BASI BIOLOGICHE DEL DOLORE

XXI Secolo (2010)

Basi biologiche del dolore

Oscar Corli

Pochi vocaboli nella lingua italiana concentrano in sé valenze semantiche tanto diverse come la parola dolore. Può significare, innanzi tutto, una sofferenza di natura fisica, relativa al corpo che in modo diffuso o localizzato duole. Ma è altresì usata per esprimere uno stato di sofferenza psichica o spirituale, correlabile a una molteplicità di ragioni, tra cui l’insoddisfazione, un dispiacere, uno stato di depressione, il lutto per una perdita. In altri casi, dolore vale quasi come sinonimo di pentimento e di contrizione a seguito di atti commessi ritenuti negativi.

È allora necessario operare subito un restringimento di campo: il dolore di cui si parlerà in questa monografia rientra nella prima delle categorie esposte, ovvero riguarderà il dolore di natura fisica, che la IASP (International Association for the Study of Pain), la società scientifica internazionale che si occupa di dolore, definisce come «un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata a danno tessutale in atto o potenziale» (Pain terms. A list with definitions and notes on usage, «Pain», 1979, 6, 3, p. 249). Si tratta di un’asserzione che concentra in sé diversi aspetti: il dolore come esperienza che ognuno prova in termini personali e soggettivi, con caratteristiche di tipo sensoriale, che implica l’esistenza di un apparato di percezione del dolore, così come avviene per gli altri sensi, che si accompagna a una componente emozionale forte e di tipo prevalentemente negativo e che frequentemente è dovuta a un danno (lesione, ferita, ustione, corpo estraneo ecc.) in quella parte del corpo nella quale il dolore ha origine.

Un secondo aspetto del campo di trattazione riguarda il fatto che si parlerà delle basi biologiche del dolore, ossia di quanto riguarda l’insieme anatomico-funzionale-biochimico che permette l’identificazione di uno stimolo doloroso, il suo percorso lungo le vie del sistema nervoso fino ai centri che lo riconoscono e decodificano. Non saranno oggetto di trattazione gli aspetti clinici del dolore, tra cui le malattie e le sindromi dolorose, i metodi di valutazione diagnostica, i sistemi di misurazione e i trattamenti.

Il significato del dolore

Può stupire il fatto che esista uno specifico apparato sensoriale dedicato alla percezione di sensazioni dolorose, per effetto del quale si prova sofferenza. In realtà, s’intuisce facilmente che il dolore è un modo per riconoscere situazioni, esterne o interne all’organismo, che sono pericolose per la sua integrità.

Ad avvalorare il significato e l’importanza del dolore, esiste una rara situazione clinica, geneticamente determinata, in cui il soggetto che ne è affetto non percepisce e non distingue gli stimoli dolorosi: si tratta della congenital insensitivity to pain, che fu descritta per la prima volta negli anni Cinquanta del 20° sec. e approfondita negli anni Sessanta da August G. Swanson, il quale ne riportò diversi casi clinici. Il quadro clinico si presentava già in età precoce, e i primi ad accorgersene erano i genitori, osservando l’insensibilità dei bambini (per es., l’assenza di pianto) dopo situazioni dolorose dovute a eventi comuni come cadute, escoriazioni, bruciature. La mancanza del segnale d’allarme rappresentato dal dolore provocava il protrarsi degli eventi traumatici fino ad arrivare a gravi lesioni (fratture, traumi articolari, ferite). Solo nel 1996 si capì che la causa genetica della sindrome consisteva nella presenza di un recettore anomalo per i fattori di crescita nervosa, per cui già alla nascita si arrestava lo sviluppo dell’apparato nervoso deputato alla percezione del dolore.

Da quanto detto deriva che il dolore, come insieme di aspetti sensoriali, di elaborazioni cognitive e di componenti emozionali, ha una funzione molto importante nel preservare l’organismo da insulti lesivi. Ma non tutte le esperienze dolorose hanno queste finali-tà. Si pensi al dolore legato allo sviluppo metastatico di un tumore, si pensi a molti tipi di cefalea, si pensi alla nevralgia del trigemino. Sono dolori che non ri-spondono a stimoli nocivi e che non allertano dei pericoli in atto in quel momento, ma che si manifestano, talvolta in modo occasionale e imprevedibile, per meccanismi indipendenti, generati e automantenuti a livello del sistema nervoso. Esistono, in sostanza, un dolore-sintomo, positivo e utile, e un dolore-malattia, negativo e inutile.

Nel 2004 l’American college of physicians, in linea con queste riflessioni, ha proposto una classificazione dei vari tipi di dolore (Woolf 2004), articolata in due categorie principali: il dolore come risposta di tipo adattativo e come forma di tipo non adattativo.

Dolore come risposta di tipo adattativo

Questa tipologia di dolore contribuisce alla sopravvivenza, proteggendo l’organismo da fattori lesivi e promuovendo la guarigione quando una lesione è comunque sopravvenuta. Si distingue in dolore nocicettivo e infiammatorio.

Il dolore nocicettivo è un vero e proprio sistema d’allarme, che avverte della presenza di stimoli o eventi in atto potenzialmente dannosi. Riguarda stimoli provenienti sia dall’ambiente esterno (stimoli meccanici intensi, termici d’intensità elevata, stimoli chimici da sostanze irritanti), sia dall’interno dell’organismo (trauma osseo o articolare, spasmi viscerali ecc.). Si tratta in genere di un dolore acuto, di breve durata, che viene immediatamente identificato per quello che riguarda la sede, l’intensità e la tipologia dello stimolo doloroso in atto, innescando, inoltre, meccanismi di sottrazione e di protezione.

Per quanto riguarda il dolore infiammatorio, in molti casi gli stimoli o gli eventi nocivi producono un vero danno ai tessuti, che persiste per un certo tempo, come una ferita, un’ustione, una frattura ossea. Quando la lesione è avvenuta, in situ si origina un processo di tipo infiammatorio, che rappresenta il primo passo verso processi riparativi e immunoprotettivi, e che persisterà fino alla riparazione del danno. L’infiammazione, a sua volta, genera una forma di dolore, più sordo e prolungato rispetto a quello nocicettivo, il cui andamento procede di pari passo con l’evoluzione dell’infiammazione stessa e scompare con la restitutio ad integrum dei tessuti lesi.

