COLLEONI, Bartolomeo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLLEONI, Bartolomeo

Michael E. Mallett

Figlio di Paolo di Guidotto e di Riccadonna de' Valvassori da Medolago, nacque nel castello di Solza (Bergamo) probabilmente nel 1400.

La sua famiglia apparteneva alla piccola nobiltà bergamasca e comincia ad essere documentata dall'inizio del sec. XII. Secondo alcuni biografi nello stemma dei Colleoni apparivano teste di leone e da questo segno sarebbe derivato il cognome: successivamente il C. avrebbe sostituito le teste leonine con il triplice segno dei testicoli. Secondo il Mazzi e il Belotti, invece, quest'ultimo era il segno originario dello stemma e da esso avrebbe avuto origine il cognome. Il Belotti, in particolare, ricorda un documento del 1° giugno 1454 in cui il C. descriveva in tal senso "insignas nostras et parentelae nostrae, videlicet duos colionos albos in campo rubeo de supra et unum colionum rubeum in campo albo infra ipsum campum rubeum". Secondo lo stesso autore le due teste leonine si trovavano, invece, in un'insegna personale del C., da lui adottata a ricordo delle imprese condotte al servizio di Giovanna II d'Angiò. La famiglia Colleoni raggiunse una fama temporanea e un certo livello d'indipendenza in seguito alla conquista dell'importante castello di Trezzo nel 1404; ma con la ripresa della potenza dei Visconti, essa non seppe mantenersi in tale posizione; e fu con la carriera delle armi che il C. dovette costruirsi la propria fortuna. Egli divenne uno dei principali capitani militari dell'Italia del Quattrocento, compendiando nella sua carriera quella importante fase di transizione che segna il passaggio dalla figura del mercenario venturiero a quella del militare di mestiere, stabilmente assoldato.

Le notizie sui primi anni della sua vita sono incerte e per buona parte frutto di leggenda. Spesso si è guardato ai grandi condottieri del Quattrocento come ad uomini di origini modeste che per gradi successivi sono riusciti a salire fino agli strati superiori della società italiana, combinando insieme il successo delle armi col favore della sorte. Di qui la tendenza a sminuire le origini del C. e ad esagerare la natura spettacolare dei suoi primi successi. In realtà, egli era, come si è detto prima, di nobili origini e nel Bergamasco aveva una base permanente che gli garantiva reddito e reclute. Ricevette una educazione abbastanza buona dal clero del luogo, finché, all'età di quattordici anni, intraprese per la prima volta la carriera delle armi in qualità di paggio alla corte di Filippo Arcelli a Piacenza. Pare che quando l'Arcelli, espulso da Piacenza nel 1418, si mise al servizio di Venezia, il C. lasciasse, la Lombardia per tentar la sorte nell'irrequieta scena politica della Italia meridionale. Per un certo periodo fu al servizio di Braccio da Montone. Successivamente passò alle dipendenze di Iacopo Caldora, a quel tempo il più importante generale di Giovanna II di Napoli. Leggende non confermate circondano la relazione fra il C. e la regina: tali leggende servirebbero a spiegare la rapida ascesa del condottiero: ma in realtà la sua carriera non progredì affatto in modo eccezionale. Sotto il Caldora egli guidava una truppa di venti cavalli, e fu con lui all'Aquila nel 1424. Successivamente accompagnò il Caldora nella Marca, e benché ci siano indicazioni di un breve periodo di milizia nella compagnia di Michele Attendolo, egli si trovava ancora col Caldora durante l'assedio di Bologna nel 1429. Combatté negli anni seguenti per i Fiorentini nella guerra contro Lucca e fu catturato da Niccolò Piccinino in Val di Serchio. Passato ai Veneziani nel 1431, fu al comando di quaranta cavalli nell'esercito del Carmagnola. Secondo Antonio Cornazzano, autore di una biografia panegirica del C., fu in questo momento che egli si sarebbe messo in luce catturando l'autorevole condottiero sforzesco Ciarpellone: ma, di nuovo, non esistono prove convincenti di questa vicenda. Tuttavia non vi sono dubbi sul ruolo di primo piano svolto dal C. nel tentativo fallito di conquistare Cremona, in seguito al quale ricevette il feudo di Bottanuco come ricompensa da parte di Venezia.

Dopo la caduta in disgrazia e la morte del Carmagnola, il C. continuò a prestar servizio come capitano di rango inferiore nell'esercito veneziano. Egli prese parte nel 1432 e nel 1433 alle campagne della Valtellina e della Valcamonica: cominciò così a farsi una reputazione come specialista della guerra in montagna. In questo periodo sposò Tisbe, figlia di un capitano dello stesso suo esercito, Leonardo Martinengo, e comprò una casa a Bergamo. Nel 1434 comandò sessantatré cavalli nell'esercito veneziano di Gianfrancesco Gonzaga in Lombardia, e fu scelto come uno dei capitani che i Veneziani erano interessati a mantenere al loro servizio. Nel 1437 svolse un ruolo di primo piano nella ritirata del Gonzaga attraverso l'Oglio: in questa occasione comandava una compagnia di cento lance. L'anno successivo fu alla difesa di Bergamo contro il Piccinino e poi a Brescia col Gattamelata e partecipò alla ritirata attraverso le montagne a nord del lago di Garda attuata dal corpo principale dell'esercito, uscito dall'assedio di quella città. Per la stessa via tornò l'anno seguente con Francesco Sforza e il Gattamelata, quando questi tentarono di liberare Brescia dall'assedio: il Sanuto nella sua descrizione dell'esercito veneziano di quel periodo attribuisce al C. quattrocento cavalli. Come compenso per il fedele servizio prestato, sua moglie e la sua famiglia ricevettero una pensione e una casa a Padova. Tuttavia, all'età di quaranta anni, benché la sua reputazione fosse in continua ascesa, la dimensione del corpo militare di cui era a capo lo poneva soltanto nei ranghi medi dei capitani dell'esercito veneziano.

