FACIO, Bartolomeo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 44 (1994)

FACIO, Bartolomeo

Paolo Viti

Figlio di Paolino, nacque a La Spezia, probabilmente prima del 1405, e comunque non oltre il 1410.

La sua famiglia, originaria di Fabiano (una frazione poco lontana dalla città) aveva avuto, nella seconda metà del Trecento, un avo, "ser Facius", il quale esercitò la professione notarile (la prima notizia su di lui risale al 1385) e morì fra il luglio e l'agosto del 1419. "Ser Facius" ebbe due figli: Andrea, che fra l'altro fu consigliere della Comunità della Spezia nel 1403, e Paolino, che fu anche lui notaio e che ricoprì non secondarie cariche pubbliche: fu, ad esempio, cancelliere del Comune della Spezia nel 1395, nel 1407 e nel 1409; fu membro di alcuni Consigli cittadini nel 1404 e nel 1419; fece parte di una commissione incaricata di redigere gli statuti comunali nel 1407, fu ambasciatore a Genova nel 1410, e divenne uno dei maestri razionali nel 1420; morì prima del 1428. Da Paolino nacquero Giovanni, che fu notaio a Lucca; Tedisio, che, imparata l'arte dello speziale a Pisa, ricoprì poi varie magistrature cittadine ed assolse ad alcune ambascerie a Genova nel 1429, nel 1438 e nel 1443; e il F., che dovette essere il più giovane dei fratelli.

Le notizie sulla giovinezza del F. - da escludere le forme "Fatius" e quindi "Fazio" perché estranee al suo uso personale - sono assai ridotte. Comunque dovette compiere i primi studi a La Spezia, provvista di scuole di grammatica e città fiorente nel commercio, ed entrare quindi in contatto, forse anche grazie all'attività del padre, con la potente famiglia degli Spinola. Passò giovanissimo a Verona, forse nel 1420 o poco prima, dove studiò i classici latini alla scuola di Guarino Veronese. Probabilmente al 1426 risale il suo trasferimento a Venezia, dove venne assunto, presumibilmente su segnalazione di Guarino stesso, come pedagogo dal doge Francesco Foscari; doveva essere già a Venezia nel 1427 quando vi si trovava in visita Antonio Beccadelli, detto il Panormita, al quale il F. inviò un suo scritto poetico. Con uno stipendio annuo di 40 ducati, il F. divenne precettore dei figli del doge: Giovanni, Iacopo e Lorenzo (Donato, il primogenito, era già morto nel 1425), e quindi anche di altri giovani patrizi veneziani. Si sa che in occasione della peste scoppiata nell'estate del 1427 si rifugiò con tutta la famiglia del Foscari a Murano, dove Giovanni morì per il contagio. A metà del 1429 il F. lasciò Venezia e si recò a Pavia, dove incontrò il Panormita, che gli preparò delle lettere di presentazione: si trasferì quindi a Firenze, come si apprende pure da una sua lettera a Carlo Marsuppini (Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 2906, f. 52), con l'intento di imparare la lingua greca. Non si hanno testimonianze precise su questo soggiorno fiorentino, né sulla sua durata. Fra il 1430 e il 1431 dovette recarsi a Milano, dove fu precettore dei figli di Raffaele Adorno, allora trattenuto come ostaggio nella città lombarda ma che sarebbe poi stato doge di Genova dal 1443 al 1447. Dopo il soggiorno milanese il F. dovette tornare a Genova, per rimanervi fino al gennaio del 1434: in questo anno andò a Ferrara, presso Guarino, e quindi a Lucca, fra il 1434 e il 1435, come funzionario del Comune, o come notaio secondo un'altra ipotesi.

Ma tutte queste frammentarie notizie non trovano sempre precise verifiche documentarie, e le conoscenze che si hanno sulla vita del F. fino al 1441 sono piuttosto scarse, se non, in certi casi, contraddittorie: si è pure creduto, ad esempio, che fra il 1431 e il 1434 il F. sia sempre stato a Genova.

Al 1436, o subito dopo, risale il De differentiis verborum Latinorum, dedicato all'antico amico e protettore Gian Giacomo Spinola. Nella prefatoria - dove viene espressa ampia gratitudine al maestro Guarino Veronese - il F. spiega che le ragioni che lo hanno spinto a comporre tale prontuario, modellato su uno analogo di Cicerone, stanno nella sua volontà di facilitare lo studio della lingua latina attraverso sintetiche definizioni dei lessici, e in particolare dei sinonimi atti ad esprimere una stessa idea con termini diversi ed utili per scrivere con correttezza e con proprietà. Allo stesso Spinola il F. dedicò pure un'appendice al De differentiis verborum Latinorum, costituita da un semplice elenco di sinonimi e ampliata anche a verbi e ad aggettivi, che intitolò Synonyma. Entrambe queste opere del F., nel codice Vat. lat. 2906, f. 26, sono accomunate sotto il titolo Elegantie, forse per sicuro effetto e suggestione delle ben diverse Elegantie di Lorenzo Valla.

