto che le associazioni riconosciute né sono formalmente legittimate ad agire, né subiscono gli effetti del giudicato collettivo di classe; sempre che non si ritenga che il riferimento recentemente introdotto agli interessi collettivi implicitamente ammetta una legittimazione ad agire autonoma delle associazioni. Va, inoltre, evidenziata, come si dirà, l’opportunità di riconoscere agli aderenti la possibilità di intervenire nel giudizio nella fase liquidativa del processo.

Il controllo del giudice sull’azione

Come detto poc’anzi il processo di classe costituisce uno strumento di semplificazione processuale, che gestisce la plurisoggettività in termini diversi rispetto a quelli tradizionali del processo litisconsortile. In particolare gli aderenti non sono dotati di poteri processuali e non operano previsioni in virtù delle quali il giudice può separare le cause in caso di eccessivo aggravamento del processo (cfr. art. 103, co. 2, c.p.c.). La soluzione tecnica adottata consiste allora nell’attribuire al giudice, sin dalla prima udienza, il potere di verificare che, in relazione alla specifica e concreta controversia collettiva, il processo di classe sia utile, cioè idoneo a realizzare le proprie finalità (effettività, deterrenza, deflazione), nonché giusto, ovvero compatibile con le garanzie costituzionali. Per questa ragione l’art. 140 bis, co. 6, c. cons., prevede che la domanda di classe sia ammissibile solo se: a) non è manifestamente infondata; b) non sussiste conflitto di interessi; c) ricorre il rapporto di «evidente» omogeneità tra i diritti da tutelare; d) il proponente appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. Secondo l’orientamento maggioritario, il requisito di manifesta infondatezza ha la funzione di evitare iniziative abusive, pretestuose o del tutto infondate. La lettera della legge esclude, dunque, che il giudice si debba convincere dalla verosimiglianza delle allegazioni di parte (come ritenuto da App. Napoli, 29.6.2012, in www.ilcaso.it ; cfr. anche Trib. Roma, 27.4.2012, cit.) ed al contrario dovrà essere dichiarata inammissibile solo la domanda che risulti ictu oculi infondata (così, puntualmente, App. Torino, 27.10.2010, cit.). Ponendo da parte, invece, il requisito di omogeneità (cfr. retro), i due restanti requisiti riguardano il soggetto che ha proposto la domanda in qualità di proponente. Il conflitto di interessi sussiste quando ricorre un ostacolo tale da falsare l’ordinario funzionamento del rimedio e più precisamente la condotta processuale dei soggetti a cui spetta in concreto tutelare l’interesse della classe e, dunque, in primis il consumatore proponente o eventualmente l’associazione consumeristica a cui è stato dato mandato ad agire (cfr. Trib. Torino, 4.6.2010, cit.; Trib. Roma, 25.3.2011, cit.; cfr. App. Torino, 23.9.2011, cit.; App. Milano, 3.5.2011, cit.), ciò si verificherà non solo al ricorrere di un comportamento processuale della parte propriamente collusivo, ma anche nelle altre situazioni tali da disallineare l’interesse della parte rappresentativa rispetto all’interesse della classe. E ciò potrà ben realizzarsi anche in corso di causa. Per quel che riguarda il requisito di adeguata rappresentatività, occorrerà tener conto delle modalità con le quali da domanda è proposta: a) dal singolo consumatore; b) da più consumatori riuniti in comitato; c) da un’associazione, ma non riconosciuta ai sensi dell’art. 137 c. cons.; d) dalle associazioni iscritte nell’elenco ex art. 137 c. cons. Per queste ragioni, nell’ipotesi sub a) è collocata la situazione nella quale la verifica dell’adeguata rappresentatività, proprio per essere maggiormente focalizzata sul singolo consumatore, dovrà essere svolta secondo canoni mutuati dall’esperienza straniera in materia di class action, ovvero tenendo conto delle sue capacità di condurre con determinazione il giudizio in ragione delle risorse monetarie, del tempo che ha disposizione, del risultato concreto che potrebbe trarre in caso di accoglimento della domanda collettiva, della preparazione dei professionisti che lo assistono (App. Milano, 3.5.2011, cit.; Trib. Torino, 28.4.2011, cit.; Trib. Torino, 7.4.2011, cit.). Di contro, dal lato opposto, cioè nell’ipotesi sub d), particolare peso avrà il riconoscimento amministrativo ottenuto (cfr., infatti, App. Napoli, 29.6.2012, cit.; Trib. Roma, 27.42012, cit.).