Forme dolorose di tipo non adattativo

Si tratta di situazioni di dolore che non si accoppiano a stimoli nocivi o a processi infiammatori e riparativi. Non rappresentano un sistema d’allarme e non sono un sintomo. Sono, invece, espressione di processi patologici che s’instaurano a livello del sistema nervoso, sia periferico sia centrale, e che sono in grado di determinare dolore. Tale dolore è spesso grave, ripetitivo o cronico, privo di finalità, risponde male ai trattamenti e diventa, a sua volta, una forma di malattia. Anche in questo caso è possibile distinguere due categorie: si può parlare infatti di dolore neuropatico oppure funzionale.

Il dolore neuropatico deriva da lesioni che affliggono direttamente il sistema nervoso, periferico o centrale, includendo i nervi o i centri nervosi deputati al trasporto del dolore. Per analogia, si può pensare a un cavo elettrico privato della guaina, con molti filamenti di rame interrotti e sfilacciati, che trasporta un segnale ‘sporco’. In campo clinico ne sono esempi la neuropatia diabetica, posterpetica e la sciatalgia, per quanto riguarda il sistema nervoso periferico, e le neuropatie successive all’ictus cerebrale, da lesione del midollo spinale o da malattie neurologiche (come la sclerosi multipla), relativamente a esiti di lesione del sistema nervoso centrale. Ne deriva un quadro di dolore grave, che tende a cronicizzare indipendentemente dal danno nervoso iniziale, con aspetti clinici particolari e specifici, caratterizzati da un dolore-bruciore, dalla presenza di formicolii, di dolore ‘a scossa’ o ‘a pugnalata’, da iperalgesia (percezione di uno stimolo in sé doloroso con intensità molto accentuata) e da allodinia (percezione dolorosa di stimoli in sé non dolorosi).

Per dolore funzionale si intende invece l’indipendenza dell’episodio doloroso da qualsiasi tipo di lesione organica. La genesi spontanea dell’evento, in genere a livello cerebrale, avviene per meccanismi fisiopatologici o biochimici, spesso geneticamente determinati o condizionati. Si pensi a molte forme di cefalea, tra cui in particolare l’emicrania. Queste forme non hanno alcun significato informativo o adattativo.

Le strutture anatomiche del dolore e il loro significato funzionale

Le esperienze dolorose, di qualunque tipo esse siano, giungono alla nostra coscienza perché esiste un sistema, anatomico-funzionale-biochimico, specificamente deputato a identificare gli stimoli dolorosi, a trasportarli dalla periferia al cervello e, qui, a elaborarli fino a rendere consapevoli del dolore.

Tradotto in termini più tecnici, esistono neuroni (cellule nervose), recettori, fibre nervose, sinapsi (connessioni tra neuroni), neuromediatori chimici, circuiti neuronali, collocati in tutto il sistema nervoso, che lavorano per far sentire il dolore, far capire da dove deriva, farne stimare l’intensità e la qualità e, possibilmente, allertare per eliminarlo insieme alle sue cause.

La parte di saggio che segue cercherà di dare una rappresentazione della ‘rete del dolore’ (Willis Jr, in The pain system in normal and pathological states, 2004, e in The paths of pain 1975-2005, 2005).

Tale rete inizia da sottili filamenti nervosi che si arborizzano a livello della cute, delle mucose e, in generale, di tutti gli organi e i tessuti; tali filamenti sono deputati a percepire stimoli dolorosi e nocivi e a trasformarli in un segnale elettrico che dai filamenti stessi s’incanala in specifiche fibre nervose (fibre mieliniche Aδ e fibre amieliniche C), collocate nel contesto di molti nervi (sistema nervoso periferico), fino a entrare per via posteriore nel midollo spinale, struttura dove inizia il sistema nervoso centrale. La parte più distale e periferica dei filamenti contiene i recettori del dolore, comunemente definiti nocicettori, della cui struttura e organizzazione si parlerà diffusamente in seguito. Lungo il decorso della fibra nervosa, all’altezza dei gangli delle radici posteriori del midollo spinale, si collocano il corpo cellulare e il nucleo del neurone periferico deputato al trasporto del dolore, che viene chiamato 1° neurone afferente (fig. 1).

L’aggettivo afferente sta a indicare che il segnale nervoso afferisce dalla periferia verso il cervello (direzione centripeta); si parla, invece, di efferenze nervose per indicare il percorso inverso, ossia quando un segnale parte dal cervello per arrivare alla periferia (direzione centrifuga), come nel caso in cui si decida di compiere un movimento: lo stimolo parte dalla corteccia motoria per giungere fino ai muscoli interessati in modo tale da determinare quel movimento.

Il 1° neurone afferente entra nelle cosiddette corna posteriori del midollo spinale, e lì si connette con il 2° neurone afferente mediante una sinapsi. Il termine sinapsi deriva dal greco e significa «collegamento». Le sinapsi sono il principale sistema di collegamento tra i neuroni. Strutturalmente comprendono un terminale presinaptico, ossia l’estremità dove anatomicamente il primo neurone finisce, uno spazio sina-ptico tra il primo e il secondo neurone, e una membrana postsinaptica, che costituisce la parte iniziale del secondo neurone. Si pensi, per analogia, a un promontorio di terraferma (terminale presinaptico) che ha di fronte a sé un’isola (membrana postsinaptica): in mezzo vi è un tratto di mare (spazio sinaptico) e la comunicazione tra le due aree di terra è garantita da varie imbarcazioni. Nel caso dei neuroni la trasmissione del segnale avviene attraverso sostanze chimiche (neurotrasmettitori) che vengono rilasciate a livello presinaptico, attraversano l’intervallo sinaptico e giungono su specifici recettori collocati sulla membrana cellulare postsinaptica.

Questi concetti di carattere generale risultano perfettamente applicabili al sistema di trasporto degli stimoli dolorosi, dove la prima sinapsi, posizionata a livello midollare (ancora fig. 1), ha delicate e complesse funzioni di passaggio dello stimolo, ma anche, allo stesso tempo, di modulazione dello stesso, come verrà approfondito più avanti.

