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Benevento

di Enzo Petrucci - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Benevento (Benivento)

Enzo Petrucci

Città della Campania, nominata da D. in Pg III 128 come luogo nei cui pressi (in co del ponte presso a Benevento) cadde e fu sepolto Manfredi. Nella forma Benivento è citata in Fiore CCIII 12 per designare - obbedendo probabilmente alla pura esigenza di rima - una località assai distante da quella in cui si trovano l'Amante e lo Schifo.

Battaglia di Benevento. - Evento di grande importanza storica, perché con la sconfitta e la morte di Manfredi e la conquista del regno di Sicilia da parte di Carlo d'Angiò, rappresentò il primo atto della definitiva vittoria del papato nella lotta contro gli Svevi e l'inizio della dominazione angioina nell'Italia meridionale. Combattuta il 26 febbraio 1266, sulla riva destra del Calore presso B., fu l'episodio conclusivo della spedizione italiana di Carlo d'Angiò. Di fronte all'azione decisa di questo, l'incertezza della condotta di Manfredi, che, nonostante l'apparente sicurezza, fondava le sue speranze più sulle difficoltà dell'avversario che sulle proprie forze, rivela che la sfiducia aveva invaso l'animo suo.

Pochi giorni dopo la sua incoronazione, avvenuta a Roma il 6 gennaio 1266, a Carlo d'Angiò giungevano le truppe franco-provenzali, raccolte dal cardinale Simone di Santa Cecilia, che aveva predicato in Francia la crociata contro Manfredi. Il 20 dello stesso mese, Carlo mosse per l'antica via Latina alla conquista del regno, e ai primi di febbraio attraversava il confine al ponte sul Liri presso Ceprano. Manfredi, attestato a Capua con parte del suo esercito, per la difesa di Napoli, sperava che il sistema difensivo del Liri, imperniato sul triangolo Ceprano-Rocca d'Arce-San Germano (oggi Cassino), avrebbe contenuto l'avanzata angioina fino all'arrivo di suo nipote Corrado di Antiochia con i rinforzi della Marca e degli Abruzzi. Ma Carlo d'Angiò, attraversato il ponte di Ceprano senza: incontrare nessuna resistenza, e occupate subito dopo Rocca d'Arce e Aquino che gli aprirono le porte, inflisse una prima gravissima sconfitta all'esercito di Manfredi nella battaglia di San Germano, che costituiva il vertice sud del triangolo di difesa. Alla caduta di San Germano (10 febbraio 1266) seguì la resa di trentadue castelli e il crollo di tutta la linea del Liri. La mancata difesa del ponte di Ceprano e di Rocca d'Arce e la fiacca resistenza a San Germano - fortezze giudicate inespugnabili - si ritrova pressoché in tutti i cronisti. Quelli più strettamente legati alla causa angioina o sono reticenti come Andrea Ungaro (Descriptio victoriae a Karolo Provinciae comite reportatae, in Mon. Germ. Hist., Scriptores 26, 569), che non fa neppure il nome di Ceprano - ma parla, come Saba, delle imprendibili fortezze di Rocca d'Arce e San Germano - o attribuiscono vagamente il successo di Carlo d'Angiò alla protezione divina sulla sua impresa, come lo stesso Andrea Ungaro e Saba Malaspina (ed. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli 1868, 246-247), il quale pare anche insinuare che Iddio abbia confuso l'intelletto di Manfredi, destinato ormai alla rovina. Un'altra tradizione, invece, passata in Ricordano Malispini (ed. Follini, 150-151) e in Giovanni Villani (VII 5) parla esplicitamente del tradimento del conte Riccardo d'Aversa. A ogni modo, caduta San Germano, rimaneva la linea del Volturno, che Carlo, consapevole di non poter attraversare di fronte alla fortezza di Capua, dove era attestato Manfredi, risalì superando il fiume nel suo corso superiore probabilmente presso Venafro (il Malispini [p. 152] dice a Tuliverno), e seguendolo poi per Alife e Telese nell'ampio giro che descrive in direzione sud-est, prima di volgere verso Capua. Manfredi, sorpreso per la caduta di San Germano e per la rapidità della manovra del nemico, che con l'attraversamento del Volturno aveva di colpo annullato la forte posizione di Capua, e consapevole ormai del tradimento, abbandonò la città e si portò a B., ponendo così fra sé e l'avversario ancora un corso d'acqua, il Calore, affluente del Volturno. Intanto Carlo, informato a Telese che lo Svevo aveva raggiunto B., abbandonò la direttrice di Capua e decise di inseguire il nemico, giungendo in prossimità della città il 25 febbraio. Manfredi si trovava, rispetto all'avversario, in una posizione strategica favorevolissima, con la sua base di appoggio a B., difesa da montagne e dal corso del Calore e del Sabato; e avrebbe popotuto senza difficoltà arrestare l'invasione e logorare il nemico, nell'attesa dei rinforzi. Ma, sfiduciato e dubbioso della fedeltà dei suoi, preferì dare subito battaglia. L'indomani, venerdì 26 febbraio 1266, compromettendo tutti i vantaggi che la rapida e intelligente manovra dello spostamento da Capua a B. gli aveva assicurato, Manfredi attraversò il Calore e schierò il suo esercito in ordine di battaglia. La prima schiera, composta di 1200 cavalieri tedeschi, coperti da una formazione di arcieri saraceni, era comandata da Corrado di Anglona e dal cugino Giordano Lancia. La seconda schiera, comandata dagli zii Galvano e Bartolomeo Lancia, era formata da circa 1000 cavalieri lombardi e toscani e da due o trecento cavalieri saraceni. Manfredi si era tenuto indietro con una formazione di riserva, composta di poco più di 1000 cavalieri del regno. Anche Carlo d'Angiò schierò le sue truppe su tre linee. La prima, protetta da una formazione di fanteria, era composta di 900 cavalieri provenzali, al comando del maresciallo di Francia Ugo di Mirepoix e di Filippo di Monfort. La seconda schiera, agli ordini dello stesso Carlo, di Guido di Monfort e di Guglielmo Estendart, era formata da 1000 uomini tra Francesi Provenzali e Romani e dal corpo dei Guelfi di Toscana, di circa 400 cavalieri, al comando del fiorentino Guido Guerra (If XVI 34-39). La terza schiera, composta di Fiamminghi e di Francesi delle contee del nord-est, era tenuta in riserva al comando di Roberto di Fiandra e del conestabile Gil Le Brun. La battaglia, iniziata intempestivamente dagli arcieri saraceni e mal condotta tatticamente dalle forze sveve, con le schiere troppo lontane l'una dall'altra per un impiego coordinato, e il cui controllo sfuggì subito a Manfredi, si risolse in favore di Carlo d'Angiò. Manfredi, abbandonato dai nobili del regno, e rimasto solo con la sua guardia del corpo, si gettò nella mischia con accanto il fedele Tebaldo Annibaldi, preferendo alla fuga la morte. Due giorni dopo, domenica 28 febbraio, il corpo di Manfredi, riconosciuto dal cognato Riccardo di Caserta, passato dalla parte di Carlo, e da Giordano e Bartolomeo Lancia, fu seppellito onorevolmente, sia pure senza cerimonie ecclesiastiche perché scomunicato, in una fossa all'estremità del ponte sul Calore. Si disse poi - ed è quello che D. crede - che Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza, avesse esumato per ordine del papa Clemente IV il corpo di Manfredi e lo avesse fatto seppellire sulle sponde del Liri fuori dei confini del regno.