Ad anni di poco successivi al 1436 e anteriori al 1440 sembra risalire la composizione di un De re uxoria, testimoniata da una lettera del F. ai conti Carlo e Luchino Lascari da Ventimiglia (conservata nel Vat. lat. 2906, ff. 53-55): si tratta di una "oratiuncola" non più rintracciabile e presumibilmente modellata sull'analoga opera scritta da Francesco Barbaro per Giovanni de' Medici.

È probabile che a questi stessi anni risalga anche la stesura del De origine belli inter Gallos et Britannos historia, una novella volta a spiegare le ragioni dell'ostilità fra Francia e Inghilterra e ripresa da un diffuso racconto popolare, che il F. definisce sciatto e scritto da un autore privo di cultura, ma forse contaminato, anche dallo stesso F., con altre fonti volgari, come la novella X, 1 del Pecorone di Giovanni Fiorentino. Dedicato a Carlo Lascari, il racconto è fondato sul motivo di fanciulle perseguitate ma vincitrici sulle angherie subite; il F., però, contrariamente a quanto avviene in simili narrazioni precedenti, tende a liberarlo da ogni sovrastruttura fantastica e miracolosa, e quindi anche da sentimenti religiosi, a tutto vantaggio dell'affermazione dell'aspetto umano e reale dei protagonisti. La "storia" - che poi sarebbe stata volgarizzata da Iacopo Bracciolini - è impostata sulle vicende dolorose a cui va incontro la figlia di un re d'Inghilterra sposa del delfino di Francia, finché i rispettivi regni di Francia e di Inghilterra verranno da essi divisi fra i loro due figli: una soluzione apparentemente felice ma che sarà in futuro causa di guerre e di contrasti. L'elaborazione del F. - basata anche su fonti fra loro contrastanti - offre un continuo susseguirsi di avventure, nelle quali però i personaggi non sempre sono compiutamente definiti, e le vicende non sempre presentate con continuità di sviluppo e di motivazioni. Ma alla mediocrità della narrazione in sé si contrappone l'elevatezza della sua prosa latina con l'armonia del periodare e l'eleganza dello stile.

Dopo il 1436 il F. iniziò anche l'attività notarile e divenne inoltre consigliere e cancelliere di Francesco Spinola a Genova. In questa veste, nel 1441, fu a Nizza presente alla ratifica di un accordo (una copia del quale fu stilata dallo stesso F.) fra Ludovico di Savoia, figlio dell'antipapa Felice V, e Raffaele Adorno: un accordo che fu, in pratica, un patto per spodestare il doge di Genova Tommaso Fregoso. Difatti, il 18 dic. 1442 il Fregoso dovette rinunciare all'ufficio e al suo posto, il 28 gennaio successivo, fu eletto l'Adorno, al cui servizio il F. era passato già sul finire del 1441.

Per conto della Repubblica di Genova, il F. fu inviato come ambasciatore a Napoli il 20 sett. 1443: di questa missione, e dell'orazione tenuta al re Alfonso d'Aragona, lo stesso F. lasciò testimonianza nei suoi libri De rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitarum rege (Lugduni 1562, pp. 211-213); rimangono anche alcune lettere pubbliche da lui mandate per informare sugli sviluppi delle trattative Antonio Ivani, inviato genovese a Milano, e lo stesso doge, Raffaele Adorno (Arch. di Stato di Genova, Reg. litt., 12, ff. 462 ss.). L'anno dopo, il 6 febbr. 1444, il F. venne nuovamente mandato a Napoli, con la qualifica, ma non il salario, di cancelliere della Repubblica.

Finita la missione, e probabile che il F. non sia tornato a Genova, ma sia rimasto a Napoli, forse per le insistenze del Panormita che conosceva, come si è detto, già da vari anni e che era uno dei più significativi esponenti del circolo umanistico legato ad Alfonso d'Aragona. Solo più tardi, nel maggio del 1446, al F. venne revocata, a Genova, la carica di cancelliere (Arch. di Stato di Genova, Divers. Reg. 42, f. 537). Non è chiaro se anche a Napoli, all'inizio del suo soggiorno, il F. svolgesse attività di cancelleria, prima di avere l'incarico di storiografo ufficiale del re. Certo è che entrò in contatto e in amicizia con gli umanisti della corte aragonese: oltre al Panormita, ad esempio, con Guiniforte Barzizza, Giorgio da Trebisonda, Teodoro Gaza, Giannozzo Manetti, Lorenzo Valla (col quale, però, dopo un'iniziale amicizia e comunanza letteraria, si sarebbero manifestati insanabili contrasti che avrebbero guastato la stessa immagine culturale del F.), e poi col genovese Giacomo Curlo, che il 31 maggio 1446 avrebbe preso il posto del F. come cancelliere della Repubblica genovese a Napoli.

Ai primi del 1444 il F. era precettore di Gian Giorgio Adorno, figlio del doge Raffaele, che allora risiedeva a Napoli; il 24 apr. 1444, il F. inviò al Panormita un'opera di oltre cinquemila versi appena completata, il De bello Veneto Codiano, dove veniva narrata, con grande enfasi retorica, la guerra fra Genova e Venezia del 1377.

