BARTOLOMEO di Castello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 6 (1964)

BARTOLOMEO di Castello (B. de' Cordoni da Città di Castello)

Paola Zambelli

Nato intomo all'anno 1471 da una nobile famiglia tifemate, già nell'infanzia si segnalò per la sua carità. Il padre, Cordone de' Cordoni (e non già Tarquinio, come afferma il Certini), fu inviato a Firenze nel 1482 per rappresentare la sua città e poco dopo (1485 circa) decise di mandarvi il figlio quattordicenne perché si perfezionasse nelle discipline liberali alla scuola del Poliziano. Della presenza di B. nei circoli umanistici non abbiamo altre testimonianze: è legittimo supporre che a Firenze egli abbia provato più interesse per la spiritualità del Savonarola che per gli ideali letterari del Poliziano. Richiamato poi (forse nel 1491) a Città di Castero, fece parte della magistratura dei Sedici nel 1492, e per le esigenze del casato dovette sposare Margherita, figlia del patrizio Francesco di Guido de' Baldovini. Da essa, morta ben presto, ebbe due figlie (nominate nel suo testamento del 1506), ma - come già nella Firenze del Magnifico egli aveva sfuggito spettacoh, danze, cene, delizie di corte e non aveva mai tralasciato la più assidua preghiera - così anche nel matrimonio B. volle osservare austerità ed ascetismo. Nel 1502 era sindaco della Fraternita dei disciplinati di S. Sebastiano; nel 1504 (vedovo e trentatreenne, secondo il biografo ed editore contemporaneo, f. Ilarione Pico) abbandonò definitivamente la vita mondana e si recò a S. Maria degli Angeli per vestire l'abito dei minori francescani, cui da tempo aspirava.

Nel cap. XXVIII del suo De unione animae B. affermava: "L'anima è pervenuta a tanta perfezione professando la Regola di S. Francesco, l'esercizio della quale rimuove tutto ciò che può ostacolare l'unione fra l'anima e Dio. In questa unione l'anhna vive sotto la regola del divino amore, che consiste in tutto dare e niente volere". La sua mistica richiamava soprattutto le Laude di Iacopone da Todi e l'Arbor Vitae crucifixae di Ubertino da Casale, fonti dirette del De unione;la sua vita monastica fu segnalata specialmente per l'assidua carità e per la santità che gli veniva attribuita.

Secondo f. Ilarione Pico da S. Sepolcro (nostra fonte per queste notizie, confermate dai cronisti delle origini cappuccine), il mistico desiderio di una morte santificante condusse B. a Gubbio (1526) e a Temi (1527-30) ove sperava di immolarsi curando le vittime di un'epidemia di peste. L'urniltà lo indusse addirittura a fingersi pazzo per esser disprezzato e vilipeso. Eletto dai confratelli fra i padri provinciali, e chiamato come guardiano del Monte di Perugia, B. ebbe le funzioni di vicario (1531). Egli è annoverato fra i primi seguaci di Matteo de' Basci, o piuttosto (come risulta dal Colpetrazzo) fra i suoi precursori: sollecitando infatti alcuni confratelli alla contemplazione, al silenzio e al rifiuto. degli offizi e delle orazioni ordinarie per ritirarsi a meditare sull'unione dell'anima con Dio, egli suscitò un fervore che indusse molti di loro a entrare fra i cappuccini. La sua vocazione alla crociata e al martirio, condivisa da molti discepoli, fu lungamente ostacolata dal loro provinciale e nel caso personale di B. dalle sue stesse cariche; finalmente, dopo aver fatto positivo ricorso a Clemente VII, B., Angelo da Botone e Bartolomeo da SpelIo furono autorizzati dal padre generale a unirsi ad una spedizione guidata da f. Giovanni Spagnuolo per andare a predicare il Vangelo agli infedeli.

Passando per la Spagna e il PortogaRo, essi si recarono una prima volta a Ceuta, a Orano (per il cui emiro avevano commendatizie di Giovanni III del Portogallo) e infine - per suggestione del governatore spagnolo Pietro Groio - a Mostocon, dove gli infedeli li imprigionarono e torturarono, poi li cedettero su riscatto e li lasciarono tomare ad Orano. Tomato in Spagna e di qui in Italia, B. compì una nuova spedizione con Bernardo da Bergamo, Francesco da Montone, Angelo da Botone e Bernardo da San Martino in Campo: partecipò con la crociata imperiale all'espugnazione della fortezza di La Goletta e alla vittoria sul Barbarossa a Tunisi. Qui morì il 9 o il 10 ag. 1535, probabilmente di morte naturale.