D. accenna in modo evidente alla battaglia di B. là dove fa ricordare da Manfredi la sua sepoltura in co del ponte presso a Benevento / sotto la guardia de la grave mora (Pg III 128-130). Meno evidente è l'accenno di If XXVIII 15-16 e l'altra [gente] il cui ossame ancor s'accoglie / a Ceperan, là dove fu bugiardo / ciascun Pugliese. La critica storica moderna si è sforzata di invalidare le notizie qui offerte da D., affermando che a Ceprano non vi fu né tradimento né tanto meno una battaglia, traendo la conclusione, invero strana e arbitraria, che D. avrebbe grossolanamente scambiato Ceprano con B. (Schirrmacher, Scheffer - Boichorst, Bergmann, Hartwig, Capasso, Del Giudice, cit. in Colasanti, Il passo di Ceprano..., p. 74); conclusione ripresa e sviluppata con largo apparato critico da E. Pozzi. In realtà, se con Ceprano qui si intendesse - come pare si debba intendere - tutto il sistema difensivo del Liri che poggiava sul triangolo Ceprano - Rocca d'Arce - San Germano, che aveva una profondità non superiore a una trentina di chilometri, il tradimento ci fu in tutti e tre i capisaldi ed è riferito direttamente o indirettamente da tutti i cronisti (cfr. Colasanti, Il passo di Ceprano..., pp. 74 ss.; La sepoltura..., pp. 45 ss.). Per quanto riguarda l'allusione dantesca a una battaglia, va rilevato che se il tradimento riuscì a impedire lo scontro tra svevi e angioini a Ceprano e a Rocca d'Arce, non poté evitarlo a San Germano, dove anzi pare che favorì l'attacco delle truppe di Carlo d'Angiò che fecero strage dei difensori, soprattutto dei Saraceni.