Nell'aprile del 1441 egli chiese una condotta di mille cavalli a Venezia: ma questa gli fu rifiutata, mentre invece fu stipulata una condotta del nuovo tipo veneziano, secondo la quale venivano assegnati ottocento cavalli e duecento fanti in tempo di guerra, che si riducevano automaticamente a seicento cavalli e centocinquanta fanti in tempo di pace. Il contratto prevedeva un anno di "ferma" e un anno di "rispetto", insieme con la concessione dei feudi di Romano, Covo e Antegnate. Questi accordi si inserivano nel quadro della politica veneziana tesa a stringere stabili relazioni con i capitani di un corpo militare che andava gradualmente trasformandosi in esercito permanente. Ma sebbene il valore militare del C., già oggetto di indubbi riconoscimenti, si mettesse in evidenza ancora una volta col suo intervento decisivo nella battaglia di Cignano (intervento che salvò l'ala destra dell'esercito dello Sforza), il trattamento riservatogli non fu diverso da quello di cui godevano un certo numero di capitani veneziani. Dopo la pace di Cavriana nell'autunno dello stesso anno, il C. si stabilì nei suoi nuovi possedimenti di Romano, dove, secondo l'accordo del suo recente contratto, avrebbe dovuto ridurre le dimensioni della sua compagnia. Poiché il provveditore Gherardo Dandolo era ben deciso a far rispettare tale riduzione, e poiché la paga arretrata, reclamata a chiare lettere dal C., non gli era stata ancora versata, nel 1442 il C. andò maturando la decisione di lasciare il servizio di Venezia. Egli dichiarò che alla fine della corrente "ferma" non avrebbe rinnovato il contratto e, nonostante i tentativi non solo verbali dei Veneziani di impedirne la partenza, egli passò con la sua compagnia al servizio di Milano. Filippo Maria Visconti lo accolse a braccia aperte nel castello di Porta Giova a Milano e gli offri millecinquecento cavalli oltre al castello di Adorno come sua residenza.

Nei successivi tre anni e mezzo il C. eseguì una serie di missioni per i Visconti. Nel 1443 fu inviato nelle Marche con mille cavalli in aiuto di Francesco Sforza, ma si ritirò prima della battaglia di Montelauro; nel 1445 fu mandato in sostegno dei Canetoli che tentavano di rovesciare i Bentivoglio a Bologna, ma arrivò troppo tardi. Nel 1446 si unì a Francesco Piccinino in una spedizione volta a riprendere Cremona allo Sforza; ma litigò col Piccinino e, arrestato il 26 settembre con l'imputazione di negoziare con Venezia, fu imprigionato nei Forni a Monza. La realtà dei contatti fra il C. e Venezia in quel momento è in certo modo provata dal fatto che il 2 agosto il Senato veneziano aveva dato ad Antonio Martinengo istruzioni per negoziare con lui. Il C. restò in prigione per quasi un anno, quando con la morte di Filippo Maria Visconti gli si offrì l'opportunità di fuggire e di raggiungere la sua compagnia che non era stata smobilitata. Su consiglio dello Sforza, la Repubblica ambrosiana lo prese al suo servizio per contrastare l'invasione orleanista guidata da Rinaldo di Dresnay. L'11 ott. 1447 il C. sconfisse i Francesi a Bosco Marengo e catturò il Dresnay, da cui ottenne un riscatto di 14.000 corone.

Questo fu un momento decisivo nella sua carriera: aveva ottenuto la prima vittoria importante come condottiero indipendente, e la aveva ottenuta contro i Francesi; inoltre aveva messo a segno un grosso colpo finanziario con il riscatto di Dresnay. Con queste imprese e con le successive vittorie contro i Francesi nel 1449, egli acquisì una fama internazionale, di cui godettero pochi capitani italiani, e che fu causa del suo particolare prestigio negli anni seguenti. Tuttavia egli aveva già quarantasette anni: ci erano voluti più di trent'anni per raggiungere questa posizione.

Alla vittoria contro i Francesi fece seguito la riconquista, da parte del C., di Tortona a favore di Milano. Successivamente egli si volse contro i Veneziani, i quali tentavano di avvantaggiarsi della debolezza politica della loro antica rivale. Fu in questo momento che egli cominciò a prendere in considerazione la possibilità di ritornare al servizio di Venezia; e varie sono state le ragioni addotte a giustificare questo nuovo cambiamento di servizio. Senza dubbio l'incertezza del futuro politico di Milano, nonché anche, forse, il desiderio di sottrarsi alla preminenza dello Sforza contribuirono a spingerlo alla decisione. È, inoltre, probabile che l'insufficiente livello della paga offerta dalla confusa amministrazione milanese fosse un altro dei fattori presi in considerazione. Ma forse più che tutto il resto, contò il fatto - di cui il C. era ben cosciente - che la sua terra d'origine, il Bergamasco, e i possedimenti che vi aveva già accumulato erano saldamente nelle mani di Venezia; per cui comprese che presupposto essenziale per la creazione del dominio territoriale cui aveva sempre aspirato era il ritorno al servizio della Repubblica. Il 21 maggio 1448 firmò una condotta con Venezia per 500 lance e 400 fanti, e il 15 giugno, durante l'assedio di Lodi, passò dalla parte dei Veneziani. Una taglia di 10.000 ducati fu posta su di lui dall'oltraggiata Repubblica ambrosiana.

L'esercito veneziano, guidato in questo periodo da Micheletto Attendolo, fu impegnato il 15 sett. 1448 nella fatale battaglia di Caravaggio contro lo Sforza. Il C. aveva cercato di indurre l'Attendolo a rinviare il momento dell'attacco contro i Milanesi, sostenendo che l'esercito ambrosiano si sarebbe disintegrato da sé. Ma il saggio consiglio, basato su una recente esperienza di prima mano, non fu ascoltato, poiché molti degli altri condottieri veneziani premevano per l'attacco immediato. Il C., per parte sua, combatté coraggiosamente la battaglia, e diresse il bombardamento dell'artiglieria veneziana contro il campo dello Sforza. Fu anche uno dei pochi comandanti veneziani che riuscirono a tenere unita la propria compagnia nella confusione seguita alla decisiva vittoria dello Sforza. Gli venne affidata la difesa di Brescia, ma poi la potenziale minaccia a questa città venne meno quando nel mese seguente lo stesso Sforza decise di abbandonare Milano per passare al servizio di Venezia ritenendo che esistevano maggiori possibilità di diventare signore di Milano entrandovi a capo di un esercito invasore piuttosto che restandovi a capo dei difensori di essa.