Dopo il transito attraverso la prima sinapsi, gli stimoli dolorosi, fluiti sul 2° neurone afferente, salgono verso i centri nervosi più elevati per tutte le elaborazioni e integrazioni necessarie. Come si vede nella figura 1, le fibre passano, innanzi tutto, controlateralmente, per poi iniziare a salire collocate in fasci di fibre ben strutturati, di cui il più importante è il tratto spino-talamico (TST), così chiamato perché la sua stazione d’arrivo è il talamo, importante struttura sottocorticale. Ma lungo il percorso tra il midollo spinale e il talamo, un certo numero di fibre che trasportano gli impulsi dolorosi lascia la via maestra per contrarre connessioni con altri centri nervosi, che sono collocati in settori chiave del sistema nervoso centrale, chiamati bulbo (o midollo allungato) e ponte.

A livello del bulbo, le prime connessioni si realizzano con la formazione reticolare, un insieme di nuclei nervosi dai quali gli stimoli in arrivo vengono proiettati verso i centri superiori (talamo) oppure ritornano al midollo spinale, per connettersi con i motoneuroni delle corna anteriori. Questa connessione è alla base dei comportamenti che permettono di allontanare un’area del corpo dallo stimolo doloroso che su essa agisce. È esperienza comune che, se appoggiamo un piede su una scheggia di vetro, in pieno sincronismo proviamo dolore e tiriamo indietro l’arto colpito: quest’ultimo comportamento è sostenuto dall’arco riflesso mediato dalla formazione reticolare.

Una seconda connessione bulbare viene realizzata con una struttura chiamata midollo ventrolaterale (MVL), che comprende il nucleo del tratto solitario e il locus coeruleus. Questi collegamenti sono fondamentali per le integrazioni con il sistema nervoso autonomo, che determinano l’aumento della frequenza cardiaca e respiratoria e della pressione arteriosa, comunemente osservabili subito dopo aver provato un dolore intenso. Un’altra importante connessione avviene con il nucleo del rafe magno (NRM). Questa stazione è il punto di partenza di un’importante via nervosa discendente, che ritorna a livello della prima sinapsi, nelle corna posteriori del midollo spinale, e che ha l’obiettivo di ridurre e modulare gli stimoli dolorosi provenienti dalla periferia. In sostanza, un feedback negativo che autolimita l’entità del dolore e che verrà descritto estesamente più avanti.

A livello del ponte una prima importante connessione è ottenuta con il nucleo parabrachiale (NPB), dove arrivano principalmente afferenze dolorose provenienti dai visceri (a seguito di spasmi, coliche ecc.). L’NPB si connette a sua volta con altre strutture, ossia l’ipotalamo e l’amigdala. Al primo competono risposte neuroendocrine, mediate dall’ipofisi, consistenti nella liberazione di sostanze ad azione analgesica (oppioidi endogeni); l’amigdala, invece, rientra tra le strutture nervose deputate alle risposte emotive legate all’esperienza dolorosa, come rabbia, ansia, depressione.

Altri fasci nervosi si connettono con il grigio periacqueduttale (GPA), così chiamato perché è un nucleo di sostanza grigia che circonda l’acquedotto silviano, ovvero il canale in cui scorre il liquido cefalorachidiano. Il GPA si connette con l’NRM e partecipa al sistema di modulazione e controllo del dolore in entrata. Le cellule del GPA liberano β-endorfina, una sostanza che agisce in modo del tutto analogo alla morfina e agli altri farmaci oppioidi, ottenendo, quindi, effetti analgesici.

Ritornando alla via ascendente principale che attraverso il TST connette il midollo con il talamo, gli stimoli vi giungono in sei distinti nuclei, dei quali i più importanti sono il nucleo ventromediale posteriore e il nucleo ventrale-caudale. Il talamo è una struttura del sistema nervoso centrale collocata sotto la corteccia cerebrale e che si sviluppa bilateralmente ai lati del terzo ventricolo. È un’importante stazione intercalata sulle vie sensitive ascendenti, che permette una serie di connessioni, principalmente con l’area sensitiva della corteccia cerebrale. Altre fibre in uscita dal talamo si irradiano verso il sistema limbico, deputato a elaborare i contenuti emozionali della percezione dolorosa, e verso l’ipotalamo che, connesso all’ipofisi, è addetto alle risposte neuroendocrine.

Dal talamo, gli stimoli dolorosi vengono infine proiettati verso alcune aree della corteccia cerebrale, che rappresentano il punto di arrivo delle afferenze sensoriali dolorose. La corteccia è la struttura più esterna del cervello, ed è costituita da uno spesso strato di sostanza grigia ad alto contenuto di cellule nervose.

In base alla sua funzione, la corteccia si divide in sensitiva, che riceve, via talamo, gli stimoli sensoriali, dolorosi e non, provenienti da tutto il corpo; motoria, punto di partenza delle vie discendenti ed efferenti, che proiettano ai motoneuroni spinali, a loro volta connessi con i muscoli al fine di determinare i movimenti; e associativa, la quale stabilisce una serie di connessioni con le altre aree corticali allo scopo di elaborare le funzioni più elevate della nostra coscienza, dell’ideazione, della volontà, della memoria e della capacità di giudizio.

Per quello che riguarda il dolore, i nuclei talamici proiettano verso alcune specifiche aree sensitive corticali, tra le quali principalmente la corteccia insulare posteriore (cognizione del dolore) e il cingolo anteriore (preposto alla memoria del dolore e alla elaborazione di feedback antinocicettivi).

I meccanismi del dolore

La nocicezione

La percezione del dolore origina dalla eccitazione dei nocicettori da parte di specifici stimoli nocivi (Gold, in The paths of pain 1975-2005, 2005; Meyer, Ring-kamp, Campbell, Raja, in Wall and Melzack’s textbook of pain, 20065). Il processo nocicettivo, che coinvolge l’intero primo neurone afferente, consta di tre fasi successive: la trasduzione, la conduzione del segnale e la trasmissione sinaptica.

