BENEVENTO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1992)

G. Bertelli Buquicchio

BENEVENTO (lat. Beneventum)

Città dell'Italia meridionale, capoluogo di una delle province interne della Campania parzialmente corrispondente all'antico Sannio. B. si estende sul colle della Guardia e nella sottostante pianura, in cui le vallate dei fiumi Sabato e Calore si congiungono presso l'incrocio di strade colleganti i versanti tirrenico e adriatico della penisola.B. fu un centro dei Sanniti fino al 268 a.C., quando i Romani, mutandone il nome di Maloenta o Maleventum in Beneventum, vi insediarono una colonia da cui trasse origine il municipium. Contesa durante il conflitto goto-bizantino per la posizione e la rilevanza delle strutture, fu scelta dai Longobardi intorno al 570 come sede del loro vasto ducato meridionale; dopo il 774 e il crollo del regno di Pavia divenne il principale centro politico dell'Italia longobarda, tanto che il duca Arechi II (758-787) incominciò a qualificarsi come principe, attuando di fatto una translatio regni non smentita in seguito. Dopo la divisio ducatus dell'849 e la costituzione del principato di Salerno, B. rimase capoluogo di uno stato la cui estensione andò riducendosi con il procedere della riconquista bizantina; proprio i Bizantini l'occuparono dall'891 all'895, mentre Guido IV, marchese di Spoleto, la tenne fino all'897. L'istituzione della metropolia nel 969 rispecchiò la nuova geografia politica: la circoscrizione arcivescovile venne conformata a quella dello stato, come, del resto, era già avvenuto nel caso di Salerno e Capua. Dopo la conquista normanna del Mezzogiorno e la scomparsa dell'ultimo principe longobardo, Landolfo VI, con il trattato di Ceprano del 1080 B. entrò a far parte, con un ridottissimo territorio, del Patrimonio della Chiesa, cui già apparteneva di fatto dal 1051, configurandosi da quel momento come un'isola pontificia nel regno meridionale; tale rimase, salvo brevi intervalli, svolgendo un ruolo nuovo e inferiore rispetto al passato, ma sperimentando anche iniziative di tipo comunale, attestate soprattutto dagli statuti del 1202.