Nella primavera del 1449 il C. e lo Sforza mossero alla volta di Milano per rovesciare la Repubblica ambrosiana. Micheletto Attendolo era stato rimosso dall'incarico di capitano generale di Venezia dopo il disastro di Caravaggio e il suo posto era stato preso da Sigismondo Malatesta. Ma il C. guidò l'attacco delle forze veneziane fino all'arrivo del capitano generale e in marzo prese Parma. A ciò fecero seguito in aprile le vittorie contro le truppe savoiarde e francesi al servizio della Repubblica ambrosiana, a Romagnano Sesia e a Borgomanero. In ambedue le occasioni un certo numero di prigionieri importanti cadde nelle mani del C. e nuovamente egli poté ricavare somme notevoli dai riscatti. Tuttavia l'ampiezza dei suoi successi e l'imminente caduta della Repubblica ambrosiana provocarono un mutamento nella politica di Venezia, la quale si rendeva conto che l'insediamento dello Sforza a Milano (secondo quanto promesso) avrebbe portato ad una rinascita della potenza di Milano. In settembre il Malatesta e il C. ricevettero l'ordine non solo di cessare le operazioni militari contro Milano, ma anche di proteggere la città contro lo Sforza. Durante l'inverno il C. tentò invano di passare attraverso le linee degli assedianti dello Sforza intorno a Milano; quando si rese conto che la via diretta era sbarrata, tentò di avvicinarsi attraverso le montagne del retroterra di Como, ma fu fermato di nuovo. Il 25 febbr. 1450 scoppiò a Milano un'insurrezione a favore dello Sforza: l'ambasciatore veneziano fu assassinato e la città si arrese a Francesco.

La conquista del potere a Milano da parte di Francesco Sforza ebbe come risultato una sospensione per due anni delle ostilità fra Milano e Venezia. In. questa situazione il C. dovette di nuovo accorgersi che in tempo di pace i Veneziani potevano diventare dei difficili datori di lavoro. Nel gennaio 1451 fu posto fine al servizio del Malatesta a causa dei suoi dissapori con la Repubblica, ed il Senato decise di eleggere un nuovo comandante dell'esercito. Rispetto agli altri possibili candidati, il C. riteneva giustamente avere maggiori titoli per aspirare alla carica: i suoi rivali erano infatti Iacopo Piccinino, che solo da poco tempo era passato al servizio di Venezia dopo aver lasciato quello di Milano, e Gentile da Leonessa, che era molto più giovane ed aveva meno esperienza, ma che aveva ereditato il comando delle compagnie gattesche dopo la morte del Gattamelata con cui era imparentato. Tuttavia in febbraio il Senato decise in favore di Gentile, probabilmente perché questi e le sue truppe erano stati più a lungo, con più continuità e con fedeltà al servizio di Venezia. Il C., amaramente deluso, annunciò immediatamente la sua intenzione di andarsene allo scadere del suo contratto. Tuttavia, intuendo che difficilmente i Veneziani gli avrebbero permesso di lasciare il loro servizio, egli si preparò ad andarsene segretamente prima del termine del contratto. Venezia mobilitò allora le compagnie di Gentile e del Piccinino e il 21 maggio tentò quindi di arrestare il C. con i suoi uomini nel suo accampamento ad Isola della Scala nel Veronese. Il C. e parte delle sue truppe riuscirono a fuggire, ma perdettero gran parte delle salmerie e del tesoro. Il 18 giugno il C. ricostituiva la sua compagnia a Milano e il 19 agosto sottoscriveva una condotta di 600 lance e 600 fanti con Francesco Sforza.

L'improvviso abbandono di Venezia da parte del C. non portò ad una immediata ripresa delle ostilità fra Venezia e Milano come hanno suggerito alcuni storici, ma senza dubbio la presenza di questo capitano abile ed esperto da una parte o dall'altra era vista come un elemento determinante per il successo militare. Quando la guerra riprese nella primavera del 1452 i Veneziani, nonostante le loro maggiori disponibilità finanziarie e la loro superiore organizzazione militare, furono incapaci di conseguire un qualsiasi successo contro le forze combinate dello Sforza e del Colleoni. Benché non vi fossero battaglie importanti nel 1452-53, il C. ebbe senza dubbio la meglio negli scontri. A Ponzano egli ebbe modo di dimostrare la propria abilità nell'uso dell'artiglieria, bombardando con due grandi cannoni la linea di ritirata dei Veneziani. Dopo il disappunto e la rabbia iniziali per la sua defezione, Venezia cominciò ben presto a muoversi per riavere il C. al proprio servizio. Le sue terre furono mantenute intatte e non vennero alienate; sua moglie e la sua famiglia furono trattenute come ostaggi; e Andrea Morosini, antico confidente del C., fu incaricato di aprire trattative col capitano al più presto possibile.

Lo scambio della moglie del C., Tisbe, che ebbe luogo in quel periodo, faceva parte di un lungo processo di negoziati prudenti e segreti; e, benché il C. da parte sua uscisse vincitore da una serie di scontri minori che si conclusero con la presa di Pontevico, di Romano e di altre località della Lombardia centrale, egli si astenne dal portare a termine quella che invece sarebbe stata la logica conclusione della sua campagna, cioè l'attacco a Bergamo. A difficile stabilire il momento esatto delle trattative segrete fra il C. e Venezia, ma sicuramente i termini dell'accordo erano stati in gran parte stipulati prima che il C. scrivesse a Francesco Sforza la famosa lettera del 15 febbr. 1454, nella quale annunciava le sue dimissioni allo scadere del suo contratto in aprile. Quest'avviso formale delle sue intenzioni era tipico della aderenza del C. alla lettera dei suoi contratti, ma non può valere del tutto come argomento a difesa contro le accuse di infedeltà e diserzione. La condotta con Venezia fu firmata il 4 marzo e resa pubblica il 12 apr. 1454, essa prevedeva una "provisione" di 100.000 ducati all'anno per l'arruolamento di un corpo adeguato di truppe e prevedeva due anni di "ferma" e uno di "rispetto". Tra le clausole dei contratto era inclusa la promessa del titolo di capitano generale appena la carica si fosse resa vacante (Iacopo Piccinino era stato nominato governatore generale dopo la morte di Gentile da Leonessa), e il possesso di Como, Lodi o Ghiara d'Adda, qualora queste fossero cadute nelle mani dei Veneziani. Questo contratto, anche se non del tutto unico nel suo genere, con il pagamento di una consistente somma in contanti e col grado di libertà accordata al C. nel comando della sua compagnia, è certamente indicativo dell'ampiezza del prestigio goduto dal Colleoni. È anche interessante notare che a causa della segretezza dei negoziati, tutta la faccenda era stata trattata dal Consiglio dei dieci. Era la prima volta che il Consiglio si occupava di trattative concernenti contratti militari, ottenendo una significativa estensione della propria autorità, tanto più che successivamente decise di mantenere il controllo sui futuri negoziati con il Colleoni.