La trasduzione consiste nella conversione di stimoli nocivi – meccanici, termici o chimici – in impulsi elettrici, che costituiscono la modalità di propagazione di un segnale lungo le vie del sistema nervoso. Come si può osservare nella figura 2, è stato identificato un certo numero di strutture recettoriali che, collocate sulle membrane delle terminazioni nervose, vengono selettivamente attivate dalle diverse tipologie di stimoli nocivi. Di particolare interesse è l’analisi del sistema recettoriale somatosensoriale in grado di distinguere gli stimoli di tipo fisico, come quelli termici e meccanici. Per quanto riguarda, per es., il discernimento della temperatura (Koltzenburg, in The pain system in normal and pathological states, 2004; Meyer, Ringkamp, Campbell, Raja, in Wall and Melzack’s textbook of pain, 2006), inclusa la capacità di distinzione tra gli stimoli dolorosi e quelli non dolorosi, esistono sei sottoclassi di recettori termosensibili (definiti TRP, Transient Receptor Potential), i quali vengono attivati da differenti gradazioni di caldo/freddo. Mentre il recettore TRPA1 risponde in modo selettivo a temperature molto fredde, comprese tra 0 e 10 °C, e di fatto è un nocicettore che identifica uno stimolo nocivo termico da freddo, altri recettori, tra i quali TRPM8, TRPV4 e TRPV3, sono attivati da temperature tra i 20 e i 40 °C, e vanno quindi considerati come termocettori non correlati a stimoli dolorosi.

All’estremo opposto, per temperature tra 45 e 60 °C, entrano in azione i recettori TRPV1 e TRPV2, che segnalano stimoli termici nocivi da caldo. Insomma, la temperatura esterna interagisce con il nostro organismo attraverso una serie di termocettori quasi fosse una mano applicata a una tastiera musicale, segnalando la presenza di caldo e freddo sia patologici e dolorosi sia fisiologici e non dolorosi.

L’attivazione dei recettori per gli stimoli dolorosi (Drew, Wood, in The pain system in normal and patho-logical states, 2004) comporta l’immediata apertura di canali del sodio, collocati a breve distanza sulla stessa membrana cellulare (fig. 2). Tali canali sono strutture proteiche di forma più o meno cilindrica, che a seguito dell’attivazione dei suddetti recettori fanno defluire lo ione sodio da una parte all’altra della membrana in base al gradiente di concentrazione (dall’ambiente dove la concentrazione è più elevata a quello dove è più bassa). Nel caso del sodio, che è uno ione in prevalenza extracellulare, l’apertura del canale comporta una sua massiccia entrata all’interno della cellula. Da tale evento deriva la depolarizzazione del primo neurone afferente, ovvero l’avvio di un impulso elettrico. La conduzione è il passo successivo, in cui l’impulso si propaga lungo l’intero decorso delle fibre Aδ e C, analogamente a quanto avviene per una corrente elettrica lungo un cavo di rame o di altro conduttore. Tecnicamente, la depolarizzazione si ripete in ogni successivo tratto della fibra nervosa, consentendo la trasmissione dell’impulso elettrico da un estremo all’altro, fino a giungere alla sinapsi a livello delle corna posteriori del midollo spinale. Qui ha luogo la trasmissione del segnale. Come già accennato, la sinapsi è la struttura anatomofunzionale deputata al trasferimento del segnale da un neurone all’altro attraverso la mediazione chimica di appositi neurotrasmettitori. Nel caso degli stimoli dolorosi le molecole attive nella trasmissione sinaptica sono soprattutto la sostanza P (SP) e il glutammato (Glu). SP e Glu, attraversato l’intervallo sinaptico, si legano a specifici re-cettori postsinaptici, alcuni dei quali, come i recettori AMPA (α-Amino-3-hydroxy-5-Methyl-4-isoxazole-Propionic Acid) e kainato, a cui si lega il Glu, agiscono immediatamente favorendo la depolarizzazione del secondo neurone e, di conseguenza, il proseguimento dello stimolo da quel punto in avanti, in direzione dei centri superiori precedentemente descritti. Gli altri recettori postsinaptici (recettore NK 1, NeuroKinina 1, specifico per la SP, e recettori NMDA, N-Methyl-D-Aspartate, e mGlu, ai quali si lega il Glu) entrano in azione più tardivamente, in caso di dolore persistente, per mantenere o potenziare a lungo la trasmissione dello stimolo, fino a produrre in determinati casi, come a seguito di alcune neuropatie dolorose periferiche, uno stato eccitatorio permanente del secondo neurone che prende il nome di sensibilizzazione centrale (Dubner, in The paths of pain 1975-2005, 2005; Woolf, Salter, in Wall and Melzack’s textbook of pain, 2006).

Il dolore di natura infiammatoria

In certi casi lo stimolo nocivo esterno non produce lesione dei tessuti, ma si limita ad attivare i processi di nocicezione descritti precedentemente. In altri casi, invece, lo stimolo è sufficientemente energico da causare una lesione dei tessuti su cui è applicato: ne derivano un danno tessutale e il parallelo inizio di un processo di tipo infiammatorio. L’infiammazione, o flogosi, costituisce un meccanismo di difesa aspecifico innato, con finalità di tipo protettivo, il cui obiettivo finale è l’eliminazione della causa iniziale di danno cellulare o tessutale. Si caratterizza per una intensa reazione vascolare che porta al passaggio di liquidi dal letto vascolare al tessuto leso. L’infiammazione serve, dunque, a rimuovere e a distruggere l’agente lesivo, ma allo stesso tempo mette in moto una serie di meccanismi che favoriscono la riparazione oppure la sostituzione del tessuto danneggiato.

L’infiammazione acuta è una risposta immediata a uno stimolo lesivo. È innanzi tutto una reazione vascolare e cellulare al danno tessutale, che si caratterizza attraverso alcune fasi: modificazioni vascolari, che consistono in una vasodilatazione associata a un aumento della permeabilità dei vasi; tale aumento, a livello capillare, determina la fuoriuscita dai vasi di liquido, di proteine e di cellule; ne deriva la migrazione dei leucociti (globuli bianchi) all’interno del tessuto soggetto al processo flogistico.

Questi eventi sono assai frequenti (si pensi anche solo a un’escoriazione o a una ferita o una bruciatura della cute o delle mucose) e cambiano profondamente la situazione ambientale in cui hanno luogo. L’infiammazione è il risultato di una triplice azione, che deriva: dal disfacimento delle cellule del tessuto leso (con relativa liberazione di sostanze intracellulari); dalla mobilizzazione, per via ematica, di cellule del sistema immunitario, che raggiungono la sede di lesione per iniziare un processo di difesa e di riparazione (attività mediata da sostanze liberate da queste stesse cellule); e da una risposta neurochimica da parte delle stesse cellule nervose coinvolte nella percezione del dolore (infiammazione neurogenica). Dalle cellule danneggiate fuoriesce una gran quantità di sostanze chimiche, tra cui, in particolare, alcuni ioni (soprattutto gli idrogenioni, H+, che producono una locale acidosi) e ATP (AdenosinTriPhosfate).