Lo scritto fu sottoposto alla lettura del Valla, il quale, trovandovi errori e incongruenze, ne sconsigliò la pubblicazione: e il F. non fece più circolare in questa forma quel suo poema. Poco tempo dopo, per non venir meno alle abitudini diffuse fra i letterati del circolo napoletano, il Valla mandò a leggere al F. - come egli stesso scrive nell'Antidotum in Facium (1, 2, 2) - due suoi scritti: l'epistola sui Tarquini, dedicata ad Alfonso d'Aragona, e il commento a passi della Rhetorica ad Herennium, andato poi perduto.

Probabilmente fra il 1444 e il 1445 il F. tradusse in latino, con eleganti soluzioni stilistiche, la novella X, 1 del Decameron del Boccaccio, scelta non casualmente, ma come omaggio allo stesso re Alfonso, dal momento che nel testo boccacciano, centrato sulle vicende di Ruggieri Figiovanni, compare il re Alfonso XI di Castiglia e di León, che viene preso a modello di vita da seguire e da imitare. Nel manoscritto 227 del Colegio Mayor de Santa Cruz (ora nella Bibl. della Univ. di Valladolid) il testo della traduzione è preceduto da una prefatoria a Luis Despuis ("Ludovicus Podius"): il quale forse fu l'influente personaggio che poi avrebbe contribuito alla nomina del F. a storiografo della corte napoletana.

Fra il luglio e il dicembre del 1445 il F. scrisse il De vitaefelicitate (come appare da una lettera conservata nella Bibl. nazionale di Firenze, II-X.31, ff167v-168r). Quest'opera, dedicata dapprima a re Alfonso, è un dialogo filosofico, basato su un'ampia trattatistica classica (Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca) e cristiana (Lattanzio, Agostino, Isidoro di Siviglia), ambientato a Ferrara, con la partecipazione, come interlocutori, di Guarino, del Panorinita e di Giovanni Lamola. È suddiviso in due parti: nella prima si discute della condizione della vita umana, nella seconda del sommo bene. Di fronte alla constatazione dell'impossibilità di raggiungere la felicità nel corso dell'esistenza terrena, il Lamola esalta la funzione della vita attiva, mentre il Panormita quella della vita contemplativa, la quale vede in Dio il sommo bene e la fonte della felicità che è propria della vita immortale. Guarino, invece, sostiene che la felicità non si può raggiungere né rivolgendosi alla contemplazione né dedicandosi all'azione; la conclusione è che la vita beata è solo nel cielo dei credenti indicato dai filosofi e dagli asceti. Questa esaltazione della felicità eterna è priva di speculazione ed apporto originali, e rientra in motivi del tutto tradizionali: l'unica novità è costituita dal ruolo che in questo dialogo ha il Panormita, il quale appare in netto contrasto con le sue idee sul più deciso naturalismo attribuitogli dal Valla nel De voluptate. Ma in tale ribaltamento di posizione va vista una critica proprio al Valla anche nel tentativo del F. di rafforzare la stessa figura del Panormita. Si sa che il De vitae felicitate arricchito in alcuni manoscritti da una lettera esplicativa a Roberto Strozzi, allievo ferrarese di Guarino, nella quale il F. cercava vanamente di difendersi dalle accuse del Valla di non aver saputo organizzare la materia sulla base di un'efficace dialettica - fu letto ed apprezzato da Niccolò V, ma non procurò al F. alcuna nuova prospettiva pratica. L'opera - che nella stampa del 1611 appare erroneamente dedicata a Pio II - fu tradotta liberamente in castigliano da Juan de Lucerna, amico di Enea Silvio Piccolomini, nel suo De vita beata (Zamora 1483: Hain, 10.255).

Il 31 ott. 1446 avvenne la nomina del F. a storiografo della corte napoletana: nomina che fu accompagnata dalla concessione di uno stipendio annuo di 300 ducati.

L'evento, patrocinato anche dal Panormita, dovette far aggravare il contrasto col Valla: contrasto che venne ulteriormente inasprito quando, nella primavera del 1447, mentre il Valla si trovava a Roma sperando di ottenere un'occupazione in Curia, il F., spinto dal Panormita, si impadronì, nella biblioteca del re, del manoscritto dei Gesta Ferdinandi regis Aragonum, che il Valla aveva terminato di scrivere nell'estate del 1445: opera che, per il Valla, doveva costituire la naturale introduzione alla narrazione delle "gesta" del figlio di Ferdinando, appunto il re Alfonso, che era intenzionato a sviluppare in seguito (e nella minuta autografa del Valla, tramandata dal codice Lat. 6174 della Bibl. nat. di Parigi, f. 2r, si ha un'esplicita testimonianza di questa sua volontà: "Historia reguin Ferdinandi patris et Alfonsi filii").

Scopo dell'azione combinata del F. e del Panormita era quello di individuare e propagandare gli errori che il Valla aveva compiuto nel tracciare la biografia del re, e la sua rinuncia a proseguirla deve attribuirsi sicuramente agli sviluppi di questa vicenda. Proprio il Panormita, in una delle consuete riunioni culturali che si tenevano alla presenza del re (le "ore del libro", emblematiche delle abitudini intellettuali del circolo napoletano), accusò il Valla di aver commesso non meno di cinquecento errori nel solo primo libro dei tre dei Gesta: ed oltre a ciò il Panormita ne rivendicò la scoperta proprio al Facio.

