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Bartolo da Sassoferrato

di Filippo Cancelli - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Bartolo da Sassoferrato

Filippo Cancelli

Era naturale che il commentatore (Sassoferrato 1313 o 1314 - Perugia 1357), che signoreggiò i più vasti e vari campi del sapere non esclusa la filosofia e la teologia, venisse a contatto dell'opera di colui che empiva di sé la cultura di metà Trecento. Sarebbe arbitrario dire quali opere di D., e con quale profondità, conoscesse, potendo essere le analogie di pensiero coincidenze anziché derivazioni precise dall'opera di lui. Epperò echi puntuali del pensiero di D. si riscontrano specialmente nelle frammentarie asserzioni d'indole politica diffuse nei commenti a tutte le parti del Corpus iuris civilis; e alcune proposizioni colpiscono per il tono e il contenuto d'impronta dantesca.

La concezione politica generale di B. è tutta ancora calata nel Medioevo, dominata com'è dalla ordinatio ad unum dell'umanità, con l'Impero romano cristiano sentito come realtà pienamente operante - più de iure però che de facto - e con l'Ecclesia, il governo della Chiesa: organismi entrambi universali e abbraccianti de iure tutto l'universo, de facto la comunità di tutti i cristiani. Le due somme potestà sono coordinate e cospiranti al bene e alla felicità dell'umanità, in temporalia l'imperatore in spiritualia il papa. Sede naturale dell'Impero è Roma, anche se l'imperium è stato trasferito ai Germani, i cui sette elettori operano come in rappresentanza di tutto il popolo romano, cioè cristiano. Tra le due somme potestà v'è reciproca indipendenza, entrambe avendo il loro fondamento storico e divino di pari dignità: " Imperator et Ecclesia processerunt a Deo tamquam a causa efficiente " (Digestum vetus I, prima const., n. 14 [const. Omnem]); ma il papa ha la preminenza sull'imperatore per ragioni morali e spirituali, e può deporlo: " Ius enim eligendi habent principes de Alemannia et ius privandi habet solus Papa (I. Si imperialis, C. de leg. et const. princ.: C. 1, 14, 12 pr.); in caso di vacanza della sede imperiale può tenerne le veci: " Vacante Imperio... Ecclesia in administratione succedit ".

Ma B. non ha in proposito una posizione assoluta e recisa: non mancano nel suo pensiero tentennamenti e tesi di compromesso che non gli hanno fatto risparmiare critiche assai acerbe. Non si tratta però soltanto di caratteri eroici o di caratteri inclini ad accomodamenti - il confronto con D. era inevitabile e a tutto svantaggio per B. -: la formazione e la mentalità giuridica lo ponevano su un piano di osservazione più realistica; egli poteva constatare come di fatto il papa ai suoi tempi si fosse imposto sull'imperatore, e assisteva a fatti nuovi di riconciliazione tra i due sommi poteri, sì che poteva dire che ormai papa e imperatore ‛ fraternizzassero '. S'aggiunga che al suo tempo la contesa e le polemiche tra le due somme potestà universali s'erano attenuate e non avevano più molto senso gli estremismi.

Nondimeno, non può non riconoscersi un certo equilibrismo nelle sue asserzioni, che quasi lo porta a foggiarsi una specie di doppia verità dietro la quale riparare. Così in ordine al Constitutum Costantini B. esclude in sede giuridica la validità della donazione al papa, ma siccome si trova in terris Ecclesiae è disposto a concedere che abbia valore.

Un atteggiamento non meno accomodante dimostra riguardo alla questione cui aveva dato origine la citazione e la condanna per lesa maestà pronunciata a Pisa il 26 aprile 1313 dall'imperatore Enrico VII nei confronti di Roberto d'Angiò, questione che in termini generali veniva a ridursi nel quesito: se un giudice potesse citare persona in territorio d'altro giudice; e per dar la sua soluzione chiama in causa la decretale clementina Pastoralis cura, De sententia et re iudicata (c. 2, II 11), violentemente contraria all'operato dell'imperatore; Cino da Pistoia, che sarebbe rimasto irretito negli errori dei canonisti; e infine D., di cui condivide il pensiero ma che nella conclusione contraddice (In sec. Partem Novi, ad l. 1. § Praesides ff. de requirendis reis [D. 48, 17, 1,1] n. 2-3). E argomenta che è stato suo costante parere che la decretale sia vera de iure, ma che è bene distinguere due situazioni diverse: quella di giurisdizioni nettamente distinte perché non ripetenti il loro potere da altro potere, com'è il caso del papa e dell'imperatore, e quella di giurisdizioni dipendenti da un unico potere superiore. Nel primo caso è chiaro che non possa l'un giudice citare persona esistente in territorio dell'altro (cfr. Mn I X 3), e quindi giustamente afferma la decretale che " unus non potest citare in territorio alterius ", " sed debet requirere illum iudicem in cuius territorio est, ut illum citet, et hoc prout tenemus illam opinionem quam tenuit Dantes, prout illa comperi in uno libro quem fecit, qui vocatur Monarchia. In quo libro disputavit tres questiones, quarum una fuit an Imperium dependeat ab Ecclesia, et tenuit quod non; sed post mortem suam quasi propter hoc fuit damnatus de haeresi. Nam Ecclesia tenet quod Imperium dependeat ab Ecclesia praeclaribus rationibus, quas omitto. Tenendo istud, quod Imperium dependeat ab Ecclesia, respondeo alio modo et dico, quod unus judex potest citare in territorio alterius judicis, cui non subest... sed in territorio illius judicis majoris a quo habet jurisdictionem propter ejus reverentiam non potest citare ". Insomma, l'imperatore e il re sono entrambi dipendenti dalla Chiesa, e quindi varrebbe la soluzione astratta della possibilità di giudizio, ma s'impone la riverenza verso il papa e dunque non può citare.

