DE DOMINICI, Bernardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DE DOMINICI, Bernardo

Ferdinando Bologna

Figlio del pittore, musico e collezionista Raimondo e di Camilla Tartaglione, nacque a Napoli il 13 dic. 1683; fu nipote "ex frate" di suor Maria, scultrice, e fratello di Giampaolo, letterato, musico e uomo di teatro.

La data di nascita di questo pittore e storiografo dell'arte, accertata recentemente da F. Strazzullo (in Settecento napoletano, Documenti, I, Napoli 1982, p. 352) è confermata sostanzialmente anche dalla notizia, fornita dal D. stesso, che era quattordicenne nel 1698, quando il padre, nato a Malta e a Malta rimasto per i primi vent'anni di vita, ve lo condusse in visita ai familiari rimasti in patria, anche per accondiscendere al suo "ardente" desiderio di conoscere Mattia Preti, di cui Raimondo era stato discepolo in giovinezza (cfr. Vite…, 1742-43, ediz. di Napoli 1840-46, IV, pp. 108, 201; cfr. anche II, p. 9; a questa edizione ci si riferisce anche in seguito, dando solamente l'indicazione del volume e della pagina). L'incontro con il vecchio maestro ebbe luogo, e si mutò subito in un rapporto di familiarità e di discepolato, anche se di breve durata per via del fatto che il Preti mori nel gennaio dell'anno successivo ("ebbe a gran sorte di essergli discepolo in quei sette mesi che il cavaliere sopravvisse": IV, p. 201). Il D. stesso, per altro, scrisse che da quell'incontro ebbe modo di ricavare anche una messe di notizie e indicazioni d'ordine storico-artistico che avrebbe in seguito utilizzato nella Vita dedicata a Mattia Preti nell'ultimo volume della sua opera ("molte cose descritte in questa vita furono udite raccontare dalla bocca dei medesimo commendatore": IV, p. 108). Tuttavia non sembra immotivato presumere che da questi racconti, certo proiettati subito nella pratica dimostrativa di un precoce rapporto solare, si formasse almeno un embrione di ciò che, trenta e quarant'anni dopo, sarebbe trapassato dalla pittura professata all'esigenza di raccogliere e tramandare storiograficamente "certissime notizie de' tempi trascorsi" (I, p. 3).

Rientrato a Napoli nel 1701, sempre con il padre, il D. si diede all'attività pittorica, entrò in rapporti con Francesco Solimena e fu da questo istradato a "dipinger paesi" "per lo diletto che egli ha avuto in dipinger paesi, ha cercato istradarvi molti, come v'istradò Beraardo De Dominici": IV, p. 464).

In effetti, a quella data il Solimena stava entrando nella pù approfondita fase neopretiana di tutta la sua carriera; ma aveva dato e continuava a dare prove di non comune interesse anche per il genere paesistico, come dimostra, quanto meno, la documentata ammirazione che professò reiteratamente ne; confronti dei paesaggi dello svevo di Ravensburg Franz Joachim Beich (IV, pp. 365, 369, 463 s.), del quale è affermato un rapporto con Napoli non occasionale, insieme alla presenza di varie sue opere nelle raccolte napoletane dei primi decenni del Settecento, inclusa quella del Solimena.

Il D. entrò in rapporti di discepolato con Beich ("il quale anche fu maestro in Napoli di chi queste e se scrive": IV, p. 387; ma cfr. pp. 366 s.), ed è presumibile che fosse proprio Solimena a far da tramite; sebbene occorra ricordare che in un giro di tempo non dissimile, il D. sarebbe stato scolaro anche di "monsù Paolo Ganses": l'olandese Paul Ganses, specialista di "marine a lume di luna", "che fu maestro in tal genere di Bernardo De Dominici", e "il quale morì in Napoli bruciato nei polmoni per bere troppa acquavite" (IV, pp. 385 s.).

Non conosciamo la data precisa dei soggiorni italiani di Beich e di Ganses. Ma poiché in altro luogo (IV, pp. 367 s.) il D. scrive di aver avuto per scolaro il paesista Michele Pagano, il quale da lui sarebbe stato sollecitato a studiare le opere dì Beich e che Pagano sarebbe stato scolaro, per il disegno, anche di Raimondo, morto nel 1705, se ne induce un quadro di riferimenti che tende a far collocare sia le presenze napoletane di Beich e di Ganses, sia l'apprendistato paesistico del D. non oltre il primo quinquennio del Settecento.

Certo è, però, che il futuro autore delle Vite dové continuare per lungo tempo a praticare la pittura di paesaggio; per giunta estendendola alla "bambocciata", in un'accezione che si precisa alla luce dei rapporti di collaborazione che egli stesso dice di aver avuto con Domenico Brandi, il quale a sua volta l'avrebbe imitato in quel genere specifico (IV., pp. 379 s.). A tener presente, infatti, che tale mutuo interesse avrebbe avuto luogo al tempo in cui era viceré austriaco di Napoli il conte di Harrach, un personaggio ben noto anche come committente e collezionista attento di pittura napoletana ("avendo poi Domenico veduto che le bambocciate di Berriardo suddetto avevano incontrato il piacimento del pubblico, oltre quello del mentovato conte di Harrach, volle egli ancora dipingerne": IV., p. 379), se ne ricava che D. era impegnato attivamente nella produzione pittorica di paesi e bambocciate ancora all'altezza degli anni 1727-29 (sono gli anni di Harrach viceré), in coincidenza con la pubblicazione del suo primo scritto storico-artistico.

