SILVIO, Bartolomeo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SILVIO, Bartolomeo

Lucio Biasiori

– Nacque a Cremona in una data imprecisata, ma verosimilmente situabile tra il 1510 e il 1520; risulta sconosciuto il nome dei genitori.

Non abbiamo documenti sul suo avvicinamento alle idee protestanti. Di certo non si può sostenere l’opinione di Zucchini (1980, p. 61), secondo cui egli dovette lasciare l’Italia nel 1552-53 a seguito dell’ondata di repressione inquisitoriale nella sua città, visto che già nella sua prima e unica opera a stampa, il De eucharistia tractatulus D. Barptolomaei Sylvii Cremonensis, Verbi Dei apud D. Rhaetos concionatoris, pubblicato forse a Caspano in Valtellina nel 1551, l’autore si presenta come predicatore nei Grigioni.

Nell’estate del 1553 accompagnò a Ferrara Aurelio Vergerio, nipote di Pietro Paolo, vescovo di Capodistria passato alla Riforma. In quella circostanza Silvio agiva come ambasciatore del duca Cristoforo del Würtemberg, il cui figlio avrebbe dovuto sposare Lucrezia, figlia del duca Ercole II d’Este e di Renata di Francia. Il 21 agosto 1553, sulla strada per Ferrara, Vergerio e Silvio vennero fermati alle porte di Brescia dai rettori della città e vennero loro sequestrati diversi materiali, tra cui libri (soprattutto opere di Pietro Paolo Vergerio affidate al nipote perché le distribuisse) e lettere dello stesso Vergerio e del duca Cristoforo. Tra queste ultime figurava una missiva di congratulazioni al doge Marcantonio Trevisan per la recente elezione, in cui si chiedeva la liberazione dal carcere del francescano istriano Baldo Lupetino, imprigionato con l’accusa di luteranesimo, per il quale Cristoforo si era speso dietro interessamento di Flacio Illirico e dello stesso Vergerio. Mentre Aurelio riusciva a scappare approfittando dell’arrivo degli ambasciatori di Bergamo, Silvio fu trattenuto, creando un incidente diplomatico su cui Vergerio senior non mancò di dire la sua in un opuscolo in cui attribuì, in modo infondato, l’iniziativa dell’arresto al cardinale Durante Duranti, vescovo della città, e i motivi del viaggio alla volontà di partecipare al Concilio in corso a Trento. Il 7 settembre il Consiglio dei dieci si scusò con il duca per l’accaduto, ma rispose che la Serenissima non poteva annullare una sentenza dell’Inquisizione. Due giorni dopo Silvio venne rilasciato: nonostante i timori del pontefice che lui potesse svolgere «qualche cativo officio», i capi dei Dieci lo rilasciarono, giudicandolo «molto inetto» (cit. in Del Col, 2000).

Nel 1555 ritroviamo Silvio a Pontresina, in Engadina, dove predicò fino al 1559, quando si spostò a Casaccia, in Val Bregaglia, succedendo al veronese Guido Zonca (Zucchini, 1980, p. 61). Il suo momento di gloria sarebbe arrivato quando sostituì, come pastore nella parrocchia di Monte di Sondrio, il napoletano Scipione Lentulo, che si era trasferito presso la comunità riformata di Chiavenna per sostituire a sua volta Girolamo Zanchi. Proprio con Lentulo Silvio fu impegnato in una polemica che gli garantì un posto fra i primi assertori dell’idea di tolleranza religiosa. Tra il 1569 e il 1570 la comunità di Chiavenna guidata da Lentulo si trovava stretta tra i tentativi di Carlo Borromeo di riportare al cattolicesimo la Valtellina, da un lato, e la presenza al suo interno di diversi italiani che diffondevano posizioni anabattiste e antitrinitarie, dall’altro. Il 27 giugno 1570 le autorità grigionesi, accogliendo una proposta di Lentulo, promulgarono un editto in cui si specificava che i cittadini delle valli italiane dovevano, pena l’espulsione, professare una delle due religioni accettate nei Grigioni: o la cattolica o quella riformata svizzera sancita dalla Seconda confessione elvetica redatta dal successore di Huldreich Zwingli e capo della Chiesa di Zurigo, Heinrich Bullinger, nel 1562 e approvata quattro anni dopo Fiume.

Silvio, che nel frattempo si era spostato a predicare a Traona, fu «the edict’s most vocal critic» (Taplin, 2003). Il testo a cui affidò la sua protesta è una lettera scritta in latino a un membro della Chiesa di Chiavenna e poi diffusa in volgare da sconosciuti amici dell’autore (l’unica copia, in latino, è conservata alla Zentralbibliothek di Zurigo, Mss., F.61, cc. 343r-348r).