Il quale, sicuramente con l'aiuto del Panormita, concretizzò le sue critiche nella stesura delle Invective in Laurentium Vallam, avvenuta durante la già ricordata assenza del Valla da Napoli. L'opera si compone di quattro invettive: la prima, articolata in tre parti, discute degli errori compiuti dal Valla relativamente all'uso della lingua latina e all'eleganza stilistica, e riguardo alla conoscenza e all'utilizzazione della storia, per passare poi a criticare abitudini e costumi del Valla. La seconda e terza invettiva, senza seguire l'ordine attuato nella prima, contano cumulativamente errori stilistici ed errori storici: proprio quest'ultimo aspetto consente al F. la denuncia, talora facile, delle frequenti alterazioni compiute dal Valla nella sua narrazione, mentre nella seconda parte della seconda invettiva, il F. difende un suo scritto, il De vitae felicitate (già composto, come si è visto, nella seconda metà del 1445), dalle critiche del Valla. La quarta invettiva, aggiunta successivamente e dopo il ritorno a Napoli del Valla, respinge le giustificazioni addotte dal Valla, il quale sosteneva che gli errori presenti nel suo libro erano il frutto di una mancata revisione e correzione.

Aldilà delle accentuazioni polemiche, il F., con queste sue prese di posizione, veniva a contestare lo stesso metodo storico seguito dal Valla: il quale appariva a lui non tanto un vero e proprio storico, quanto uno scrittore "satirico", che aveva violato la "dignità" e la "convenienza" della storia stessa. Così facendo, il F. disconosceva la portata della novità metodologica valliana, a tutto vantaggio - e lo avrebbe poi dimostrato nella sua biografia di Alfonso d'Aragona - di una storiografia fortemente vincolata, come si dirà, ai canoni più comuni e conformistici di una ricerca ancora legata ad un'impostazione medievale, e soprattutto priva di un organico e coerente sviluppo delle singole tematiche trattate.

La risposta del Valla - che ebbe una certa difficoltà nel procurarsi le Invective del F. - fu aspra e violenta, anche se la scarsa diffusione manoscritta dei testi dei due antagonisti fa pensare soprattutto ad una polemica contenuta nell'ambiente cortigiano, in cui effettivamente si propagò. Nel corso dei primi mesi del 1447, e, comunque, prima dell'agosto, il Valla compose l'Antidotum in Facium, in quattro libri, dove finì per squalificare tutta la personalità e la cultura dell'avversario, ad iniziare, secondo ben sperimentati modelli e moduli retorici, dalle sue stesse vicende familiari: così, ad esempio, per il Valla, il F. sarebbe nato da uno schiavo scita che, dopo essere stato liberato, si era messo a fare il pescatore e il ciabattino di pescatori in un piccolo villaggio della Liguria, e lo stesso F. sarebbe stato da lui mandato a Genova a servizio degli Spinola come servo. Dopo aver dedicato i primi tre libri a respingere le accuse del F. giustificando le proprie scelte storiche, stilistiche, lessicali e grammaticali, il Valla amplia la trattazione a questioni di carattere più generale, e nel quarto ed ultimo libro - che ha come titolo Emendationes inTitum Livium - confutail metodo filologico e i risultati della critica testuale che il F. e il Panormita avevano esercitato sull'opera di Livio (un cui codice era stato inviato sul finire del 1444 a Napoli al re Alfonso da Cosimo de' Medici) come metodo approssimativo e scolastico: un metodo che diveniva fortemente soccombente di fronte a quello del Valla, basato non soltanto su una straordinaria conoscenza della letteratura classica, ma anche su capacità e libertà di giudizio eccezionalmente innovative.

Come già il Valla, anche il F. si recò a Roma, forse nel 1448, dopo l'elezione di papa Niccolò V (avvenuta il 6 marzo 1447), probabilmente nella speranza di trovare accoglienza presso la corte del pontefice, ligure come lui. Entrò così in contatto con Poggio Bracciolini, segretario curiale, al quale aveva già inviato le Invective, e al quale era stato presentato da Giacomo Curlo. Al nuovo papa il F. era intenzionato a offrire il De vitae felicitate, in precedenza dedicato, come già si è visto, al re Alfonso.

Forse allo stesso 1448 risale la nuova stesura, in prosa, del De bello Veneto Clodiano, dedicato a Gian Giacomo Spinola: particolare, questo, che ha fatto pensare che la scrittura, o almeno l'idea di quest'opera, risalisse al periodo in cui il F. era ancora a Genova; con essa il F. - come già si è accennato - voleva ricordare la guerra combattuta fra Genova e Venezia nel 1377 e i pericoli corsi da Venezia in seguito all'audace attacco genovese nelle acque di Chioggia del giugno 1380. Nel raccontare questi eventi (che trovano conclusione nell'aggiunta Aliud parvitemporis bellum Venetum, dove è narrata la sconfitta genovese per opera di Carlo Zeno, comandante della flotta di Venezia, e il ripristino della pace fra le due città), il F. amplia la trattazione dando un quadro di storia non limitato alle sole circostanze, ma allargato a vicende che, riguardando le due città rivali, si proiettano in uno sfondo più vasto, che comprende gli stessi interessi e alleanze di queste città nell'area mediterranea. Ne deriva una ricostruzione certamente soggetta a condizionamenti retorici ma non priva, nel complesso, di interesse anche per i particolari che arricchiscono la narrazione.