Di questa produzione, nulla s'è potuto finora ritrovare; ed è stato affermato anche, recisamente, che essa non avrebbe avuto rilevanza nel panorama artistico di quei decenni (Diz. Bolaffi, IV, p. 182). Ma se fu il D. stesso a definirsi "pittor di paesi, marine e bambocciate, tuttoché deboli pel mio poco sapere" (III, p. 366) - salvo poi a dolersi che "l'altrui malignità" fosse arrivata a "farmi carcellare dall'Abecedario pittorico [di P. A. Orlandi], ove nell'aggiunta che si fece della ristampa [Napoli, 1731 e 1733], la dotta penna di erudito scrittore [A. Roviglione o N. Parrino?] avea di me fatta menzione aperta" (I, p. 15) -, non si può considerare senz'altre prove una semplice vanteria, o magari l'autodenuncia di un "falsario" anche nelle cose pittoriche, l'inganno di "Paolo De Matteis, che vedendo due bambocciate di Bernardo esposte al pubblico, a lume di notte, di figurette picciole affatto dipinte con stile oltremontano, l'aveva giudicate d'un famoso pittore di quei paesi, ingannandosi ancora altri pittori su tale credenza" (IV, p. 380). In una simile imitazione di pittori "oltremontani" (e torna subito a mente Beich) anche e specialmente Solimena s'era provato, per giunta in veste di maestro a un discepolo dei medesimo Beich, Johann Samuel Hötzendorf, venuto a perfezionarsi a Napoli presso di lui nel 1720-21 (Bologna, 1958, pp. 118, 165, 193). Bisognerà che la critica sorvegli questo nesso, perché di qui è più probabile che vengano lumi anche sui "paesi" del D., che poterono non essere nulli per la storia settecentesca di quella branca dell'arte.

Non si hanno punti di riferimento altrettanto definiti per ricostruire la formazione latamente culturale di questo pittore di paesi e bambocciate, né si conoscono le premesse prossime della sua trasformazione in storiografo. Tuttavia, una prima indicazione importante si ricava dalla notizia che il D. "servì per molti anni" il duca di Lau-renzana, Niccolò Gaetani dell'Aquila d'Aragona, e fu anzi "pittor di corte" della moglie di questo, la poetessa Aurora Sanseverino (IV, pp. 366 s.).

Frequentata anche da Giovan Battista Vicó, costei era personalità in vista del mondo letterario napoletano, presso il quale era apprezzata molto per le raccolte dei sonetti correnti sotto il nome, preso in Arcadia, di Lucinda Coritesia. La conobbe, la frequentò ed ebbe scambi letterari con lei anche Solimena; e il D. riferisce che la Sanseverino ebbe "una soda virtù nella moral filosofia, una perfetta cognizione delle scienze, e più nella poesia" (IV, p. 469): tre qualità che contribuiscono a definire la fisionomia culturale di un'adepta convinta, e adegaatamente attrezzata, del movimento arcadico.

Insieme ai rapporti di familiarità con la Sanseverino Coritesia, il D. scambiò sonetti anche con Antonio Roviglione (IV, p. 221), altro esponente del "purgato stile" che l'Arcadia napoletana perseguiva; e poiché i rapporti con la Sanseverino puntano sul primo e sul secondo decennio del secolo, mentre quelli col Roviglione sul 1728-29 (1 due si scambiarono sonetti all'indomani della pubblicazione della prima Vita del... Giordano, che, come si dirà, risale a quegli anni), abbiamo il necessario per veder profilarsi una linea di continuità in questa esperienza arcadicoletteraria per non meno di un trentennio. D'altronde, le Vite hanno uno straordinario potenziale informativo anche al riguardo della vita culturale e sociale della Napoli sei-settecentesca. Non ce se ne è ancora avveduti, e solo una ricerca apposita potrà valorizzare adeguatamente quest'altro loro aspetto, al di là degli spunti che pure non mancano nel vecchio saggio di Benedetto Croce (1892) e persino in quelli, molto meno attendibili, del Borzelli (1917, 1940).

