Beni culturali. La dismissione del patrimonio pubblico

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Beni culturali. La dismissione del patrimonio pubblico

Paolo Carpentieri

Beni culturali
La dismissione del patrimonio pubblico

Nell’ultimo anno le esigenze di risanamento del bilancio pubblico hanno indotto il legislatore a puntare sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico come strumento per apportare risorse alla finanza pubblica. La sfida è di coniugare le esigenze di cassa e di bilancio con quelle della tutela e della fruizione pubblica del patrimonio. È molto cresciuta, negli ultimi due anni, la sensibilità dell’opinione pubblica sul tema dei beni comuni e si intravede il rischio di una svendita a vantaggio di pochi centri di potere economico privato. Il problema è come declinare la dismissione secondo un’idea di valorizzazione non in termini di mera monetizzazione, ma in termini di miglioramento della gestione nell’interesse generale.

La ricognizione

Nell’ultimo anno le esigenze di risanamento del bilancio pubblico hanno indotto il legislatore a puntare sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico come strumento per apportare risorse alla finanza pubblica senza fare ricorso alla leva fiscale. La produzione normativa che ne è derivata è stata particolarmente copiosa e si è anche assistito al tentativo, mediante alcuni tra i più recenti provvedimenti normativi in materia, di razionalizzare e sistematizzare le successive stratificazioni legislative succedutesi nell’arco di pochi mesi. Da ultimo, tra agosto e settembre 2012, è stata da più parti avanzata l’idea – presentata a gran voce come un’ineludibile necessità storica – di una massiccia dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, in misura pari all’uno per cento del PIL per anno (circa 16-18 miliardi di euro), per i prossimi cinque anni. Tali proposte destano, peraltro, non poche perplessità, non solo perché fondate su un’idea dei beni pubblici come risorse la cui “valorizzazione” va declinata esclusivamente in termini di monetizzazione del relativo controvalore economico, ma anche sotto il profilo squisitamente economico, ossia della stessa praticabilità e proficua attuazione di un simile programma1.

La focalizzazione. Il federalismo demaniale culturale

L’art. 5 d.lgs. 28.5.2010, n. 85 ha dato una corretta interpretazione della norma primaria della l. delega 5.5.2009, n. 42 nel senso che il “federalismo demaniale” per i beni culturali ha un regime speciale suo proprio (“federalismo demaniale culturale”2), caratterizzato dall’esclusione dei trasferimenti di massa e dalla selettività di singoli beni specifici individuati sulla base di appositi accordi di valorizzazione, ai sensi dell’art. 112, co. 4, d.lgs. 24.1.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).

Sul piano finalistico e funzionale, si è poi osservato come sussista un’oggettiva incompatibilità tra la natura fondamentale (l’essenza) e il modo di esistenza (l’ontologia) dei beni appartenenti al patrimonio culturale e «le preponderanti finalità di dismissione e privatizzazione» del patrimonio pubblico insite nel sistema di federalismo demaniale (ordinario) disegnato dal decreto attuativo n. 85/20103. Esistono due possibili approcci fondamentali alla gestione e valorizzazione dei beni pubblici: considerare il bene pubblico come cespite patrimoniale da liquidare, da monetizzare, e dunque come risorsa economica per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica4, o considerare il bene per la sua naturale destinazione alla fruizione pubblica, in quanto bene di tutti, rispetto al quale la titolarità pubblica rileva solo come custodia e non come potere di disposizione5. Naturalmente e storicamente, la considerazione dei beni appartenenti al patrimonio culturale si è sempre collocata e si colloca sul secondo versante, dove la questione centrale è come trovare il modo per assicurane la più proficua tutela e godibilità pubblica dei beni, piuttosto che trovare il modo di liquidarli in valore pecuniario (o di appostarli nell’attivo di bilancio per raddrizzare i conti dissestati degli enti territoriali).

D’altra parte il lungo dibattito sulla nozione di valorizzazione del patrimonio culturale ha ormai chiarito che deve prevalere l’elemento indiretto di fattore di crescita qualitativa del territorio sull’elemento diretto di fonte immediata di proventi pecuniari6. Il modello della valorizzazione come dismissione costituisce esattamente l’opposto dell’idea fondativa del patrimonio culturale, e si pone agli antipodi rispetto alle ragioni culturali, storiche, sociali e politiche della funzione di tutela/valorizzazione del patrimonio culturale. Questa chiarificazione fondamentale spiega il perché dell’esclusione del patrimonio culturale nel suo insieme dal meccanismo del federalismo demaniale ordinario e la previsione di un federalismo demaniale culturale speciale costruito su singoli progetti di valorizzazione, nell’interesse della massimizzazione della pubblica fruizione, da verificare di volta in volta in una cornice concordata, su specifiche proposte degli enti territoriali riceventi.