Urbanistica e architettura

La cospicua documentazione dei monasteri benedettini, i diplomi dei principi longobardi, gli atti della cancelleria vescovile e del governo pontificio, integrati dal Chronicon di Falcone e dai dati archeologici e iconografici, consentono di ricostruire assetto e immagine della città; essi vennero formandosi attraverso la progressiva trasformazione del centro impostato dai Romani nel sec. 3° a.C. e gradualmente ampliato e arricchito. Nella zona orientale si rileva l'impianto programmato a struttura ortogonale del tipo documentato dai centri di più antica pianificazione, i cui elementi, preservati dall'attività urbanistica ed edilizia medievale, sono attestati anche dalle planimetrie di Saverio Casselli (ca. 1781) e di Luigi Mazarini (1823). Si tratta di un reticolo di decumani e cardines strutturato sul ritmo modulare di un actus (m. 35 ca.), con lunghezza del lato lungo degli isolati variabile rispetto al modulo costante secondo un rapporto che va da 1:2 a 1:3.Sostanzialmente invariato rimase, nel Medioevo, il sistema viario di accesso alla città; l'Appia vi entrava attraverso il pons Leprosus - così detto per la probabile vicinanza di un lebbrosario - proseguendo poi per Eclano, Melfi, Taranto e Brindisi, località cui B. fu collegata anche dalla via Traiana, che seguiva un percorso costiero. La città era servita inoltre dalla via dell'Alto Sannio, che raggiungeva la pianura di contrada Cellarulo, presso la confluenza del Sabato nel Calore, attraverso il pons Maior su quest'ultimo fiume, proseguendo poi per l'Irpinia e il Salernitano. Dopo il crollo del ponte, che per questo fu detto Fratto, la strada divenne raggiungibile attraverso il ramo prossimo a B. della via Latina, che giungeva dalla valle telesina. Le strade ricordate per gran parte del loro tratto urbano si identificarono con il decumanus maximus, che rimase l'arteria principale del centro medievale corrispondendo poi alla platea puplica maior delle fonti medievali e alla via Magistrale dell'età moderna, che fu allargata dopo l'unità d'Italia per formare i corsi Dante e Garibaldi. Prima della realizzazione dell'organismo urbano pianificato e complesso, l'Appia coincise forse con il decumanus corrispondente alle od. vie Annunziata e Gaetano Rummo.Dopo l'arrivo dei Longobardi, intorno al 570 o un ventennio prima - sul finire della guerra goto-bizantina nuclei di Longobardi passati dalla parte di Narsete, o al soldo di questi già prima del 552, dal condottiero bizantino sarebbero stati lasciati liberi di insediarsi nel beneventano -, ebbe inizio la trasformazione della città antica, all'indomani del lungo periodo di decadenza seguito alla ripresa dopo il terremoto della metà del sec. 4° e alle successive vicende, culminate in avvenimenti bellici quali la devastazione perpetrata nel 545 da Totila, distruttore, secondo Procopio di Cesarea, delle mura urbiche (La guerra gotica, III, 6; a cura di D. Comparetti, II, Roma 1896, p. 241). Se queste ultime potevano aver subìto già prima alcuni danni rilevanti, di fatto dovettero essere ricostruite dai Longobardi, visto che nulla giustifica l'attribuzione dell'impresa a Narsete, riconquistatore della città nel 555.La recinzione, realizzata da maestranze locali tra la fine del sec. 6° e gli inizi del 7°, comportò l'esclusione definitiva e la conseguente ruralizzazione dell'area occidentale del centro romano abbandonata per lo spopolamento, il decadimento delle opere civili e il disuso delle strutture urbane, rappresentate fra l'altro dall'anfiteatro e da un grande complesso edilizio, noto con il nome della chiesa in esso impiantata nel Medioevo, i Ss. Quaranta. Rimasero fuori città un buon tratto della via dell'Alto Sannio e il primo tratto del miglio (m. 425 ca.) percorso dall'Appia al suo interno, fra il ponte Leproso e porta S. Lorenzo. Con la costruzione della Civitas nova, promossa da Arechi II entro il 774 per esigenze di difesa e di rinnovamento urbanistico, fu recuperata la zona del teatro e di un vicino edificio termale noto anche attraverso il titolo dell'ecclesia S. Bartholomei in thermis. Il perimetro murario del primo centro longobardo, che era pari a m. 2750,50, raggiunse m. 3248,50, portati a m. 3422,60 con il piccolo ampliamento realizzato sul lato orientale entro il 926. Non prive di valori architettonici, soprattutto nelle torri e nelle porte - alcune aperte o restaurate in epoca postlongobarda -, le mura si svolgono dalla porta Somma, edificata entro il 926 e incorporata nel sec. 14° dalle strutture della rocca dei Rettori, fino all'arco di Traiano, che ne divenne la port'Aurea con un cambiamento di funzioni indicato per l'età moderna da documenti cartografici e iconografici come le acqueforti di Giovan Battista Piranesi e di Jean Du Plessys-Berteaux o i dipinti di Gian Paolo Panini e di Filippo Palizzi. Da questo punto, la cinta proseguiva verso O, volgendo poi a N e infine piegando a S-O per aprirsi nella porta S. Lorenzo; nel tratto in esame, ove sono in piccola parte superstiti, erano la porta Gloriosa sul ponte di S. Onofrio - uno dei ponti antichi sul Calore restaurato nel Medioevo, come osservato da Luigi Vanvitelli che ne progettò il rifacimento -, la porta Rettore e una posterula di incerta datazione. Da porta S. Lorenzo le mura raggiungevano un arco di accesso al foro, detto arco del Sacramento per la vicinanza alla cattedrale, che fu riutilizzato come porta urbica e di fianco al quale sono i resti della cinta e di una torre pentagonale, a grossi blocchi di calcare locale, richiamante modelli dell'architettura tardoimperiale.Dopo l'ampliamento arechiano e il disuso del tratto da porta S. Lorenzo a porta Rufina, cui il tracciato della fine del sec. 6°-inizi 7° perveniva dall'arco del Sacramento, le difese proseguirono verso S, ove sono relativamente ben conservate, fino alla torre della Catena, un fortilizio costruito nel sec. 7° a presidio dell'area del teatro, dell'anfiteatro e della zona di arrivo della via Appia. Dalla torre della Catena, collegata nel sec. 8° alla cinta arechiana, le mura correvano verso E, poi verso N-E per ricongiungersi alla porta Rufina, spostata rispetto a quella della cinta più antica, e al tracciato del sec. 6°-inizi 7° che risale alla porta Somma, in origine arretrata di m. 150 ca. rispetto a quella dell'ampliamento realizzato entro il 926. In questo tratto si apriva forse già nel Medioevo la posterula dell'Annunziata, mentre le strutture originarie delle difese si riconoscono per lo più alle quote più basse e sempre all'esterno, perché sulle mura, secondo un fenomeno assai comune, e peraltro riscontrabile lungo tutto il loro perimetro, sono stati costruiti in vari momenti della vicenda urbana edifici d'abitazione che ne hanno alterato l'originaria fisionomia. Le modifiche conseguenti all'attività edilizia si tradussero tuttavia in occasioni di salvaguardia e conservazione, tanto che le difese rimasero sostanzialmente integre nel perimetro e, in parte, nell'alzato, fino agli abbattimenti del secolo scorso e alle manomissioni perpetrate nella prima metà di questo secolo e anche di recente, come indicano, del resto, i documenti iconografici relativi alla città. Anche i restauri di età medievale e moderna hanno contribuito alla conservazione del lungo perimetro difensivo. Mediante l'analisi stratigrafica degli elevati si riconoscono facilmente gli interventi compiuti fra Sei e Settecento, per il caratteristico modulo a larghi filari formati da pietre racchiuse fra corsi di laterizi; ma si sa anche dell'intervento promosso dall'arcivescovo Romano Capodiferro per porre riparo ai danni dell'assedio di Federico II del 1240-1241 e della devoluzione di parte dei proventi delle gabelle al ripristino delle mura disposta da papa Sisto IV nel 1478.Le porte della Civitas nova sono tre: porta Foliarola, porta de Hiscardi o Liscardi e porta Nova; la prima appariva tamponata già nel sec. 18°, la seconda corrispondeva all'od. port'Arsa, realizzata probabilmente in epoca moderna, la terza è individuabile grazie a un toponimo e al frammento di uno stipite. Le mura, alte in origine intorno a m. 12, sono costruite in opus incertum, con riuso di abbondante materiale antico tratto da edifici romani tra i quali l'anfiteatro, rinvenuto nelle strutture di fondazione perché smontato anche per sottrarre a eventuali aggressori della città una potenziale base d'appoggio. La tecnica appare più accurata nella Civitas nova, ove l'opus incertum è rinforzato dal largo impiego di grossi blocchi di spoglio posti essenzialmente alla base della struttura e talvolta usati da soli. Ancora più accurata è la tecnica nelle torri e nelle porte, molte delle quali sono in asse con decumani e cardines; nelle torri a sezione quadrangolare i blocchi di spoglio sono impiegati in funzione di elementi portanti agli angoli, come appare in quelle del lato nordoccidentale e della Civitas nova: la torre Biffa, che si leva dal greto del Calore, la turris Pagana, che incorpora un arco in laterizi su mensole di pietra di una porta romana o tardoantica - della città o di un fortilizio - e le due torri che sorgono più avanti, una delle quali, interamente realizzata in blocchi prelevati dal vicino teatro, potrebbe documentare un intervento di restauro. Nelle torri circolari i blocchi di spoglio formano di solito il basamento. Particolare accuratezza si ravvisa nella torre della Catena, realizzata in opus incertum con ciottoli di fiume e malta e con impiego di laterizi romani e di grossi blocchi di calcare locale di spoglio posti essenzialmente agli angoli fuori squadro. Il monumento presenta la consistenza delle parti migliori della prima murazione, configurando un'esperienza struttiva essenzialmente altomedievale. La torre appare oggi isolata dalle difese della Civitas nova a seguito dei bombardamenti del 1943, che hanno distrutto la parte centrale dell'edificio e l'ampio arco in laterizi e pietrame che Dacomario, primo rettore pontificio della città con Stefano Sculdascio, era stato autorizzato ad aprire fra la torre stessa e la cinta difensiva grazie a un diploma di Landolfo VI del gennaio 1077.Sia nelle mura sia nelle torri si nota la presenza di fori a distanze regolari