Èpossibile prevedere già da ora che il quadro dell'ambiente culturale in cui avvenne la formazione del D. si arricchirà oltre modo quando saranno messe a riscontro con il "gotha" dell'intellettualità napoletana le relazioni che egli dichiara con gli eredi di Giuseppe Valletta, la sua collezione, la sua biblioteca (I, p. 15; II, p. 393; 111, pp. 174 s.; IV, p. 391; quelle personali con Vico, "ben noto alla Repubblica de' letterati" (I, p. 16); con Matteo Egizio, un erudito umanista, poi divenuto bibliotecario di re Carlo di Borbone (I, p. 15), ben noto come "antiquario" anche a Luigi Lanzi (1809, I, p. 455); con il bibliotecario del principe di Tarsia, l'abate Niccolò Giovo, possessore di "sceltissimi libri" e "dilettantissimo di pittura" (I, p. 16; IV, pp. 35 1, 368, 385); con Antonio Chiarino, "che le vite dei medesimi professori del disegno avea proposto di scrivere alla posterità" (I, p. 16); con vari uomini di Chiesa, fra i quali don Lorenzo Nardi, priore del monastero di Sanseverino (I, p. 16), e, per il tramite di Ferdinando Sanfelice, con "Monsignor Sanfelice suo fratello" (1, p. 17). Altri personaggi con i quali poté avere familiarità sono gli amici che egli stesso attribuisce a Paolo De Matteis ("Lionardo di Capoa, Tommaso Cornelio, Luca Tozzi e Tommaso Donzelli", quest'ultimo figlio di Giuseppe, nonché, più tardi, Shaftesbury: IV, p. 314), a Solimena (tra gli altri, i Gravina, con il futuro Benedetto XIII, Alessandro Scarlatti, Giuseppe Valletta in persona, Basilio Giannelli e Giannettasio, "Carlo Cornelio, nipote del famoso Tommaso", Gaetano Argento: IV, pp. 391 e 405-493 passim), e non meno ad Andrea Belvedere, nel cui studio, specie dopo il ritorno dalla Spagna (c. 1701) e la decisione di abbandonare la pittura, fu intenso l'andirivieni anche di esponenti del mondo teatrale, dallo scrittore di tragedie Saverio Panzuti allo stesso fratello di Bernardo, Giampaolo De Dominici, che Belvedere "distinse" per la sua virtù nelle lettere, nella musica, e nella comica" (IV, pp. 390-398), e sarà stato un filo da non trascurare nella rete di tutte queste relazioni. È dal quadro di esse, dunque, che occorre far emergere la decisione del D. di dedicarsi alla storiografia; e pare ancora oggi condivisibile la tesi che fu a suo tempo prospettata nei termini seguenti.

Il movimento arcadico, a cui tutto quanto è stato sopra elencato è riducibile, fu connotato dalla tendenza a considerare complementari "l'aspetto retorico e l'aspetto critico, l'esercizio dell'imitazione e lo studio storico ed estetico della poesia"; in termini più precisi, intese far si che l'attività produttiva, prefiggendosi una selezione preventiva dei modelli, si accompagnasse consapevolmente a ricerche storico-filologiche e a un primo tentativo di storia letteraria (in proposito, cfr. M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Bari 1954, p. 304). A riscontro, tutti i tentativi di storia artistica napoletana compiuti fra il 1725 e il 1775 sono senza eccezione opera di scolari di Francesco Solimena: vale a dire di una personalità la cui adesione all'Arcadia è nota e la cui didattica, dopo la svolta dei tardi anni 1690, fu quanto di più coerente si possa desiderare in materia di congiunzione normativa fra l'aspetto retoricoaccademico nella ricerca e nella valutazione dei modelli, e il proposito almeno implicitamente storico di prender coscienza del luogo e della sequenza dei modelli così individuati. Non può esser dubbio che i due atteggiamenti sono culturalmente identici e che, per il tramite. di Solimena, la storiografia del D. si rivela appunto della stessa impronta. Il D. stesso dichiarerà di essersi dato gli obiettivi di "eteinare" ... la memoria dei trapassati, e de' moderni Professori [...], e nel tempo stesso proporre il loro esempio innanzi agli occhi de' nostri viventi artefici" (I, p. IX. Per l'intero argomento, cfr. Bologna, 1958, pp. 154-161).

La prima opera storiografica del D. fu la Vita del Cavaliere D. Luca Giordano pittore napoletano; la quale, uscita a Roma in appendice all'edizione del 1728 delle Vite di G. P. Bellori (con una tacita, ma falsa e culturalmente impossibile attribuzione al Bellori stesso, mantenuta anche nell'edizione del 1821; cfr. Bibliografia, in G. P. Bellori, Le Vite, ediz. a cura di E. Borea, 1976, pp. lxxiii e lxxiv), ripubblicata a Napoli, anonima, nel 1729, con una dedica al figlio del Giordano, Lorenzo, divenuto intanto alto funzionario del viceregno, fu rivendicata alla propria penna dallo scrittore stesso (I, p. 15; IV, p. 126) e fu l'oggetto dello scambio di sonetti fra Antonio Roviglione e il D. a cui s'è accennato sopra.