Pure, non disdegna di commentare le costituzioni dell'imperator Romanorum Enrico VII, che considera quale legittimo prosecutore di Giustiniano, e cioè degli imperatori romani, sì che costituisce una XI collatio, accanto alle Novellae (constitutiones) dell'imperatore bizantino. E proprio in una glossa apposta alla const. Ad reprimendum, ad tranquillitatem, scrive: " Tranquillitate hoc patet: nam cum Imperium fuit in statu et tranquillitate, totus mundus fuit in pace et tranquillitate ut tempore Octaviani Augusti; cum autem Imperium fuit prostratum, insurrexit dira tyrannis (insurrexerunt dirae tyrannides) ": dove non può non scorgersi una suggestione di quello stesso vagheggiamento che di quell'imperatore faceva Dante.

Inoltre termina il tractatus De regimine principum., n. 29, con le parole: " et quia hodie Italia est tota plena tyrannis ", che sembrano traduzione di Pg VI 124 Ché le città d'Italia tutte piene / son di tiranni.

Ma B. è da considerare soprattutto perché nel 1355, dovendo trattare monograficamente della dignitas (L. Si ut proponitis, C. De dignitatibus, e repetitio a l. mulieres, eod.: C. 1, 1, 1 e 13) prende a base della sua trattazione la canzone di D. Le dolci rime d'amor ch'i' solia (Cv IV). E notevolissimo che, potendo scegliere a sostegno o spunto polemico tra tanta letteratura in prosa e in versi sulla stessa materia - l'argomento della nobiltà era stato ed era di moda -, prenda una poesia di D. quasi per dar maggiore lustro e forza alla sua dimostrazione.

" Tertio ergo quaero, quid sit nobilitas, seu dignitas, prout idem sunt, et ut circa haec veritas eluceat, multorum opiniones referam. Fuit enim quidam nomine Dantes Aligerius de Florentia, Poeta vulgaris, laudabilis et recolendae memoriae, qui circa hoc fecit unam cantilenam in vulgari, quae incipit ‛ Le dolci rime d'amor, ch'io solea cercar ne' miei pensieri, ecc. ', ibi recitat tres opiniones antiquorum. Prima est, quae dicit quod quidam Imperator dicit quod (n. 47) nobilitas est antiqua aeris et divitiarum possessio, cum pulchris regiminibus et moribus. Alii dixerunt quod antiqui boni mores faciunt hominem nobilem, et isti de divitiis non curant. Tertii dicunt quod ille est nobilis qui descendit ex patre vel avo valentibus, et omnes istas opiniones reprobat " (n. 46 i.f.).

Veramente l'opinione criticata da D. è sostanzialmente una sola: quella di quei che voglion che di gentilezza sia principio ricchezza (vv. 16-17); le altre non sono che articolazioni e variazioni. Così Federico II definì la nobiltà, o gentilezza, antica possession d'avere / con reggimenti belli (vv. 23-24). Altri, invece, di più lieve savere, soppresse reggimenti belli tenendosi pago della prima parte della definizione federiciana. A questi si allineano tutti quelli / che fan gentile per ischiatta altrui / che lungiamente in gran ricchezza è stata (vv. 29-31), con la ulteriore implicazione della discendenza da cotal valente, dove ‛ valentia ' è sì altra cosa che ricchezza, ma a questa pur sempre collegata. Infine, la discendenza da schiatta anticamente ricca e magari valente induce la conseguenza che non voglion che vil uom gentil divegna, / né di vil padre scenda / nazion che per gentil già mai s'intenda (vv. 61-63).

A parte l'erronea interpretazione di B. degli Alii che si fermerebbero per la definizione a ornati costumi, non è per nulla aderente al testo la riduzione a tre distinte opinioni senza legame consequenziale tra loro. La critica perciò che fa seguire alla confutazione di D. è gravemente condizionata dall'isolamento delle tre proposizioni e dall'errore della seconda.