su file parallele; si tratta di ancoraggi dell'impalcatura, ovvero degli alloggiamenti per travi di sostegno delle mensole che venivano montate l'una dopo l'altra, all'interno e all'esterno della struttura, con il procedere della costruzione in altezza. Qua e là nelle difese si rileva il riuso di frammenti scultorei d'età classica, fenomeno particolarmente vistoso nel fortilizio che muniva la più recente porta Somma e nella torre che segna la svolta della cinta verso N-O dopo questo accesso. Anche nelle porte il materiale antico è riutilizzato, con accuratezza e talvolta con gusto, quale elemento portante; ciò appare efficacemente nella porta Somma, costruita entro il 926 e rimasta in funzione fino al 1338, quando la necessità di impedire il passaggio sotto la rocca dei Rettori pontifici, che l'aveva incorporata, costrinse ad aprire una nuova porta a breve distanza nelle mura che si dirigevano verso N. La porta, posta al fondo dell'androne del castello costruito con andamento divergente a ridosso della sua solida struttura, è costituita da due sezioni con volte a botte di uguale altezza, una delle quali interamente in laterizi, divise da un arco a conci di pietra calcarea impostato su due bassi piedritti. In corrispondenza di quest'ultimo si trovava una chiusura a battenti, mentre saracinesche, di cui si vedono gli incassi verticali, serravano le due sezioni verso la città e verso la campagna.Caratterizzato nell'Alto Medioevo dalla forte penetrazione della campagna al suo interno, anche in conseguenza dell'abbandono di alcune parti, il centro è venuto strutturandosi progressivamente attraverso il riuso e la trasformazione degli edifici d'età classica e mediante l'occupazione graduale delle aree resesi libere per abbondoni e crolli. Tutto ciò, insieme alle ricostruzioni seguite ai numerosi terremoti, spiega gli assestamenti della viabilità antica e le modifiche apportate all'impianto romano, il cui modulo di pianificazione non si individua ovunque.Se la cinta muraria, con torri e porte, connota il centro medievale arroccato essenzialmente sul colle della Guardia, l'assetto urbano complessivo si caratterizza sin dall'Alto Medioevo per la presenza di numerose chiese e monasteri e di un'edilizia pubblica e privata, sia in muratura sia in legno, corrispondente - soprattutto la seconda - al modesto livello economico dell'epoca. Elementi significativi del panorama edilizio furono i quartieri degli adalingi e arimanni longobardi sorti intorno alla sede del potere dei duchi longobardi, la curs ducis insediata sin dal sec. 6° nel praetorium romano e ricordata dal toponimo medievale planum curiae, corrispondente all'od. Piano di corte.La costruzione del sacrum palatium nell'ambito della vecchia residenza ducale, che potrebbe essere stata solo ampliata con esecuzione di miglioramenti architettonici e difensivi, si deve ad Arechi II (758-787), il quale volle una sede più consona alla nuova dignità di sovrano erede delle sorti della Langobardia Maior; ad Arechi si deve anche la fondazione di Santa Sofia, santuario della nazione longobarda beneventana oltre che del principe e sacrario della sua stirpe, costruito dal 758 al 760, nel quale, in altari diversi, furono tumulate, nel 760 e nel 768, le reliquie dei Dodici fratelli martiri e di s. Mercurio. L'edificio, ove il principe si recava abitualmente a pregare, spicca per la sua forma stellare e il tetto a capanna che lo hanno fatto considerare, con le caratteristiche costruttive rilevabili all'interno, imitazione in muratura della tenda del capo barbarico che, per esserne la sede, era considerata anche il simbolo del suo potere. Decorato da un ciclo di affreschi con le Storie di Cristo entro il 768, l'edificio è stato riportato alle forme originarie da un restauro che ha soppresso molte delle modifiche apportate alla fine del Seicento nel porre riparo ai danni del terremoto del 5 giugno 1688; si registrarono allora guasti alla copertura, il crollo del campanile e del prolungamento ottenuto nel sec. 12° con l'aggiunta di un corpo di fabbrica a pianta quadrata, con archi poggianti su quattro colonne poste agli angoli, uno dei quali aperto in corrispondenza della facciata, convessa e larga solo m. 9, abbattuta in occasione di quell'intervento. Ridimensionati i corpi di fabbrica laterali, negli anni Cinquanta furono eliminati il muro ad andamento circolare che aveva incorporato gli spigoli esterni della parete d'ambito originaria a zig-zag - abbattuta alla fine del Seicento per ridurre la chiesa a simmetria - e la grande cappella rettangolare innestata entro il 1696 nelle absidi minori in luogo dell'abside centrale; inoltre fu sostituita con l'attuale anche la più bassa cupola originaria, contenuta da un tiburio a sei spioventi. La chiesa presenta ora tre absidi in un muro ad andamento circolare che assume forma spezzata oltre la zona presbiteriale e si conclude negli elementi residuali della facciata del sec. 8° incorporati dal prospetto barocco. All'interno, lo spazio è scandito da pilastri e colonne disposti a formare un esagono centrale e un concentrico decagono, fra i quali si svolge un ambulacro interno a quello individuato fra il muro d'ambito e il decagono stesso. Nell'esagono centrale e nelle due campate davanti all'abside principale si rilevano scarse tracce della sistemazione di una schola cantorum realizzata nel 12° secolo. Gli otto pilastri a sezione quadrata e le due colonne - di spoglio e con i capitelli antichi - del decagono sono sormontati da pulvini altomedievali, otto dei quali con decorazione a fuseruole allungate e coppie di perline, del tipo di quella che si riscontra nei prodotti dell'oreficeria di ambito longobardo meridionale; le colonne di riuso dell'esagono impiegano solo capitelli d'età classica e, come basi, capitelli antichi rovesciati e modificati, anche con aggiunta di motivi decorativi. Archi in mattoni scaricano su queste strutture portanti e sul muro a zig-zag, mediante le mensole con decorazioni a giunchi inserite in alto nei suoi speroni, il peso delle volte quadrate, triangolari o trapezoidali che coprono i due ambulacri e quello della cupola con tiburio e della copertura a capanna, sostanzialmente ancora identica all'originale. L'impianto centrale, il frastagliamento della struttura e la straordinaria articolazione delle volte su colonne e pilastri dovevano fornire l'impressione di una grande e variopinta tenda con teli di copertura su pali di sostegno e pareti mosse dal vento.Con il monastero benedettino femminile che vi fu annesso da Arechi, Santa Sofia contribuì a delineare il panorama edilizio della città altomedievale, fittissimo di chiese e monasteri. Vicino al palatium sorgevano chiese con una singolare dedicazione: S. Angelo de Caballo, S. Benedetto ad Caballum, documentata per la prima volta con annesso xenodochio nel settembre 742, e S. Pietro ad Caballum, un'aula monoabsidata trasformata poi in abitazione. Alcune chiese, dette de Grecis, fanno riferimento alla presenza in città di comunità orientali, mentre agli ebrei, documentati già nel sec. 9°, rimandano le chiese di S. Nazzaro e S. Gennaro de Iudeca. La chiesa madre, dedicata a S. Maria, fu costruita alla fine del sec. 6° nell'area del foro, che accolse fra l'altro anche la basilica di S. Bartolomeo apostolo de Episcopio e il monastero di S. Pietro de monachabus.In età longobarda si registrano due diverse cattedrali, una consacrata il 15 dicembre del 600, la seconda costruita nell'età di Arechi II, forse per iniziativa di Davide, vescovo fra il 782 e il 796, che la consacrò. La prima corrisponde alle strutture di un ambiente absidato, affrontato da due vani un tempo con copertura a botte, avente di fianco, verso N-E, due navate, articolate ciascuna in tre campate disuguali con volte a crociera. Le navate corrispondenti a S-E sono andate distrutte, mentre notevoli modifiche provocarono all'edificio la costruzione della seconda cattedrale e il suo restauro e abbellimento al tempo del principe Sicone (812-832). La prima chiesa venne a trovarsi sotto il presbiterio della nuova, a croce latina e a tre navate con una sola grande abside, assumendo funzioni di cripta. Forse negli anni di Sicone venne ornata dagli affreschi con le Storie di s. Barbato, il vescovo beneventano che nel 663 aveva promosso la conversione dei Longobardi, particolarmente venerato dal 9° secolo.Per l'età longobarda sono da ricordare anche i monasteri di S. Salvatore e di S. Maria di Porta Somma, quelli di S. Vittorino e di S. Eufemia, esistente già alla fine del sec. 8°, e i cenobi dedicati a s. Paolo e s. Adeodato, attestati nel 774 e nel 1037. Con il monastero di S. Giovanni a Port'Aurea, risalente almeno all'età di Arechi II, si registra la chiesa di S. Costanzo, di cui sono pervenuti elementi scultorei anteriori al Mille e un muro con l'affresco raffigurante un monaco benedicente riutilizzato come parete settentrionale del chiostro maggiore del convento francescano costruito sulle sue strutture dopo il 1243.Nella Civitas nova si registrano l'ecclesia S. Nicolay Turris Paganae presso l'omonima torre, la chiesa di S. Modesto, costruita tra il 758 e il 774, cui venne annesso entro l'852 un cenobio maschile, il monastero dei Ss. Lupolo e Zosimo, costruito per Roffridum comitem prima del febbraio 949, le chiese dei Ss. Filippo e Giacomo, di S. Tecla e S. Secondino, ricordate per la prima volta nel 991, poi nel 1022 e nel 1053, e due chiese attestanti mestieri: S. Nazzaro de lutifiguli e S. Giovanni de fabricatoribus.Fuori città gli edifici religiosi vennero ubicati sovente lungo strade importanti. Sulla via Traiana erano la chiesa di S. Ilario a Port'Aurea e il monastero di Santa Sofia a Ponticello, fondato dall'abate Zaccaria durante il ducato di Romualdo II sui terreni di tale Wandulfo, proprietario di case con corti e orti, di un mulino, un bagno, un terreno e di una statio lungo l'importante arteria. Lungo l'Appia sorgevano il monastero femminile di S. Pietro f.l.m., fondato da Teodorada, consorte di Romualdo I, al di là del Sabato; la chiesa di S. Cosma, posta al di qua, e quelle dei Ss. Quaranta e di S. Lorenzo. Alcune chiese furono erette lungo il Calore: S. Benedetto a Pantano e