Come si può vedere nella figura 3, anche le cellule del sistema immunocompetente dell’ospite (tra cui vanno menzionati i macrofagi, i granulociti polimorfonucleati, i mastociti, i fibroblasti e le piastrine) contribuiscono al processo, liberando a loro volta altre sostanze, quali la bradichinina, l’istamina, la serotonina (5-HT, 5-HydrossiTriptamine), le prostaglandine (PGs, ProstaGlandins), le citochine (tra cui le interleuchine, IL, e il tumor necrosis factor, TNF) e alcuni fattori di crescita del tessuto nervoso, tra i quali il nerve growth factor (NGF), il glial cell line-derived neurotrophic factor (GDNF) e il brain-derived neurotrophic factor (BDNF). Per completare il quadro delle sostanze liberate e diffuse durante il processo infiammatorio, tra queste vanno annoverati il CGRP (Calcitonin-Gene-Related Peptide), che attiva i nocicettori, e il NO (Nitric Oxide), gas con grande capacità di diffusione tra i tessuti e responsabile di effetti neurotossici. Da ultimo va considerato il ruolo delle cicloossigenasi 2 (Cox-2, Ciclo-oxygenase-2), enzimi che, agendo all’interno dei fibroblasti, favoriscono la produzione di PGs, le quali hanno una grande importanza nella genesi dell’infiammazione e del dolore. Del resto, tutte queste sostanze hanno un ruolo attivo nell’insorgenza del dolore, fenomeno in stretto rapporto con l’infiammazione (McMahon, Bennett, Bevan, in Wall and Melzack’s textbook of pain, 2006).

Dopo che le sostanze sono state liberate dalle cellule coinvolte nel processo, lo scenario si sposta ai nocicettori locali. Le terminazioni nervose sensoriali, infatti, posseggono una varietà di recettori atti a legarsi con i mediatori dell’infiammazione.

Alcune delle molecole liberate, come l’adenosintrifosfato e gli idrogenioni, agiscono sui nocicettori, attivandoli direttamente e determinando un’immediata depolarizzazione, con partenza di uno stimolo doloroso. Altre sostanze, invece, agiscono su altri recettori che non sono in grado di far partire lo stimolo doloroso ma che sono capaci di sensibilizzare i nocicettori, ovvero di abbassarne la soglia di attivazione. Mentre la prima categoria di mediatori, le sostanze depolarizzanti, causa dolore, la seconda categoria, quella delle sostanze sensibilizzanti, causa iperalgesia. Da un punto di vista pratico succede quanto è possibile riscontrare quotidianamente: una zona di cute escoriata diventa rapidamente arrossata, un po’ gonfia e dolente. È in atto un processo infiammatorio che di per sé è già capace di provocare un certo grado di dolore. Se su quest’area viene applicata una pressione abbastanza energica, per es. premendo con un dito, si susciterà un dolore relativamente intenso (iperalgesia meccanica); se la stessa area finisce sotto una fonte di calore (come l’acqua abbastanza calda di una doccia) si proverà un dolore netto (iperalgesia termica). In altre parole, stimoli moderatamente dolorosi si trasformano in sensazioni nettamente dolorose perché su quella stessa area è in atto un’infiammazione che amplifica il dolore (appunto, l’iperalgesia). Tale amplificazione è imputabile allo stato di sensibilizzazione dei nocicettori.

Facendo riferimento alla figura 4, si può osservare che gli ioni H+ e l’ATP agiscono su due distinti recettori, denominati rispettivamente ASIC e P2X3, la cui attivazione consente l’immediata penetrazione di sodio nella cellula determinandone la depolarizzazione: da questa azione deriva il dolore spontaneo che avvertiamo. Quasi tutte le altre sostanze liberate durante l’infiammazione agiscono invece su altri recettori, che entrano in azione più tardivamente e inducono sensibilizzazione dei nocicettori agli stimoli meccanici e termici, causando iperalgesia.

Nello specifico, va segnalato il ruolo della bradichinina, sostanza che agisce attivando due specifici e distinti recettori, B1 e B2. Da questa attivazione deriva la sintesi della proteinchinasi C che, insieme ad altre chinasi (tra cui la proteinchinasi A), a sua volta favorisce il passaggio di ioni attraverso la membrana cellulare stimolando lo stato di eccitazione della cellula nervosa. Un ruolo di grande rilievo hanno, poi, le prostaglandine che sono, tra l’altro, il target su cui agiscono i comuni farmaci antinfiammatori. La loro sintesi parte dai fosfolipidi comunemente contenuti nella struttura della membrana di tutte le cellule, che, per effetto dell’azione enzimatica delle fosforilasi, vengono trasformati in acido arachidonico: su questa molecola agiscono le ciclossigenasi 1 e 2 (Cox-1 e Cox-2), che sono responsabili della sintesi delle PGs. Le PGs, a loro volta, agiscono sui recettori EP, e da questa attivazione deriva una particolare sensibilizzazione di nocicettori, in grado di produrre iperalgesia. Molti dei comuni farmaci utilizzati in caso di dolori articolari, reumatici, ma anche di febbre, come l’acido acetilsalicilico, il paracetamolo e i farmaci antinfiammatori non steroidei, agiscono inibendo le Cox-1 o le Cox-2, o entrambe, e riducendo, tra le altre cose, il dolore e l’iperalgesia. Da ultimo, tra le sostanze che sensibilizzano i recettori occorre segnalare la serotonina (5-HT), la quale viene comunemente liberata dalle piastrine e dai mastociti nei tessuti lesi e infiammati. Essa agisce attivando due sottotipi di recettori (5-HT2 e 5-HT3), la cui azione è sinergica con quella dei recettori già descritti per la bradichinina e per le PGs.

