PLACIDO, Beniamino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PLACIDO, Beniamino

Aldo Claudio Zappalà

PLACIDO, Beniamino. – Terzo di cinque figli (con due sorelle e due fratelli), nacque a Rionero in Vulture, nel Potentino, il 1° febbraio 1929 da Maria Nucci – di estrazione borghese, figlia di un maestro elementare – e da Michele, di origine contadina. Un’origine umile e legata alla terra alla quale Placido si sentì sempre profondamente legato.

A otto anni perse il padre, morto nel 1937 in Eritrea ad Asmara. Adolescente, ogni mattina, assieme al fratello maggiore Valentino, raggiungeva Potenza con la corriera per frequentare il ginnasio al liceo classico Quinto Orazio Flacco. Studente modello, era amante dei grandi classici, soprattutto l’Iliade e l’Odissea, che influenzarono enormemente tutto il suo lavoro. Sulla corriera che lo riportava a casa divorava anche la Gazzetta dello sport; era infatti un acceso tifoso juventino e usò spesso le metafore sportive per raccontare il nostro Paese. In quegli anni cominciò a elaborare una visione politica che lo portò, dopo la guerra, a simpatizzare con il Partito d’azione (PdA).

Negli anni Cinquanta la madre decise di trasferire la famiglia a Roma in una casa nel quartiere Trieste. Fu un periodo molto difficile per tutti. Placido si iscrisse all’Università La Sapienza e, grazie all’insegnamento del grande anglista Mario Praz, iniziò il suo interesse per la letteratura angloamericana.

Placido divenne un punto di riferimento e un amico fidato per tanti studenti meridionali che approdavano nella capitale. Fu così per Stefano Rodotà: «Se ci fu qualcosa che me lo fece subito sentire vicino, questo fu proprio il bisogno di gettare l’occhio su tutto, o quasi, senza esclusioni intellettualistiche o snobistiche. E dunque avanspettacolo e grande critica letteraria, calcio e università, generi nascenti ed esperienze in via d’estinzione, attenzione politica e rigoroso pettegolezzo. Discutendo o chiacchierando con lui, si avvertiva che egli non proponeva gerarchie, ma criteri rigorosi di giudizio» (cfr. Caro Beniamino, 2006, pp. 21-23).

A ventinove anni vinse un concorso come funzionario presso la Camera dei deputati. Lavorò nella direzione dello schedario elettronico con Antonio Maccanico e poi presso la commissione agricoltura.

Nel 1973, approfittando di una legge che consentiva il pensionamento anticipato, lasciò la Camera dei deputati. Nel frattempo aveva dato inizio all’attività giornalistica, pubblicando ne Il Mondo di Mario Pannunzio saggi sulla letteratura americana e inglese. Nel 1963 pubblicò nella rivista accademica Studi americani, diretta da Agostino Lombardo, un saggio intitolato La critica americana contemporanea. Insegnò per qualche anno all’Università La Sapienza di Roma, entrando in contatto con Nanni e Franco Moretti, Federica Bini, Alberto Abruzzese, Alessandro Portelli.

Amici e allievi lo ricordano come un professore simpatico e un conversatore amabile: «Beniamino teneva in facoltà dei seminari di storia degli Stati Uniti, e ci faceva capire il senso di quella storia usando tutti i mezzi necessari, dalla storiografia alla letteratura, al cinema. Non parlerei neanche di “interdisciplinarietà”: direi piuttosto che non esistevano barriere e separazioni fra i campi del sapere, che le connessioni andavano e venivano seguendo la logica imprevedibile di un’intelligenza capace di creare connessioni evidenti dove gli altri vedevano solo distanze e gerarchie. Benito Cereno e La capanna dello zio Tom erano le chiavi per ragionare sulla schiavitù, Via col vento, romanzo e film, per la Depressione e il New Deal: semplicemente perché (e fu lui a farmelo capire partendo da Benjamin) non esiste un rapporto fra letteratura e società, ma esistono una cultura, un tempo, un mondo in cui la letteratura agisce come vi agiscono con le proprie forme e modi la politica, il cinema, l’economia» (A. Portelli, B. P. mio maestro, blog 2010, http://alessandro portelli.blogspot.it/2010/01/beniano-placeido-mio-maestro.html).