S. Marciano, esistente già nel 724, che riutilizzò le strutture del tempio dedicato forse a Ercole.S. Ilario a Port'Aurea è un'aula monoabsidata con copertura formata da due cupole in asse, di altezza diversa, contenute da tiburi separati e con tetto a padiglione, che si innestano sul parallelepipedo inferiore, coronato da uno spiovente rivestito di tegole ricurve. Il tiburio prossimo all'abside è più alto e reca una monofora al centro di ognuno dei tre lati liberi. La porta, stretta e alta, è sormontata da un arco in laterizi alternati a tufelli; la stessa tecnica si riscontra nelle monofore e nei vigorosi archi su piedritti aggettanti dai muri perimetrali che articolano lo spazio interno in due campate quasi uguali a forma di croce greca fortemente contratta. Questi due corpi di fabbrica hanno in comune, nel punto di contiguità, un arco di spessore doppio rispetto agli altri. La ghiera dell'abside e i piedritti che la sostengono sono in laterizi, per il resto l'edificio è realizzato in opus incertum con impiego di ciottoli di fiume e di materiali di risulta, sia con funzione decorativa sia come rinforzi negli angoli. La chiesa, documentata per la prima volta nel 1148 con il monastero che vi era annesso, risale alla fine del sec. 7°-inizi 8° per gli evidenti riscontri con le mura e le torri della prima cinta di B. longobarda, con le quali ha in comune la tecnica costruttiva. Con l'altra ricordata chiesa beneventana di S. Pietro ad Caballum costituisce uno dei prototipi meridionali del tipo di chiesa con cupole in asse.La documentazione relativa alle case d'abitazione e alcune sopravvivenze edilizie completano l'immagine della città altomedievale, che non era priva di case-torri e di strutture abitative di consistenza notevole, come i numerosi pontili testimoniati e in parte superstiti. Si segnalano quelli che formano il c.d. arco di S. Gennaro e i pontili di via Francesco Pacca, uno dei quali, in opus caementicium con fodera di laterizi e archi di sostegno in tufelli e mattoni variamente alternati, documenta meglio di altre strutture la trasmissione delle tecniche edilizie romane. I pontili, tra i quali va ricordato quello detto de aurificibus all'incrocio fra il decumanus maximus e il cardo poi denominato appunto via Pontile, si riferiscono a case fabritae solariatae; se assolvevano il compito di collegare proprietà immobiliari su lati diversi di una stessa strada, erano tuttavia costruiti previa autorizzazione del potere sovrano e con l'obbligo di conservare alla via il carattere di spazio pubblico. Le case in muratura potevano anche essere terraneae; molto di rado erano dotate di bagni, documentati più di frequente in relazione ai monasteri - per es. S. Paolo - con relativo riferimento all'acquedotto pubblico. La mancanza di bagni era peraltro surrogata dall'esistenza di quelli pubblici, cui si riferisce il testo delle leggi di Arechi II (MGH. LL, IV, 1868, p. 209) nel ricordare le vedove che li frequentavano. È possibile che si sia trattato di bagni antichi rimasti in attività o rimessi in funzione.Il riuso di strutture d'età classica per scopo abitativo, sicuro nel caso del teatro, può avere riguardato anche le superstiti insulae della città romana e altri edifici antichi non impiegati per altri fini. Dopo il Mille alcune case furono dotate di camino, come prova un testamento del dicembre 1092; inoltre aumentò allora il numero delle case-torri e dei pontili, ma è probabile che alcuni di questi siano rifacimenti di pontili altomedievali. Le case fabritae solariatae anche sul finire dell'età longobarda avevano la scala in muratura all'esterno. Nell'Alto Medioevo testimonianze di edilizia minore sono offerte dalle case in legno, anche solariatae, da cellarii e casaleni documentati pure nel Basso Medioevo. La notizia che il terremoto del 990 - uno dei più gravi - fece centocinquanta vittime e danneggiò seriamente quindici torri, alcune delle quali potrebbero essere state case-torri, mostra la vulnerabilità delle strutture urbane, che alcune volte subirono gravi incendi.Nel Medioevo la viabilità urbana rimase sostanzialmente quella di età romana, integrata da nuovi percorsi privi della regolarità propria delle strade antiche. La documentazione indica trasendae, strictolae e platee, termine, quest'ultimo, con il quale vengono designate sia le strade sia le piazze. Dopo il Mille si riscontra la progressiva e sempre più intensa e rapida occupazione delle aree abbandonate dal Tardo Antico e si assiste a una parziale ristrutturazione edilizia della città, di cui si individuano ancora molte tracce.L'insediamento degli Ordini mendicanti è documentato dal convento di S. Francesco, comprendente la chiesa e due chiostri, costruito in forme gotiche intorno al 1243, e dal complesso domenicano sorto dopo il 1268, ma ristrutturato a seguito del terremoto del 1688.I numerosi resti di abitazioni con portali e pontili a sesto acuto documentano l'ampiezza e la qualità degli interventi svolti in prosieguo di quanto era stato avviato in epoca normanna, con la ristrutturazione della cattedrale, tra il 1114 e la fine del sec. 12°-inizi 13°, e con la ristrutturazione urbana all'indomani del terremoto del 1125. Intervenendo sulle strutture della cattedrale del sec. 8°, Landolfo della Greca costruì una chiesa a cinque navate, nelle cui vicinanze fu eretta la basilica dedicata a s. Bartolomeo. Di tale ampia cattedrale, quasi interamente distrutta dai bombardamenti aerei del 1943, rimane la facciata romanica, strutturata su due ordini a sei arcate, oltre al campanile, aggiunto a partire dal 1280, che svetta con la cella campanaria gotica. Costruita con abbondante materiale di risulta romano e altomedievale, come le lastre con iscrizioni funerarie delle tombe nello scomparso atrio della chiesa del sec. 8°, la facciata ricava impostazione e modelli dall'architettura romanica della vicina Capitanata. Nel primo ordine, con sei arcate cieche, l'ultima delle quali è stata ricostruita, le due più strette sono ornate da listelli orizzontali e paralleli, presenti anche nell'arcata occidentale di restauro, e da un incavo a più losanghe rientranti l'una nell'altra; le tre arcate maggiori accolgono i tre portali con lunetta, dei quali il destro è realizzato con materiale di risulta. Nei piedritti del portale principale, sormontati da capitelli di gusto classicheggiante e con basi a raffigurazioni antropomorfe, il sapiente intreccio di motivi vegetali, inquadranti figure di animali di valore simbolico, è marcato, mentre si alleggerisce nell'architrave, ove i racemi incorniciano l'Agnello raffigurato al centro, sullo sfondo di una croce. Il portale inquadrava la coeva porta di bronzo con settantadue formelle raffiguranti le Storie di Cristo e i ventiquattro vescovi suffraganei del metropolita di B.; nel secondo ordine della facciata, più basso del primo e concluso dall'attico con animali scolpiti in aggetto, sei arcate, tre delle quali ornate da rosoni, sono sostenute da rocchi di colonne su mensole a sbalzo, sormontate da capitelli antichi.Coevo alla cattedrale è il chiostro di Santa Sofia, formato da quindici quadrifore e una trifora che, con l'ultima quadrifora del lato meridionale, determina una suggestiva rientranza nell'angolo sudorientale, in corrispondenza della chiesa. Fu costruito sul luogo di un precedente chiostro fra il 1142 e il 1176, durante il governo dell'abate Giovanni IV, come indica l'iscrizione che avvolge il primo capitello dell'angolo nord:" Perpetuis annis stat Quarti fama Iohannis per quem Pastorem domus hunc habet ista decorem " (Meomartini, 1889, p. 379). Maestri locali, con un linguaggio nel quale rifluiscono forme tardoromaniche e bizantine, islamiche e di area longobarda, e ancora forme lombarde, diedero vita a un complesso armonioso, nella ritmica successione degli eleganti archi moreschi sostenuti da agili colonnine poggiate su un basamento calcareo che corre tutt'intorno e sormontate da capitelli e pulvini variamente scolpiti e talvolta di riuso. Bizzarri grovigli, figure sacre e di animali, scene di guerra e di caccia, rappresentazioni mitologiche e di mesi si svolgono sulle superfici con libertà, denunziando l'assenza di un piano iconografico unitario o piuttosto l'intersecarsi di progetti narrativi diversi dovuti ai vari maestri operanti con l'aiuto di collaboratori minori: fra gli altri il Maestro dei Draghi e il Maestro dei Mesi, cui si devono i cinque pulvini con la raffigurazione di sette mesi, da Giugno a Dicembre.L'edilizia di età gotica trova efficace espressione nella ricordata fabbrica di S. Francesco in piazza Dogana e nella rocca dei Rettori pontifici, fatta costruire da Giovanni XXII e Benedetto XII a partire dal 1321, per mettere al sicuro dalle insidie dei baroni del regno di Napoli e da quelle dei Beneventani i rappresentanti della chiesa romana, fino a quel momento alloggiati nel sacrum palatium dei principi longobardi. Eseguito da magister Meulus e magister Landulphus, l'edificio, sebbene se ne conservi solo il mastio, mostra efficacemente la ripresa di modelli avignonesi, reinterpretati anche in altre costruzioni di Benevento.In età medievale sono testimoniate nella città numerose attività produttive: alcune connesse alla pratica dell'agricoltura, come quella dei mulini impiantati lungo i fiumi, in particolare sul canale deviato dal Sabato, i quali potevano anche alimentare piccoli opifici; altre di tipo industriale, manifatturiero e artigianale, quali quelle dei vasai, calderai, calzolai, sarti, muratori, carpentieri, scalpellini, fabbri e orafi, la cui opera è attestata dal gran numero di lavori edilizi compiuti, dalla cospicua suppellettile scultorea pervenuta, dai reperti - spade, sax, oreficerie, oggetti del corredo personale - rinvenuti nelle tombe della necropoli longobarda posta lungo la via Latina fuori porta Gloriosa, al di là del Calore e del ponte di S. Onofrio. Con la rilevante produzione scultorea e di manufatti in bronzo, ferro, oro, va ricordata peraltro anche quella dei codici scritti e miniati negli scriptoria dei principali monasteri benedettini e la buona fattura degli atti notarili e dei diplomi prodotti dalla cancelleria dei duchi e dei principi longobardi.