Secondo l'Oddi, B. fu autore di tre libri, tutti sullo stesso tema mistico: di essi però due sarebbero stati di un tono così alto che solo pochissimi dei discepoli potevano intenderli. Dei testi di questi due libri infatti non si ha traccia, mentre si hanno almeno tre edizioni postume del citato Liber de unione animae cum supereminenti lumine (stampato a Perugia per Girolamo Cartolaro, nel 1538, a cura del Pico, lettore di teologia a S. Maria degli Angeli, e con licenza del generale dell'Ordine, Vincenzo Lunel e del card. Grimani, legato a Perugia, riprodotto a cura del cappuccino Ieronimo Molfetta, per Francesco e Innocentio da Cicognara, Milano 1539; e infine, col titolo Dell'Unione dell'anima con Dio,appresso B. Carampello, Venezia 1593). Fu probabilmente la seconda edizione che suscitò, per la personalità del Molfetta, le censure ecclesiastiche.

Lo scritto è in forma di dialogo tra Amore Divino, Sposa Anima e Ragione Umana che ripropone, parlando ella sola il latino scolastico, le tesi della filosofia tradizionale, contro cui è rivolta la polemica del libro ("la scienza gonfia, la carità edifica"). Questo tema, riconducibile a Iacopone, si ricollega implicitamente alle discussioni contemporanee sulla riaffermata transustanziazione della carne in Cristo e sul valore di fede' carità e buone opere (che, secondo B., non avrebbero autonomo valore, ma accompagnate da fiducia virtuosa sarebbero grate a Dio). La nullità dell'uomo; l'amore inteso secondo R. Lullo come "virtù unitiva"; la riduzione della vera sapienza all'adorazione di Cristo "concordando la S. Scrittura con questo divino misterio et amoroso exercitio" e respingendo l'ínvito ficiniano alla pia philosophia degli antichi, che è anzi secondo B. "tal sapienza carnale e vana, et per sé sola, senza amore e senza lo condimento del lume divino, nociva, et espressa pazzia"; su questi motivi si articola il misticismo esasperato di B. che potè causare la condanna espressa da un decreto del S. Uffizio l'8 marzo 1584, ribadita dall'editto del 29 genn. 1600 e da quello redatto dal Guangelli nel 1603, e infine registrata nell'Indice del 1632 e da quello ufficiale del 1664, che la formulò in modo definitivo (sebbene una postilla del 1654 su un esemplare Vallicelliano riferisca che il Maestro del S. Palazzo stimava il libro non proibito e "da leggersi senza bisogno di licenze").

Fonti e Bibl.: Città di Castello, Arch. Capit., A. Certini, Istoria di 60 famiglie tifernati (ms.); Agostino da Stroncone, L'Umbria serafica, in Miscellanea francescana, VII (1898), V. 74; Bernardino da Colipetrazzo, Historia Ordinis Fr. Minor. Capuccinorum (Mon. Hist. Ord. Minor. Capucc., II), I, Assisi 1929, p. 24; Mattia da Salò, Historia capuccina (ibid. V), I, Roma 1954, PD. 151-3; G. Oddi da Perugia, La Franceschina (1572), 11,Firenze 1931, pp. 456-83; F. Gonzaga, De origine religionis franciscanae, Roma 1587, C. 159; L. Wadding, Script. Ord. Minor., Romae 1609, p. 37; G. G. Sbaraglia, Supplementum et castigatio ad Scriptores trium ordinum S. Francisci, Romae 1908, I, p. 118; L. Jacobilli, Vite de' santi e beati dell'Umbria, Foligno 1647, 1, p. 381-85; G. B. Vermiglioli, Biografia degli scrittori Perugini, Perugia 1828, 1, p. 303; N. Santinelli, Il b. B. Cordoni e le fonti della sua mistica, Città di Castello 1930; Melchiorre da Pobladura, Hist. gener. O. F. M. Capucc., Roma 1947, 1, p. 197.