Dopo essersi separato dalla prima moglie, Anna Amendola, Placido incontrò all’università il suo grande amore, Nadia Fusini, di vent’anni più giovane: dalla loro relazione nacque Barbara.

Negli anni Settanta iniziò a collaborare assiduamente con la casa editrice Samonà e Savelli e con l’Associazione antropologia e mondo antico. Entrò in contatto anche con la rivista Ombre rosse, diretta da Goffredo Fofi.

Nel frattempo, nel 1975 dette alle stampe per Einaudi Le due schiavitù, per una analisi dell’immaginazione americana: un saggio su Benito Cereno di Herman Melville e su La capanna dello zio Tom, il romanzo antischiavista scritto dalla statunitense Harriet Beecher Stowe. Placido partiva da questi due capolavori dell’Ottocento, ma già dopo poche pagine irrompevano nel testo I promessi sposi e Renzo Tramaglino, Karl Marx e i pettegolezzi letterari e storici. «Inutile dire che tutto si tiene, in questa fantastica passeggiata della mente che compiamo tenuti per mano dall’intelligenza scintillante di Beniamino, il quale lascia lungo il suo zigzagante percorso tante briciole di pane, come Pollicino. Con un primo obiettivo: disfarsi del nostro bagaglio di stereotipi culturali, che traballa vistosamente non appena ci si cominciano a porre le domande più “minute, elementari, primitive”» (F. Marcoaldi, Il metodo Placido contro i luoghi comuni, in la Repubblica, 6 ottobre 2009).

Il 20 gennaio del 1976 cominciò la sua fortunata collaborazione con la Repubblica, pochi giorni dopo il debutto in edicola del quotidiano fondato e diretto da Eugenio Scalfari, con Orazio Gavioli capo degli spettacoli ed Enzo Golino capo della cultura. Il suo primo articolo fu Il corpo è mio e me lo tengo, una recensione a Paura di volare, il romanzo di Erica Jong tradotto in Italia da Bompiani. In breve la sua rubrica culturale divenne un appuntamento fisso per tutti i lettori. Una decina di anni dopo Eugenio Scalfari gli propose di curare la critica televisiva, una mansione fino a quel momento inesistente e considerata deleteria per un intellettuale. Placido all’inizio resistette alla proposta ma alla fine capitolò: «Si fece sedurre. L’idea di rivolgersi a milioni e milioni di ascoltatori anziché soltanto ad un’élite di persone colte; l’idea di poter aprire una finestra sull’evoluzione del gusto e perfino del linguaggio degli italiani, insomma di vedere il paese attraverso lo schermo del teleschermo, cominciò a sedurlo e ne rimase affascinato» (E. Scalfari, in Caro Beniamino, 2006, pp. 39-42). Nacque così la rubrica di critica televisiva A parer mio per la quale produsse quasi 1500 articoli fra il 1985 e il 1994, con uno standard di qualità sempre elevatissimo.

Nel 1986, a proposito di un servizio del Tg1 sulla mafia in cui si usava «un insopportabile “politichese” del tutto incomprensibile», tirò in ballo la celebre «casalinga di Voghera». Fu lo stesso Placido a precisare che, in realtà, l’invenzione di questo personaggio doveva molto a una serie di articoli che lo scrittore Alberto Arbasino aveva pubblicato intorno agli anni Cinquanta su Il Mondo in cui si citava spesso «l’impareggiabile saggezza delle sue zie». Diatribe sulla paternità a parte, da allora non ci fu giornale che non la utilizzò per indicare il tipo medio dello spettatore italiano: privo di riferimenti culturali, ma assetato di sentimenti ed emozioni forti.

Tuttavia, dopo otto anni Placido chiese e ottenne, nonostante molti tentativi per farlo desistere, di tornare alle pagine della cultura. Per congedarsi dette alle stampe un saggio: La televisione con il cagnolino (Bologna 1993), in cui giocava coinvolgendo il grande scrittore Anton Čechov nell’analisi del mezzo televisivo e del nostro rapporto con esso.