Chiariti questi concetti fondamentali di base, viene da sé, come un corollario logico necessario, la conseguenza per cui ciò che conta, per i beni culturali, è verificare quale è il progetto di gestione migliore, in raccordo con le preminenti esigenze della tutela, rimanendo del tutto secondario e marginale stabilire se la titolarità formale del bene (che è solo funzione doverosa di custodia, non già e non certo “proprietà”) vada ascritta allo Stato piuttosto che all’uno o all’altro ente territoriale. Ciò, peraltro, tenendo nel debito conto che le funzioni di tutela sono e restano di esclusiva competenza statale, di talché appare del tutto fisiologico che, in molti casi, le ragioni prioritarie della tutela impongano che la titolarità del bene rimanga al demanio statale7.

La specialità di regime del federalismo demaniale culturale comporta altresì un principio di esaustività ed esclusività dell’accordo (ex art. 112, co. 4, d.lgs. n. 42/2004 e art. 5, co. 5, d.lgs. n. 85/2010) ai fini del perfezionamento dell’atto genetico e della produzione degli effetti del trasferimento, con esclusione, dunque, della necessità (e della stessa possibilità) di fare ricorso, per i beni culturali, sia pure a fini puramente ricognitivi, ai dd.P.C.M. attuativi dei trasferimenti previsti dagli artt. 3, co. 4, e 7, d.lgs. n. 85/2010. Sono, invece, fatti salvi eventuali atti ricognitivi e puramente esecutivi dell’Agenzia del demanio, una volta perfezionato l’accordo, al quale peraltro la stessa Agenzia deve partecipare pro parte (ossia ai soli fini ed effetti del trasferimento infra-demaniale del bene).

Gli accordi previsti dall’art. 5 si pongono come una figura applicativa speciale dell’art. 112, co. 4, del d.lgs. n. 42/2004, nell’alveo della previsione dell’art. 15 l. n. 241/1990, in base al quale le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune e per tali accordi si osservano le disposizioni previste dall’art. 11 in tema di forma scritta ad substantiam e di applicabilità dei princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Sono essenzialmente quattro i profili che presentano taluni elementi problematici e che perciò è utile focalizzare e chiarire: 1) l’iniziativa (che spetta agli enti territoriali, sulla base di specifici progetti di valorizzazione del bene o dei beni di cui si richiede il trasferimento), il procedimento e la competenza alla stipula; 2) la natura (naturalmente facoltativa) degli accordi; 3) la causa e il contenuto degli accordi (che restano quelli originari di valorizzazione, rispetto ai quali il trasferimento è un possibile contenuto aggiuntivo non necessario, ma solo facoltativo); 4) gli effetti (che sono di trasferimento infrademaniale, da demanio a demanio, in deroga alla previsione generale del d.lgs. n. 85/2010, che implica di regola il passaggio dal demanio statale al patrimonio disponibile dell’ente attributario).

I profili problematici. La dismissione del patrimonio pubblico e il tema dei “beni comuni”

Si è detto (supra, § 1) come nel 2011 e nel 2012 di è assistito ad una massiccia produzione legislativa volta a disciplinare la dismissione del patrimonio immobiliare pubblico al fine di apportare risorse alla finanza pubblica senza fare ricorso alla leva fiscale.

Volendo limitarsi ad elencare i provvedimenti normativi succedutisi nell’ultimo anno, vanno ricordati, in particolare, gli artt. 33 e 33 bis d.l. 6.7. 2011, n. 98; l’art. 6 l. 12.11.2011, n. 183 (legge di stabilità 2012); gli artt. 26 e 27 d.l. 6.12.2011, n. 201; l’art. 66 d.l. 24.1.2012, n. 1; gli artt. 43 e 53 d.l. 9.2.2012, n. 5; gli artt. 3 e 23 bis d.l. 6.7.2012, n. 95 (cd. “spending review”).

Non essendo possibile soffermarsi, in questa sede, sui diversi istituti introdotti e disciplinati dalle disposizioni richiamate, può farsi cenno alle previsioni dell’art. 33 d.l. n. 98/2011, che reca numerose norme concernenti sia la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico delle regioni e degli enti locali mediante il conferimento in fondi di investimento immobiliare chiusi, sia (a seguito delle novelle apportate dalla cd. “spending review”) la promozione della costituzione di fondi comuni d’investimento immobiliare, cui trasferire o conferire immobili di proprietà dello Stato non utilizzati per finalità istituzionali, allo scopo di conseguire la riduzione del debito pubblico.