Non si hanno notizie specifiche se poi il F. sia tornato a Roma nel 1450 in occasione del giubileo (durante il quale anno scrisse a Londra allo Spinola perché gli procurasse codici antichi), con la speranza di ottenere incarichi e benefici. A Niccolò V, comunque, dedicò una nuova opera, il De excellentia ac praestantia hominis, composta nei due anni precedenti, e forse nel 1449, su suggerimento - ed anche iniziale stesura - del frate olivetano Antonio da Barga, priore del convento di Monte Oliveto a Napoli. Anche questo scritto del F. è privo di qualsiasi originale apporto di pensiero ed appare assai debole nello sviluppo complessivo del ragionamento, rispetto pure all'ampia e variegata produzione coeva su tale specifico tema umanistico. È un trattato senza pretese, dove sono confutate le tesi antiaverroistiche per cui l'uomo - che in sé contiene la "animi divinitas" - si assimila a Dio nel raggiungimento dell'immortalità, e la sapienza perfetta, che è possesso dello spirito, bandisce, in tale prospettiva, l'ignoranza che è propria dell'uomo. Va sottolineato che neppure Giannozzo Manetti (al quale re Alfonso dette incarico di scrivere un trattato omologo perché, sembra, rimasto insoddisfatto da quello del F.), si distaccò dalla letteratura corrente, arrivando a ripetere, fra il 1451 e il 1457, gli stessi motivi sviluppati dal F., al quale riconobbe una notevole eleganza stilistica.

In entrambe le sue opere filosofiche - De vitae felicitate e De excellentia ac praestantia hominis - ilF. appare un convinto sostenitore della tesi della particolare posizione che l'uomo gode in rapporto a tutti gli altri esseri animati della creazione, e quindi della necessità per lui di tendere, date proprio queste peculiari caratteristiche, ad una convinta elevazione spirituale: in questo atteggiamento e in questo impegno sta la grandezza dell'uomo e insieme il valore del cristianesimo. Nella sua forte sensibilità religiosa - per la quale è stato, fra l'altro, accusato di essere un semplice bigotto o di essere del tutto estraneo alla tradizione umanistica - il F. auspica un'unione sempre più stretta e fattiva fra cristianesimo e cultura, visti come mezzi di sicura elevazione dello spirito umano.

Forse agli anni in cui componeva l'opera sulla guerra di Chioggia, dovrebbe risalire anche l'avvio della stesura del De rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitanorum rege, che è lo scritto di maggiore importanza del Facio. Si sa, da una sua lettera del 26 sett. 1451 in risposta ad una di Francesco Barbaro (che si congratulava col F. per l'incarico precedentemente conferitogli di stendere la biografia del re di Napoli, da lui appreso tramite il Panormita, allora a Venezia come ambasciatore), che a quel momento aveva già completato i primi sette libri. Da altre lettere a personaggi diversi (Francesco Raimo, Gian Giacomo Spinola) si hanno particolari sia sui tempi di scrittura, sia sulle difficoltà, anche economiche, che il F. incontrava nel suo lavoro, che era, comunque, seguito dalla stima e dall'appoggio del Panormita, apertamente dichiarati, ad esempio, in sue lettere a Battista Pletamone e allo stesso re Alfonso. Da una lettera del 1455 al Bracciolini si apprende che allora il F. era arrivato al decimo libro e che quindi stava completando l'opera, che venne poi offerta al re all'inizio del giugno del 1457: e i particolari di questa presentazione sono narrati da Vespasiano da Bisticci nella sua "vita" di Alfonso d'Aragona. Il F. ebbe in premio 150 fiorini, l'aumento della provvisione annua a 500 fiorini e altri 1.000 come arretrati e la garanzia della protezione perpetua da parte del duca di Calabria: tali provvedimenti furono decisi fra il 7 giugno e il 26 luglio 1457.

L'ampia narrazione prende in esame non solo la vita di re Alfonso, ma anche numerose situazioni determinatesi in parallelo alla vicenda biografica del re, fra il 1420 e il 1454, arrivando a comporre un vasto quadro di storia aragonese e italiana in generale. I dieci libri, in cui l'opera è suddivisa, seguono soprattutto l'evolversi delle vicende militari che impegnarono gli Aragonesi in Italia, a partire dalla richiesta di aiuto ad essi rivolta dalla regina Giovanna di Napoli per vendicare l'oltraggio subito a Firenze nel 1420 da papa Martino V da parte di Braccio di Montone, fino alla pace generale di Lodidel 1454, che precede di poco la morte di papa Niccolò V (24 marzo 1455).