Del manoscritto di tale Vita si conserva, del resto, alla Biblioteca nazionale di Firenze (II, II, 110), un esemplare verosimilmente autografo, appartenuto a Francesco Saverio Baldinucci e poi ad Anton Francesco Marmi (morto nel 1736), che già nel titolo reca la specificazione: "del signor Bernardo Domenichi, pittor napoletano"; più avanti ha addirittura una nota di pugno dei Marmi così formulata: "Ogni ragion vuole che di questo galantuomo, che si è tanto affaticato, si faccia onorevole menzione" (oltre al Ceci, 1937, cfr. Petraccone, 1919, pp. 23 s.). E poiché sempre il Marmi afferma che "Domenichi" gli aveva spedito la Vita di Giordano "indotto a favorirlo per preghiera di Diego Valletta e del figliuolo Francesco", ne emerge con chiarezza, insieme alla prova di autenticità, anche l'indicazione dell'ambito culturale da cui l'impresa era stata sollecitata. Per altro non risulta che il su ricordato sonetto di Antonio Roviglione, pubblicato con la risposta dal D. nelle Vite di circa quindici anni dopo (IV, p. 221), sia mai stato smentito: dallo stesso Roviglione o da altri. E ciò costituisce l'ultimo argomento per respingere i dubbi formulati da qualcuno nei confronti della paternità dedominiciana della Vita in questione: sebbene non sia molto noto, dubbi del genere furono infatti sollevati preconcettamente dal Borzelli (1917 e 1940), al quale dobbiamo pure un infondato tentativo di dimostrare che le Vite del 1742 e anni seguenti sarebbero addirittura un centone di scritti altrui, malamente messi insieme dal De Dominici. Occorre ricordare, infine, che il padre dello scrittore, dopo il giovanile alunnato con Preti a Malta, era stato discepolo e poi a lungo collaboratore di Luca Giordano a Napoli; e che con Giordano aveva sicuramente ripreso i contatti nei primi anni del nuovo secolo, quando, rientrati a ruota, lui da Malta nel 1701, il maestro da Madrid nel febbraio 1702, si ritrovarono entrambi nella capitale. È evidente che il D. non poté non mettere in serbo anche in questo caso impressioni e ricordi di prima mano: sia nella forma aurorale di quel che poté accumulare ancora bambino prima del 1692 (anno della partenza di Giordano per la Spagna); sia in quella ormai consapevole delle esperienze vere e proprie che non poté non fare fra il 1702 e il 1705 (anno di morte del Giordano, nonché del padre), per di più avendo agio di confrontarle con quanto aveva appreso nei sette mesi del discepolato maltese presso il Preti, e ora veniva apprendendo da Francesco Solimena, il quale utilizzava entrambe quelle fonti.

Circa l'avvio del progetto, che ebbe attuazione, di un'opera complessiva dal titolo Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani (e che rappresenta il massimo sforzo storiografico non solo del D., ma dell'intera produzione storica sette-ottocentesca relativa all'arte meridionale: fino al Rolfs, tutto sommato, se teniamo in conto l'arco cronologico coperto), è da considerare che, accanto all'affermazione dell'autore di aver affrontato "diciassette anni di fatiche" (il che fisserebbe l'origine dell'opera intorno al 1725 e perciò congloberebbe anche i tempi di preparazione della vita di Giordano), devono essere ritenute tre notizie precise.

La prima è che nella stessa Vita del... Giordano il D. annuncia di essere in cerca di ulteriori informazioni sul pittore, "affinché possa aggiungerle nell'altra ristampa che forse farà di questa presente Vita, una coll'altre Vite dei pittori napoletani, che si studia sottrarre dalle tenebre dell'oblivione". La seconda è che in una lettera del 13 dic. 1732 (Borzelli, 1940, pp. 10 s.), Marco Mondo, padre del pittore Domenico, e allora egli stesso allo scrittoio per stendere una poi tralasciata vita di Francesco Solimena, anch'essa sollecitata in quel momento da Firenze ("trovandosi questa mattina sul finire del disteso della consaputa Vita"), comunica a Orazio Solimena, nipote dei maestro, di essere stato avvisato dal figlio "che la medesima Vita... sia stata scritta da Bernardo De Dominici, nell'opera delle Vite dei pittori del Regno". La terza notizia viene ancora dal D. quando, a conclusione del proemio alle Vite, dove ha illustrato gli antefatti altomedievali, scrive che narrerà le "Vite de' nostri virtuosi Maestri ... incominciandei per ordine cronologico dagli anni di nostra salute 1250 ... insino al presente anno 1739" (I, p. 52).