A partire dal 1997 curò la sezione Cinema in tv sulle pagine del settimanale Il Venerdì di Repubblica, per poi passare, dal 1998 al 2004, alla rubrica di critica Belvedere sempre per Il Venerdì.

La sua passione per la pagina stampata lo portò anche a fare un’esperienza diretta nel settore. Dal 1993 al 1997 fu responsabile culturale del Salone del libro di Torino. Fu Guido Accornero a volerlo e Placido non deluse le aspettative. Nel 1993 il tema proposto fu I segreti, cui seguirono nel 1994 Ciò che è vero e ciò che è falso, nel 1995 Rivelazioni e rivoluzioni, fino ad arrivare, nel 1996, al grande successo de Il secolo delle donne con oltre 200.000 visitatori. L’immortalità nel 1997 fu l’ultimo tema proposto da Placido, che concluse così la sua collaborazione con il Salone.

Tifoso appassionato delle cronache sportive, nel 1990 la Repubblica gli affidò l’incarico di seguire i mondiali di calcio. Usò spesso simboli e metafore sportive per introdurre i suoi articoli. Esemplare quello in cui si scagliò contro la mania della leggerezza e del leggero, inteso come valore arbitrariamente positivo. Termine usato da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane. Erano gli anni Sessanta e i nostri tennisti si allenavano per un incontro internazionale di coppa Davis dall’esito scontato. Venivano sempre battuti. Perché mai, si chiedevano i tifosi? «Lapidario rispondeva il nostro commissario tecnico, con pesante inflessione romana: “perché è leggero”. Dopo di che si rifiutava di proferire altro verbo. Ma si poteva facilmente immaginare quello che avrebbe voluto dire. Perché non dispongono di quella “palla pesante” che è propria dei grandi tennisti. Che mette l’avversario in difficoltà e lo costringe dopo un po’ alla resa. Sono leggeri. Per fortuna non erano ancora state scritte né pubblicate le Lezioni americane di Italo Calvino. Non si era cominciato a farne un uso così facile e così letterariamente fatuo. Così leggero» (B. Placido, Nautilus, 2010, p. 3).

Con lo stesso entusiasmo Placido affrontò in prima persona la sfida televisiva diventando autore di memorabili programmi in RAI. Una collaborazione che iniziò con la rubrica di cinema 16 e 35 (RAI 1, 1978), e con i collegamenti con il festival del Cinema di Venezia prima con Tommaso Chiaretti e Irene Bignardi, poi con Patrizia Carrano e Isabella Rossellini. Seguirono Serata Garibaldi (RAI 1, 1982), Serata Marx (RAI 1, 1983), Serata Mussolini (RAI 1, 1983), Serata Orwell (RAI 1, 1984), Serata Manzoni (RAI 1, 1985) e Serata Freud (RAI 1, 1986).

Erano programmi in prima serata caratterizzati da una conduzione sobria e ironica con gli ospiti più vari. Placido aveva un forte accento lucano, pur parlando bene tre lingue, rassomigliava a Woody Allen ed era sempre vestito come appena uscito di casa per comprare il giornale. Ma conquistava gli spettatori, soprattutto quando cercava di usare un computer per parlare di Karl Marx mentre quello si ostinava a mostrare i fratelli Marx. Nessuno aveva mai trattato così la cultura in televisione.

Nel 1994 accettò l’offerta di Angelo Guglielmi per realizzare, assieme a Indro Montanelli, Eppur si muove, cambiano gli italiani? (RAI 3, 1994), un tentativo di definire l’Italia e il carattere degli italiani, sempre sospesi fra tutto e il contrario di tutto: un ‘italiano’, in sintesi, contemporaneamente furbo e fesso, mammone e maschilista, drammatico e melodrammatico, coraggioso e vigliacco.

