CORSINI, Bartolomeo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 29 (1983)

CORSINI, Bartolomeo

Vittorio Sciuti Russi

Nacque a Firenze il 9 maggio 1683 da Filippo, marchese di Laiatico, e da Lucrezia Rinuccini, primogenito di una nobile casata, arricchitasi nei secoli aurei della dinastia medicea con il commercio e con attività finanziarie, divenuta poi detentrice di grandi estensioni agrarie.

Filippo (1647-1705), esponente di rilievo del gruppo dirigente toscano, amico d'infanzia e compagno di viaggio (insieme con il conte Magalotti) di Cosimo, figlio di Ferdinando II, ne era divenuto consigliere di Stato nel 1670 al momento della sua successione al granducato. Il C. fu presto inserito nella vita di corte: nel 1705 gentiluomo di camera di Cosimo III, che poco dopo lo nominò suo guardaroba maggiore; promosso, nel 1720, a maestro di camera della figlia del granduca, vedova dell'elettore palatino; nel 1722 nominato cavallerizzo maggiore. Aveva sposato nell'agosto del 1705 Vittoria Altoviti, dalla quale avrebbe avuto numerosi figli i cui matrimoni, tra il 1728 ed il 1730, lo avrebbero imparentato con il marchese Filippo Niccolini, con il marchese Lorenzo Ginori (governatore di Livorno) e con il principe Lorenzo Strozzi.

La svolta decisiva per le fortune della famiglia Corsini si ebbe nel 1730, con l'elezione a pontefice, sotto il nome di Clemente XII, dello zio Lorenzo. Insieme con il fratello Neri (già ambasciatore del granduca, futuro cardinale), il C. si trasferì a Roma. Clemente XII lo elesse capitano generale della guardia nobile; elevò a principato la signoria di Sismano, a ducato quella di Casigliano; e nel 1731 lo chiamò a presiedere la Congregazione del commercio (o del sollievo), nell'ambito della quale il C. promosse un deciso programma di politica mercantilistica: l'editto istitutivo del porto franco di Ancona (14 febbr. 1732) sarà uno dei primi provvedimenti suggeriti al Pontefice e da questo attuati al fine di incrementare il commercio e riequilibrare la bilancia dello Stato pontificio.

Sin dal dicembre del 1731, Carlo di Borbone si trovava in Toscana con un esercito di seimila soldati spagnoli a tutela dei suoi diritti di successione negli Stati medicei e farnesiani. L'intraprendente C. decise di porsi al servizio del giovane principe, lo raggiunse a Firenze e poi nell'ottobre del 1732 lo accompagnò a prendere possesso del ducato di Parma e di Piacenza. La guerra di successione polacca, com'è noto, offrì ad Elisabetta Farnese l'occasione per conquistare al figlio il Regno di Napoli e quello di Sicilia: nel febbraio del 1734 l'armata spagnola marciava da Parma verso Firenze e poi verso il Sud attraverso la Toscana e lo Stato pontificio. Il C. aveva ottenuto, per la mediazione del fratello cardinale, l'autorizzazione di Clemente XII al transito dell'esercito.

Nella "gioiosa entrata" a Napoli (10 maggio 1734), l'ayo conte di Santisteban si trovava alla destra dell'infante vittorioso, alla sinistra il C., nominato cavallerizzo maggiore e consigliere di Stato. Assistette Carlo di Borbone nella campagna militare contro le truppe imperiali nel Mezzogiorno continentale ed in Sicilia (novembre 1734-giugno 1735); alla cerimonia del l'incoronazione nella cattedrale di Palermo (3 luglio 1735) resse la spada sguainata del sovrano, che lo aveva di recente nominato primo gentiluomo di camera d'entrata: "io ho già preso il mio partito - aveva scritto al figlio Filippo - che è di seguitare la sorte di questo Re, finché il Signore mi darà salute" (Bibl. dell'Acc. naz. dei Lincei, Cors. 2481, c. 42).In quegli anni il C. rappresentò "il canale diplomatico diretto, anche se ufficioso", tra Napoli e la S. Sede, le cui relazioni furono subito caratterizzate da gravi contrasti derivanti in primo luogo dal rifiuto dell'investitura e dell'"omaggio della chinea", ricevuto invece dal rappresentante dell'imperatore (28 giugno 1734).