Le Vite erano dunque in preparazione dal 1732, al più tardi; e forse furono stese in un ordine diverso da quello in cui furono pubblicate, avendo però nel 1739 un punto di riferimento interno obbligante, almeno per il primo tomo che nell'edizione originaria ha la data di stampa del 1742 (la data "20 Marzo 1745" che, sempre nell'edizione originaria del primo tomo, conclude la dedica "agli Eletti della Città", deve ritenersi frutto di errore; tanto più che tutti gli imprimatur stampati di seguito a tale dedica hanno date dal 2 febbraio al 17 dic. 1741). Altro discorso tocca al terzo, corposissimo e ultimo tomo, il quale porta la stessa data di stampa del secondo, il 1743, ma include riferimenti a opere e fatti accertati per tutto il 1743 e in parte per il 1744 (cfr. Bologna, 1958, pp. 119 s., 200; Id., 1985, pp. 307 s.; ulteriori sintomi si ricavano dalla storia della guglia di S. Domenico e di altre opere architettoniche napoletane ricordate nella vita di D. A. Vaccaro, IV, pp. 269, 275 s.), che obbligano a posticipare la stampa di una buona parte di esso al 1744. A tale anno, del resto, e pur senza dame ragione, faceva riferimento già il De Rinaldis (1931); mentre il fatto che nella Vita di Solimena non sia ancora citato il S. Gennaro in gloria dipinto dal pittore per l'oratorio del parco di Capodimonte, che è del 1745, stabilisce il definitivo "post quem non".

L'opera poté vedere la luce grazie all'assistenza storica, filologica e bibliografica, espressamente ricordata dall'autore, dei "virtuosissimi letterati D. Matteo Egizio, Giovan Battista di Vico, e D. Francesco Valletta, i quali veramente come veri patrizi non han ricusato fatica" U, p. 384); e - anche per la parte propriamente tipografico-editoriale, a quanto sembra - grazie alle cure di Domenico Antonio Vaccaro, menzionato ed elogiato vibrantemente giusto a chiusura della sua Vita: "avendo confortato sempre lo scrittore della presente opera a proseguire la incominciata impresa; ed è stato sempre pronto a soggiacere all'interesse della stampa, in ogni porzione, che gli fusse stata prescritta ... dapoiché ha cooperato molto per far uscire alla luce le notizie di tanti illustri professori del disegno" (IV, p. 279). Non appena pubblicata, la raccolta di tali "notizie" ebbe accoglienza largamente positiva: presso i Francesi innanzitutto, i quali pare ne ricevessero con favore già i primi due tomi e incominciarono presto a utilizzarli tutti e tre, con una fiducia persino eccessiva (da A. J. Désallier D'Argenville, il quale secondo Onofrio Giannone sarebbe stato tenuto al corrente delle cose di Napoli da un tal Francia, fino a Pierre Jean Mariette e al medievista J.-B. Séroux d'Agincourt); quindi presso gli Italiani degli ultimi decenni del secolo, fra i quali spiccano persone di prima grandezza come Luigi Lanzi, Pietro Napoli Signorelli, Leopoldo Cicognara. Che tuttavia le voci discordi non tardassero a farsi udire, lo si induce già dalla storia delle riedizioni settecentesche della Notizia del bello... di Napoli di Carlo Celano (quelle del 1758-59 e del 1792-93 sembrano proprio in alternativa alle Vite del D.); mentre il dissenso dichiarato nel 1771-73 da Onofrio Giannone nelle "giunte su le Vite de' pittori napoletani" (a cura di O. Morisani, Napoli 1941, passim) si affianca a quello, anonimo, della "Guida" di fine secolo, a cui Lanzi ([1809] 1968) replicava: "La recente Guida o sia Breve descrizione di Napoli desidera in questa voluminosa opera "più cose, miglior metodo, meno parole". Si può aggiugnere, rispetto ad alcuni fatti più Antichi, anche miglior critica, e verso certi più moderni minore condiscendenza. Nel rimanente Napoli ha per lui [De Dominici] a luce una storia pittorica assolutamente pregevole pe' giudizi che presenta sopra gli artefici". Fu, a ogni modo, questa pur giusta esigenza di "miglior critica rispeno ad alcuni fatti più antichi" che innescò la diffidenza e finalmente la repulsa radicale da parte degli storici dell'intero centennio successivo (1840-1950 c.).

È un fatto che, proprio mentre incominciava ad apparire la ristampa dell'opera, finanziata dal principe di Cassaro Antonio Statella (in quattro volumi, Napoli 1840, 1843, 1844, 1846, ma non indenne da errori; dotata di un indice analitico anche meno soddisfacente dell'originario; soprattutto privata arbitrariamente dei titoli marginali, che nella prima edizione avevano funzione di vera e propria integrazione del testo), l'inglese Cuming Scott la giudicava "poco meno favolosa che le Metamorfosi di Ovidio" in una lettera all'amico napoletano L. Catalani (1842, p. 5); questi prendeva a contestame i singoli asserti ponendo le premesse della serrata revisione storico-documentaria che, attraverso le tappe di Gustavo Frizzoni (1878), Nunzio F. Faraglia (1882, 1883), Giuseppe Ceci (1908), Benedetto Croce (1892; ed. 1953, pp. 333, 337), pervenne alla condanna con disdoro dell'intera opera.