Si segnala inoltre l’art. 27 d.l. n. 201/2011, che interviene su diversi previgenti testi normativi in materia di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico e, in particolare, sulla disciplina contenuta nel fondamentale d.l. n. 351/2001.

Mette conto peraltro segnalare come, parallelamente all’abbondante produzione normativa in tema di dismissione e razionalizzazione degli usi del patrimonio pubblico, si sia affermata nel corso dell’ultimo anno – tanto sul piano normativo quanto, soprattutto, su quello dell’elaborazione giurisprudenziale – l’esigenza di assicurare che i suddetti processi si svolgano nel rispetto delle preminenti esigenze di tutela del patrimonio culturale, dando spazio, al contempo, ad una concezione evoluta dei beni pubblici, nei quali assume rilievo preminente, alla luce dei principi costituzionali, la preordinazione alla soddisfazione delle esigenze della collettività.

In questa logica si iscrive l’art. 43 d.l. n. 5/2012, il quale, nel prevedere la definizione di modalità tecniche volte ad accelerare l’iter della verifica dell’interesse culturale (ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004) degli immobili candidati alla dismissione, riafferma implicitamente l’esigenza stessa della suddetta verifica e, dunque, la priorità dell’interesse culturale rispetto alle esigenze di “monetizzazione” delle utilità economiche ritraibili dall’utilizzazione o dalla dismissione dei beni pubblici.

Tale disciplina si pone in linea, a ben vedere, con l’importante parere reso dal Cons. St., A.G., 14.4.2011, n. 4/2011. Chiarendo la portata applicativa dell’art. 12, co. 9, del d.lgs. n. 42/2004, il supremo Consesso amministrativo ha, infatti, espressamente affermato che sono sottoposti alla procedura di verifica tutti i beni per i quali si siano, in qualunque tempo, realizzate le circostanze, normativamente previste, dell’appartenenza a soggetti pubblici e dell’essere opera di autore non più vivente e realizzata da oltre cinquanta anni, se mobili, o settanta, se immobili. E ciò a prescindere sia dalle successive vicende eventualmente incidenti sulla natura giuridica del soggetto proprietario del bene, sia anche dall’epoca – precedente o successiva all’entrata in vigore del codice – in cui tali vicende si siano effettivamente verificate. Affermazione, questa, dalla quale può trarsi l’ulteriore corollario che la sottoposizione di un bene al regime di tutela stabilito dal codice, in quanto connessa all’originarietà dell’interesse culturale, può cessare soltanto a seguito dell’espressa esclusione di tale interesse.

Nella stessa prospettiva si colloca la recente giurisprudenza in tema di “beni comuni”, con la quale è stata affermata la necessità di ancorare il regime proprietario dei beni ai valori fondamentali sanciti dalla Costituzione.

Spunti interessanti sul tema sono ricavabili, in particolare, dalla pronuncia della Cass., S.U., 16.2.2011, n. 3811, che ha deciso le annose controversie sulla titolarità (pubblica) delle valli da pesca della laguna di Venezia. In questa importante sentenza la Cassazione, muovendo dalla diretta applicabilità degli artt. 2, 9 e 42 Cost., ha affermato il principio secondo cui anche la modulazione del regime dei beni pubblici deve essere incentrata intorno alla «tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell’ambito dello Stato sociale», da «rendere effettiva» in «tale quadro normativo - costituzionale, e fermo restando il dato ‘essenziale’ della centralità della persona (e dei relativi interessi), oltre che con il riconoscimento di diritti inviolabili, anche mediante ‘adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’»8.

In argomento va altresì segnalata la pronuncia della C. cost. n. 320/2011, che ha annullato l’art. 49, co. 2 e 4, l. reg. Lombardia n. 26/2003, recante la previsione dell’istituzione di una società patrimoniale d’ambito per l’organizzazione dei servizi pubblici locali, ritenuta in contrasto con la normativa statale (art. 23 bis, co. 5, d.l. n. 112/2008, abrogato con il referendum del 12 e 13.6.2011) che sancisce il principio della proprietà pubblica delle reti, evidentemente inconciliabile con l’istituzione di una società di diritto comune cui trasferire la titolarità di reti, impianti e le altre dotazioni del servizio idrico integrato, attesa l’autonomia soggettiva (e patrimoniale) di una tale società rispetto agli enti pubblici che ne sono soci9.