Nella sua minuta ricostruzione, che tanto risente dei modelli cesariani e dove prevale ampiamente l'interesse per i fatti bellici (già rilevato da Vespasiano da Bisticci, Le vite, I, pp. 83-84), ilF. centra il racconto sulla figura e sull'opera di re Alfonso, visto sempre come uomo e come sovrano giusto e vittorioso, generoso e mecenate, attento a soddisfare i bisogni del suo regno e della sua gente. Vengono così esaltate la sua "virtus" e la sua "humanitas" non solo come doti personali, ma anche in rapporto ad una più vasta volontà ideologica di adattare l'immagine dell'"optimus princeps" alla stessa storiografia aragonese, che veniva proprio allora definendosi grazie alle biografie non solo del F., ma pure del Valla, del Panormita (anch'egli autore di un Liber rerum gestarum Ferdinandi regis) e di altri intellettuali napoletani, quali Giovanni Albino (De gestis regum Neapolitanorum ab Aragonia qui extant libri quatuor) e Giovanni Pontano (De bello Neapolitano): una produzione, questa, fortemente unitaria, sia pure distinta da differenti soluzioni storiografiche e narrative, caratterizzata da un omogeneo impegno encomiastico. Il F. partecipa a questa impostazione, portando il suo contributo ad un tipo di storiografia (per certi aspetti, sia pure su versanti diversi, non dissimile da quella fiorentina), tesa a sostenere la politica italiana dei re d'Aragona. In tale operazione, però, il F., facilitato dall'accesso alla documentazione ufficiale, che aveva grazie al suo incarico di storiografo, non riesce a svincolarsi da condizionamenti tradizionali e comuni. Infatti, il gusto per il racconto di vicende e fatti fortemente drammatici si unisce ad uno spiccato moralismo di stampo medievale, così come il ricorso alla provvidenza divina quale risolutrice di eventi contingenti; mentre all'interesse per l'aspetto guerresco e militare non corrisponde un'adeguata attenzione per tutto quanto ha attinenza con la politica, con l'economia e quindi con la società che il F. andava rappresentando. Proprio rispetto al tanto criticato Valla, il F. dimostra i suoi limiti, soprattutto nel continuare ad intendere la storia come "opus oratorium maxime", condizionata da una spiccata, e tutta umanistica, istanza retorica. In fondo, accettando di scrivere la storia del vivente re Alfonso - contrariamente al Valla che non proseguì il suo disegno iniziale - il F. si mostrava più legato all'ambiente di corte, e quindi a tutti i condizionamenti, perfino retorici, che ne derivavano: anche se compie un'indubbia opera di sutura con lo scritto del Valla rivolto proprio a dare avvio a quella glorificazione della dinastia che ora, col F. appunto, trovava nuova manifestazione per precisa volontà dello stesso re. Il De rebus gestis ebbe, comunque, una certa diffusione, anche se fu stampato per la prima volta solo nel 1560 a Lione; fu pure tradotto in spagnolo (se ne conservano copie, ad esempio, a Madrid, Bibl. nac., G. 105, e a Toledo, Bibl. capit., 46.6) e in italiano, da Giovanni Mauro, che lo stampò a Venezia nel 1579.

Dedicato ancora ad Alfonso d'Aragona è il De viris illustribus, composto fra il 1455 e il 1457. È una raccolta di sessantatré biografie di uomini illustri contemporanei (poeti, oratori, giureconsulti, medici, pittori, scultori, privati cittadini, condottieri di eserciti, re e principi: l'ultimo profilo è quello di re Alfonso), così come avviene per il coevo De viris aetate sua claris di Enea Silvio Piccolomini: e proprio il Piccolomini, scrivendo al F., sottolineò, come caratteristica dell'opera dell'amico, l'aver accantonato i personaggi dell'antichità e del Medioevo a tutto vantaggio dei contemporanei (la lettera si legge in appendice al De viris illustribus, Florentiae 1745, pp. 107 s.). Particolare significato hanno i "profili" dedicati ai "poeti" (Antonio Loschi, Antonio Panormita, Francesco Filelfo, Giovanni Marrasio, Tito Vespasiano Strozzi, Giovanni Pontano), e agli "oratori" (in tutto trentacinque, fra cui Emanuele Crisolora, Antonio Cassarino, Niccolò Niccoli, Leonardo Giustinian). Pur con la sua limitatezza di notizie, con l'esclusione di personaggi di rilievo e con una prevalente trascuratezza degli scrittori in volgare, l'opera del F. riveste un certo interesse anche nello sviluppo della storiografia letteraria umanistica, secondo uno schema "critico" - può essere in tal senso significativo il "profilo" sostanzialmente equilibrato dedicato al Valla - che poi troverà più salda manifestazione nel De hominibus doctis di Paolo Cortesi sul finire del sec. XV.

Ultimo impegno del F. fu la traduzione delle Storie di Arriano, iniziata intorno al 1454 su esplicita richiesta di re Alfonso, rimasto insoddisfatto della traduzione in precedenza attuata da Pietro Paolo Vergerio per l'imperatore Sigismondo del Lussemburgo. Al compimento della versione - che durò tre anni, secondo una testimonianza di Giacomo Curlo - il F. fu aiutato da Niccolò Sagundino e da Teodoro Gaza, ma l'esito del suo lavoro, peraltro rimasto incompiuto, fu fortemente criticato: soprattutto da Niccolò Blancardo e da Bonaventura Vulcanio (anch'egli traduttore di Arriano, Amstelodami 1668), mentre fu apprezzato da Michele Giustiniani (Gli scrittori liguri, Roma 1667, p. 116), che pure avrebbe voluto rispondere alle critiche del Vulcanio, in parte interessate e rivolte, in modo speciale, alla troppa libertà con cui il F. aveva reso il testo originario, e quindi alle relative integrazioni e soppressioni da lui attuate.