Nondimeno, di contro a una dichiarazione di inattendibilità che, in definitiva, nonostante la radicale intransigenza della revisione, non ha mai toccato altro che la storia documentaria esterna e l'anagrafe, rimaneva al buio l'altra faccia dell'impresa: quella a proposito della quale già Lanzi aveva parlato di "storia pittorica assolutamente pregevole pe' giudizi". Il primo ad avvertire la necessità di uno spostamento di fronte in tal senso fu Enzo Petraccone (1919, pp. 17-30); ma l'esigenza di una rilettura delle Vite dal punto di vista dell'apporto di conoscenza dato alla storia artistica in accezione specifica, vale a dire sulla fede dei giudizi storico-critici concreti pronunciati in presenza delle opere, venne delineandosi sistematicamente a partire dagli anni Cinquanta (cfr. Bologna, 1958, 1962, 1969, 1980, 1981; Previtali, 1964; Grassi, 1979), e si può ora ritenere matura al punto di consentire una ripresentazione organica dell'intero problema.

Dal punto di vista storiografico, e pur continuando a utilizzare il criterio umanisticovasariano dei medaglioni individuali, le Vite includono due diverse porzioni di materia storica: l'arte napoletana tra passato remoto e passato prossimo (dalle origini tardo antiche all'avanzato XVII secolo), e quella contemporanea. In rapporto a tale partizione, esse perciò funzionano, nel primo caso come opera storica siè et simpliciter, e andranno per conseguenza valutate alla luce di quel che poteva intendersi per "storia" in una fase ancora nrecoce della storiografia moderna quale era il XVIII secolo entrante; nel secondo caso come testimonianza e fonte: non solo al riguardo della produzione degli artisti conosciuta "in fieri" senza interposta persona, ma delle preferenze e degli atteggiamenti culturali che si erano venuti definendo insieme al crescere di quella produzione, e che scorgiamo benissimo agire dentro le Vite stesse come orientamento del gusto e principio d'interpretazione storica.

Incominciando dal primo caso, il punto preliminare che occorre ritenere assodato è, ovviamente, la provata falsità delle "fonti" che il D. adduceva a struttura portante della parte più "storica" della sua ricostruzione.

E con la repulsa dei famigerati scritti attribuiti a Marco Pino ("nostro difensore": 1 E, p. 18), a Giovan Angelo Criscuolo, allo stesso Massimo Stanzione, ciascuno rivendicativamente antivasariano e tutti variamente contraffatti per lo scopo, devono ritenersi perenti anche i fittizi eroi del Medioevo e del Trecento napoletano, dai Tauro ai Tesauro agli Stefanone. Il fatto 6, però, che il ruolo attribuito dallo scrittore a tali falsi non era molto più che patriottico, e fondava sul principio a suo modo etico, enunciato fin dal 1584 da Leonardo Salviati nel Lasca, secondo cui le bugie sono permesse nella narrazione storica quando paiono più utili della semplice verità, poiché lo storico deve aver di mira, come il poeta, gli uomini quali dovrebbero essere. Ne consegue che quei falsi restano sostanzialmente ininfluenti dal punto di vista storico-artistico, limitandosi a far da sfondo a un diverso criterio giudicante. Per il quale, fin dalle prime pagine dell'opera e poi ripetutamente, si appella esplicitamente alla "perizia" nel riconoscimento "delle maniere e dei tempi" (I, p. 5; II, p. 8); all'"intelligenza dell'arte" (II, p. 19), che è base allo scrutinio delle "maniere" intese come "universali modi di adoperare" (ibid.); alla indispensabilità e alla superiorità delle conoscenze specifiche degli addetti ai lavori, rispetto a quelle generiche e fallaci dei letterati, in materia di giudizio sull'opera concreta (ibid.). Di cui la "cura di usare le voci ed i vocaboli particolari e propri delle nostri arti", "le nostre voci pittoriche", a preferenza dei termini "leggiadri e scelti dalla delicatezza degli scrittori" (I, p. 18). Ed è indispensabile aggiungere subito che, come la nozione di "maniera" correlata ai "tempi", e d'"intelligenza dell'arte", introduce direttamente all'"intelligenza delle maniere" che il Lanzi avrebbe saldato qualche decennio più tardi a "luoghi, tempi e avvenimenti" e ai "cangiamenti dell'arte" (I) pp. 3-20 passim),la "cura" per il linguaggio "proprio delle arti" risulta in parallelo (se addirittura non l'anticipa) con l'interesse che il conte di Caylus, già amico di Watteau, dichiara per la lingua artistica degli studi: "cette langue plus vivante qu'aucune autre et qui se ressent toujours du feu qui l'a fait naître" (cfr. in R. Longhi, Proposte per una critica d'arte, in Puragonc, I [1950], 1, p. 12).