Sarebbe tuttavia esagerato vedere nell'imminenza del voltafaccia del C. il fattore decisivo negli avvenimenti che portarono alla fine delle lunghe guerre ed alla pace di Lodi. Fra i motivi atti a spiegare l'accettazione della pace da una parte e dall'altra, figura almeno in parte, nel caso di Milano, la defezione del suo principale condottiero, mentre per Venezia entrarono in gioco fattori molto più generali di logoramento economico e di calcolo politico. La tregua, che divenne effettiva nell'aprile del 1454 e che culminò nella pace di Lodi, segnò la fine di quasi trent'anni di guerra fra Venezia e Milano e pose termine ad evidenti occasioni favorevoli per uomini come il Colleoni. Per il resto della sua carriera egli cercò di afferrare le opportunità che gli si potevano presentare in una situazione molto diversa di tregua armata o di "guerra fredda".

Il C. trascorse parte dell'estate del 1454 a Venezia cercando di riscuotere 25.000 ducati di paga arretrata che gli erano stati promessi del contratto e trattando per la concessione di nuovi feudi nel Bergamasco. Il 14 agosto gli furono concessi Martinengo, Cologno e Urgnano, e il 17 novembre un nuovo contratto con Venezia stabilì che la sua "provisione" in tempo di pace ammontasse a 60.000 ducati all'anno e che egli sarebbe stato nominato capitano generale ai primi di marzo 1455. Il comando gli venne finalmente affidato in una cerimonia che ebbe luogo a Brescia il 24 giugno 1455. Con l'acquisizione del comando incontestato dell'esercito veneziano, il C. aveva finalmente realizzato le sue aspirazioni degli ultimi vent'anni.

All'acquisizione di tale comando si accompagnò naturalmente la costituzione di una base di potere sulla frontiera occidentale dello Stato veneziano. I feudi in mano al C. formavano in questo momento un saldo blocco territoriale nel Bergamasco meridionale, posto a protezione degli approcci occidentali verso Brescia. Nei suoi territori erano inclusi gli importanti castelli di Solza, Urgnano e Romano; inoltre il C. possedeva palazzi a Bergamo e a Brescia. Nel 1456 il nuovo capitano generale comprò il diroccato castello di Malpaga dal Comune di Bergamo pagandolo 100 ducati ed incominciò a fame il centro del suo "Stato". A Malpaga egli costruì quel tipo di grandiosa residenza, fortezza e guarnigione insieme, richiesta ora dalla sua condizione: doveva rimanere la sua base per tutta la sua vita.

Nel 1457 la condotta dei C. fu rinnovata per la durata di tre anni di "ferma" e nel maggio dell'anno seguente egli si recò a Venezia in visita ufficiale per partecipare ai festeggiamenti per l'elezione del nuovo doge, Pasquale Malipiero. Accompagnato dai suoi principali capitani, egli risiedette a palazzo Morosini (il che indica la sua stretta relazione con questa autorevole famiglia veneziana), fu ricevuto formalmente dal doge, e presiedette a una serie di tornei militari in piazza S. Marco. Così, anche dopo quattro anni di pace, fu sottolineato con vigore l'importante ruolo dell'esercito e del suo prestigioso comandante nella vita dello Stato veneziano. A questo punto il C. redasse un testamento in cui lasciava la maggior parte della sua fortuna, già considerevole, a Venezia.

Tuttavia, negli anni seguenti, fu chiaro che le ambizioni del C. non trovavano affatto completa soddisfazione nella posizione che era riuscito a crearsi. Come soldato, bramoso delle emozioni della guerra e dei successi militari, era per lui difficile accettare la politica di pace in Italia in cui Venezia si era ormai impegnata; come principe, di fatto se non di nome, era ancora tentato di tanto in tanto da sogni di maggiore indipendenza politica, soprattutto quando al di là dell'Adda aveva davanti a sé l'esempio dell'affermazione dello Sforza a Milano. Sarebbe errato sostenere che queste ambizioni abbiano, dominato gli ultimi quindici anni della vita dei C.: per lunghi periodi sembrò accontentarsi del ruolo di comandante di un grande esercito stabile, di signore feudale di estesi territori nel Bergamasco, di protettore di istituzioni religiose e delle arti. Ma questi anni furono anche costellati da una serie di spasmodici tentativi di migliorare ulteriormente la propria posizione.

Una delle manifestazioni di questo stato di cose fu una crescente riluttanza da parte del C. a considerare come una semplice formalità i rinnovi periodici della sua condotta con Venezia. Poiché in ogni negoziato con Venezia si presentava la possibilità di esigere da essa nuove concessioni, egli oppose una fruttuosa resistenza ai tentativi di estendere la durata del suo contratto. Ciò gli permise anche di sentirsi più libero; durante tutta la sua carriera era stato sempre riluttante a rompere un contratto ed ora preferiva non sentirsi legato per più di un anno alla volta. Spesso il momento di rinnovo del negoziato per la condotta coincideva con almeno un'altra possibilità di un nuovo impiego da qualche altra parte. È, sempre difficile valutare quanto di tutto ciò facesse parte della tattica del C. e dei suoi cancellieri per premere su Venezia o se egli fosse realmente, intenzionato a compiere passi decisivi. Nel 1460 quando si stava discutendo l'estensione della sua condotta del 1457 per altri due anni di "rispetto" l'attacco angioino a Napoli sembrò offrire nuove possibilità di intervento militare. Nel 1462 quando si trattava di stabilire una nuova condotta, il C. negoziò con Pio II il comando di una "crociata" contro i Malatesta. Egli prestò 10.000 ducati al papa in segno di buona volontà, ma Venezia non era disposta a lasciarlo andare. Egli fu persuaso a rinnovare il contratto con la promessa che gli sarebbe stato consentito di lasciare i propri feudi a chi volesse nel testamento.

La determinazione dei Veneziani di trattenere in Lombardia il C. come salvaguardia contro Milano divenne, ancor più chiara nel 1463-64 quando la sua offerta di assumere il comando dell'esercito in Morea fu gentilmente rifiutata. Benché Venezia avesse un gran bisogno di una vittoria contro i Turchi, essa non era tuttavia disposta, per ottenerla, a sacrificare la sicurezza delle sue frontiere occidentali. D'altra, parte, è probabile che l'offerta del C. non fosse stata avanzata troppo seriamente; in questo periodo la sua posizione in Italia era per lui più importante della possibilità di gloria militare in qualunque altra parte.

Nel 1465 si ripresentò la questione del rinnovo della condotta ed i negoziati furono dominati dalla probabilità della prossima morte di Francesco Sforza. Sia il C. sia Venezia volevano trovarsi nella posizione migliore per trarre vantaggio dalla morte dello Sforza; ma mentre per il C. ciò significava poter agire in modo indipendente, per Venezia tale possibilità era condizionata dalla presenza di un capitano generale fedele alla testa di un esercito in pieno assetto di guerra. Finalmente il 5 maggio il C. accettò il contratto per la durata di un anno, contratto in cui la sua "provisione" veniva aumentata di 21.000 ducati e in cui Venezia si impegnava a considerare Martinengo, Cologno e Urgnano come suoi beni personali e non comefeudi di Venezia. Ciò sottolineava chiaramente il ruolo fondamentale del C. nella politica della Lombardia centrale.