Bibl.: A. Meomartini, I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento. Lavoro storico, artistico, critico, Benevento 1889; M. Rotili, L'arte del Sannio, Benevento 1952; G. Galasso, Le città campane nell'Alto Medioevo, Archivio Storico per le Provincie Napoletane, n.s., 38, 1958, pp. 9-42; 39, 1959, pp. 9-53 (rist. in id., Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1965, pp. 61-135: 63-70, 79, 80); M. Rotili, Benevento e la provincia sannitica, Roma 1958; H. Belting, Studien zum beneventanischen Hof im 8. Jahrhundert, DOP 16, 1962, pp. 143-193; M. Rotili, La diocesi di Benevento (Corpus della scultura altomedievale, 5), Spoleto 1966; id., Architettura e scultura dell'Alto Medioevo a Benevento, CARB 14, 1967, pp. 293-307; A. Rusconi, La chiesa di S. Sofia di Benevento, ivi, pp. 339-359; M. Rotili, Il Museo del Sannio nell'Abbazia di Santa Sofia e nella Rocca dei Rettori di Benevento, Roma 1967; id., I monumenti della Longobardia meridionale attraverso gli ultimi studi, in La civiltà dei Longobardi in Europa, "Atti del Convegno Internazionale, Roma-Cividale del Friuli 1971" (QuadALincei, 371), Roma 1974, pp. 203-239, tavv. I-XVI; M. Rotili, Premesse allo studio dell'impianto urbanistico di Benevento longobarda, in Origine e strutture delle città medievali campane. Metodi e problemi, "Atti del Colloquio italo-polacco, Salerno 1973", Università degli Studi di Salerno. Bollettino di Storia dell'Arte 2, 1974, pp. 33-52; id., La necropoli longobarda di Benevento (Ricerche e documenti, 3), Napoli 1977; id., Per il piano del centro storico di Benevento: recupero e salvaguardia degli strati medievali, ArchMed 6, 1979, pp. 215-231; M. Rotili, La cultura artistica nella Longobardia minore, in La cultura in Italia fra Tardo Antico e Alto Medioevo, "Atti del Convegno, Roma 1979", Roma 1981, II, pp. 837-866; M. Rotili, Longobardi a Benevento. Popolo germanico e cultura mediterranea, in I Principati longobardi (Civiltà del Mezzogiorno), Milano 1982, pp. 168-187; id., Rinvenimenti longobardi dell'Italia meridionale, in Studi di storia dell'arte in memoria di Mario Rotili, Napoli 1984, I, pp. 77-108; id., Spazio urbano a Benevento fra Tardo Antico e Alto Medioevo, "Atti del VI Congresso nazionale di archeologia cristiana, Pesaro-Ancona 1983", Ancona 1986, pp. 215-238; id., Benevento romana e longobarda. L'immagine urbana, Benevento 1986; Janua Maior. La porta di bronzo del Duomo di Benevento e il problema del suo restauro, a cura di S. Angelucci, C. Marinelli, cat. (Benevento 1987-1988), Roma 1987; M. Rotili, Insediamenti verginiani nel Sannio, in La società meridionale nelle pergamene di Montevergine: i Normanni chiamano gli Svevi, "Atti del secondo Convegno Internazionale", Montevergine 1989, pp. 221-234; id., Il territorio beneventano fra Goti e Longobardi: l'evidenza monumentale, CARB 37, 1990, pp. 417-451; id., Una città d'età longobarda: Benevento, in I Longobardi, cat. (Cividale del Friuli- Villa Manin di Passariano 1990), Milano 1990, pp. 131-142; id., Storie di Cristo, ciclo di affreschi 760-768. Chiesa di S. Sofia, Benevento, ivi, pp. 334-335, nr. VIII,6; R. Naldi, Ritorno al chiostro di Santa Sofia a Benevento, BArte 76, 1990, 60, pp. 25-66.