Vi si paventa il rischio che costringere i fedeli a sottoscrivere una serie di punti dogmatici troppo ben definiti li spinga (specialmente i più deboli tra loro) a ritornare al cattolicesimo. Di qui la necessità di una «imbecillium tolerantia» (c. 345r), come quella esercitata dai primi cristiani nei confronti degli ebrei. In nome del richiamo alla «scripturarum simplicitas» (c. 344r) e del rifiuto della «papana phrenesis» (cc. 344r-345r), si esortavano i magistrati a giudicare «qui male agit» e non «qui male credit» e a punire «homicidia, non iram et odia cordium» (c. 346v). Discusso «primum in angulis, denique palam in triviis et tabernis», il testo di Silvio richiese una risposta ufficiale da parte di Lentulo – la Responsio orthodoxa, scritta a caldo ma pubblicata solo nel 1592 (la cit. è a p. 51). Lentulo insisteva sulla mala fede dell’avversario il quale, dietro la scusa di proteggere i deboli della fede, era accusato di favorire le idee di empi sovvertitori della religione cristiana. La posizione di Silvio sembra invece essere più di metodo che di merito: nel suo unico scritto uscito a stampa (il già citato De eucharistia del 1551) egli appare uno zwingliano ortodosso (Rotondò, 2008, p. 440).

Inoltre, ancora nel 1563 Bullinger chiedeva al capo della Chiesa di Coira Fabricius Montanus (Johann Schmid) «Gribaldi et Sylvii adversaria scripta» (cit. in Zucchini, 1980, p. 63). Non sappiamo di che opera si trattasse, ma se essa contraddiceva le tesi antitrinitarie del giurista Matteo Gribaldi Mofa, molto probabilmente doveva trattarsi di un’opera ortodossa in senso riformato. È probabile dunque che Silvio fosse mosso da intenti irenici, anche al di là delle sue stesse idee in materia di religione. Di certo difese il suo punto di vista con tenacia, passando subito al contrattacco e mandando nel settembre del 1570 una copia manoscritta del suo parere a Bullinger, che era sì l’autore della seconda confessione elvetica, ma da sempre era visto dagli italiani come più tollerante rispetto ai ginevrini. La risposta della Chiesa di Zurigo arrivò a dicembre attraverso il genero di Zwingli e successore di Bullinger, Rudolf Gwalther, che nella prefazione alla sua Menschwerdung (una raccolta di sei sermoni sull’Incarnazione) accusò gli oppositori dell’editto retico di voler trasformare la Chiesa in un «Thiergarten» in cui era ammessa ogni sorta di opinione (cit. in Taplin, 2003, p. 242).

Nel frattempo, vent’anni dopo il caso dell’avvocato di Padova Francesco Spiera, morto disperato dopo aver abiurato la sua fede calvinista, un’altra morte innescava dispute forse geograficamente più contenute ma non meno dure sul piano teologico. Nel gennaio del 1571 esalava infatti l’ultimo respiro il tessitore Giovanni da Modena, che, a differenza di Spiera, non moriva disperato, ma anzi convinto di essere un rigenerato, senza peccato davanti a Dio. Quando i membri del concistoro di Chiavenna gli negarono la sepoltura secondo il rito religioso, Silvio fu tra quelli che parteciparono polemicamente alle sue esequie. Ciò fece esplodere le tensioni latenti e, per dirimere la disputa, nel giugno del 1571 venne convocato un sinodo a Coira, dove si decise per la scomunica di alcuni che avevano sostenuto opinioni religiose dissidenti (come il mercante Niccolò Camogli e Camillo Sozzini, fratello del più celebre Lelio) e per la sospensione dall’incarico per i pastori loro simpatizzanti, quali il pastore di Piuro Girolamo Torriani e lo stesso Silvio, che venne riammesso nella Chiesa solo due anni dopo e dopo aver abiurato a voce (di fronte alla Chiesa di Sondrio) e per iscritto (in volgare per i fedeli di Chiavenna, in latino per i membri del sinodo).

Inizialmente la sua reintegrazione parve funzionare: nel 1572 era in Valtellina a «piantar una nuova chiesa con predica in Montagna» (Zucchini, 1980, p. 62) e, dall’anno successivo fino al 1580, fu impegnato come pastore a Teglio. Ciononostante, continuò a mantenere una certa insofferenza nei confronti dell’editto, se ancora nel 1577 veniva ammonito per aver dato la comunione anche a coloro che non lo avevano sottoscritto.

Tre anni dopo lo ritroviamo pastore, in sostituzione del mantovano Alfonso Corradi, a Sondrio, dove verosimilmente si spense in una data successiva al 1583.

Fonti e Bibl.: P.D. Rosio de Porta, Historia reformationis ecclesiarum Raeticarum, II, Coira-Lindau 1777, pp. 35, 47 s., 145, 502, 509; G. Zucchini, Notizie su B. S. nei Grigioni, in Clavenna, XIX (1980), pp. 61-69; A. Del Col, I contatti di Pier Paolo Vergerio con i parenti e gli amici italiani dopo l’esilio, in Pier Paolo Vergerio il Giovane. Un polemista attraverso l’Europa del Cinquecento, a cura di U. Rozzo, Udine 2000, p. 61; E. Fiume, Scipione Leutolo (1525-1599), Torino 2003, pp. 146 s.; M. Taplin, The Italian Reformers and the Zurich Church, c.1540-1620, Aldershot 2003, pp. 235, 242; A. Rotondò, Esuli italiani in Valtellina nel Cinquecento, in Studi di storia ereticale italiana del Cinquecento, II, Firenze 2008, pp. 403-442.

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