Un ruolo a parte, negli stati infiammatori, è svolto dai cosiddetti fattori di crescita nervosa. Si tratta di sostanze proteiche (le ricerche di base portarono al conferimento, nel 1986, del premio Nobel per la medicina a Rita Levi-Montalcini), il cui ruolo consiste nel regolare la crescita, la differenziazione, la sopravvivenza a lungo termine e la rigenerazione di buona parte delle cellule nervose. Tali attitudini sono di vitale importanza nel periodo di crescita pre- e postnatale, ma avvengono anche in età adulta. Tra i fattori di crescita un ruolo primario è svolto dall’NGF, che agendo attraverso un recettore specifico, la tirosinchinasi A (TrkA), svolge un ampio spettro di funzioni. Recentemente è stato dimostrato che l’NGF è particolarmente attivo in condizioni di infiammazione. La sua azione si esplica sul 1° neurone afferente sensitivo, aumentandone la sensibilizzazione in modo sia diretto (abbassando la soglia di eccitazione dei recettori per il dolore), sia indiretto (incrementando la produzione di alcune molecole coinvolte, con varie funzioni, nella genesi degli stimoli dolorosi). Tale aumento di produzione consiste nella capacità di stimolare il DNA della cellula a generare, attraverso l’RNA messaggero, la sintesi di alcune proteine (si parla di iperespressione genica per indicare l’aumento di molecole proteiche di cui è stata indotta una neosintesi). In base a tale meccanismo, l’NGF aumenta, di fatto, la quantità disponibile di SP (uno dei neurotrasmettitori attivi a livello della prima sinapsi), insieme al numero dei recettori per la bradichinina e dei canali del sodio. Da tutto ciò deriva che il 1° neurone è più ‘attrezzato’ per attivarsi e condurre gli stimoli dolorosi.

Da ultimo, nel novero delle sostanze liberate durante un processo infiammatorio, vanno considerate le citochine, molecole proteiche prodotte dalle cellule del sistema immunitario, tra le quali sono di particolare interesse TNF e IL, che agiscono, similmente agli ormoni, legando e attivando specifici recettori localizzati sulle membrane delle cellule bersaglio: ne deriva l’attivazione di particolari geni che provocano l’iperespressione di proteine, a loro volta determinanti una serie di nuove risposte intracellulari. TNF e IL agiscono parallelamente anche sui nocicettori, dei quali sono in grado di provocare sia l’attivazione (causando dolore), sia la sensibilizzazione (causando iperalgesia). In più, è stato osservato che qualsiasi infiammazione periferica è in grado d’indurre un’aumentata liberazione di citochine a livello del sistema nervoso centrale, dovuta soprattutto all’attivazione delle cellule gliali (Watkins, Maier, in The paths of pain 1975-2005, 2005): ne deriva un classico modello ‘riverberante’, in cui agli stimoli dolorosi provenienti dalla periferia si aggiunge un’amplificazione dello stato eccitatorio neuronale causato dal feedback gliale sugli stessi neuroni.

In conclusione, l’infiammazione è una risposta fisiologica del nostro organismo per arginare gli effetti negativi di una lesione tessutale e avviare i processi di riparazione. È un procedimento complesso, che implica il coinvolgimento di molte famiglie cellulari del sistema immunocompetente e una parallela liberazione di svariate sostanze da parte sia di tali cellule sia dalle cellule dei tessuti lesi. Molte di queste sostanze sono attive anche sui nocicettori, determinandone l’attivazione o la sensibilizzazione. Ne derivano dolore e iperalgesia. Il significato del dolore durante un processo infiammatorio continua a essere quello di dare segnali di allerta, ricordando la presenza di un’area lesa e non ancora riparata in un certo punto del corpo e, soprattutto, proteggendola da qualunque possibile e ulteriore sovrapposizione di nuovi stimoli nocivi e lesivi.

I sistemi di controllo e di modulazionedel dolore

Sono stati finora considerati i due aspetti più fisiologici e funzionali del dolore: la nocicezione, come risposta immediata e di allerta a uno stimolo nocivo, e il dolore di tipo infiammatorio, come risposta prolungata a una lesione tessutale e ai successivi processi riparativi. Non verranno, invece, considerate quelle forme di dolore che sono state precedentemente definite come di tipo non adattativo, in quanto rientrano nella classe dei quadri dolorosi patologici ed esulano dai temi di questa monografia.

Se finora è stato esaminato come il dolore si genera, si trasforma in un segnale elettrico, si diffonde lungo specifiche vie di trasmissione e giunge a centri superiori di elaborazione e d’integrazione, in quest’ultima parte verranno presi in considerazione alcuni meccanismi, intrinsecamente predisposti a livello del sistema nervoso centrale (SNC), che modulano il dolore in arrivo dalla periferia (Dubner, Ren, in The pain system in normal and pathological states, 2004; Watkins, Maier, in The paths of pain 1975-2005, 2005). Per es., è noto che certe lesioni traumatiche o ferite, se provocate durante competizioni agonistiche o azioni di combattimento non vengono quasi avvertite, mentre in altre situazioni risulterebbero assai dolorose. Queste situazioni estreme derivano dal fatto che l’SNC, in determinate occasioni, attiva circuiti neuronali in grado di ridurre o cancellare il dolore in entrata. Tali circuiti sono collegati ad alcuni centri cerebrali, come il sistema limbico, dove vengono elaborati gli aspetti emozionali; determinati stati d’animo molto intensi, come la paura o uno stato di eccitazione mentale o una grande tensione emotiva, sono capaci di inserirsi su un sistema che controlla il flusso degli stimoli dolorosi provocandone una inibizione. In altre situazioni, invece, è sufficiente la lunga persistenza di un dolore intenso e poco sopportabile per attivare simili meccanismi di feedback.

Già a metà degli anni Settanta del 20° sec., David J. Mayer e Donald D. Price scoprirono l’esistenza di un ‘sistema discendente’ che, a partire dal GPA, proietta fibre che tornano al midollo spinale per connettersi ai secondi neuroni afferenti di trasporto del dolore. Nella figura 5 vengono illustrate le caratteristiche e le principali connessioni nervose di questo sistema discendente di modulazione del dolore. I collegamenti contrassegnati in blu rappresentano le afferenze dolorose provenienti dalla periferia e proiettate fino alla corteccia cerebrale; i collegamenti contraddistinti dal colore rosso, invece, costituiscono il network del sistema discendente inibitorio.