M. Rotili

Scultura e arti suntuarie

Particolarmente significativa e numerosa risulta essere la produzione scultorea d'età altomedievale i cui elementi sono conservati a B. nel Mus. del Sannio, nella chiesa di Santa Sofia, nel chiostro del convento di S. Francesco, nella cripta della cattedrale; frammenti erratici si trovano, tra l'altro, inglobati lungo il circuito murario della città.Analizzata dalla critica in più riprese (Rotili, 1966; 1967a; 1974; Farioli Campanati, 1982; Rotili, 1984; 1986; Aceto, 1990), la scultura tra il sec. 6° e gli inizi dell'11°, rappresentata da sarcofagi, capitelli, plutei, transenne, pilastrini, riflette in modo chiaro le diverse matrici culturali che l'hanno connotata: dalla tradizione classica a modi derivati dal mondo bizantino od orientale in genere, a quelli più direttamente legati al mondo germanico. Tra i numerosi pezzi frammentari oggi sussistenti se ne possono ricordare alcuni con raffigurazioni iconiche: la testa-ritratto a tutto tondo (sec. 9°-10°) proveniente, forse, dalla tomba di un nobile longobardo e ora rimontata su un busto di età tardoromana collocato sul campanile della cattedrale; una transenna dalla chiesa di S. Costanzo (nell'area dell'od. S. Francesco) con un evangelista al centro della composizione; altri piccoli frammenti con figure maschili e una lastra con pavoni affrontati in atto di abbeverarsi (Rotili, 1986).La decorazione figurata dei capitelli sorreggenti quadrifore e trifore nel chiostro di Santa Sofia ha nuovamente, e di recente, suscitato interesse da parte della critica, che vi ha evidenziato la presenza di varie maestranze oltre che di elementi di recupero provenienti probabilmente da un chiostro altomedievale (Naldi, 1990). Interpretata correttamente l'epigrafe esistente su uno dei capitelli, in cui si fa riferimento all'abate Giovanni IV (1142-1176), promotore della costruzione, e allontanate le ipotesi che identificavano negli autori delle sculture ora maestri di formazione postantelamica (Cochetti, 1957), ora maestri legati a esperienze lombarde precedenti Antelami (Giess, 1959), è stata evidenziata (Naldi, 1990) la presenza di tangenze stilistiche dal punto di vista architettonico e figurativo con monumenti in Terra di Bari, appartenenti all'Ordine benedettino. Si è ribadita così la presenza di tre maestri (Cochetti, 1957; Naldi, 1990): quello dei Mesi, il più attivo, autore tra l'altro di due capitelli nell'abbazia di Montevergine (Giess, 1959); il Maestro dei Draghi, legato anche a episodi pugliesi; il Maestro Rotondo, cui si deve un gruppo di capitelli a notevole risalto plastico, anch'egli a conoscenza della scultura pugliese (Naldi, 1990).Al sec. 12° appartiene il portale marmoreo della Santa Sofia, con lunetta scolpita con Cristo in trono e, ai lati, la Vergine e s. Mercurio che intercedono per un personaggio inginocchiato a fianco del santo, forse Giovanni IV o Arechi II (Rotili, 1986). Ai primi anni del secolo seguente va ascritta l'incorniciatura degli stipiti e dell'architrave del portale della cattedrale, che con racemi, figure di animali e l'Agnus Dei riconferma gli stretti legami esistenti con la Puglia (Pace, 1980).Contemporaneamente alle sculture, o alla fine del sec. 12°, fu eseguita la porta bronzea del duomo, forse su committenza dell'arcivescovo Ruggero (1179-1221). Fortemente danneggiata durante la seconda guerra mondiale, ma in via di recupero (Janua Maior, 1987), la porta risulta composta da settantadue formelle che accoglievano un ciclo cristologico e la raffigurazione dei vescovi suffraganei dell'arcidiocesi di Benevento. In essa è stata individuata l'opera di due diversi artisti (Della Pergola, 1937; Rotili, 1952) e di alcuni aiuti (Cielo, 1975), tutti profondi conoscitori delle tecniche dell'arte fusoria. Nelle scene sono rintracciabili riferimenti al mondo classico, ricordi di arte islamica e sasanide. È soprattutto l'iconografia benedettina dei grandi cicli pittorici di Montecassino, Sant'Angelo in Formis, del cantiere di Monreale, delle miniature dei codici cassinesi, di Cava, di B. che gli autori delle porte dovevano conoscere profondamente e cui si rifecero per l'impaginazione delle scene (Janua Maior, 1987). Ancora eseguita in bronzo, ma perduta nei terremoti del 1688 e 1702, era la porta che ornava la chiesa di S. Bartolomeo, opera di Oderisio da B., degli anni 1150-1151 (Cielo, 1975; Janua Maior, 1987). Altri elementi scultorei, di cui uno, del sec. 12°, proveniente dal portale della distrutta chiesa di S. Bartolomeo, sono conservati nel Mus. del Sannio. Particolarmente interessante è una statua di giovane nobile inginocchiato ascrivibile alla seconda metà del sec. 13° (Valentiner, 1955; Leone de Castris, 1986) simile a una leggermente più tarda, proveniente con molta probabilità da B. (Kansas City, Nelson-Atkins Mus. of Art). Ancora nel Mus. del Sannio sono conservati i resti di due pulpiti provenienti dalla cattedrale. Uno dei frammenti - un rilievo con l'artista inginocchiato davanti al crocifisso - è firmato da Nicola da Monteforte, scultore locale influenzato da Arnolfo di Cambio. Ancora a Nicola o ai suoi collaboratori viene attribuita la statua di S. Bartolomeo in cattedrale, ritenuta del 1313, periodo cui vanno quindi ascritti i due pulpiti (Valentiner, 1955; Leone de Castris, 1986).Tra gli oggetti provenienti da tombe longobarde, ora al Mus. del Sannio e nella rocca dei Rettori, si segnalano armi, utensili, gioielli ed elementi appartenenti al vestiario degli inumati, soprattutto guerrieri. In tale senso vanno infatti visti i ritrovamenti relativi a langsax, kurtzsax, spade lunghe a doppio taglio, databili tra i secc. 6° e 7° (Rotili, 1977; 1984; 1986; 1990). Ancora dalle tombe ricordate provengono asce, cuspidi di lancia di varie forme, resti di uno scudo circolare, altri oggetti di uso quotidiano tra cui vaghi di collane di materiale diverso, fibbie e guarnizioni di cinture, alcune tipiche delle popolazioni longobarde della prima metà del 7° secolo. Di particolare rilievo risultano alcune crocette in lamina d'oro, presumibilmente di uso funerario, di cui due, a braccia equilatere, decorate con vortici di serpentelli, da mettere in relazione con la fase precedente l'arrivo in Italia dei Longobardi; la terza, di tipo latino, non presenta invece decorazioni. I tre pezzi sono databili entro il sec. 7° (Rotili, 1990). Si segnala, poi, il ritrovamento di un paio di orecchini ad anello, di un'armilla filiforme e di una fibula circolare frammentaria del tipo di quella proveniente da B. e conservata a Oxford (Ashmolean Mus. of Art and Archaelogy) con cammeo tardoromano al centro e tre pendagli, ascritta al sec. 7° (Rotili, 1984; 1986). Nel medagliere del Mus. del Sannio sono conservate monete della zecca di B., attiva dal sec. 7° fino alla metà dell'11°, monete della fine del sec. 13° facenti parte di un tesoretto rinvenuto nella città e alcuni esemplari dell'epoca di Federico II e Carlo d'Angiò (Rotili, 1967b; Belloni, 1982; Rotili, 1984).Nella rocca dei Rettori sono ospitate una raccolta di lapidi altomedievali e una, del 1153, relativa a una comunità ebraica (Rotili, 1967b). Si segnala, poi, l'esistenza, nel tesoro del duomo (ora nella Bibl. Capitolare), di una cassa in bronzo, che avrebbe contenuto le reliquie di s. Bartolomeo, risalente al sec. 13° ma rilavorata in età gotica. Nella Bibl. Capitolare sono conservate anche la croce d'oro di Petrus, vescovo di B. tra l'894 e gli inizi del sec. 10°, oggi priva degli originari castoni, proveniente da una tomba in muratura rinvenuta in cattedrale (Rotili, 1986), e la c.d. cattedra di s. Barbato, manufatto in ferro decorato con motivi fitomorfi e animali, probabilmente del sec. 11° (Rotili, 1986).