Il C. "con le lacrime agli occhi" raccomandava al fratello, cardinal nepote, di persuadere alla moderazione Clemente XII; ma il più che ottuagenario pontefice, volitivo e testardo, non intendeva operare alcun cedimento in materia di investitura, exequatur ed immunità, nonostante la consapevolezza del legame tra le fortune della famiglia Corsini e gli interessi dei Borboni. Negli ambienti cortigiani si ipotizzava persino la possibile successione del C. nello Stato parmense e forse anche in quello mediceo, la politica europea degli equilibri non consentendo la concentrazione di tanto estesi domini nelle mani di Carlo di Borbone. La pace di Vienna del 1738 avrebbe poi definitivamente dissolto nella famiglia Corsini queste speranze.

La violenta reazione popolare che si ebbe a Roma nel marzo del 1736 contro il "forzato" reclutamento di soldati per l'esercito spagnolo ad opera di arruolatori ispano-napoletani ed i moti antiborbonici a Velletri ed Ostia contro le prepotenze delle truppe portarono ad un punto di rottura la tensione già esistente tra Napoli e la S. Sede. Nell'estate del 1736, il cardinale Neri "inclinava fortemente a far la pace a qualunque costo" (Cors. 2479, cc. 116 e 120). La nomina del C. a viceré di Sicilia (1737), già da tempo progettata, costituiva un ulteriore segno di disponibilità politica da parte delle intransigenti corti spagnola e napoletana.

L'atteggiamento del cardinale nepote andò poi in seguito modificandosi. Di fronte all'alternanza di salute, alla cecità ed alla mancanza di memoria del pontefice, Neri non volle assumersi tutta la responsabilità della politica vaticana e preferì tergiversare nelle trattative: il problema dell'investitura fu risolto nell'inverno del 1738, ma il concordato tra Napoli e la S. Sede sui problemi politici e giurisdizionali fu definito soltanto nel 1741, agli inizi del pontificato di Benedetto XIV.

La corrispondenza del C. con il figlio Filippo, residente a Roma insieme con la moglie e con la madre, testimonia le preoccupazioni finanziarie per le imponenti spese di rappresentanza sostenute al seguito del sovrano, con accenti che talvolta esprimono un'angusta avarizia.

Ad esempio, il C. così commentava nel maggio del 1735 la nomina a gentiluomo di camera del sovrano: "questo onore non mi frutterà niente... ma mi costerà per mance 60 dobloni" e "la spesa della chiave mi anderà a cento doble di Spagna, cara mercanzia senza averla cercata, né essermene curato" (Cors. 2481, cc. 12 e 13). Emerge inoltre la grande attenzione del C. agli investimenti ed ai commerci della famiglia (prestiti, argenti, uffici vacabili, drappi e sete, grani, appalto della carta e del gioco del lotto, ecc.). Da Napoli e Palermo il C. controllava anche puntigliosamente la contabilità delle aziende agricole in Toscana, in Umbria, nel Napoletano e seguì le lunghe trattative per l'acquisto del palazzo romano dei marchesi Riario alla Lungara. La politica e la propaganda culturale della grande famiglia toscana imponevano una adeguata residenza, nella quale poter sìstemare la grande biblioteca, l'importante pinacoteca e la collezione di stampe, formatasi soprattutto ad opera del cardinale Neri. Non era più sufficiente alle esigenze dei Corsini l'abitazione di piazza Navona, tenuta in locazione, per la quale era stato progettato un ampliamento con l'acquisto di un edificio in via dell'Anima, ed era stata rifiutata l'offerta di palazzo Manfroni, reputato "buona casa per un privato, ma [che] non si potrà mai chiamare Palazzo da nipoti di Papa" (ibid., 47). La trattativa con il Riario, mediata anche da Bartolomeo Intieri, andò a buon fine nell'estate del 1736. Il prezzo pagato fu di 40.000 scudi romani ed il C. sembrò molto soddisfatto dell'affare concluso: la costruzione di una abitazione di eguale grandiosità avrebbe comportato una spesa superiore a 70.000 scudi romani. Egli aveva inutilmente sperato in un generoso contributo, o almeno in un prestito senza interessi, da parte del pontefice (ibid., cc. 24 e 109); in assenza di questo aiuto sarebbe stata necessaria la vendita del palazzo di via Fiammetta per 25.000 scudi (ibid., cc. 24, 116). Il trasferimento della famiglia Corsini sarebbe poi avvenuto soltanto nell'inverno del 1737, dopo aver provveduto ai restauri ed ampliamenti di cui necessitava l'edificio.