Francesco Sforza morì l'8 marzo 1466, e il C. mobilitò subito le sue compagnie. Corsero voci che Venezia avesse consentito segretamente all'annullamento del contratto nel caso che egli avesse voluto impadronirsi a titolo personale del ducato. Ma sembra che il C. fosse allora pronto a farsi avanti solamente se la successione dello Sforza si fosse dimostrata incerta. Ma in realtà Galeazzo Maria non incontrò una seria opposizione nell'assumere il titolo e la tensione presto si allentò. Sul finire dell'estate il C. era già impegnato in trattative con gli esiliati antimedicei di Firenze ed i suoi interessi sembrarono rivolgersi a sud.

La campagna del 1467 culminata nella battaglia di Molinella (Riccardina) segnò l'unico momento di attività militare di rilievo negli ultimi vent'anni della vita del C., ma non sono del tutto chiari i motivi che ne furono all'origine. In una certa misura, il semplice desiderio di partecipare ad una guerra spinse il C. ad impegnarsi con Dietisalvi Neroni e gli altri antimedicei. Non era spinto solo dall'eccitazione della guerra e dalla possibilità di accrescere la propria gloria militare, ma anche dalla necessità di utilizzare e di far fare esperienza alle compagnie permanenti; che manteneva ad un ragionevole livello di efficienza con grandi spese. Erano anche in gioco ambizioni politiche in Romagna, una zona "fluida" che aveva sempre offerto tentazioni al condottiero principe. Per il C. uno "Stato" in Romagna era meno attraente di Milano, ma dal momento che nessuna possibilità si presentava in quest'area, forse egli pensò momentaneamente di rifarsi con un compenso minore nel Sud. Si può presumere che egli non pensasse di riuscire ad impossessarsi di Firenze: ma poiché Firenze era uno dei principali alleati di Milano, staccare questo Stato dallo schieramento filomilanese era forse la principale intenzione del Colleoni. Indubbiamente la campagna in se stessa sembra indicare che anche in quest'occasione i suoi occhi erano puntati su Milano.

Dietisalvi Neroni visitò Malpaga nell'ottobre 1466, e nel febbraio 1467 Venezia sciolse il C. dalla sua condotta e gli diede una condotta "in aspetto" per 40.000 ducati all'anno senza impegni permanenti, ma con, l'obbligo di venire in aiuto di Venezia qualora gli fosse stato richiesto. Venezia infatti vedeva con favore il fatto che il C. volgesse la sua attenzione verso sud e soprattutto verso Firenze. Ciò da una parte evitava il pericolo che le ambizioni del C. provocassero una guerra in Lombardia, dall'altra offriva l'eventualità di indebolire il principale rivale commerciale di Venezia. Senza dubbio Venezia era profondamente coinvolta nella faccenda nonostante i dinieghi e nonostante cercasse di dare l'impressione che il C. agisse in modo indipendente. Molte delle truppe impiegate erano direttamente al servizio di Venezia, e la diplomazia veneziana si impegno sia nei preparativi per la campagna, sia per districare il C. dalle conseguenze del suo relativo fallimento.

Le truppe del C. attraversarono il Po dirigendosi alla volta di Firenze ai primi di maggio 1467. Egli si impossesso rapidamente di Bagnara e Mordano nei pressi di Imola, ma si accorse che l'esercito della lega di Milano, Firenze e Napoli si radunava più rapidamente di quanto si fosse aspettato. Poiché egli si trovò bloccato in seguito in Romagna, mentre falliva il colpo di Stato del movimento antimediceo a Firenze, sembrò che il gioco del C. fosse fallito. Ma quando al suo accampamento arrivarono rinforzi guidati da Alessandro Sforza ed Ercole d'Este, e quando sembrò che Venezia avesse aderito alle sue richieste di volgere il grosso dell'offensiva verso Milano, la situazione militare dette segni di ripresa. Il C. puntò verso Parma, nel tentativo di attaccare Milano prima che la lega potesse intervenire. Ma Federico da Montefeltro fu più rapido e il 25 luglio lo costrinse allo, scontro nei pressi di Molinella. La battaglia ebbe esito incerto e fu caratterizzata dall'uso della artiglieria da entrambe le parti. Secondo Paolo Giovio il C. fu il primo capitano che fece uso dell'artiglieria leggera sul campo di battaglia, sembra anche che avesse fatto montare i suoi cannoni su carri piazzati alle spalle della sua prima linea, così che ad un dato comando la prima linea si divideva e i cannoni potevano sparare contro il nemico. In realtà, è probabile che in questo scontro entrambe le parti abbiano fatto ricorso all'artiglieria leggera, il che spiegherebbe in parte il numero eccezionalmente elevato di perdite. Né è assolutamente vero che questa fosse la prima volta che in Italia si facesse uso di artiglieria leggera in battaglia. Al calar della notte la vittoria era ancora indecisa, ma il C. dovette rinunciare a marciare su Milano. Egli si ritirò a Molinella, dove si trincerò: l'11 agosto fu firmata una tregua.

I negoziati di pace andarono avanti per tutto l'inverno. In un primo momento il C. si irritò per quello che gli sembrava forse un temporaneo rinvio e mantenne riunito il suo esercito sperando che una rottura dei negoziati gli offrisse la possibilità di un nuovo attacco. Ma, causa una sua malattia e la graduale disintegrazione del suo esercito, fu costretto ad accettare l'inevitabile. Il negoziato si spostò a Roma, dove Paolo II tentò di calmare il C. proponendogli il comando di una crociata a capo di un esercito italiano, con una condotta sottoscritta da tutti gli Stati italiani. Ma Firenze rifiutò di contribuire ad una condotta in favore del suo nemico, e finalmente l'8 maggio 1468 fu proclamata la pace, the non includeva una clausola di quel genere.

Così il C. dovette riprendere i suoi antichi rapporti con Venezia. Il 4 ott. 1468 firmò una nuova condotta per un anno secondo le clausole abituali. Questi avvenimenti ebbero come unico effetto, alla lunga, di rinforzare l'atteggiamento sospettoso di Milano nei confronti del C., e, d'altro canto, di accrescere l'antipatia personale del C. verso Galeazzo Maria Sforza, che ai suoi occhi appariva come il principale artefice della sua sconfitta. Da questo momento in poi, egli si trovò costantemente sorvegliato dallo spionaggio di Milano ed ogni parata militare di normale amministrazione veniva interpretata come segno di una possibile aggressione militare.