Il F. fu in corrispondenza epistolare con molti umanisti, da lui spesso direttamente conosciuti in momenti e in circostanze diverse, ma soprattutto nell'ambito della corte aragonese di Napoli: fra questi Antonio Panormita che (come si è visto) non poco influì sulla sua stessa vicenda biografica, Poggio Bracciolini al quale lo avvicinava fra l'altro l'antipatia verso il Valla, Enea Silvio Piccolomini che conobbe durante una sua missione diplomatica a Napoli, Flavio Biondo che gli inviò a leggere parte dell'Italia illustrata (destinata a re Alfonso) per averne consigli, e poi Francesco Barbaro, Guarino Veronese suo maestro a Verona, e ancora Prospero Camulio, Carlo Marsuppini, i cardinali Giorgio Fieschi e Domenico Capranica, e quindi Gian Giorgio Spinola, Federico da Montefeltro, Cosimo de' Medici, Gregorio Tifernate, nonché vari colleghi napoletani: Arnaldo Fenolleda, Francisco Martorell, Luis Despuis, e vari altri. Ad una così vasta produzione di lettere non corrisponde una loro sistemazione e tanto meno un'edizione critica: non ancora del tutto censite, si trovano sparse in manoscritti diversi, fra cui hanno particolare rilevanza il ms. 227 del Colegio Mayor de Santa Cruz di Valladolid (ora nella Bibl. dell'Univ.) già ricordato e che contiene anche altre opere del F., il ms. II-X-31 della Bibl. nazionale di Firenze, il ms. Lat. XI, 80 (= 3057) della Bibl. naz. Marciana di Venezia, il ms. 759 della Bibl. Riccardiana di Firenze. Talora confuse con quelle di altri umanisti, sono state solo in minima parte ed episodicamente pubblicate (da Melius, Mittarelli, Shephard, Gabotto, Kristeller e altri).

Al F. sono stati anche attribuiti scritti poi risultati non suoi: in questa sezione rientrerebbero un carme a Giovanni Antonio Campano, un De rebus Siculis, un Commentarius in satyras Persii, un Elenchus scriptorum omnium, una Historiarum et chronicarum mundi epitome; va pure aggiunta una lettera acefala (conservata nel ms. 90 sup. 45, ff. 176-184 della Bibl. Medicea Laurenziana di Firenze) sui pericoli prodotti dall'espansione dell'impero ottomano, attribuita al F. da A. M. Bandini (Catalogus..., III, col. 606), datata Napoli 20 giugno 1476, quasi vent'anni dopo la morte del Facio.

Poco si sa sulla vita privata del F.; il Kristeller ha creduto di identificare la moglie, che avrebbe sposato nel 1444, in una figlia di Ambrogio di Negro da Salerno, dalla quale avrebbe avuto un figlio, Giovanni. Il Mazzini ritiene che possa essere figlio del F. un "Mario di Fatio da Gienova" che nel 1460 compare fra i componenti la famiglia pontificia e che nel 1463 era "scriptor" di Pio II: e crede che con questo Mario vada identificato il "puer", di cui parla il F., attento a copiare i manoscritti del padre (in una lettera allo Spinola, in De viris illustribus, p. 80).

Il F. morì a Napoli sul finire del 1457. In una lettera del 1º dic. 1457 (conservata nella Bibl. apost. Vaticana, Ottob. lat. 1732, ff. 27-31) al veneziano Marco Aurelio, Niccolò Sagundino scrive, infatti, che la scomparsa del F. era avvenuta pochi giorni prima.

Fu sepolto a Napoli nella chiesa di S. Maria Maggiore, ma la sua tomba dovette essere tolta molto presto perché il Summonte (che mori nel 1526) si rammaricava di non averla potuta vedere in quanto non più conservata. Un ritratto del F. si trova nel ms. Urb. lat. 415 della Bibl. apost. Vaticana, contenente la traduzione di Arriano dello stesso Facio.