Pittura

La più alta manifestazione pittorica d'età altomedievale a B. è costituita dal ciclo frammentario di affreschi rinvenuto nella chiesa di Santa Sofia durante i restauri iniziati nel 1950.L'edificio, costruito per volontà di Arechi II tra il 758 e il 768, doveva essere completamente affrescato, come risulta dalla presenza, in diverse zone, di isolati brani pittorici. La zona a E, con le tre absidiole, conserva alcune scene che, se pur frammentarie, testimoniano l'alta qualità delle maestranze. Nell'absidiola nord è raffigurato l'Annuncio a Zaccaria. La scena è divisa in due momenti: a sinistra l'arcangelo Gabriele, con il braccio teso in avanti e la mano nel gesto della parola, annuncia la futura paternità a Zaccaria, di cui si scorge, a causa di una grossa lacuna dell'affresco, solo parte del ricco mantello. Nella scena a destra Zaccaria, reso muto dall'angelo per la sua incredulità, mostra la bocca ai fedeli, in attesa davanti al tempio. Nell'absidiola verso S sono rappresentati gli episodi dell'Annunciazione e della Visitazione. Il ciclo originario, come attestano le scene superstiti, doveva essere incentrato su episodi della vita di Cristo e, più precisamente, dell'Incarnazione e dell'Infanzia (Belting, 1968). Presumibilmente nell'abside centrale, ora spoglia, doveva trovare posto la raffigurazione del Lógos incarnato, forse una Maiestas (Belting, 1968). Gli affreschi della Santa Sofia pongono ancora oggi alcuni interrogativi circa il periodo della loro esecuzione e il tipo di influenze stilistiche e iconografiche in essi ravvisabili. Le datazioni proposte oscillano tra il periodo successivo al termine della costruzione dell'edificio, cioè post 768 (Bologna, 1962; Rotili, 1963; Rotili, 1986) - tesi confortata anche dall'assunto che, solitamente, si ritiene un edificio decorato a breve distanza dalla conclusione delle opere murarie - e gli anni post 847 (Belting, 1968; Bertelli, 1987), quando un terremoto avrebbe devastato gran parte del Sannio arrecando danni forse anche a Benevento. La datazione alla metà del sec. 9° verrebbe tra l'altro suffragata dal fatto che se il ciclo beneventano fosse contemporaneo alla costruzione si troverebbe a essere un episodio isolato e senza precedenti, mentre in questo modo potrebbe essere messo in relazione con il ciclo affrescato nella cripta di S. Vincenzo al Volturno (824-846), con cui presenta alcune affinità stilistiche.Iconograficamente e stilisticamente sono state ravvisate forti influenze derivate dal mondo siro-palestinese, probabilmente ben noto alla corte beneventana, centro di cultura di grande importanza e vitalità già nella seconda metà del sec. 8° (Bologna, 1968-1969); in realtà non sussistono in ambito orientale documenti pittorici affini e coevi, a parte alcuni codici siriaci e mosaici pavimentali datati al sec. 8°, recentemente rinvenuti in Giordania (Piccirillo, 1989a; 1989b), oltre al noto ciclo di affreschi omayyadi a Qusayr ῾Amrā (Gra.bar, 1988), sempre in Giordania, con cui peraltro gli affreschi beneventani non hanno nulla in comune.L'altro ciclo pittorico conservatosi in città è quello ubicato nella cripta della cattedrale, il cui recente restauro ha reso possibile una lettura più precisa degli episodi già noti e la restituzione di altri di particolare interesse. Le scene affrescate sono incentrate iconograficamente su episodi tratti dalla Vita Barbati episcopi Beneventani, composta tra sec. 9° e 10° (MGH.SS rer. Lang., 1878, pp. 555-563). Anche se i volti dei personaggi non risultano ben leggibili, certe composizioni architettoniche, la soluzione dei panneggi e il particolare cromatismo hanno permesso, da un lato, di mettere in relazione il ciclo con quello conservatosi nella cripta di S. Vincenzo al Volturno (Rotili, 1973; Rotili, 1986) e, dall'altro, di evidenziare collegamenti con affreschi del sec. 10°, come quelli della seconda fase della grotta di S. Biagio a Castellammare di Stabia o quelli della prima fase della chiesa dei Ss. Rufo e Carponio a Capua (Belting, 1968).Affrescata su un pilastro della stessa cripta è una figura a mezzo busto di un personaggio dalla lunga barba scura, recante due rotoli nella mano sinistra e un crocifisso nella destra, la cui esecuzione è ritenuta da alcuni studiosi contemporanea a quella del ciclo di Barbato (Rotili, 1973), mentre viene assegnata da altri al sec. 11° (Belting, 1968). Altri affreschi - una Madonna della Misericordia affiancata da due angeli e una santa anonima con la donatrice -, dislocati in un ambiente a O della stessa cripta, sono da assegnare al 14° secolo.Nel chiostro del convento di S. Francesco è collocato un affresco staccato raffigurante un santo monaco benedicente che regge un volume nella mano sinistra. Proveniente dalla distrutta chiesa di S. Costanzo, ubicata nella stessa area della od. chiesa di S. Francesco, l'affresco, se pure molto ritoccato, sembrerebbe ascrivibile agli inizi del sec. 11° (Rotili, 1986).Nel chiostro attiguo alla chiesa di Santa Sofia si conservano resti di affreschi, poco leggibili, risalenti forse al 12° secolo.In conclusione, nonostante l'esiguità dei cicli superstiti, i dipinti murali, e in particolare i più antichi conservati in Santa Sofia e nella cripta della cattedrale, suffragano l'ipotesi circa l'esistenza di un linguaggio pittorico propriamente beneventano che si distacca sia dalla produzione pittorica campana coeva (S. Vincenzo al Volturno) sia da quella di poco posteriore (S. Biagio a Castellamare di Stabia, Ss. Rufo e Carponio a Capua, ecc.).Il recente rinvenimento di un cospicuo ciclo di affreschi di segno spiccatamente beneventano e volturnense nella chiesa detta di Seppannibale presso Fasano, in Puglia, assegnabile alla fine del sec. 8° (Bertelli, 1990), e quello di alcuni brani affrescati nell'area dell'abbazia di S. Vincenzo al Volturno, dell'epoca dell'abate Giosuè (792-817; Mitchell, 1985), rimettono in discussione, su basi più consistenti, la problematica delle origini e dell'esistenza di una pittura beneventana con sue proprie peculiarità già nella seconda metà dell'8° secolo. Ciò porterebbe a svincolare in parte la produzione beneventana da quella specificamente volturnense, con cui peraltro presenta alcune affinità.