Da Palermo, nel luglio del 1735, il C. comunicava al fratello Neri di aver rifiutato l'interim della carica di viceré di Sicilia, poi affidato al marchese di Grazia Reale. Riteneva infatti non conveniente accettare l'ufficio per un periodo inferiore ai "tre anni, con i gradi e gli assegnamenti convenienti": "io mai ci ho contato e desidero che questa sorte di riparazione messami in vista più volte non venga, perché prevedo mi costerebbe del denaro, ed al fumo ci ho rinunziato fin da quando lasciai codesto Paese" (Cors. 2479, c. 86). Le perplessità erano poi accresciute dalla consapevolezza che "né per autorità, né per lucro" l'ufficio viceregio fosse paragonabile al passato (ibid., cc. 88 e 91). Pochi mesi dopo, nel settembre del 1735, il cardinale Acquaviva, ambasciatore spagnolo presso la S. Sede, gli dava per sicuro l'incarico (ibid., c. 94) e lo stesso C. ne prevedeva il conferimento alla fine del prossimo anno (ibid., c.96). Il maggiordomo maggiore, conte di Santisteban, riteneva che egli non avesse concorrenti: si preferiva infatti conferire il posto ad un "italiano", essendo i "napoletani colà odiati indistintamente" (ibid., c. 107). In effetti l'ordine di inviare il C. in Sicilia venne da Madrid nel maggio del 1736 (ibid., c. 119); il dispaccio ufficiale di nomina a viceré e capitano generale fu emanato il 10 febbr. del 1737; il C. sarebbe giunto a Palermo il 7 marzo. Carlo di Borbone gli aveva concesso la grazia di percepire, oltre alle spettanze di viceré e di capitano generale, quelle di cavallerizzo maggiore (in totale - prevedeva il C. - circa 40.000 ducati napoletani) ed inoltre era stato esentato dal pagamento della tassa della mezza annata" (Cors. 2481, c. 103; 2479, c. 150).

Il governo viceregio costituì una importante esperienza, dalla quale derivarono al C. successo politico e vantaggi finanziari. La sua permanenza in Sicilia fu molto più lunga del previsto. L'ufficio di viceré, di durata triennale, era infatti prorogabile ad istanza del Parlamento isolano e per grazia del re: il C. ottenne una prima conferma nel marzo del 1740 ed al termine del secondo triennio una proroga a beneplacito del sovrano. Complessivamente restò in Sicilia per dieci anni.

Dalla sua corrispondenza con i familiari e dalle amichevoli lettere che gli scrisse il segretario di Giustizia Bernardo Tanucci, emerge la conflittualità di sentimenti del C., preoccupato di restare politicamente isolato a causa di una così prolungata permanenza lontano da Napoli, ma soddisfatto di non essere coinvolto nelle "guerre cortigianesche". Altro motivo ricorrente era costituito poi dalla nostalgia degli affetti familiari, accresciuta per la difficoltà di "aver qui veruno amico, né persona di confidenza, né di potervelo a mio credere fare, quantunque vi stessi vent'anni" (Cors. 2479, c. 168). Un indubbio conforto gli derivò tuttavia dai lucrosi affari che andava concludendo nel commercio dei grani e che costituirono certamente il principale motivo della sua determinazione di rimanere in Sicilia.Pur non essendo aderente al partito spagnolo, dominante nel "tempo eroico" della giovane monarchia meridionale, il C. fu legato da un rapporto di reciproca stima e rispetto con il conte di Santisteban e con il primo segretario di Stato, il duca di Salas, Joachin Montealegre. Il richiamo in Spagna del Santisteban (agosto 1738) pose in pericolo la carica del C., da poco più di un anno in Sicilia.