Delle opere del F. solo il De differentiis verborum latinorum risulta inedito, e conservato almeno nei tre seguenti manoscritti: Genova, Bibl. univ., F.VII-37; Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 2906, ff. 26 ss.; Valladolid, Bibl. de la Univ., Colegio Mayor de Santa Cruz 227, ff. 34v ss. Tutti gli altri scritti sono stati editi, per lo più in edizioni antiche e non soddisfacenti: De origine inter Gallos et Britannos belli historia, in A. Ciacconius, Bibliotheca ... ab initio mundi, a cura di F. D. Camusat, Amstelodami-Lipsiae 1744, coll. 893-902 (prima ed. Parisiis 1719), e in M. L. Doglio, L'"exemplum" nella novella latina del '400, Torino 1975, pp. 161-175; traduzione della novella X, 1 del Decameron, in C. Braggio, Una novella del Boccaccio tradotta da B. F., in Giornale ligustico, XI (1884), pp. 379-387; Invective in Laurentium Vallam, in Miscellanea di varie operette, VII, Venezia 1743, pp. 331-364, e in R. Valentini, Le invettive di B. F. contro Lorenzo Valla tratte dal cod. Vat. lat. 7179 e Oxoniense CXXXI, in Rend. della R. Accad. dei Lincei, classe di scienze morali, storiche, filologiche, XV (1906), pp. 493-550, e più recentemente, a cura di E. I. Rao, Napoli 1978 (l'Antidotum in Facium del Valla è stato pubblicato a cura di M. Regoliosi, Padova 1981); De vitae felicitate, s.l. né a. (ma 1473: Hain, n. 6107) e Antverpiae 1566; De excellentia ac praestantia hominis, Hanoviae 1611; De bello Veneto Clodiano, Lugduni 1568 e 1578, e in J. G. Grevius, Thesaurus Italiae antiquitatum et historiarum, V, 4, Lugduni 1722, pp. 1-34 (trad. it. di F. Alizeri, Sampierdarena 1859). De rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitanorum rege, Lugduni 1560; De viris illustribus, a cura di L. Melius, Florentiae 1745 (con vita del F. e l'aggiunta di lettere familiari). La traduzione di Arriano si legge nel ms. Urb. lat. 415 della Bibl. apost. Vaticana, fu stampata a Fano nel 1508 e successivamente. Nel ms. Miscellanea Tioli 28, p. 304 della Bibl. univ. di Bologna si hanno alcuni epigrammi per il Facio. Per una ricognizione della tradizione manoscritta delle sue opere cfr. P. O. Kristeller, Iter Italicum, ad Indices.

Fonti e Bibl.: Per la ricostruzione della vita del F. sono utili i documenti, sia pure frammentari, conservati negli Archivi di Stato delle città in cui si svolse la sua vicenda biografica. In particolare: Arch. di Stato di La Spezia, Avariarum, reg. 1, f. 32v; Diversorum Comunis, regg. 1, ff. 4, 12, 15, 61v-62, 84; 2, ff. 1-6; 3, ff. 4-89 passim; 4, ff. 4v-5, 16, 19; 5, f. iv; 6, f. 15; 8 passim; Diversorum Vicariatus, reg. 2, f. 14; La Spezia, Bibl. com., Iura Spediae, I, f. 20; III, ff. 23, 38v; Leges et Constitutiones, f. 1; Arch. di Stato di Genova, Diversorum Comunis, filze 10, 3030; 14, sub die 20 sett. 1443 (decreto di nomina ad ambasciatore a Napoli); 38, 533; 42, 537; Litterarum, regg. 4, 1780, il 441v; 12, ff. 429-431, 436v, 462; Arch. di Stato di Napoli, Esecutoriale Sommaria, I, ff. 374r-375v (benefici concessi al F. nel 1457: vedi anche F. Federici, Scrutinio della nobiltà ligustica, ms., La Spezia, Bibl. com., ad vocem, e Genova, Bibl. civ. Berio, ad vocem); Guarino Veronese, Epistolario, a cura di R. Sabbadini, II, Venezia 1916, pp. 561-565; III, ibid. 1919, pp. 448-450, 453 s.; A. Bargensis, Cronicon Montis Oliveti, Florentiae 1590, pp. XXI-LI, passim; Vespasiano da Bisticci, Le vite, a cura di A. Greco, IV Firenze 1970, pp. 83-117; passim, 393, 502 s.; P. Cortesi, De hominibus doctis, a cura di G. Ferraù, Palermo 1979, pp. 146 s.; G. A. Summonte, Istoria della città e Regno di Napoli, V, Napoli 1749, p. 102; A. Giustiniani, Castigatissimi Annali con la famosa tavola della eccelsa ed illustrissima Repubblica di Genova, VI, Genova 1537, p. 284; Epitome Bibliothecae C. Gesneri, a cura di J. Simler, Tiguri 1555, p. 80; U. Foglietta, Clarorum Ligurum elogia, Romae 1573, p. 242; I. Gaddi, De scriptoribus non ecclesiasticis Graecis, Latinis, Italicis, Florentiae 1648, p. 83; R. Soprani, Gli scrittori della Liguria e particolarmente della Marittima, Genova 1667, p. 40; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri Roma 1667, pp. 113-116; A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum seu Syllabus scriptorum Ligurum, Perusiae 1680, p. 98; J.P. Niceron, Mémoires pour servir à l'histoire des hommes illustres dans la Rèpublique des lettres, XXI, Paris 1733, p. 316; A. Ciacconius, Bibliotheca, a cura di F. D. Camusat, Amstelodami-Lipsiae 1744, coll. 893-902; A. Zeno, Dissertazioni Vossiane, I, Venezia 1752, p. 62; G. B. Mittarelli, Bibliotheca codicum manuscriptorum Monasterii S. Michaelis Venetiarum prope Muranum, Venetiis 1779, coll. 372-383; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VI, 2, Modena 1790, pp. 751-753, 785; G.B. Spotorno, Storia letteraria della Liguria, II, Genova 1825, pp. 31-56; W. Shephard, Vita di P. Bracciolini, II, Firenze 1825, pp. LXIX-LXXI; G. 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