BAROVIER

Enciclopedia Italiana (1930)

BAROVIER (Baroverio, Barroero, Baroer, Berovier, ecc.)

Giulio Lorenzetti

Famiglia di maestri vetrarî muranesi. Nella storia dell'arte vetraria veneziana la famiglia muranese dei Barovier occupa uno dei posti più eminenti, tanto da oscurare la rinomanza delle altre numerose e non meno celebri famiglie di vetrarî conterranei. Tuttavia non un vetro soffiato e smaltato di produzione muranese, conservato oggi, si può indicare come uscito dall'antica bottega di questa famiglia, mancando segni, sigle, indicazioni precise con cui poter identificare e distinguere la produzione delle varie botteghe, di cui ci parlano le testimonianze antiche.

Da queste testimonianze il nome dei Barovier appare legato all'arte vetraria muranese di quel periodo in cui dal vetro quattrocentesco, di forme sobrie e robuste, a forti colorazioni unite, imitate dalle pietre rare e impreziosito da pitture decorative a smalto, passò alla concezione e alla creazione tutta nostra del celebre "cristallo" cinquecentesco veneziano, vetro a tonalità tenuissime, trasparente, sottile, aereo nell'eleganza mirabile della linea e della forma.

Originarî dalla marca trevigiana e più precisamente da Castelfranco, secondo le più recenti ricerche, i Barovier avrebbero trasportato la loro dimora a Murano nel sec. XIV. Un Bartolomeo de Muriano fiolarius principalis, che con questo epiteto è menzionato in un atto del podestà di Murano del 1348 e che appare già morto nel 1405, è il capostipite a cui si riconnettono gli altri maestri vetrarî, poiché dall'ultimo dei tre figli di Bartolomeo, Iacopo o Iacobello, discese Angelo il maestro che diede la più alta fama all'intera famiglia. Dei figli del ricordato Bartolomeo, Iacobello si recò nel 1416 ad esercitare l'arte dei vetri comuni a Padova come risulta da un atto del podestà di Murano. Fra i nove suoi figli, che quasi tutti sono ricordati nelle antiche carte podestarili dell'isola quali maestri vetrarî, Angelo fu il vero fondatore della gloria della famiglia; la quale ebbe successivamente a suddividersi in varî rami, i cui nomi dell'angelo, della ruota, della campana trovarono corrispondenza nelle insegne delle rispettive fornaci e negli stemmi con cui si fregiava ciascun ramo della famiglia.

Poche le notizie e le date sicure su Angelo Barovier e la maggior parte non riguarda la sua operosità "vetraria". È ricordato in atti del 1424 e del 1431; nel 1434 e nel 1435 appare eletto camerlengo e cancelliere della comunità di Murano. Sembra che a due riprese, fra il 1435 e il 1443, e fra il 1445 e il 1449, egli sia rimasto assente dall'isola, forse invitato a soggiornare, come appare confermato da altre testimonianze, presso corti e principi italiani e stranieri, finché nel 1453 lo si ritrova a Venezia nella carica di cancelliere del patriarca. Dopo un soggiorno presso Francesco Sforza, nel 1455 Angelo è di ritorno nell'isola, dove con il suo intervento, l'anno appresso, 1456, il podestà di Murano conclude un accordo pacificatore tra i Barovier e la famiglia degli emuli vetrarî Dalla Pigna. Un altro invito alla corte di Firenze avrebbe dovuto allontanare ancora il maestro dalla sua casa, se non che nel 1459, egli ottiene una proroga alla partenza e l'anno stesso, ormai vecchio e, sembra, malandato in salute, affida la direzione della sua bottega a uno dei figli, a Marino: ma nel 1460 (m. v.) tra il 18 e il 24 febbraio risulta avvenuta la morte del maestro, che venne sepolto nella chiesa di S. Stefano di Murano, ove esisteva la tomba di famiglia, con inciso, in lode del maestro, un epitaffio latino.

Oltre a quest'epigrafe, il cui testo ci fu tramandato, ed oltre a un epigramma composto in suo onore dal poeta ferrarese Ludovico Carbone, due altre importanti testimonianze storiche sono particolarmente da ricordare.