Il conte, infatti, prima della sua partenza, avrebbe voluto opporre all'invadenza ed allo strapotere del Montealegre un personaggio di rilievo, ed aveva pensato al C. come suo successore nell'importante incarico di maggiordomo maggiore del re. Il titolare di questo ufficio era infatti il coordinatore dei lavori delle segreterie e l'intermediario tra i segretari di Stato ed il sovrano. Ma il tentativo fallì, il posto fu preteso ed ottenuto dal duca di Sora, maggiordomo della regina, e il Santisteban ottenne per il C., cui non aveva chiesto il preventivo consenso, il posto lasciato libero dal Sora. Ne derivò un "caso" politico di cui discussero a lungo gli ambienti governativi napoletani, palermitani e romani. Il C. infatti rifiutò la nuova carica: si giustificò sostenendo che l'età avanzata gli impediva di poter adempiere ai faticosi impegni protocollari di assistenza alla giovane Maria Amalia; si lamentò con tono risentito di essere stato chiamato ad una dignità inferiore a quella del duca di Sora, "uomo fresco di servizio e di età giovanile"; si dichiarò infine devotamente pronto a tornare a Napoli per servire il re soltanto nella carica che formalmente ancora conservava di suo consigliere di Stato. Ottenne, in tal modo, di essere lasciato in Sicilia. In quegli stessi mesi gli fu conferito l'Ordine di S. Gennaro, istituito da Carlo in occasione dell'arrivo a Napoli della futura regina.

Il lungo viceregno del C. attraversa gli anni di costruzione della monarchia meridionale, caratterizzati dalla invadente influenza della corte spagnola e da un sistema di governo personale ed accentrato nelle mani del conte di Santisteban prima, e poi del Montealegre. L'unità di direzione politica rese possibile la progettazione e l'attuazione di importanti iniziative di riforma in materia di giurisdizione feudale, di immunità ecclesiastiche, di espansione del commercio, di riorganizzazione amministrativa e di riordinamento legislativo. Il rapporto tra Napoli e la Sicilia fu regolato assumendo a modello la prassi e il sistema amministrativo spagnolo: al Regno di Sicilia furono riconosciuti autonomia istituzionale e rispetto della tradizione legislativa. Non si rinunziò, d'altra parte, a porre in moto il processo di unificazione politica dei due regni, sia mediante l'ampio inserimento di siciliani ai vertici dell'amministrazione centrale, delle dignità di corte e delle carriere militari, sia attraverso l'estensione all'isola delle principali iniziative di riforma. Il C. per le sue qualità intellettuali e per la sua esperienza politica fu in grado di svolgere una equilibrata mediazione tra le direttive del governo napoletano e le resistenze opposte dall'aristocrazia e dalle magistrature siciliane.

A Celestino Galiani, occupato in quegli anni a comporre le vertenze con Roma sulle materie giurisdizionali, il C. partecipava il suo impegno al necessario regolamento dei fori ecclesiastici ed in particolare del tribunale dell'Inquisizione e di quello della crociata che in Sicilia, proprio a causa della "molta credulità e ignoranza, fanno grande specie": "questo Paese in somiglianti credenze è assai differente da quello di Napoli, perché con minor dottrina e maggior credulità" (Bibl. d. Soc. nap. di storia patria, ms. XXXI. A. 2, ff. 337 e 339).