Come si vede, il punto di partenza del circuito è il GPA, a cui afferiscono input regolatori provenienti dalla corteccia cerebrale, e in particolare dal cingolo anteriore, dove gli stimoli dolorosi trovano la loro ultima stazione di arrivo (v. anche fig. 1), sia dall’amigdala, che è un’area deputata, tra l’altro, all’elaborazione degli aspetti emozionali. Lo stesso GPA è stimolato da fibre collaterali della via ascendente che, proprio in funzione del trasporto prolungato di stimoli dolorosi, s’inserisce sul punto di avvio del circuito discendente con la chiara funzione di creare un feedback negativo sul dolore in arrivo. Dal GPA partono fibre discendenti che raggiungono, come prima tappa, il midollo allungato a livello dei nuclei rostrali centromediani e, in particolare, l’NRM. Tramite l’NRM, il sistema discendente ritorna alle corna posteriori del midollo spinale, dove stabilisce sinapsi di tipo inibitorio con i neuroni delle vie ascendenti. Si parla di sinapsi inibitorie in quanto il neuromediatore liberato è una sostanza oppioide endogena, chiamata encefalina, che, esattamente come i farmaci oppioidi (morfina, codeina, metadone e altre molecole), agisce bloccando la funzione dei neuroni raggiunti e impedendo, in questo caso, il transito dello stimolo doloroso proveniente dalla periferia.

L’aspetto più interessante del circuito discendente riguarda, innanzi tutto, la capacità di garantire un’attenuazione del dolore provato durante situazioni prolungate di sofferenza, come accade nel caso di certi stati d’infiammazione cronica: questa capacità si autogenera e si mantiene in modo automatico senza l’intervento di uno stimolo trigger (cioè che innesca la risposta) e di fattori esterni. Inoltre, le basi biochimiche del circuito si fondano su molecole di tipo oppioide che, agendo su appositi recettori, sortiscono l’effetto inibitorio atteso. Queste scoperte hanno permesso, nel tempo, di chiarire dove e come agiscono i farmaci oppioidi che vengono comunemente utilizzati in molti quadri dolorosi, scoprendo che, di fatto, essi non fanno altro che ‘mimare’ l’azione di sostanze che l’organismo normalmente produce e libera in risposta a stati dolorosi.

Scoperte ancor più recenti, in tema di meccanismi di neuromodulazione del dolore, hanno dimostrato che nell’ultima tappa del circuito appena descritto, ovvero a livello dei nuclei rostrali centromediani del midollo allungato, esistono due famiglie di cellule che possono, in antagonismo tra loro, inviare ai neuroni delle corna posteriori stimoli inibitori o facilitatori sulla trasmissione del dolore (Dubner, in The paths of pain 1975-2005, 2005; Ossipov, Porreca, in The paths of pain, 1975-2005, 2005). Ta-li cellule sono state definite off cells e on cells, a seconda che agiscano inibendo il dolore e aumentando l’effetto analgesico, oppure aumentando i livelli di dolore e iperalgesia. Apparentemente questo meccanismo può sembrare assurdo e poco chiaro, soprattutto se si pensa a un sistema di amplificazione del dolore. Nella realtà, proprio alle cellule on è stato attribuito il preciso significato di aumentare lo stato di allerta di fronte a situazioni pericolose per l’integrità corporea ma che non determinano, di per sé, un sufficiente livello di dolore spontaneo tale da innescare immediati meccanismi di sottrazione o di fuga. È chiaro allora che queste cellule lavoreranno solo nelle fasi iniziali di una situazione di danno tessutale, con lo scopo di migliorare i meccanismi di difesa dell’individuo, per poi cedere il posto, una volta che la situazione si sia stabilizzata, ai sistemi che controllano il dolore proveniente dalle aree già lese.

Verso il futuro: dolore e genetica

Che determinati geni siano responsabili del determinismo di alcune caratteristiche somatiche di un individuo (per es., il colore degli occhi o dei capelli, la statura) è un fatto noto da tempo. Molto più recente è invece l’identificazione di relazioni tra assetto genico e sensazioni dolorose. Questi sviluppi derivano dall’eccezionale progresso che ha avuto il settore della ricerca in ambito genetico negli ultimi anni. Infatti, a partire dai primi anni del 21° sec., sono emerse importanti scoperte in questo campo, relative soprattutto: alle situazioni in cui fattori genetici alterano la normalità, o l’integrità, delle vie anatomiche che trasportano il dolore dalla periferia all’SNC (nocicettori, neuroni afferenti, glia, connessioni e circuiti a livello centrale); alle situazioni in cui fattori genetici influiscono sugli aspetti funzionali e biochimici correlati al trasporto e alla modulazione del dolore (neuromediatori, neurotrasmettitori, recettori, canali ionici, reazioni biochimiche); alle situazioni, infine, in cui fattori genetici interferiscono sull’azione dei farmaci analgesici, aumentandone o riducendone l’efficacia, mediante meccanismi che interferiscono con la loro farmacocinetica o la loro farmacodinamica. Questo particolare settore della ricerca genetica prende il nome di farmacogenomica, intesa come la disciplina che studia le correlazioni tra i caratteri genetici e i comportamenti dei farmaci.

Il punto di partenza negli studi di farmacogenomica degli analgesici oppioidi deriva dalla constatazione di una notevole variabilità di risposta a tali farmaci tra un soggetto e l’altro. Tale variabilità ha una genesi multifattoriale, includendo aspetti genetici, ambientali, soggettivi e oggettivi, correlati al quadro patologico di base e che nel loro insieme determinano differenti modi di manifestarsi dell’azione dei farmaci (assorbimento, distribuzione, interazione con il target biochimico, metabolismo ed eliminazione). Se soltanto fino ad alcuni anni fa, non si immaginava che esistessero meccanismi geneticamente determinati in grado di modificare profondamente la risposta agli oppioidi, attualmente è invece ormai chiaro che tali meccanismi dipendono soprattutto dall’esistenza di varianti dei recettori per questi farmaci.