Il procedimento

In generale

Il processo di classe si articola in primo grado in distinte fasi: introduttiva; di ammissibilità; istruttoria; decisoria. A queste se ne aggiunge una quinta, solo eventuale, ovvero quella liquidativa, che, come meglio vedremo, ha verosimilmente natura diversa dalle precedenti.

La fase introduttiva

Riguardo alla prima fase del procedimento, l’art. 140 bis, co. 5, sembra rinviare, seppur con qualche adattamento, alla disciplina prevista dagli artt. 163 c.p.c. ss. La domanda, infatti, va proposta con atto di citazione, che dovrà essere notificato anche all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale adito. L’atto difensivo del convenuto dovrà, quindi, essere la comparsa di costituzione e risposta prevista dall’art. 167 c.p.c., tenendo conto che le barriere preclusive ivi previste potranno ovviamente riguardare solo il diritto fatto valere dal proponente, nonché i diritti relativi alle adesioni eventualmente raccolte dal proponente prima della proposizione della domanda e richiamati nell’atto di citazione notificato. La chiamata in giudizio del terzo potrà avvenire solo nei limiti assai ristretti poc’anzi esaminati. Così anche la proposizione di domande riconvenzionali, per lo più escluse dalla dottrina maggioritaria. L’art. 140 bis c. cons. non prevede regole specifiche di giurisdizione, mentre il co. 4, prescrive che la domanda debba essere proposta al tribunale ordinario del capoluogo della regione in cui ha sede l’impresa, sebbene per la Valle d’Aosta sia competente il Tribunale di Torino, per il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia il Tribunale di Venezia, per le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo e il Molise il Tribunale di Roma, per la Basilicata e la Calabria il Tribunale di Napoli. È dubbio se la regola di competenza territoriale appena ricordata sia derogabile ex art. 28 c.p.c.

La fase di ammissibilità

La fase di ammissibilità costituisce, come detto, il momento centrale del giudizio di classe. Il sindacato di ammissibilità va svolto dal tribunale in composizione collegiale nella prima udienza con la partecipazione del pubblico ministero a cui deve essere notificato – come detto – l’atto di citazione. Va evidenziato con forza che la corretta impostazione del processo deve avvenire in questa sede, sicché questa fase, pur preliminare, potrebbe anche articolarsi in più udienze (cfr. Trib. Milano, 20.12.2010, in Foro it., 2011, I, 617; App. Milano, 3.5.2011, cit.; Trib. Roma, 27.4.2012, cit.). Per questa ragione, come già accennato, deve escludersi che le condizioni di ammissibilità possano o debbano essere valutate solo sulla base delle mere affermazioni delle parti, come di consueto avviene in riferimento alle condizioni dell’azione. Occorrerà, invece, procedere agli atti di istruzione necessari al riguardo (contra, App. Milano, 3.5.2011, cit.). Va, inoltre, evidenziato che gli interessi e l’oggetto del giudizio di ammissibilità hanno carattere indisponibile e ciò è dimostrato: a) dalla partecipazione del pubblico ministero; b) dal fatto che il proponente agisce per la tutela degli interessi della classe e degli aderenti, la cui partecipazione al giudizio è dimidiata; c) dall’efficacia del processo nei confronti dei consumatori non aderenti, i quali subiscono l’effetto consumativo del potere di agire ex art. 140 bis c. cons. Ne deriva che la mancata contestazione circa la sussistenza dei requisiti di ammissibilità da parte del convenuto non determinano ipso iure la pacificità dei fatti allegati; inoltre, occorre ritenere che il collegio sia titolare di poteri di iniziativa ufficiosa sul piano istruttorio. Ulteriore profilo problematico è quello dei rapporti tra la prima udienza dedicata all’ammissibilità della domanda e l’udienza ex art. 183 c.p.c. Al riguardo appare corretta la soluzione offerta dalla giurisprudenza che ritiene che il potere di modificare e precisare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate spetti alle parti proprio in sede di udienza di ammissibilità (Trib. Milano, 20.12.2010, cit.; App. Milano, 3.5.2011, cit.).