L'una è tratta dall'opera De Architectura, trattato composto circa il 1460 per incarico del re d'Ungheria Mattia Corvino da Antonio Averulino, detto il Filarete, contemporaneo ed amico del Barovier, mentre il nostro maestro era ancora in vita, l'altra è costituita da una scheda manoscritta, rinvenuta e pubblicata dal Cicogna, che un monaco Giannantonio, probabilmente un Benedettino del convento di S. Giorgio Maggiore di Venezia, ebbe a preparare in aggiunta alla Chronica de Temporibus Mundi e ad intercalare nell'esemplare già proprietà della biblioteca del predetto convento di S. Giorgio, poco dopo la pubblicazione della Chronica stessa, edita a Norimberga nel 1493. Tale scheda, con cui l'autore, intendendo di colmare una lacuna, fa larga menzione del suo maestro, il celebre filosofo e scienziato Paolo Godi detto il Pergolano, piovano di S. Giovanni Elimosinario, morto nel 1455, alle cui frequentatissime lezioni ebbe ad intervenire anche lo stesso Angelo Barovier, c'informa come il dotto lettore era da ritenersi primus et auctor et inventor colorum tam insignium ac varie commistorum, quibus hodie quoque vitrearii artifices Muriani utuntur. Queste ricette di composizioni e di miscele, confidate da Paolo Godi al nostro Barovier, furono da questo applicate praticamente alla colorazione dei vetri, con risultati sorprendenti, ed esse, lasciate poi dal padre in eredità alla figlia Marietta, costituirono il glorioso segreto dei Barovier fintanto che Giorgio Ballarin, un dalmata .fameio presso la famiglia dei nostri vetrarî, non riuscì a carpirne e a trascriverne il testo. Mentre da questa interessante testimonianza di un contemporaneo, la fama e l'abilità di Angelo Barovier appaiono esclusivamente limitate nel campo della tecnica vetraria, il brano tratto dal De Architectura del Filarete tende altresì a mettere in rilievo la perizia e l'eccellenza del Barovier, oltre che nella composizione di paste vitree, e nella creazione di "bei lavori christallini", come autore d'intarsî vitrei e di mosaici.

È da notare però che le due versioni a noi pervenute del testo, nella sua lezione italiana, originale di mano del Filarete, e in quella latina, traduzione posteriore, non si corrispondono esattamente nel contenuto; nella prima infatti si parla di decorazioni "intarsiate" di vetri colorati, "a guisa di mosaico", che dovevano esser eseguite da "maestro Agnolo da Murano... quello che fa quelli belli lavori cristallini", mentre gli altri ornamenti in vetro "piani" all'esterno con dentro "... iscolpite figure e animali e varie cose... in forma di diaspri..." dovevano esser lavorati dallo stesso Averulino; nella versione latina invece, oltre che accennare alle surriferite tecniche, si fa menzione altresì della incrostazione a vetri dipinti, non già con la tecnica a smalto, ma decorati nella parte posteriore (delicto intus vitro), lavori tutti in cui si sarebbe provata la bravura del Barovier vetrariae artis peritissimus.

Ma non solo per l'abilità tecnica a cui essenzialmente Angelo avrebbe, secondo queste testimonianze storiche, affidata la sua celebrità, ma altresì per il gusto d'arte manifestato nell'ornar di pittura vasi, coppe, piatti ed ogni altra produzione vetraria soffiata, si resero famosi i figli del celebre Angelo, e soprattutto Marino che nel 1459 prese la direzione della fornace paterna, durante gli ultimi anni di vita del padre, e che, ricordato dallo stesso Filarete nel De Architectura come autore pur esso di opere musive, dopo aver ricoperte varie cariche pubbliche nell'isola (era gastaldo dell'Arte dei vetrarî in Murano nel 1462) sembra abbia terminato i suoi giorni prima del 1490; Marietta, la quale, alla morte del fratello Marino si pose insieme col terzo fratello Giovanni, menzionato dal 1481 al 1502 (?), alla testa della vecchia loro "bottega".