Tuttavia nel 1469 il C. rivolse l'attenzione ad un possibile attacco angioino contro Napoli. In quest'occasione gli interessi del C. e quelli di Venezia trovarono punti di contatto, perché Venezia vedeva nella dinastia aragonese di Napoli un nemico sempre più pericoloso, acausa sia dell'accrescersi della sua forza militare e navale sia della minaccia potenziale rappresentata da un blocco all'imbocco dell'Adriatico. Venezia incoraggiò così le speranze degli Angioini circa la disponibilità del C. a guidare l'invasione, e consenti a quest'ultimo di accettare l'invito ad aggiungere agli altri suoi titoli quello d'Angiò. Ma l'invasione non si realizzò e nel maggio 1470 il C. ancora una volta arrivò a Venezia per negoziare il rinnovo del contratto. Poiché egli aveva chiesto una condotta anche a Paolo II, Venezia, più che mai decisa a legarlo strettamente al proprio servizio, nel rinnovargli la condotta ammise il C., secondo la prassi tradizionale, nel Maggior Consiglio.

Durante i negoziati per il rinnovo di questa condotta, il C. ancora una volta aveva cercato di persuadere Venezia ad attaccare Milano; e nel 1471 si rinfocolò l'ostilità personale fra lui e Galeazzo Maria Sforza. Questo antagonismo veniva a collocarsi nel contesto della crescente tensione dovuta all'approssimarsi della morte di Borso d'Este e alla eventualità di una lotta di successione a Ferrara. Quando, dietro ordine di Venezia, il C. mobilitò le sue truppe, lo Sforza reagì immediatamente. Tale reazione prese la forma di una "sfida" a un combattimento fra lo Sforza stesso e il C., con mille uomini da una parte e dall'altra. In caso di vittoria del C. il premio avrebbe dovuto consistere in una città della Romagna; mentre 100.000 ducati sarebbero stati il premio in caso di vittoria dello Sforza. Questa sfida avrebbe dovuto aver luogo alla scadenza del contratto del C., nella primavera del 1472, e benché ad alcuni apparisse come un atto di tarda cavalleria medievale ormai in declino, il suo fine era chiaramente quello di staccare il C., da Venezia e di creare un casusbelli fra i due Stati. Gli altri Stati italiani presero questo combattimento molto sul serio e la diplomazia papale e quella di Napoli esercitarono il loro peso nel tentativo di scongiurare lo scontro. Questi sforzi ebbero successo, e, sia pure con riluttanza, lo Sforza e il C. furono persuasi a rinunciare all'impresa. Il C. riuscì a ridurre in una certa misura il suo disappunto nell'aprile 1472, quando arrestò e fece giustiziare Ambrogio Vismara, uno dei suoi cancellieri, individuato come spia dello Sforza; ma ciò contribuì ad alimentare la animosità fra lui e Galeazzo Maria.

Tuttavia nel 1472 si presentò al C. una nuova opportunità di portare avanti la sua vendetta contro lo Sforza e di aumentare il suo prestigio e la sua influenza a livello internazionale. La forte rivalità fra Luigi XI di Francia e Carlo il Temerario di Borgogna spingeva sempre più quest'ultimo a ricercare l'appoggio degli Stati italiani ed a reclutare soldati italiani per rafforzare il proprio esercito. Poiché Milano era tradizionalmente alleata alla Francia, la diplomazia borgognona si volgeva verso Venezia, ed al C. fu offerto il comando dell'esercito di Borgogna. Venezia salutò con favore l'alleanza con la Borgogna, sia come sostegno nel suo lungo conflitto con l'Impero sia come mezzo per rafforzare il legame con la zona delle Fiandre, di decisiva importanza economica; ma mentre Venezia era preparata a prendere in considerazione l'eventualità di concedere al C. di servire il duca di Borgogna, la possibilità di un contratto con Carlo con il relativo abbandono del servizio di Venezia, non incontrava nel Senato maggior favore di quanto ne avesse incontrato in precedenza. Il C., d'altra parte, era attirato dall'enorme sonuna che gli veniva offerta, e ancor più dalla possibilità che la Borgogna lo appoggiasse in un attacco contro Milano. Nel febbr. 1473 fu firmato fra il C. e Carlo il Temerario, un contratto di tre anni, che assegnava al condottiero 150.000 ducati all'anno per 1.000 lance e 1.500 fanti. Tuttavia ancora una volta è difficile stabilire quanto seria fosse l'intenzione del C. di lasciare il servizio di Venezia. Certamente egli era attirato più dalla prospettiva di un attacco congiunto contro Milano che da quella di una carriera militare nell'Europa del Nord; ed è anche chiaro che il contratto con la Borgogna rappresentava un mezzo efficace per ottenere da Venezia maggiori concessioni. Appena fu evidente che Venezia non aveva alcuna intenzione di lasciar partire il C., Carlo abbandonò l'idea senza creare problemi. All'inizio dell'estate del 1473 si ricominciò a parlare di una discesa del C. in Romagna.

Carlo il Temerario di Borgogna non fu il solo sovrano europeo con cui il C. ebbe rapporti; nel marzo 1474 ricevette la visita a Malpaga del re Cristiano I di Danimarca, che si stava recando a Roma. Malpaga era allora un suntuoso castello degno di un principe; gli ampliamenti e le ristrutturazioni erano probabilmente opera di Bartolomeo Gadio di Cremona, e le pareti degli interni erano decorate con affreschi in stile franco-lombardo, forse di Bartolomeo da Prato. La campagna circostante, dopo le migliorie e i lavori di bonifica, era stata trasformata in un ricco terreno agricolo e in zona di acquartieramento e piazza d'armi per le sue truppe. Al suo mecenatismo erano debitrici, in diversa misura, molte città vicine. Il santuario della Basella godeva del suo particolare favore e fu qui che nel 1470 egli fece seppellire la sua figliola prediletta, Medea, e commissionò a Giovanni Amadeo il bel monumento tombale che in seguito venne trasferito nella cappella Colleoni a Bergamo. Egli fece restaurare le chiese di Romano e Malpaga, e fece costruire il monastero francescano dell'Incoronata e il convento di S. Chiara a Martinengo. Tra gli affreschi commissionati per l'Incoronata si trova il famoso ritratto del donatore in ginocchio, ora conservato nell'Istituto Bartolomeo Colleoni a Bergamo. Un altro progetto locale fu il restauro dei bagni di Trescore, le cui virtù curative furono descritte ed esaltate in un trattato, dedicato al C., del suo medico Ludovico Bugella, detto lo Zimaglia. Ma soprattutto a Bergamo si manifestò la grandezza del mecenatismo dei Colleoni. Qui nel 1466 egli fondò la Pietà, un'istituzione che doveva soprattutto fornire di dote le gentildonne impoverite. Nel 1471 si adoperò per chiamare ad insegnare a Bergamo Gian Mario Filelfo, cui pagò parte dello stipendio. Più o meno nella stessa epoca egli concepì l'idea di una grandiosa cappella funeraria per sé e la propria famiglia a Bergamo. I lavori ebbero inizio nel 1472, sotto la direzione di Alessio Agliardi, e durante la costruzione fu abbattuta la sacrestia di S. Maria Maggiore per avere una maggiore disponibilità di spazio. La cappella e le sculture "ornate", opera dell'Amadeo, non erano ancora terminate alla morte del Colleoni.