Carlo stesso nella sua lettera-rapporto a Clemente IV, scritta da B. la sera stessa della battaglia, ricorda anche quella di San Germano, in termini tali da far pensare che l'angioino la giudicasse sul piano militare di valore decisivo. Infatti, per quanto importantissima sul piano politico, la battaglia di B., in cui furono sconfitti i resti delle forze scampate a S. Germano, appare solo come la conclusione di questa, e quindi al confronto, sul piano militare, di valore più modesto. Ecco come scriveva Carlo d'Angiò (Mon. Germ. Hist., Scriptores 26, 573): " ecce significo vobis ad gaudium, quod postquam Manfredus publicus hostis, victus olim apud S. Germanum, a Capua quoque, ubi se iactabat velle resistere, confusus abscessit; accepi quod idem hostis cum suarum reliquiis virium, quae de S. Germano per fugam evaserunt, profugus per Terram Laboris se contulit Beneventum ". Si capisce dunque perché D. nella sua similitudine ipotetica, che con il grande numero di morti e feriti nelle diverse battaglie combattute nel Mezzogiorno d'Italia doveva dare, seppure inadeguatamente, un'immagine dello spettacolo della bolgia degli scismatici, si sia riferito a Ceprano e non a B.; ma ancor più significativo, per capire i versi danteschi, è il racconto di Saba Malaspina (p. 248): " Sarraceni autem, et alii, qui pro ingenti exercitu per Manfredum ad custodiam passus Sancti Germani fuerant destinati, tum insultum urgentissimum intuentes, et maiorem illo longe mentis oculo pavide contemplantes, se fugae praesidio commiserunt, cum non ad resistendum, sed ad fugiendum potius, ex timoris determinatione concepti continuo se pararent. Sed iis fugae coeptae remedium usquequaque non profuit. Nam maiorem partem Gallicorum gladius sine misericordiae venia trucidavit. Occubuerunt inibi sine numero Sarraceni, quibus non parcebat Gallicus nec Latinus; ipsorumque corpora, quae prae vulnerum confusione crudelium in campo discerni non poterant, in escam rapacium animalium iacebant exposita super terram, et famelicis avibus derelicta. Nonnulli tamen manus gallicas evadentes, fugamque continuantes usque Beneventum... de strage huiusmodi miranda et terribilia retulerunt ".

Nella pagina di Malaspina si ritrovano tutti gli elementi per capire i versi danteschi sullo sfondo sanguigno dell'immensa folla di corpi mutilati del canto degli scismatici: il tradimento, la strage, i corpi " sine numero " sfigurati dalle ferite, l'ossame rimasto sul campo dopo il macabro pasto degli animali rapaci. Non sembra anzi azzardato affermare che o il passo di Malaspina o il terribile racconto della strage fatto dai reduci della battaglia, che poi corse certamente tra i contemporanei, sia stato la fonte del conciso ricordo dantesco.

È comunque da respingere l'ipotesi arbitraria che il poeta abbia potuto confondere Ceprano con B., anche perché se per i moderni la conoscenza della campagna di Carlo d'Angiò e la geografia del regno è un'acquisizione libresca, per D. invece era una realtà politica viva, le cui conseguenze vide e sofferse. Non si deve dimenticare poi che D., oltre a partecipare attivamente alla vita politica della sua città - che aveva strettissimi rapporti politici ed economici con gli angioini di Napoli e con la Chiesa - era uno degli uomini più colti del suo tempo, e che tra i suoi molteplici interessi aveva un gusto particolare proprio della precisione topografica, e che conosceva assai bene l'Italia, come appare da numerosi luoghi dell'opera sua. Ammesso tutto questo, non si può dubitare che D. conoscesse molto bene la geografia politica del suo tempo e forse meglio dei moderni. Con ciò naturalmente non si esclude che D., il quale spessissimo non racconta ma presuppone i fatti, volesse alludere, con l'espressione di If XXVIII 15-16, a tutta la campagna di Carlo d'Angiò e quindi indirettamente anche alla battaglia di Benevento.

Bibl. - Oltre alle monografie di A. Meomartini, La battaglia di B., Benevento 1895, e di M. Müller, Die Schlacht bei B., Berlino 1907, si veda anche Köhler, Die Entwicklung des Kriegswesens und Kriegsführung, ibid. 1881, I 446-469, 494-510, e Delpech, La tactique au XIII siècle, Parigi 1886, II 99-107. Ma la narrazione degli avvenimenti che portarono allo scontro e dello svolgimento delle fasi dei combattimenti si trova in quasi tutte le opere di carattere generale sul periodo. Si veda in particolare: G. Del Giudice, La famiglia di re Manfredi, Napoli 1880, 50-65, XXXVII-XLIII; C. Merckel, L'opinione dei contemporanei sulla impresa di Carlo I d'Angiò, in " Meni. Accad. Naz. Lincei " (1889); E. Jordan, Les Origines de la domination angévine en Italie, Parigi 1909, 536-602; R. Morghen, Il tramonto della potenza sveva in Italia 1250-1266, Milano-Roma 1936; E. Jordan, L'Allemagne et l'Italie aux XII et XIII siècles, Parigi 1939, 336-367; S. Runciman, The Sicilian Vespers, Cambridge 1958, 78-98; E. Léonard, Gli Angioini di Napoli, Varese 1967, 55-70. Per una ricostruzione dei fatti in relazione ai versi di D. si veda in particolare E. Pozzi, Accenno a Ceprano nella D.C., in " Giorn. stor. " LVII (1911) 303 ss., e le puntualizzazioni di G. Colasanti, Il passo di Ceprano sotto gli ultimi Hohenstaufen, in " Arch. Soc. Romana St. Patria " XXXV (1912) 5-99; Id., La sepoltura di Manfredi lungo il Liri, ibid. XLVII (1924) 45-116.

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