Gli studi pubblicati tra il 2001 e il 2002 (C.Y. Szeto, N.L. Tang, D.T. Lee, A. Stadlin, Association between mu opioid receptor gene polymorphisms and Chinese heroin addicts, «Neuroreport», 2001, 12, 6, pp. 1103-6; G.S. Wand, M. McCaul, X. Yang et al., The mu-opioid receptor gene polymorphism (A118G) alters HPA axis activation induced by opioid receptor block-ade, «Neuropsychopharmacology», 2002, 26, 1, pp. 106-14) hanno evidenziato un primo meccanismo in grado di determinare anomalie nel recettore per gli oppioidi. Si tratta dei cosiddetti polimorfismi, consistenti in minime variazioni nella sequenza dei nucleotidi (gli elementi costitutivi del DNA). In particolare, le variazioni che riguardano un solo nucleotide vengono indicate con il nome di SNP (Single Nucleotide Polymorphism) e normalmente chiamate snip. Per es., uno snip importante riguarda il nucleotide collocato in posizione 118 nel gene che contiene l’informazione necessaria a costruire il recettore per gli oppioidi. In questo gene, una molecola di guanina (G) può sostituire l’adenina (A), normalmente presente. Ne sortisce la variante A118G (Bergen, Kokoszka, Peterson et al. 1997; Berrettini, Hoehe, Ferraro et al. 1997; Bond, LaForge, Tian et al. 1998), che è quella a più elevata incidenza. I portatori di questo polimorfismo rappresentano circa il 10% delle persone appartenenti all’etnia caucasica e in questi soggetti l’efficacia della morfina, attraverso il suo principale metabolita attivo, è ridotta del 60% (Lotsch, Skarke, Grosch et al. 2002).

Tali evidenze scientifiche sono di recente pubblicazione e probabilmente non hanno ancora avuto una piena applicazione nella clinica. Questo anche perché se è relativamente semplice scoprire che esistono varianti geniche in grado di modulare la risposta dei farmaci, ben più complessa appare l’elaborazione di un test che permetta, in modo affidabile e poco costoso, di effettuare uno screening delle variazioni geniche inerenti ai trattamenti analgesici. D’altra parte, in ogni condizione clinica, o nell’intraprendere qualsiasi nuovo piano terapeutico, sarebbe opportuno fare una prevalutazione dell’assetto genico del malato, ma è intuibile come tale procedura avrebbe un impatto considerevole in termini sia organizzativi sia economici. Per questo motivo, in attesa di metodi di screening moderni, rapidi e a basso costo, molte delle conoscenze rese disponibili dalla ricerca non sono immediatamente traducibili in comportamenti clinici.

È però difficile immaginare un futuro della medicina che non tenga conto dei fattori di natura genetica. Al riguardo, l’altro importante aspetto genetico che interferisce con l’azione degli oppioidi consiste nelle modalità di montaggio delle proteine che ne costituiscono il recettore. Infatti, in questo processo di sintesi non viene quasi mai utilizzata l’intera sequenza dei nucleotidi disponibili ma, più spesso, solo una parte di essa. L’assemblaggio di tale materiale, che costituisce l’mRNA (RNA messaggero, ovvero la molecola che traduce la sequenza dei nucleotidi del DNA nella sequenza degli amminoacidi che costituisce ogni proteina), può avvenire con differenti modalità. Come si può osservare nella figura 6, le sequenze di DNA utilizzabili, chiamate esoni, possono essere montate in diversa maniera per costituire l’mRNA, fenomeno noto come splicing. In sostanza, da un unico gene possono derivare molteplici differenti proteine. Nel caso dei recettori degli oppioidi, che sono strutture proteiche, già a metà degli anni Novanta del 20° sec. erano state identificate due possibili varianti di splicing (Bare, Mannson, Yang 1994; Zimprich, Simon, Hollt 1995) e nel 2003 erano noti 14 esoni del gene addetto alla sintesi, da cui potevano derivare 15 varianti di splicing.

Da un punto di vista pratico, di questi diversi recettori alcuni sembrano mantenere integre le loro proprietà chimiche e funzionali (legare l’oppioide e promuoverne l’effetto sul neurone), ma altri sembrano fortemente depotenziati. In un lavoro del 2004 (Bolan, Pan, Pasternak 2004) è emerso che l’efficacia dell’azione di vari farmaci oppioidi (morfina, metadone, fentanyl e altri), applicati in soggetti che presentavano varianti di splicing relative al recettore per gli oppioidi, variava dal 100% in alcuni sottotipi di recettore al 44% in altri sottotipi. In altri termini, quando viene somministrato a un malato uno di questi farmaci si devono attendere risposte analgesiche non del tutto prevedibili, perché ogni soggetto ha un proprio assetto genico in grado di modulare la risposta ai trattamenti. Ne deriva che, in assenza di informazioni su tale assetto, è corretto valutare la risposta di ciascun farmaco su ogni specifico individuo e personalizzare la dose necessaria; ne deriva altresì che, il giorno in cui sarà possibile disporre di uno screening genetico, si potrà fare una scelta mirata del farmaco (assicurando così maggior efficacia e minori effetti collaterali).

Conclusioni

Quanto finora esposto rappresenta un percorso in cui il protagonista è il dolore, compagno quotidiano nei piccoli e grandi traumi a cui siamo soggetti, o in molte malattie, soprattutto croniche e progressive, che da una certa età in avanti affliggono i nostri giorni. Si parla di percorso appunto perché esso assomiglia a un cammino, a partire dal momento in cui il dolore entra nell’organismo per poi farsi avanti attraverso neuroni, fibre e sinapsi fino ad arrivare nei siti della corteccia cerebrale, dove avviene la più fine elaborazione di ogni esperienza sensoriale. Questo percorso non rappresenta soltanto un’arida descrizione di nomi e di funzioni: è allo stesso tempo sorprendente e affascinante come un sistema biologico sia in grado di organizzarsi, in bilico tra positivismo e fantasia creativa. Si tratta però anche di un percorso di ritorno, dalle stanze della mente alla periferia, in quanto il dolore, definito fin dalle prime righe come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, deve essere in qualche modo controllato. Non ha senso vivere in un universo di dolore: un concetto che sosteneva (e spesso cercava di rappresentare nelle sue tele) la pittrice messicana Frida Kahlo, facendo riferimento all’incidente occorsole durante la giovinezza, e che aveva condizionato in maniera così profonda il suo benessere.

Ed ecco, dunque, la duplicità e l’ambiguità del dolore: dolore positivo, perché segnala pericoli e danni, ma dolore negativo, quando persiste con i suoi connotati di sofferenza fisica e psichica. Questa è, di fatto, la differenza che si definisce anche in ambito clinico, e di cui si è parlato all’inizio di questo saggio: dolore-sintomo (campanello di allarme) e dolore-malattia (dolore che persiste nonostante l’affievolirsi o lo scomparire della causa, dolore fine a sé stesso, inutile, devastante). Nessuno si sognerebbe di sopprimere il primo, tutti dovremmo adoperarci per combattere e curare il secondo. Insomma, dolore buono e cattivo. Un dualismo che non è insolito nella vita.

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