L’ordinanza sull’ammissibilità della domanda

Ai sensi dell’art. 140 bis, co. 6, c. cons., sull’ammissibilità della domanda il tribunale si pronuncia con ordinanza. Se il vaglio ha esito negativo, con il provvedimento il giudice regola le spese, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c. ed ordina la più opportuna pubblicità a cura e spese del soccombente. Se la domanda è ammessa, invece, l’ordinanza diviene la sede per l’esercizio di ampi poteri di programmazione e gestione processuale da parte del giudice e copia ne è trasmessa, a cura della cancelleria, al Ministero dello sviluppo economico, che provvede ad ulteriori forme di pubblicità, anche mediante la pubblicazione sul proprio sito internet. Con tale ordinanza il giudice: - fissa i termini e le modalità della più opportuna pubblicità del provvedimento, che è prevista a pena di improcedibilità (sulla costituzionalità della previsione, v. Trib. Torino, 7.4.2011, cit.; Trib. Torino, 28.4.2011, cit.); - definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri che verranno impiegati per valutare l’appartenenza (per una determinazione della classe più ristretta rispetto alla domanda attorea, v. Trib. Roma, 25.3.2011, cit.); - fissa un termine perentorio entro cui aderire, che deve essere superiore a 120 giorni dalla scadenza di quello stabilito per provvedere alla pubblicità prescritta; - determina il corso della procedura – aggiunge il co. 11 – assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con questa stessa ordinanza o con altra successiva, modificabile o revocabile in ogni tempo, il giudice può inoltre: - prescrivere le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti; - onerare le parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti; - regolare nel modo che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria e disciplinare ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio. Ai sensi del co. 7, l’ordinanza con la quale il collegio ammette o non ammette la domanda di classe è soggetta a reclamo innanzi la corte d’appello nel termine di trenta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore. La corte d’appello decide in camera di consiglio nel termine di quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il reclamo avverso l’ordinanza che ammette la domanda non sospende il procedimento innanzi il tribunale ed ha carattere pienamente devolutivo (App. Napoli, 29.6.2012, cit.). Avverso il provvedimento della corte d’appello la legge non contempla il ricorso per cassazione, né deve ritenersi ammissibile il ricorso straordinario ex art. 111, co. 7, Cost. (cfr. di recente Cass., 14.7.2012, n. 9772, in Riv. dir. proc., 2013, 191 ss.). Occorre, invece, interrogarsi se l’ordinanza che ammette la domanda sia revocabile o modificabile successivamente. Al riguardo sembra preferibile la soluzione favorevole.

La fase istruttoria

Come già in precedenza evidenziato, le forme del procedimento sono rimesse in larga misura al giudice, che le determina mediante l’esercizio di penetranti poteri di programmazione processuale. La questione è disciplinata, come già ricordato, dall’art. 140 bis, co. 11, c. cons., che pone attenzione a tre distinti profili: la programmazione e la determinazione dell’itinerario processuale; la regolamentazione dell’istruzione probatoria; il rapporto tra il proponente e gli aderenti nella gestione del processo. Sotto il primo profilo, la latitudine dei poteri conferiti al giudice è estremamente ampia. Al giudice è, infatti, inequivocabilmente attribuito il potere di «determinare il corso della procedura». È, dunque, possibile ritenere che il giudice sia autorizzato anche a fissare barriere preclusive al fine di organizzare razionalmente le attività processuali necessarie per rendere matura la causa per la decisione. L’esercizio di questo potere è vincolato a tre criteri funzionali ed incontra un limite strutturale ineludibile, ovvero il principio del contraddittorio, evocato per due volte dallo stesso co. 11. Ciò significa che la stessa attività di programmazione processuale deve essere oggetto di discussione nel contraddittorio con le parti, affinché queste non solo possano influire sulla decisione organizzativa, ma soprattutto sia garantito il loro diritto alla predeterminazione delle difese (arg. ex artt. 3, co. 2, 24, co. 2, 111, co. 2, Cost.). Sul piano funzionale, invece, la regolamentazione processuale deve garantire «l’equa, efficace e sollecita gestione del procedimento». Questi tre canoni ben si apprezzano in riferimento a quanto poc’anzi osservato, ovvero con particolare riguardo al rapporto tra proponente ed aderenti, nonché alla disciplina dell’istruzione probatoria. Sotto il primo profilo, il giudice deve garantire che per tutto il corso del procedimento i poteri processuali del proponente siano esercitati adeguatamente e nell’interesse della classe ed al contempo deve garantire che gli aderenti siano informati degli sviluppi del processo. Secondo parte della dottrina, infatti, non deve escludersi un’eventuale – sebbene eccezionale – sostituzione del proponente, laddove questi si venga a trovare in conflitto con gli interessi della classe, rimanendo il giudice titolare dei poteri di controllo del potere di azione anche superata la fase di ammissibilità. Coerentemente l’art. 140 bis, co. 11, c. cons. prevede che il giudice oneri le parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti. Riguardo, invece, all’istruzione probatoria è previsto che questa possa essere regolata dal giudice «nel modo che ritiene più opportuno ... omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio», prescrivendo, anche, «le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti». È la mancata partecipazione attiva al processo da parte degli aderenti che giustifica regole eccezionali rispetto alla disciplina probatoria del processo ordinario ed in ispecie: a) l’apertura ai poteri ufficiosi nei termini anzidetti (v. retro, § 5.3, con riguardo al giudizio di ammissibilità); b) l’utilizzabilità di prove atipiche; c) eventuali semplificazioni probatorie dirette ad agevolare l’attore circa la prova del fatto; d) l’inutilizzabilità da parte del proponente degli strumenti di prova che postulano la disponibilità del diritto in contesa. Più in particolare il proponente non potrà deferire o riferire giuramento, nonché rendere confessione sui fatti che non siano esclusivamente personali. Al contrario le dichiarazioni sfavorevoli rese dall’imprenditore produrranno la prova legale del fatto. La mancata contestazione del fatto da parte del proponente non renderà pacifico il fatto stesso, bensì il giudice potrà unicamente trarvi argomenti di prova. I consumatori aderenti, avendo interesse nella causa, non potranno essere assunti come testimoni, tuttavia si può ritenere possano essere ascoltati dal giudice liberamente.