Miniatura

Sono sopravvissuti pochi documenti sull'attività miniaturistica svolta in città tra i secc. 8° e 9°, mentre, per i secoli seguenti, le testimonianze risultano più numerose. Nella decorazione dei codici è stato comunque possibile riconoscere la presenza di due diverse fasi: la prima comprende quei manoscritti la cui decorazione è limitata alle sole iniziali, mentre alle illustrazioni, in rosso e seppia, è riservato poco spazio; la seconda vede invece svilupparsi e prevalere le illustrazioni.Si è supposto comunque che uno scriptorium dovesse operare a B. già nel sec. 8°, come farebbe ritenere l'esistenza del ciclo affrescato di Santa Sofia e la citazione in un documento del 732 di un pittore di corte di nome Lamberto (Rotili, 1967).A uno scriptorium beneventano (Belting, 1968), volturnense (Avery, 1936; de' Maffei, 1973; 1985), o, più plausibilmente, cassinese (Lowe, 1914; Wettstein, 1960; Bologna, 1962; Francovich, 1969-1970; Pantoni, 1977; Rotili, 1978) è stato riferito il codice con l'Opera astronomica et alia di Alcuino e il De signis coeli dello pseudo-Beda (Montecassino, Bibl., 3). Datato tra l'875 e l'879, o, più precisamente, all'874 (Pantoni, 1977), presenta quattro iniziali decorate e sedici pagine con figurazioni disegnate a penna riguardanti le costellazioni.Tra i manoscritti più antichi eseguiti a B. va ricordato quello con le Institutiones grammaticae di Prisciano, trascritte ai primi del sec. 9° (Roma, BAV, lat. 3313), in cui le lettere, ornate da intrecci, vengono arricchite da elementi zoomorfi (Lowe, 1914; Rotili, 1967; 1978; Belting, 1968).Ascritto al 900 in base a dati paleografici (Lowe, 1914) è il c.d. Trattatello sulla cauterizzazione (Firenze, Laur., Plut. 73.41), ritenuto eseguito forse a B. (Belting, 1968), a Montecassino (Rotili, 1978) o, infine, a S. Vincenzo al Volturno (de' Maffei, 1973; 1985).Tra i manoscritti più importanti usciti dallo scriptorium beneventano vengono annoverati, pur se non unanimemente, due rotoli con Pontificale e Benedizionale (Roma, Casanat., 724, già B.I.13/I-II) e un Exultet (Roma, BAV, lat. 9820). Il Pontificale presenta dodici scene che illustrano i vari momenti dello svolgimento del rito delle ordinazioni sacerdotali da parte del vescovo, assistito dal clero. Nell'ultimo foglio compare un'iscrizione in lettere capitali, in rosso e oro, in cui si precisa l'appartenenza del rotolo al vescovo di B. Landolfo (957-982). La datazione del manoscritto, unanimemente fissata per i dati paleografici all'epoca di Landolfo I e considerata ora anteriore (Belting, 1968), ora posteriore (Avery, 1936) al 969, anno in cui Landolfo venne nominato arcivescovo, poiché le miniature con Landolfo mostrano che il pallio, prerogativa degli arcivescovi, è stato sovradipinto, viene genericamente ascritta ad anno precedente la metà del sec. 10° da quanti reputano incerta l'identificazione del personaggio raffigurato come Landolfo (Francovich, 1969-1970; Zuccaro, 1978). Le miniature presenterebbero due fasi redazionali (de' Maffei, 1985): alla prima apparterrebbero le illustrazioni eseguite a penna senza colori, alla seconda la coloritura delle scene e delle maiuscole nei capoversi, quando i fogli erano già stati rilegati. I legami stilistici individuabili con il ciclo pittorico di S. Vincenzo al Volturno (Belting, 1968) e con le miniature dei due già citati codici di Montecassino (Bibl., 3) e di Firenze (Laur., Plut. 73.41) indicherebbero (de' Maffei, 1973; 1985) l'appartenenza a uno scriptorium comune, identificabile con quello operante a S. Vincenzo al Volturno, e farebbero supporre un'esecuzione anteriore alla distruzione di quell'abbazia a opera dei saraceni (881); i caratteri paleografici, peraltro, non conforterebbero tale ipotesi.Ancora al vescovo Landolfo è attribuito il Benedizionale di Roma (Casanat., 724/II), poiché l'analisi paleografica riconduce a una stessa mano sia il testo sia i versi finali in cui viene ricordato tale personaggio (Lowe, 1914; Belting, 1968). Più precisamente, per la sua esecuzione sono stati proposti gli anni tra il 969 e il 982, poiché Landolfo, nelle miniature, è raffigurato anche qui con il pallio (Belting, 1968); il luogo di esecuzione è stato riconosciuto ora a B. (Belting, 1968; Rotili, 1978), ora a S. Vincenzo al Volturno (Avery, 1936; de' Maffei, 1985). Le tredici scene, dalla composizione ampia e sobria, hanno per soggetto, tra l'altro, il Clero alla fonte, l'Esorcismo attuato dall'angelo, i Quattro fiumi del paradiso, le Nozze di Cana. In esse si notano padronanza di disegno, scioltezza nel ritrarre le figure e un uso del colore molto più accentuato rispetto al Pontificale.A uno scriptorium beneventano (Bologna, 1962; Rotili, 1967; Belting, 1968) o volturnense (Avery, 1936) viene inoltre ricondotto il citato Exultet (Roma, BAV, lat. 9820) scritto per il monastero femminile di S. Pietro a B., che apparteneva all'abbazia di S. Vincenzo al Volturno, pervenuto in un rimaneggiamento del 12° secolo. La sua cronologia può essere circoscritta agli anni 985-987 (Belting, 1968), datazione confortata, oltre che dall'analisi paleografica, anche dallo stile delle miniature. Queste, in numero di tredici nel testo più una finale, in cui viene raffigurato il committente, Johannes presbyter et prepositus, offrono un ciclo iconografico completo ed evidenziano la loro derivazione da un precedente modello, probabilmente di tipo monumentale (Bologna, 1962; Rotili, 1967; 1978; Belting, 1968). Nelle scene miniate ben si distinguono due varianti: una caratterizzata da un ductus più angoloso e vivace e da uno sviluppo dei panneggi in senso ornamentale, e una seconda in cui si riconoscono motivi propri della tradizione beneventana presenti già nel Pontificale. Nell'Exultet i disegni non sono ancora rovesciati rispetto alla scrittura: ciò testimonia l'appartenenza alla prima fase di formazione e di sviluppo dei rotoli liturgici (Belting, 1968), la cui origine dovrebbe risalire al sec. 10° ed essere giunta a B. attraverso esemplari provenienti dall'area greca (Cavallo, 1973).A uno scriptorium beneventano viene ricondotto (Cavallo, 1973; Rotili, 1978), anche se non unanimemente (Lowe, 1914; Avery, 1936), un manoscritto con il Codex Legum Langobardorum, i Capitularia Regum Francorum, un frammento della Horigo gentis nostrae Langobardorum, alcune lettere apocrife tra l'imperatore di Costantinopoli e Carlo Magno, un glossario, le serie dei re longobardi, dei principi di B. e di Capua, la Consuetudo Leburie et pactum, Pactiones Gregorii ducis et Joannis consulis Neapolitani (Cava de' Tirreni, Bibl. dell'abbazia, 4). Le illustrazioni sono costituite da undici miniature, per lo più a piena pagina, che mostrano libertà inventiva e vivacità di disegno non solo nelle raffigurazioni della vita di corte ma anche nelle iniziali con figure di animali colorate in rosso, in nero e a macchie; anche in questo codice, come nel precedente, si scorgono riflessi derivati dalla pittura monumentale. A sua volta il manoscritto cavese sembra mostrare strette relazioni con uno di Madrid (Bibl. Nac., 413), eseguito forse a B. (Rotili, 1978) o a Bari (Cavallo, 1984), e con alcuni lezionari e omeliari con lettere ornate conservati a B. (Bibl. Capitolare, IV.10; IV.11; IV.13; IV.15; VI.33; VI.36), databili tra il sec. 10° e l'11° (Rotili, 1967; Mallet, Thibaut, 1984; Bertelli, 1987). A questo stesso periodo va anche assegnato un manoscritto (Benevento, Bibl. Capitolare, 3; Lowe, 1914; Avery, 1936) con lettere miniate e un busto di Cristo. Altri codici prodotti a B. sono: un manoscritto della prima metà del sec. 11° (Roma, BAV, lat. 4955); il Chronicon Sanctae Sophiae (Roma, BAV, lat. 4939), posteriore al 1119, che presenta scene relative alla vita dell'abbazia; il codice comprendente Annales Beneventani, Kalendarium Sanctae Sophiae, breviario e salterio (Roma, BAV, lat. 4928), ornato con lettere fantasiose, di poco posteriore al precedente; gli Acta passionis Sancti Mercurii (Veroli, Bibl. Civ. Giovardiana, 1), con iniziali anche figurate; l'Obituario del Santo Spirito (Benevento, Bibl. Capitolare, 28), del 1198; un Exultet (Roma, Casanat., 724, già B.I.13/III; Rotili, 1967), risalente al sec. 12° (Avery, 1936; Mallet, Thibaut, 1984); il Necrologio del monastero di S. Lorenzo, del sec. 12° (Roma, BAV, lat. 5419); i breviari di Stephanus sacerdos, anch'essi del sec. 12° (Benevento, Bibl. Capitolare, V.19, V.20), in cui sono miniate lettere grandi e splendenti, dai colori però grevi; il lezionario della chiesa di S. Lupo (Benevento, Bibl. Capitolare, 5), pure del 12° secolo.

Bibl.:

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