Il Parlamento del 1738, il primo del regno di Carlo di Borbone, sembrò costituire "un monumento di esaltante concordia", grazie all'euforia creatasi all'arrivo del dispaccio con cui il sovrano riservava i benefici ecclesiastici di regio patronato al clero siciliano (ad eccezione dell'arcivescovado di Palermo, e per una volta soltanto di quello di Monreale). Il C. riuscì a far votare, oltre ai soliti donativi ordinari, un donativo straordinario di complessivi 300.000 scudi ed a far avanzare, dai tre bracci, unanimi richieste che si collocavano nel quadro della politica giurisdizionalistica napoletana: si sollecitò infatti dal sovrano "l'opportuno rimedio per ripararsi il grave disordine per l'eccessivo numero dell'Ecclesiastici, delle simolate traslazioni di effetti di Laici in testa di Ecclesiastici, e delle frodi che si commettono in pregiudizio delle gabelle"; si richiese inoltre il divieto alla fondazione di conventi e monasteri senza la preventiva autorizzazione regia.

Un'altra istanza, successivamente avanzata - con il dissenso del braccio ecclesiastico - nel Parlamento del 1741, fu invece diretta alla limitazione delle immunità reali e personali degli ecclesiastici ed all'estensione in Sicilia di alcuni articoli in materia di immunità locale del concordato stipulato con Roma. Il Montealegre comunicava al C. il gradimento del sovrano soprattutto per questa ultima richiesta, oltre che per il nuovo donativo straordinario di 300.000 scudi (Cors. 2497, c. 18).

Nel 1739 una ragione di aspra conflittualità tra i gruppi dirigenti siciliani ed il governo di Carlo di Borbone derivò dall'istituzione del Supremo Magistrato di commercio. Il nuovo organismo avrebbe dovuto costituire lo strumento idoneo per definire e realizzare un ampio programma di politica mercantilistica ed avrebbe inoltre consentito di riformare dall'interno lo ordinamento giudiziario. Il Magistrato di commercio ed i consolati di mare esautoravano di fatto gli antichi tribunali e la stessa giurisdizione feudale: erano divenute, infatti, di loro competenza tutte le controversie in materia di commercio ed il termine "commercio" fu espressamente inteso in modo amplissimo. La violenta opposizione del ministero togato e del baronaggio si manifestò nel Parlamento straordinario del 1742, in cui fu approvato un donativo di 200.000 scudi: il C. riusci a limitame la portata, convincendo i parlamentari a richiedere la riforma degli abusi, e non la soppressione, del nuovo tribunale.

La "grazia" dell'abolizione del Supremo Magistrato sarebbe stata poi sollecitata e sostanzialmente accolta nel successivo Parlamento del 1746, in cui fu offerto un donativo straordinario di 400.000 scudi.

La flessione della spinta riformistica, verificatasi già prima del richiamo in Spagna del Montealegre (giugno 1746), trovò nella mancata riforma del sistema fiscale e nel conseguente rapporto di dipendenza della sovranità dagli antichi centri di potere una causa determinante, aggravata dalla crisi internazionale ed interna (l'umiliazione inglese dell'agosto 1742, la peste di Messina del 1741 la guerra contro gli Austriaci del 1744).

In una lettera al C., congratulandosi dell'"ottima riuscita" del Parlamento del 1738, Bernardo Tanucci aveva criticato il sistema dei donativi che "s'impongono sempre e si fondano sopra obbligazioni perpetue di gabelle continue, consumandosene dalla Corte in un tempo il capitale che si ritrae": in tal modo "si ridurranno i Regni ad essere esausti, e consumato dal precedente tutto il futuro" (Cors. 2492, I, c. 10); e successivamente, nel 1739, egli aveva avviato per la Sicilia il progetto della numerazione delle anime e delle facoltà, deliberato dal Parlamento, così come per Napoli quello del catasto onciario, nella evidente considerazione che costituissero il presupposto indispensabile di ogni riforma fiscale.

Un forte accentramento amministrativo, realizzato attraverso l'esaltazione dell'autorità del ministero togato palermitano e della segreteria viceregia, resa efficiente e "moralizzata", caratterizzò la gestione del Corsini.