La fase decisoria

La fase decisoria del procedimento è regolata dal co. 12. Ovviamente il processo di classe potrà ben chiudersi in rito, per la mancanza dei presupposti processuali o per l’inammissibilità della domanda. Nel primo caso, la forma del provvedimento sarà quella ordinariamente prevista ai sensi dell’art. 279 c.p.c., nel secondo, invece, come visto, il giudice provvederà con ordinanza. Nelle pronunce di rito va annoverata anche quella con la quale il giudice esclude l’aderente dalla classe, da rendersi con ordinanza reclamabile al collegio; e ciò al fine di svincolare rapidamente l’aderente dal processo di classe. Per quel che riguarda le pronunce di merito, l’art. 140 bis, co. 12, c. cons. prevede che «se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme». Le pronunce di accoglimento della domanda potranno, dunque, avere almeno un duplice contenuto. Qualora sia possibile procedere ad un apprezzamento standardizzato del danno mediante liquidazione equitativa, il giudice, non dovendo accertare le infinite questioni personali da cui dipende la determinazione del quantum, potrà disporre la condanna del convenuto al pagamento delle somme. Qualora, invece, il grado di differenziazione tra le diverse pretese non sia superabile mediante il criterio equitativo, il tribunale dovrà limitarsi a stabilire il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme. Con la recente riforma operata dalla l. n. 27/2012, che ha convertito con modificazioni il d.l. n. 1/2012, questa sentenza va senz’altro qualificata in termini di condanna generica. Ciò significa che potranno ricevere applicazione gli artt. 2818 c.c. e 2953 c.c. L’opinione prevalente esclude che il processo di classe possa addivenire a pronunce di mero accertamento (cfr. App. Torino, 27.10.2010, cit.). È anche dubbio se il giudice possa articolare la propria decisione, pronunciando una condanna generica (o provvisionale) a favore di taluni aderenti ed una condanna specifica a vantaggio di altri. La lettera dell’art. 140 bis c. cons. non prevede, inoltre, la possibilità di adottare condanne con contenuto inibitorio o ripristinatorio.