Comincia con l'osservare: " Primum, quod dicit, quod quidam Imperator posuit diffinitionem praedictam, hoc non reperitur in corpore iuris sed forte ipse in aliis historiis invenit ": è chiaro che ignora il commento del Convivio dove è esplicitato quegli che imperò e tenne Impero nell'imperatore Federico; e conclude: " tamen contra reprobationem suam arguo quod divitiae conferunt ad dandam nobilitatem, quia quidquid confert ad virtutem confert ad nobilitatem ", e qui allega s. Tommaso Sum. theol. II 2 28 (da correggere in II 2 29 ad 8).

In ordine alla seconda opinione come da lui interpretata, afferma: " Mihi videtur, salva reverentia tanti Poetae, quod dictae rationes factae ad reprobandum dictas opiniones non sunt verae "; e conclude (n. 50): " quod antiquitas morum non est nobilitatis, nec nobilitatem facere potest, sed potest esse causa nobilitatis ". Riconosce anche valida l'opinione secondo la quale (n. 51) " illi dicuntur nobiles qui discendunt a potentibus valentibus ", distinguendo i casi del figlio che nasca " nobilis et virtuose vivens " (n. 53), del figlio che non ha né buoni né cattivi costumi e del figlio reprobo: i primi due conservano la nobiltà avita, e la perde il terzo. Comunque (n. 54): " Videndum est utrum dictum suum sit bonum, quod ex nativitate quis habeat nobilitatem. Et videtur quod sic ".

Sottopone infine a critica l'opinione di D. (n. 47): " Ultimo ipse determinat, quod quicumque est virtuosus, est nobilis. Item potest esse nobilitas etiam ubi non est virtus, et sic nobilitas habet in se plus quam virtus. Exemplum in puella verecunda: nam verecundia est diversa a virtute, et tamen in ea est nobilitas. Concluditur igitur quod omnis anima praedestinata a Deo in foelicitate, ut in omni tempore bene operet, etiam antequam alium actum virtuosum operet, dicatur nobilis, et ita sunt eius dicta in summa ".

" Quarta opinio fuit ipsius Poetae, quod ubicunque est virtus, et ibi est nobilitas. Et intelligitur de virtute, quo homo foelix efficitur. Item dicit, quod potest esse nobilitas etiam ubi non est virtus... Concludit ergo quod anima praedestinata a Deo in foelicitate ut omni tempore bene faciat, etiam antequam aliquem actum virtutis, dicitur nobilis... Videamus ergo, an praedicta sint vera et ostendo quod non " (n. 56). Confutata l'opinione di D. fa seguire la propria, distinguendo innanzitutto la nobilitas in tre specie: teologica, naturale e civile o politica (n. 57 ss.).

È difficile ammettere, forse più che escludere, che B. abbia conosciuto il Convivio. Però non mancano indizi che farebbero propendere per una soluzione opposta: nel qual caso si penserebbe a una studiata dissimulazione della conoscenza del Convivio. Così gli esempi del regno bruto, vegetale e animale, addotti a diversi fini, sono gli stessi in D. (Cv IV XIV 9 e XVI 5) e in B. (n. 59). Entrambi citano l'Ecclesiastes 10, 17: D. in Cv IV XVI 5, e B. n. 54. Inoltre la tripartizione di B. trova qualche riscontro in Cv IV XXI 1-2.

Bibl. - Per notizie sulla vita e sulle opere di B.: F. Calasso, B. da Sassoferrato, in Dizion. biogr. degli Ital. VI (1964) 640-669, con bibliografia. Per le dottrine politiche e pubblicistiche: C.N. Sidney Woolf, B. of Sassoferrato, His position in the History of medieval political Thought, Cambridge 1913; F. Ercole, Dal Comune al principato, Firenze 1929, passim; ID., Da B. all'Althusio, ibid. 1932, spec. II Studi sulla dottrina politica e sul diritto pubblico di B., 49 ss. Per i legami tra D. e B.: per le fonti cfr. D. Bandini, De viris claris, in Fons memorabilium universi, in A. Solerti, Le vite di D., Petrarca e Boccaccio, Milano 1904, 94; Raph. [Maffei] Volaterranus, Comm. Urbanorum, Basilea 1559, 488, in A. Solerti, op. cit., 198; G. Carducci, D. e l'età che fu sua; e L'opera di D., in Prose, Bologna 1908, 186 e 1144; C. Witte, De B. a S. Dantis Allighieri studioso, in Dante-Forschungen, I, Halle 1869; C. Negroni, D.A.; e B. da S., Lonigo 1890; A. Solmi, Il pensiero politico di D., Firenze 1922, 141 ss., 251 ss.; B. Nardi, La fortuna della " Monarchia " nei secoli XIV e XV, in Il mondo di D., Roma 1944, 164; F. Crosara, D. e B., in B. da Sassoferrato, II, Milano 1962, 105-198.

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