"Gli ufficiali del palazzo non poterono approfittarsi di un soldo di regalo, mentre egli su ciò osservava una somma vigilanza e ne castigò più di uno", annotò nei suoi diari F. M. Emanuele Gaetani, marchese di Villabianca, "tanto che si può dire che la segretaria non mai si è veduta più servita con tanto disbrigo e tanta limpiezza quanto nel governo di questo principe". Lo stesso diarista osservava che, "di un genio clementissimo e piuttosto freddo", il C. "non volea risolvere cosa da per sé, ma tutto bensì facea passare per il canale de' ministri", i quali l'avrebbero rimpianto "per la somma potenza che avevano acquistato". Blocco di potere, dunque, tra segreteria viceregia e ministero togato, sottoposti ad una continua ed attenta mediazione da parte del C., il quale, sempre "informato della particolarità dell'affare, metteva in soggezione i ministri alla referenda o nelle ordinazioni che doveano eseguire".

Tanta diligenza non contraddiceva, piuttosto era funzionale, alle speculazioni granarie con spregiudicatezza condotte dal C.: vi "guadagnò ingentissime somme, sì per il grosso capitale di centinaia di migliaia di scudi che vi raggirava, e sì per negoziare da viceré; il che faceva un effetto armonioso di restar sempre con vantaggio sopra qualsivoglia piccola partita". In questi commerci il Villabianca ravvisava "il motivo di far godere ai ministri la maggior possibile mano, perché di essi avea bisogno per costringere i debitori". Deve perciò essere valutata in difetto l'opinione, riferita da Benedetto XIV al cardinale de Tencin, secondo la quale il C. avesse "arricchita la sua casa d'un capitale di cento e cinquantamila scudi, avanzi del vicereato e di altre cariche avute in passato".

Nel marzo del 1747, a pochi giomi dal suo definitivo rientro a Napoli, il Tanucci informava il C. delle maldicenze che circolavano a corte, ove il partito degli italiani e dei "bigotti" della regina aveva preso il sopravvento dopo la caduta dei Montealegre: "Tutta la Corte e la Curia ... parla degli amori musicali di Vostra Eccellenza e della lucrosissima negoziazione che Vostra Eccellenza abbia fatto costì col denaro e coll'autorità del viceregnato". Gli "amori musicali" si erano realizzati nella persona di Maddalena Parigi, cantante fiorentina, chiamata nel 1746-47 ad interpretare alcuni drammi del Metastasio, musicati da Davide Perez. Il C. aveva incautamente raccomandato la Parigi al primo segretario di Stato, il marchese Fogliani, e questi con ostìlità aveva reso pubblica la lettera.

Al viceré Lavieufeuille, successore del C., il Tanucci avrebbe segnalato nel giugno del 1747 un ricorso giudiziale del "patriotto" ed "amico", di cui difendeva con fermezza i commerci: "I Toscani ... i Genovesi, i Veneziani hanno sempre riputato onestissimo il cercar nell'industria e nell'uso profittevole del genere umano onde provvedere alle spese che ai Grandi sono più necessarie e di ogni genere. Noi abbiamo in questo Regno l'esempio dei Re più riputati, quali i primi Alfonso e Ferdinando, i quali non solamente animavano i sudditi alla negoziazione, ma essi stessi negoziavano. Gli Olandesi, gli Inglesi, e tutti i Repubblicani dicono che per mantener la libertà conviene negoziare. E i Filosofi hanno detto generalmente che chi non si provvede o colla parsimonia o coll'industria sta sempre in pericolo di perder la libertà o col servire ad altri, o col far debito".

"Dopo il Vicereato di Sicilia" - secondo l'attento ed informato giudizio di Benedetto XIV - il C. "non era che consigliere di Stato in Napoli, ove faceva poca figura, sì perché il Re non ci aveva genio, sì perché molto di rado si tiene il Consiglio". Il clima politico era profondamente mutato: agli entusiasmi del "tempo eroico" della monarchia ed alla crisi degli anni '42-'46 era seguita l'ordinaria amministrazione di Giovanni Fogliani d'Aragona, esponente del partito della regina, sostenuto dall'arcivescovo Spinelli. In quegli anni di pace si sarebbe lentamente avviato nel Mezzogiorno continentale ed isolano il processo di costruzione di uno Stato amministrativo. Il C. collaborò a questo progetto, tenacemente perseguito da Bernardo Tanucci.