La fase liquidativa

Come già più volte anticipato, la l. n. 27/2012, che ha convertito con modificazioni il d.l. n. 1/2012, ha introdotto la possibilità che la liquidazione delle somme dovute ai consumatori aderenti avvenga all’interno dello stesso processo di classe e non in successivi processi individuali di completamento. Questa opzione si apre nel caso di condanna generica del convenuto. «In questo ultimo caso – prevede il novellato co. 12 – il giudice assegna alle parti un termine, non superiore a novanta giorni, per addivenire ad un accordo sulla liquidazione del danno. Il processo verbale dell’accordo, sottoscritto dalle parti e dal giudice, costituisce titolo esecutivo. Scaduto il termine senza che l’accordo sia stato raggiunto, il giudice, su istanza di almeno una delle parti, liquida le somme dovute ai singoli aderenti». Gli scenari che, dunque, possono aprirsi a seguito della pronuncia sono i seguenti: a) le parti raggiungono l’accordo; b) le parti non raggiungono l’accordo. In riferimento alla prima ipotesi, rimasti fermi il co. 15 dell’art. 140 bis c. cons., nonché l’art. 15 d.lgs. 4.3.2010, n. 28, si deve ritenere che l’accordo non possa essere di per sé vincolante nei confronti degli aderenti. Inoltre, pare contrario alla lettera della legge e alla ratio della norma che il proponente che abbia conciliato poi possa – o addirittura debba – avanzare l’istanza di liquidazione delle somme per i consumatori che non hanno accettato l’accordo sulla liquidazione. Conseguentemente, per i consumatori estranei all’accordo la determinazione dovrà necessariamente avvenire attraverso l’esercizio separato dell’azione di cognizione individuale. L’altro scenario si apre, invece, nel caso in cui le parti non raggiungano l’accordo transattivo. In tal caso, prevede la norma lapidariamente, «il giudice, su istanza di almeno una delle parti, liquida le somme dovute ai singoli aderenti». Gli interrogativi ai quali occorre dare risposta allo schiudersi di questa seconda prospettiva sono ancor più gravi dei precedenti e si riferiscono alla tutela del diritto di difesa, al rispetto del principio di parità delle armi, nonché del diritto al contraddittorio dei consumatori aderenti. Questa fase liquidativa, infatti, non riguarda più le questioni comuni, ma le questioni personali residue da cui dipende la liquidazione, ovvero quelle che il giudice non era riuscito ad accertare in guisa collettiva. Preso atto di questo, si aprono due possibili opzioni interpretative. Si può ritenere che questa appendice del giudizio, avendo carattere puramente liquidativo, non sia volta all’accertamento con efficacia di giudicato del quantum debeatur, bensì sia unicamente diretta a far conseguire un titolo esecutivo ai singoli aderenti. Muovendosi in questa direzione, il co. 12 avrebbe introdotto un subprocedimento sommario semplificato esecutivo con successiva possibilità di contestare nel contraddittorio con il consumatore aderente l’effettiva sussistenza ed l’ammontare del quantum. La seconda soluzione prende atto che questo segmento, riguardando le questioni personali da cui dipende la liquidazione, non ha carattere collettivo ma propriamente litisconsortile. Constatazione quest’ultima, gravida di conseguenze interpretative, soprattutto legate al fatto che in questo segmento del processo la posizione del proponente non è più quella del class representative, ma, come già si verificava nei procedimenti antidiscriminatori collettivi, del legittimato straordinario. Ne consegue che in questa fase del giudizio non possono trovare applicazione le norme che nel processo di classe dipendono dalla particolare posizione processuale che spetta al proponente ed in particolare il divieto di intervento previsto da co. 10, nonché l’inapplicabilità dell’art. 103, co. 2, c.p.c. Sicché il consumatore aderente potrà intervenire nel giudizio volontariamente o coattivamente ai sensi degli artt. 105, 106 e 107 c.p.c. Non volendo seguire questa ricostruzione pare difficile sostenere che la sentenza resa sulla liquidazione possa vincolare gli aderenti anche in caso di giudicato sfavorevole come disposto dal co. 14.

Le impugnazioni

La disciplina delle impugnazioni nel processo di classe è estremamente lacunosa. L’art. 140 bis c. cons. si limita, infatti, a dettare regole specifiche con esclusivo riguardo alla concessione dell’inibitoria della provvisoria esecutività della sentenza di condanna, disponendo che la corte d’appello, richiesta dei provvedimenti di cui all’art. 283 c.p.c., debba tener conto dell’entità complessiva della somma gravante sul debitore, del numero dei creditori, nonché delle connesse difficoltà di ripetizione in caso di accoglimento del gravame. Inoltre la corte potrà disporre che, fino al passaggio in giudicato della sentenza, la somma complessivamente dovuta dal debitore sia depositata e resti vincolata nelle forme ritenute più opportune. Legittimate all’impugnazione saranno le parti e non l’aderente, sebbene parte della dottrina ammetta quest’ultima possibilità. Una diversa impostazione va probabilmente seguita con riferimento alla sentenza che chiude la fase liquidativa del processo introdotta con la recente riforma. Al riguardo, si potrebbe applicare in via analogica il co. 4 dell’art. 111 c.p.c.