L'approssimarsi della morte del C. fu un evento di importanza internazionale. Sullo scorcio dell'estate dell'anno 1474 egli cadde gravemente ammalato e Venezia cominciò a muoversi sia per riorganizzare le proprie difese sia per impossessarsi della maggiore parte possibile delle ricchezze del condottiero. Ma tali preparativi si rivelarono prematuri; il C. guarì abbastanza bene, tanto da intraprendere un pellegrinaggio a Loreto nel gennaio 1475: la sua presenza in Romagna mise in giro di nuovo una ridda di voci e di sospetti. Appena tornato, egli cominciò a negoziare con Venezia il rinnovo della sua condotta. Il suo scopo principale a questo punto era di costringere Venezia a, versargli parte dell'enorme somma che essa gli doveva come paga arretrata. Il 15 maggio 1475 egli restituì formalmente il bastone di comando e cominciò a smobilitare le compagnie, sostenendo che non poteva più permettersi di pagarle. Venezia, consapevole dell'approssimarsi della fine, rifiutò le sue dimissioni e cercò di dargli soddisfazione con un nuovo contratto e con la cessione di ulteriori feudi, Cividate e San Nazzaro. Il 16 ottobre il C. si ammalò per l'ultima volta e il 27 ottobre dettò un nuovo testamento. Venezia inviò urgentemente tre provveditori perché vegliassero vicino a lui e presiedessero alla finale spartizione dell'eredità. Alle prime ore del 2 novembre il C. morì a Malpaga, forse di epatite acuta: il 4 novembre fu sepolto a Bergamo, probabilmente nella sua cappella non ancora ultimata; ma ancora oggi si discute circa l'esatta localizzazione dei suoi resti. Giovanni Michele Carrara e Guglielmo Pagello pronunciarono le orazioni funebri.

Il C. morì senza diretti eredi maschi, ma ebbe otto figlie, legittime ed illegittime. Tre figlie, Ursina, Caterina ed Isotta sposarono membri della famiglia Martinengo, i più stretti collaboratori militari del Colleoni. I figli di Ursina, la sua primogenita sposata a Gherardo Martinengo, presero il nome di Colleoni ed avrebbero dovuto essere i maggiori beneficiari del suo testamento. Medea, la sua figlia preferita, morì nubile nel 1470 e Cassandra e Polissena sposarono rispettivamente Niccolò da Correggio e Bernardo da Lodrone. Le altre due figlie, Riccadonna e Doratina, ancora nubili alla morte del padre, sposarono in seguito due membri dell'importante famiglia veneziana dei Barozzi, portando cospicue doti provenienti dalle proprietà del Colleoni.

Il testamento redatto dal C. il 27 ott. 1475, con un codicillo del 31 ottobre, stabiliva che il grosso delle sue proprietà andasse diviso fra Caterina, Isotta, ed i figli (Alessandro ed Ettore) di Ursina, che era già morta. Era quindi intendimento del C. concentrare le sue ricchezze e le sue proprietà nelle mani dei suoi parenti Martinengo, particolarmente di quelli che avevano preso il suo nome. Inoltre il codicillo lasciava a Venezia 100.000 ducati, le paghe arretrate di cui essa gli era debitrice e 10.000 ducati dovutigli da Ercole d'Este, per finanziare la guerra contro i Turchi e per fargli erigere una statua che, secondo i suoi desideri, avrebbe dovuto sorgere in piazza S. Marco. Con questo lascito generoso egli sperava probabilmente di scongiurare il pericolo che Venezia, trascurando il suo testamento, si impossessasse della sua fortuna; ma se era così, la sua speranza non era destinata a realizzarsi. La statua equestre del Verrocchio fu poi eretta, secondo quanto espresso nel testamento, ma fu collocata in campo SS. Giovanni e Paolo, e non nelluogo da lui designato, perché Venezia era contraria all'erezione di statue in piazza S. Marco, specialmente se si trattava di statue di non veneziani. Né Venezia, nella sua inosservanza deltestamento del C. si limitò a questo, Solo due dei suoi dieci feudi, cioè Malpaga e Cavernago, poterono passare ai suoi eredi. Gli altri otto furono reintegrati nello Stato veneziano, nonostante le specifiche promesse in senso contrario fattegli nei vari contratti durante il corso della sua vita. A giustificazione formale di questa violazione degli impegni presi fu addotta la richiesta in quel senso fatta dalle popolazioni locali; ma la verità è che la creazione di tali feudi era legata specificatamente alla necessità di mantenere, una gran parte dell'esercito veneziano e che senza tale motivo non poteva essere ammessa la loro alienazione. Dei 230.000 ducati presi in consegna dai provveditori veneziani a Malpaga e nelle altre residenze del C. e spediti a Venezia, solamente una piccola parte pervenne nelle mani dei suoi eredi. Anche le grandi somme ricavate dalla vendita dell'argenteria, del vasellame e degli arredi del C. furono per la maggior parte incamerate da Venezia. Un'ispezione delle truppe del C. fu eseguita dopo la sua morte dai provveditori veneziani, che, dopo il rinvio dei vecchi e degli inabili, ne stabilirono l'arruolamento fra le "lanze spezzate". Le liste militari veneziane fanno riferimento a compagnie di colleoneschi fino a trent'anni dopo la morte del condottiero.