Marietta pare che abbia atteso in modo particolare alla decorazione a smalto dei vetri che uscivano dalle loro fornaci; per queste ragioni ottenne anzi, nel 1497, una concessione del doge Agostino Barbarigo, per poter tener accesa, a suo uso esclusivo, una piccola fornace (muffola), in cui cuocere i vetri decorati a smalto; nel quale lavoro ob eius mirum artificium manus, di cui ipsa fuit inventrix, ebbe a raccogliere larga fama. Quindi non già al padre Angelo, a cui fu senza alcun fondamento attribuita la "coppa nuziale" del museo Correr di Venezia, ma piuttosto (senza però che nessuna documentazione ce ne possa dare sicura garanzia) ai figli e più particolarmente alla figlia Marietta potrebbero esser ascritti, insieme con questo raro e stupendo pezzo dell'arte vetraria muranese del sec. XV, altri preziosi esemplari, come quelle mirabili coppe, bicchieri, tazze conservate nello Schlossmuseum di Berlino, nelle collezioni Dutuit e del barone Maurice de Rothschild a Parigi, nelle raccolte del South Kensington Museum di Londra, ecc. Di forma assai semplice, con ampie superfici lisce, questi vetri, prodotti fra la seconda metà del '400 e l'inizio del '500, di colorazioni a tinte cupe imitanti le pietre rare, come il rosso rubino, il verde smeraldo, il viola ametista, ecc., sono ornate con pittura a smalto, a semplici motivi ornamentali, a strisce, a squame, a puntini, a racemi, o con figurazioni di soggetti sacri e soprattutto profani, tratte da incisioni e xilografie del tempo, esprimenti episodî erotici, mitologici, poetici, o infine, di sovente, con stemmi nobiliari e con ritratti degli sposi, per cui erano preparati e offerti.

Oltre ai tre più noti figli di Angelo, altri due suoi figli esercitarono l'arte paterna; Francesco (menzionato nel 1470) e Ludovico (già morto nel 1517) a cui conviene aggiungere un sesto figlio, finora non ricordato, Nicolò che viene menzionato in alcuni atti del 1479.

Il figlio di Ludovico, Anzoletto od "Angelo il giovane", (menzionato dal 1494 al 1519) ebbe una produzione vastissima e assai celebrata, così che la sua fornace, visitata nel dicembre del 1510 da "monsignor di Vandom con gli altri signori francesi" (Diarî di Marin Sanudo), pare fosse ritenuta in quel tempo la più importante dell'isola.

L'attività dei Barovier non si spense nemmeno nei periodi che rappresentano i momenti del maggior decadimento dell'arte vetraria muranese fino a che si avviò a riacquistare fama non indegna del glorioso passato. Allorché, circa il 1860, Antonio Salviati si pose a capo di questo movimento di risveglio e di risurrezione, uno dei maestri dell'isola su cui egli poté fondare più sicure speranze, fu appunto un Barovier, Giovanni. Nonostante che questi fosse ormai giunto alla maturità (era nato il 16 gennaio 1839) ed avesse trascorsa la sua giovinezza per campar la vita nell'umile mestiere di soffiar bottiglie e flaconi a stampo, la secolare e gloriosa tradizione dell'arte si risveglia in lui quasi per virtù atavica, sì che egli s'improvvisa in poco tempo maestro abilissimo e di fine gusto nel riprendere e riprodurre le antiche forme dei vetri muranesi. E accanto a lui, suoi allievi, si affermarono ben presto, sorprendenti prodigi di bravura e di precocità, i suoi nipoti, i tre fratelli Benedetto (nato il 18 agosto 1857), Benvenuto (nato il 26 giugno 1858) e Giuseppe (nato il 25 luglio 1863), dei quali i due ultimi vennero assunti a soli 14 anni di età, come maestri vetrarî, dalla "compagnia Venezia-Murano" diretta dallo stesso Salviati.

Lasciata però pochi anni dopo la "compagnia" e iniziata una libera e indipendente attività, zio e nipoti Barovier si dedicarono particolarmente alla lavorazione delle paste vitree colorate, la tradizione gloriosa della famiglia, nonché allo studio e alla riproduzione delle famose coppe murrine, degli antichi vetri fenici e delle "filagrane", imitandone i preziosi esemplari conservati nelle raccolte di Roma e di Napoli.