Nel giugno del 1749, la lettura dello Esprit des lois (pubblicato l'anno precedente, e dì cui scrisse con ammirazione a G. Bottari) lo induceva a confrontare la sua esperienza di governo con le "nuove" riflessioni sulla vita delle umane società.

Il C. morì a Napoli il 29 nov. del 1752.

Fonti e Bibl.: La Biblioteca dell'Accad. nazionale dei Lincei di Roma, sez. Corsiniana, conserva gli importanti carteggi del C. con il fratello cardinale Neri (2479; 2487 bis e ter), con il figlio Filippo (2481-2483ter), con Giovanni Bottari (1578; 1634; 1910; 44.E.21), e le lettere ricevute - soprattutto durante gli anni del viceregno - da B. Tanucci (2492bis, I), da Nicola Fraggianni (2492bis, II; 2497bis), dal Montealegre (2494bis-2497), dal Santisteban (2493), dal Miranda (2488-2492), e da altri ministri spagnoli e napoletani (2494); lettere del C. a Celestino Galiani si trovano a Napoli, nella Bibl. della Soc. napoletana di storia patria, ms. XXXI. A.2, ff. 337, 339, 344, 356, 371, 383, 385, 397. Per l'attività di governo del C. in Sicilia si veda la document. relativa agli anni 1737-47 conservata presso l'Archivio di Stato di Palermo, Real Segreteria, dispacci e incartamenti; B. Tanucci, Epistolario, I-II,Roma 1980, ad Indices (ipassi citati nel testo si trovano nel vol. II, pp. 201, 260 s.); Parlam, Gener. del Regno di Sicilia, a cura di A. Mongitore-F. Serio Mongitore, II, Palermo 1749, pp. 224-302; A. Mongitore, Diario palerm., in G. Di Marzo, Bibl. stor. e letter. di Sicilia, Diari, X,Palermo 1872, pp. 1-125 passim; F. M. Emanuele Gaetani, Diario palerm., ibid., XII,ibid. 1874, pp. 2-80 passim (il giudizio sul C., riferito nel testo, si trova alle pp. 79-80); Le lettere di Benedetto XIV al card. de Tencin, a cura di E. Morelli, II, Roma 1965, pp. 20, 228, 337, 519, 532; G. E. Di Blasi, Storia cronol. de' viceré, luogotenenti e presidenti del Regno di Sicilia, III,Palermo 1791, pp. 335, 337, 343, 360-415; L. Passerini, Geneal. e storia della famiglia Corsini, Firenze 1858, pp. 173-176; M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Milano-Roma-Napoli 1923, pp. 294, 316-318; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 7-9, 74, 83-84; R. Aiello, La vita polit. napoletana sotto Carlo di Borbone, "La fondazione ed il tempo eroico" della dinastia, in Storia di Napoli, VII,Napoli 1972, pp. 504 s., sio, 617 s., 643, 693 s., 698, 708; P. Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, p. 24; R. Shackleton, Montesquieu. A critical biografy, Oxford 1961, p. 37 ; A. Caracciolo, Il dibattito sui "porti franchi" nel Settecento: genesi della franchigia di Ancona, in Riv. stor. ital., LXXV (1963), pp. 548, 553 ss.; V. Sciuti Russi, Il Supremo Magistrato di Commercio, in Arch. stor. per la Sicilia orient., LXIV (1968), pp. 253-300; Id., Stabilità ed autonomia del ministero siciliano in un dibattito del sec. XVIII, in Riv. stor. ital., LXXXVII (1975), pp. 81-85; F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale: 1734-1816, in Storia di Sicilia, VI,Napoli 1978, pp. 200-214.

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