Ebbene, è in forza di questi principi di competenza specifica che il D. ordina le "maniere" e i "tempi" nella parte non testimoniale della sua opera; ed è per tal ragione che merita credito l'osservazione di Previtali (1964, pp. 67 s.) secondo cui lo scrittore "inventa" "le personalità dei vari Pippo Tesauro, Masuccio, Tommaso di Stefano ecc. ... con un procedimento che non differisce poi molto da quello degli storici contemporanei quando raggruppano opere legate da analogie stilistiche sotto nomi-simbolo come Ugolino Lorenzetti, Maestro della Madonna Rucellai ecc."; per altro con un risultato, dal punto di vista del corpus di opere volta a volta mandato sotto i nomi d'invenzione, che non fa apparire tali personalità "più incoerenti di quanto fossero divenute a quell'epoca, a furia di opere disperse e incongrue aggiunte, quelle di Giotto, Masaccio, Mantegna ecc.". Occorre tener presente, inoltre, che se le personalità appaiono disegnate con tali avvertenze, il D. mostra anche di saper tracciare "con ordine le tappe di una vicenda non troppo distante dal vero", e, sotto le varie imprese onomastiche, tende in realtà a individuare momenti storico-artistici definiti e distinti, coincidenti nella sostanza con quelli che la critica moderna viene riscoprendo: il momento svevo, quello pre- e protogiottesco, il momento giottesco vero e proprio, con l'esito conseguente della nascita di una vera nazione pittorica napoletana (cfr. Bologna, 1969, pp. 5-7). Ma sotto questo riguardo il punto più raro, e ancora in attesa di esser messo in valore compiutamente, è che nel proemio al primo tomo delle Vite, e poi di nuovo nel proemio al secondo, il D. traccia, sia pure dal suo punto di vista, una vera e propria rivalutazione dell'arte altomedievale. Al fatto che lo scrittore attribuisca a Luca Giordano il merito di aver riscoperto e valorizzato le "pitture antichissime" ancora oggi esistenti nelle catacombe di S. Gennaro ("volle con tutti i suoi discepoli portarsi in quelle grotte per osservarle, siccome fece più volte, prendendo in sue mani la fiaccola accesa, e quelle mirando disse ... : che giammai egli avrebbe potuto immaginarsi, che pitture in que' primi secoli operate fussero così buone, e ben disegnate": I., p. 41), è stato opposto che si tratterebbe ancora una volta di un'invenzione e di un falso (cfr. Dacos, 1969, pp. 141 s., di contro a Bologna, 1962, p. 6, e implicitamente anche a Previtali, 1964, pp. 68 s.); ma non s'è rifiettuto che rimarrebbe comunque innegabile l'interesse personale dei D. il quale attesta per giunta che esso era condiviso da Niccolò Maria Rossi, "virtuoso discepolo del nostro ... Solimena" sceso addirittura a "copiare" quelle pitture (I, p. 42); né poi la distanza cronologica tra il D. e Giordano è incolmabile, tanto più che s'è visto quali rapporti intercorressero a suo tempo tra i due. Il D., d'altronde, enuncia un preciso criterio relativistico: "quella laude non riguarda se non quel tempo medesimo" (II, p. 21); essa vale "riguardo a que' tempi, ne' quali la Pittura era assai povera di quelle ricchezze, di cui oggi va ricca e adorna" (II, pp. 10 s.). Nondimeno, egli si pone alla ricerca del "lume" Cw "taluni di più alto ingegno" riescono a far trapelare anche dalla "barbarie stessa dei tempi" (ibid.), e valuta con competenza vari altri momenti cruciali del Medioevo più antico. Tra il molto che attende ancora di essere scrutinato, il D. rileva la "gran diversità" esistente tra le varie sculture dell'arco di Costantino in Roma (riprendendo un'osservazione che è già nella nota lettera a Leone X ora attribuita a Raffaello, pubblicata per la prima volta nel 1733 a Padova, in appendice alle opere dei Castiglione); insiste sull'esistenza d'una fase "costantiniana" dell'arte napoletana (scambiando per costantiniano il mosaico dei trecentesco Lello da Orvieto a S. Restituta, che però tramanda di fatto una iconografia antichissima), e segnala "un qualche lume del buono" nelle "pitture ... della Scodella di San Giovanni in Fonte, fatte a mosaico" dal suo Tauro (I, pp. 36, 37, 38 s.). Ma è un exploit autentico quello che s'incontra nella prefazione al secondo tomo, dove, ritornando con strumenti migliorati sulla questione dell'esistenza e del valore di una produzione artistica ben anteriore al "risorgimento" dell'arte che Vasari vorrebbe situare a Firenze e far decorrere da Cimabue e Giotto, il D. esce a citare - ed è il primo a farlo, fra gli storici dell'arte - quello stesso passo dell'Apologia ad Guillelmum di s. Bernardo di Chiaravalle (cfr. J.-P. Migne, Patr. Lat., CLXXXII, coll. 915 e ss.) che la critica moderna ha utilizzato con varia intenzione, ma con insistenza (M. Shapiro, E. Panof:sky, U. Eco, F. Bologna, G. Duboy ecc.), a prova dell'ammirazione ed intelligenza che gli stessi contemporanei avevano maturato nei confronti della "mira quaedarn deformis formositas, ac formosa deformitas" della grande arte romanica. Occorre dire, infine, che questa "medievistica" dedominiciana, abbastanza precoce nel quadro della riscoperta settecentesca dei "primitivi" (tanto più se ebbe un precedente in Luca Giordano), acquista un senso storico più preciso nel contesto dei vari ritorni al Medioevo promossi notoriamente dalla cultura storica, giuridica e filosofica di Napoli, non solo con Vico, che il D. frequentava, ma con D. Aulisio e P. Giannone.