La grande virtuosità tecnica acquistata e la innata passione per la loro arte li spinsero non solo a ideare nuove complicate fantasie di vetri soffiati, a draghi, a delfini e a serpi marini, ma a ritrovare nuove composizioni di paste vitree, come quella denominata la "madreperla", a ritrovare e ad usare i fumi di cloruro stannoso per iridare a fuoco i vetri così da ottenere una delicata intonazione antica, ad applicare la famosa "avventurina" alle conterie ed ai vetri soffiati. Inoltre Benvenuto, dedicatosi specialmente alla preparazione delle varie miscele delle paste vitree, riuscì a trovare una composizione chimica economica per fabbricare le famose perle di corniola e di rubino, senza adoperare il cloruro d'oro che le rendeva costosissime; ottenutone nel 1907 il brevetto, apriva, accanto alla vecchia fornace di casa dei vetri soffiati, una fabbrica di conterie, sviluppando specialmente la fabbricazione di quelle perle in corniola e in rubino.

La celebrità conseguita dai Barovier non solo in grazia della loro sorprendente abilità tecnica, ma altresì per la versatilità dei loro prodotti, venne consacrata nelle grandi mostre d'arte mondiali, a cui i Barovier parteciparono con grande onore, come quella universale di Parigi del 1889, la mostra di Londra del 1891, quelle successive di Vienna, Copenaghen, Berlino, ecc. Morto nel 1909 Giovanni, il vecchio zio, i tre nipoti continuarono la loro produzione nell'isola, finché, costretti nel 1916 ad esulare a causa della grande guerra, trasportarono la loro fornace a Livorno, ove seguitarono, sebbene in età assai avanzata, a dirigere il lavoro e la produzione.

Tornati nella loro isola subito dopo l'armistizio, la direzione artistica e commerciale della vetreria dei Barovier venne assunta dai due figli di Benvenuto, Nicolò ed Ercole. Pur avviata per nuove vie, la produzione dei vetri Barovier prosegue le gloriose tradizioni degli avi nel ricercare nuove composizioni e invenzioni di paste vitree a forti ed intense colorazioni, audaci concezioni basate su vivaci effetti pittorici od ispirate con plastica stilizzazione alle forme umane, alla flora e alla fauna marina e terrestre, in cui la delicatezza delle intonazioni cromatiche e l'applicazione abilissima delle varie tecniche, concorrono a comporre creazioni di squisito buon gusto per linea e per colore, che la solida e vasta organizzazione commerciale dell'azienda riesce a diffondere dappertutto e specialmente nelle lontane Americhe. (V. Tav. a colori).

Bibl.: A. Averulino detto il Filarete, De Architectura, ed. da W. von Oettingen, in Quellenschriften für Kunstegeschichte, Vienna 1890, pp. 302, 361-362; J. Morelli, Bibliotheca Graeca et Latina, I, p. 413; G. A. Moschini, Guida per l'isola di Murano, Venezia 1808, p. 12; A. E. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, raccolte ed illustrate, VI, pp. 394, 457, 466 segg.; V. Lazzari, Les verreries de Murano, in Gaz. des Beaux-Arts, XI (1861), p. 323 segg.; M. Caffi, Lettera di frate Simone da Camerino a Francesco Sforza, duca di Milano, in Archivio stor. it., XXVI (1877), pp. 323 e 327; E. Müntz, Les arts à la cour des papes pendant le XV et XVI siècle, II, Parigi 1879, pp. 294-95; C. A. Levi, L'arte del vetro in Murano nel Rinascimento e i Berroviero - Note storiche, Venezia 1895; F. Malaguzzi-Valeri, Per la storia delle arti minori in Lombardia: Per l'arte del vetro, in Rass. bibl. dell'arte italiana, III (1900), pp. 217-18; A. Baracchi, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, II, Lipsia 1908; R. Schmidt, Die venezianischen Emailgläser des XV and XVI Jahrhunderts, in Jahrbuch d. K. Preuss. Kunstsammlungen, XXXII (1911), p. 249-86.

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