Note

1 Sulla proposta di operare la riduzione del debito pubblico mediante l’alienazione di immobili per un valore pari annualmente all’uno per cento del PIL si v. il dossier della Fondazione Astrid all’indirizzo: http://www.astrid.eu/Governo-de/Dossier-r5/index.htm, nonché l’intervista di Di Giovanni al Presidente della Cassa Depositi e Prestiti Franco Bassanini, «Difendo il pubblico nelle aziende cruciali», L’Unità, 4.8.2012. Interessante, inoltre, sul tema la sezione «Fermare il declino» del sito dedicato alle tematiche economiche noisefromamerika.org. In senso parzialmente critico in ordine alla effettiva praticabilità e convenienza di iniziative di questo segno nell’attuale congiuntura economica, si v. l’intervista di Di Giovanni all’ex Ministro Vincenzo Visco, Non si abbatte il debito con la propaganda, in L’Unità, 6.8.2012. Rispetto all’ipotesi di massiccia dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, appare preferibile la proposta del Primo Ministro finlandese Katainen di offrire piuttosto i beni pubblici in garanzia, tenuto conto anche della difficoltà di ottenere significativi ricavi dalle alienazioni in una fase di recessione economica (si v., in particolare, l’intervista apparsa su Der Spiegel del 13.8.2012, che può leggersi al seguente indirizzo:http://www.spiegel.de/international/europe/spiegel-interview-with-finnish-prime-minister-jyrki-katainen-a-849779.html).

2 V. Carpentieri, P., Federalismo demaniale e beni culturali, in Del Sante, C.-Pizzetti, F.-Rughetti, A., a cura di, Il federalismo demaniale, Studi CIS – ANCI, Roma 2011, 99 ss., nonché sul sito www.giustizia-amministrativa.it.

3 Police, A., Il federalismo demaniale: valorizzazione nei territori o dismissioni locali?, in Giorn. dir. amm., n. 12/2010, 1233.

4 Police, A., op. cit., 1236.

5 Palma, G., Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, 1971; Foà, S., La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, 130 ss., nonché Id., Gestione e alienazione dei beni culturali, in Annuario Aipda 2003, Milano, 2004, 154 ss. Su tali tematiche cfr. Severini, G., sub artt. 112 e ss., in Sandulli, M.A., a cura di, Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006, 723 ss.; Vaiano, D., sub art. 111, in Commento al Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di Trotta, G.-Caia, G.-Aicardi, N., in Le Nuove Leggi Civili Commentate, Padova, n. 1 del 2006, 66 ss.; Carpentieri, P., sub art. 102, in AA.VV., Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, commento coordinato da Tamiozzo, R., Milano, 2005, 449 ss., nonché Id., sub art. 112, ivi 490 e sub artt. 115, 116 e 117, ivi 506 ss.

6 Sulla nozione di valorizzazione dei beni culturali cfr. Casini, L., La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 698 ss., nonché Id., Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2004, 5, 483.

7 Sulla dialettica tutela/valorizzazione sia consentito, per sintesi, il rinvio a Carpentieri, P., Tutela e valorizzazione dei beni culturali, nota di commento a Corte cost. 28.3.2003, n. 94, in Urb. app., 2003, 9, 1017 ss.

8 Su tale pronuncia cfr. Cortese, F., Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici, in Giorn. dir. amm., 2011, 11, 1170 ss. e Belotti, V., Beni pubblici e beni comuni: categorie giuridiche alla prova della giurisprudenza di Cassazione, in Nuovo dir. amm., 2012, n. 1, 31 ss.

9 La pronuncia della C. cost. è stata annotata da Longhi, L., Le reti idriche: beni patrimoniali, beni demaniali o... beni comuni? Note minime su C. Cost., sent. n. 320/2011, sul sito www.giustamm.it, 18.1.2012 e da Costantino, F., La proprietà delle reti dei servizi pubblici locali - in particolare del servizio idrico (a proposito di Corte cost. 320/2011), in www.giurcost.org. Il tema è di recente approfondito da Chirulli, P., I beni comuni, tra diritti fondamentali, usi collettivi e doveri di solidarietà, in www.giustamm.it, 21.5.2012, e da Maddalena, P., I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana, in www.federalismi.it, n. 19 del 2011, 4.10. 2011. Va altresì richiamata, sul tema, C. cost. n. 199/2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, d.l. n. 138/ 2011, il quale aveva dettato la nuova disciplina dei servizi pubblici locali a seguito del referendum popolare del 12-13.6.2011. A giudizio della Corte, la disposizione si poneva in contrasto con il divieto – desumibile dall’art. 75 Cost. – di ripristino della normativa abrogata mediante la consultazione referendaria, il cui chiaro intento era stato quello di escludere l’applicazione delle norme limitatrici delle ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica.

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