Ma le incursioni di Placido non si limitarono alla televisione. Partecipò a dibattiti suscitando l’entusiasmo divertito del pubblico come quando fece il presidente della giuria nel Processo a John Rambo, organizzato dalla Federazione giovanile comunista italiana (FGCI) di Bologna nel 1985, assieme a Umberto Eco, Michele Serra, Renato Nicolini e altri. Al termine concesse l’assoluzione a Rambo «[…] per via della pochezza complessiva dimostrata condannandolo, però, a un congruo periodo di decondizionamento presso Madre Teresa di Calcutta» (B. Placido et al., in L’Affare Rambo, www. youtube.com/watch?v=Ogvq6HXsPz4).

Apparve inoltre nei film di Nanni Moretti Come parli frate? (1974) e Io sono un autarchico (1976), dove interpretò la parte di un critico teatrale, e in Cavalli si nasce di Sergio Staino (1989), dove invece recitò nella parte di un funzionario borbonico.

Placido si impegnò anche in un fotoromanzo (Una flebo per due, in Il Male, 15 agosto 1979), travagliata storia d’amore tra una giornalista di Lotta continua e uno dell’Unità.

Una lunga malattia costrinse Placido lontano dagli amici, cui tanto teneva e tanto aveva dato. Quegli amici ai quali amava chiedere, come ricordò Gianni Riotta: «“Sai perché Odisseo non ascolta Calipso e non rimane con lei sull’isola felice, pur davanti alla promessa di diventare immortale, bello, sano e innamorato per sempre? Sai perché rinuncia a quella eterna felicità e si rimette in mare tra mostri, tempeste e nemici ferocissimi, umani e divini?”. Di fronte agli sguardi perplessi Placido sgranava gli occhi bulbosi, accennava un sorriso malizioso, alzava l’indice da saggio e scandiva: “Perché per noi umani l’identità è più importante dell’immortalità, capisci? Sempre!”» (G. Riotta, B. P., intellettuale semplice e critico generoso, in Il Sole 24 ore, 6 gennaio 2010).

Gli ultimi trent’anni della sua vita furono influenzati più dal greco e dall’ebraico che non dalla letteratura americana. Ammalato gravemente, Placido continuò a scrivere, malgrado le difficoltà.

Trascorse gli ultimi mesi, accudito dalla figlia Barbara, nel Regno Unito, a Cambridge, dove morì il 6 gennaio 2010.

Opere. Nell’archivio di Repubblica on-line sono raccolti tutti gli articoli della rubrica A parer mio. Una raccolta degli articoli di cultura, per cura di F. Marcoaldi, sono presenti in B. Placido, Nautilus: la cultura come avventura, Roma-Bari 2010. Per la produzione saggistica si ricordano: Le due schiavitù: per un’analisi dell’immaginazione americana, Torino 1975; Tre divertimenti. Variazioni sul tema dei Promessi Sposi, di Pinocchio e di Orazio, Bologna 1990; La televisione con il cagnolino, Bologna 1993; Eppur si muove: cambiano gli italiani?, Milano 1995 (in collaborazione con I. Montanelli). Si segnalano inoltre le prefazioni o postfazioni a: J. Reed, Avventura e rivoluzione: brevi racconti ed altro, Roma 1977; Ch. Bukowski, Factotum, Milano 1979; H.-L. Bergson, Il riso: saggio sul significato del comico, Roma-Bari 1989; A. Pazienza, Andrea Pazienza, a cura di F. Picca, Roma 1989; J. London, Racconti del Pacifico, Parma 1990; G. Brera, Parola di Brera, a cura di A. Carotenuto Roma 1993; B. P. presenta Il grande inquisitore di Dostoevskij, Roma-Bari 1995; H. Melville, Benito Cereno, Milano 2011.

Fonti e Bibl.: Ricordi biografici di diversi amici sono presenti in Caro Beniamino. Scritti per una festa di compleanno, con disegni di T. Pericoli, Roma 2006. Si veda inoltre: La televisione, il cagnolino, il logos: ricordo di B. P. A. Gnoli, F. Marcoaldi, M. Bettini, G. Pucci ci parlano del grande critico televisivo a partire da un inedito documento audiovisivo (DVD), Pesaro 2010.

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