Gli effetti del giudizio

Per quel che riguarda l’efficacia della sentenza di merito che chiude il processo di classe, l’art. 140 bis, co. 14, c. cons. espressamente prevede che «la sentenza che definisce il giudizio fa stato anche nei confronti degli aderenti». È poi precisato che «è fatta salva l’azione individuale dei soggetti che non aderiscono all’azione collettiva». A seguito della recente riforma, è dubbio se l’efficacia pienamente vincolante del provvedimento prevista dal co. 14 si riferisca anche alla sentenza che chiude la fase liquidativa. Le opzioni astrattamente prospettabili sono due: o si ritiene che detta sentenza non sia vincolante in caso di giudicato sfavorevole, o si ritiene che la lettera del co. 14, non modificata dalla riforma, costituisca una espressa deroga ai principi che ordinariamente disciplinano la perimetrazione soggettiva dell’efficacia della sentenza. Se si segue questa seconda opzione, è ancor più viva l’esigenza di riconoscere ai consumatori aderenti la possibilità di intervenire in questa fase, nonché di impugnare la sentenza determinativa del quantum, argomentando sulla base del co. 4 dell’art. 111 c.p.c. Riguardo all’effetto consumativo del potere di azione, la seconda parte del co. 14 chiarisce che, nonostante il regime di opt-in prescelto, il nostro ordinamento ha previsto a favore della classe colpita dall’illecito una sola ed unica azione collettiva risarcitoria. È previsto, infatti, che in relazione ai «medesimi fatti» e nei confronti della stessa impresa non possano essere promossi ulteriori giudizi di classe dopo la scadenza del termine per aderire fissato dal giudice ai sensi del co. 9. È dubbio, invece, se l’effetto consumativo del potere di azione appena evidenziato si produca solo con la pronuncia di merito o se ciò avvenga anche a fronte di una chiusura in rito. La prima soluzione è di certo preferibile.

Il coordinamento tra i diversi rimedi collettivi

Come già indicato, l’unicità dell’azione di collettiva risarcitoria sancita dal co. 14 esclude che in relazione ai «medesimi fatti» e nei confronti della stessa impresa possano essere promossi diversi e distinti giudizi di classe dopo la scadenza del termine per aderire fissato dal giudice ai sensi del co. 9. Ciò significa che l’azione è effettivamente di classe e non di gruppo. A tal proposito è, dunque, previsto che, qualora entro il termine fissato per le adesioni siano avviate altre iniziative di classe, sarà disposta la riunione d’ufficio nel caso in cui i due procedimenti collettivi pendano davanti allo stesso ufficio giudiziario; diversamente, il giudice successivamente adito ordinerà la cancellazione della causa dal ruolo, assegnando un termine perentorio non superiore a sessanta giorni per la riassunzione davanti al tribunale previamente adito (cfr. Trib. Torino, 28.4.2011, cit.; App. Torino, 23.9.2011, cit.). Il problema del coordinamento tra diversi rimedi collettivi riguarda anche i rapporti tra azione di classe e le azioni inibitorie previste dagli artt. 37, 139 e 140 c. cons. Secondo l’orientamento assolutamente prevalente in dottrina, avallato anche dalla giurisprudenza, la possibilità di trattare e decidere congiuntamente le due cause collettive dovrebbe essere esclusa, poiché, da un lato, il vincolo di connessione che le lega o è improprio o coinvolge solamente le rispettive causae petendi, dall’altro, diverse sono le regole di competenza, diversi i riti e diversi sono i legittimati ad agire.

La conciliazione

Il co. 15 dell’art. 140 bis c. cons. prescrive che «le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito». Ciò significa che al proponente manca il potere di conciliare o transigere con efficacia vincolante per la classe. Ponendo da parte l’ipotesi disciplinata dal co. 15 (cfr. retro), più in generale va rimarcato che il proponente, se esce dal piano della dialettica processuale, spostandosi sul piano dei poteri dispositivi sostanziali, non opera come rappresentante della classe, ma a titolo puramente individuale. Il legislatore, di contro, avrebbe potuto contemplare un sindacato sulla meritevolezza dell’accordo transattivo concluso al fine di estendere l’efficacia vincolante del negozio anche agli aderenti. Oppure avrebbe potuto prevedere un meccanismo di approvazione dello stesso, facendo leva sul meccanismo di silenzio-assenso recentemente introdotto all’art. 178, co. 4, l. fall.

Fonti normative

Art. 140 bis c. cons.

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