Il C. fu senza dubbio una figura eccezionale. La sua statura imponente e il suo fisico robusto costituirono un vantaggio naturale nella sua carriera militare. Sembrò che in lui si combinassero le qualità della tradizione della scuola sforzesca e di quella braccesca, ambedue caratteristiche dell'arte militare italiana del XV secolo. Molte delle sue grandi vittorie si dovettero alla rapidità e ferocia dei suoi attacchi; eppure egli poteva, quando le circostanze lo richiedevano, rivelarsi estremamente cauto e fu sempre capace di mantenere la disciplina. Il suo contributo fondamentale fu l'enfasi che egli pose sul ruolo della fanteria; le sue compagnie includevano sempre grossi corpi di fanteria ed egli stesso preferiva marciare a piedi coi suoi uomini. Come specialista della guerra di montagna e con un senso chiaro anche se non eccezionale, dell'importanza dell'artiglieria, egli fu particolarmente consapevole della crescente importanza dei ruolo della fanteria sul campo di battaglia. Considerato da un punto di vista più ampio, egli fu certamente ambizioso e non abbandonò mai il desiderio di crearsi un proprio solide Stato indipendente. Ma nello stesso tempo seppe adattarsi in grande misura al sistema istituzionale veneziano, divenendo il classico esempio di condottiero feudatario, installato sulla frontiera in qualità di difensore permanente dello Stato. In realtà, il suo ruolo nel Bergamasco non fu tanto lontano da quello di un principe indipendente, cosicché si potrebbe affermare che egli riuscì a uscire fuori dal sistema veneziano, soprattutto nei momenti in cui Venezia si venne a trovare in difficoltà finanziarie e dovette adattarsi alla coesistenza con Milano in Lombardia. Il C., con la sua estrema cupidigia e gli occasionali slanci bellicosi, rappresentò una costante fonte di preoccupazione per Venezia, impegnata a mantenere la pace in Italia e a conservare le sue risorse finanziarie. Ma nello stesso tempo Venezia non poteva permettersi di perderlo; le sue truppe costituivano il fulcro del suo esercito ed erano indispensabili per la difesa della frontiera occidentale contro Milano, del cui pacifismo non poteva fidarsi, soprattutto sotto Galeazzo Maria Sforza. Se è vero che le azioni del C. sembrarono spesso minacciare il fragile equilibrio successivo al 1454, è anche vero che proprio la sua presenza contribuì alla realizzazione di quel medesimo equilibrio.

Fonti e Bibl.: Le fonti sulla vita del C., rintracciabili negli archivi dell'Italia settentrionale e centrale, sono state ampiamente descritte e sfruttate nella magistrale biografia di B. Belotti, Vita di B. C., Bergamo 1923 (2 ediz., ibid. 1933; 3 ediz., ibid. 1951). Manca invece una soddisfacente documentazione sull'organizzaz. e vicende della sua compagnia, sul tipo di quella esistente per la compagnia di Micheletto Attendolo. Il lavoro del Belotti è così superiore ad ogni altra opera biografica, posteriore che rende inutile una lista delle biografie più recenti. Tutte le biografie utilizzano come punto di partenza un gruppo di scritti contemporanei o quasi contemporanei: A. Cornazzani De vita et gestis Bartholomaei Colei... commentar. libri sex, in I. G. Graevius, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, IX, 7, Lugduni Batavorum 1723; P. Giovio, Gli elogi degli uomini ill., in Opera, a cura di R. Maregazzi, VII, Roma 1972, pp. 340 s.; P. Spino, Historia della vita e fatti dell'eccellentissimo capitano di guerra B. Coglione, Venezia 1569. Dopo queste la maggior parte delle biografie si basano sulle principali cronache e fonti documentarie pubbl. da quel periodo, tra cui le più importanti ai fini biografici sono: M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, in L. A. Muratori, Rerum Italic. Scriptores, XXII, Mediolani 1733, ad Indicem, La cronaca di Cristoforo da Soldo, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XXI, 3, a cura di G. Brizzolara, ad Indicem; D. Malipiero, Annali veneti, in Arch. stor. ital., VII (1843), pp. 210 s. L. Osio, Docum. diplom. tratti dagli archivi milanesi, III, Milano 1872, ad Indicem; I Libri commemoriali della Repubblica di Venezia, a cura di R. Predelli, Venezia 1896-1901, ad Indices; Cronaca di anonimo veronese, 1446-1488, a cura di G. Soranzo, Venezia 1915, ad Indicem. Tra le molte biografie complete e parziali, oltre a quella precedentemente citata del Belotti, meritano di essere menzionati: O. Browning. Life of B. C. of Anjou and Burgundy, London 1991; A. Mazzi, La giovinezza di B. C., in Arch. stor. lombardo, s. 4, IV (1905), pp. 376-391; P. Clemen, B. C., in Bilder und Studien aus drei Jahrtausender: Eberhard Gothein zum 70. Geburtstag als Festgabe, München 1923, pp. 109-142. In una visione più ampia della situazione polit. e militare ital. del XV sec., particolarmente utili per lo studio della carriera del C. sono le seguenti opere: E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino 1893, II, pp. 73-76, 80, 89, 96 s., 99, 124-30; W. Block, Die Condottieri, Berlin 1913, pp. 114-143; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, Milano 1940, ad Indicem; P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare ital., Torino 1952, ad Indicem; M. E. Mallett, Mercenaries and their Masters: Warfare in Renaissance Italy, London 1974, ad Indicem, Le lettere di Lorenzo de' Medici, a cura di R. Fubini, I-II, Firenze 1977-78, ad Indices. Infine sono utili una serie di studi più dettagliati su specifici aspetti: A. Angelucci, Ricordi e doc. di uomini e di trovati ital. per servire alla storia milit., Torino 1866, pp. 77 ss.; C. Fumagalli, Il castello di Malpaga e le sue pitture, Milano 1894; G. Graevenitz, Gattamelata (Erasmo da Narni) und C. und ihre Beziehungen zur Kunst, Leipzig 1906; L. Fumi, La sfida del duca Galeazzo Maria Sforza a B. C., in Arch. stor. lombardo, s. 4, XVIII (1912), pp. 357-392; F. Cusin, Impero, Borgogna e politica italiana, in Nuova Riv. stor., XIX (1935), pp. 137-172; XX (1936), pp. 34-57; B. Belotti, Studi colleoneschi, Milano 1939; T. Bertelé, Iconografia di B. C., in Bergomum, XLIV (1950), pp. 3-36; A. Meli, Cappella Colleoni: i tre santi dell'ancona, ibid., LIX (1965), pp. 3-46; Id., B. C. nel suo mausoleo, Bergamo 1966; L. Angelini, Il castello di B. C. a Malpaga. La vita e le gesta del condottiero. Il monum. di Venezia, Bergamo 1967; M. E. Mallett, Venice and its condottieri, 1404-54, in Renaissance Venice, a cura di J. R. Hale, London 1973. pp. 121-145.

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