Le sezioni successive delle Vite, fino alla grande trilogia di Giordano, Preti e Solimena, nonché dei discepoli di tutti e tre, sono state saggiate e utilizzate già a sufficienza dalla vasta letteratura cresciuta negli ultimi tempi su tutti gli aspetti del Cinque, Sei e Settecento meridionale; né occorre riaffermare l'ovvio: che esse acquistano per gradi una crescente capacità di testimonianza, a misura che dal passato prossimo, per il quale il D. dice di aver fatto in tempo a raccogliere le memorie di vecchi artisti superstiti (a parte Giordano e Preti in extremis, il padre Rairnondo, Solimena, Nicolò Marigliano novantaquattrenne nel 1728, Francesco Viola anch'egli sui novanta all'epoca: I, p. 17; e ancora Nicola di Andrea Vaccaro: III, pp. 220 e 227), ci si avvicina all'oggi, quando interviene di regola la forza dell'attestazione di fatto: "l'ho visto fare, l'ho udito di persona". Ciononostante, restano ancora in ombra vari altri aspetti impliciti nelle sezioni moderne delle Vite.

Intanto, il D. vi dimostra una conoscenza capillare della letteratura artistica cinque-, sei- e protosettecentesca, italiana e straniera, - tra l'altro, cita e utilizza Sandrart (III, pp. 221, 223) e persino Félibien (II, p. 18) -; mostra altresì una pratica straordinaria dei pittori, dei mecenati, dei collezionisti, degli stessi mercanti, anche in tal caso italiani e stranieri, che operavano stabilmente o scendevano a Napoli per missioni spesso non prive di conseguenze artistiche. E chi sarà stato il "Monsieur Gascon" (III, p. 222), 0 "Gascard" (III, p. 227), "che d'ordine del Gran Luigi XIV, venne a comperar quadri di autori insigni, e le opere del Falcone pagò a carissimo prezzo"?.

In secondo luogo, merita nota che una delle obiezioni principali mosse dal D. al Vasari è di aver da un lato depresso Tiziano e tutti i grandi veneziani del Cinquecento (al punto di aver preteso che un'opera del fiorentino Francesco Salviati fosse "la più bella pittura che sia in Vinegia", anteponendo così un Salviati "a' primi lumi dell'arti nostre; cioè a dire, a Tiziano, al Bassan Vecchio, a Paolo Veronese, al Tintoretto": I, p. 111); da un altro lato, di aver fatto poco conto dei Correggio ("troppo in accorcio lodato dal Vasari", donde la reazione di Scannelli e di padre Orlandi: I., p. 8), e di aver sottovalutato l'intera scuola "Lombarda", della quale, appunto, "è degnissimo capo l'ammirabile Antonio da Correggio" (ibid.). Queste due prese di posizione' risultano infatti fondamentali per comprendere come, sebbene lo scrittore dichiari di considerare supremo ed esemplare l'asse che da Raffaello discende ad Annibale Carracci, al'"non mai abbastanza lodato" Domenichino e a Carlo Maratta, i quali tutti "hanno con l'arte nascosta l'arte" (I, pp. 9 s.), in realtà lasci la porta apertissima a un apprezzamento di tutte le varietà del "barocco": sia nella trascolorante libertà coloristica di Luca Giordano, sulla scia neoveneta di Rubens e Pietro da Cortona; sia nel "guercinismo" voltato in "veronesismo" di Mattia Preti; sia nelle valenze neocorreggesche di Lanfranco, miste di nuovo a Pietro da Cortona e a Giordano, che agiscono nelle opere di Solimena anteriori alla mutazione segnata, al dire del D., dal S. CriStoforo di Monteoliveto.

In terzo luogo, e lasciando per presupposto quanto s'è appena visto, il D. dichiara in un punto (anche se solo in rapporto alle miniature di un tal Anticone, che per ora risulta imprendibile: I) pp. 393 s.) l'ammirazione per le opere che "sono con gran forza dipinte, usando gran masse d'ombre e poco lumi"; aggiungendo subito: "ottima regola per chi vuol far comparire le opere sue da maestro, e con intelligenza dipinte" (ibid.). Ad evidenza, qui siamo alla svolta nella maturazione degli orientamenti napoletani di primo Settecento segnata dalla ripresa tenebristica e neopretiana di F. Solimena in chiave di "ottima regola"; per giunta il parere sembra echeggiare abbastanza da vicino quello dell'arcade Gian Vincenzo Gravina, secondo cui "agl'intendenti in pittura piace meglio una immagine dipinta con colori oscuri, che in quella oscurità esprima bene quel che si vuole esprimere, che non un'altra che, con esser dipinta di vaghi e vivi colori, manchi nell'espressione" (G. V. Gravina, Esposizione della dottrina del Calopreso ad introduzione del commento di questi alle rime del Della Casa, ante 1718, in G. Della Casa, Opere, Venezia 1728, II, pp. x s.). Tuttavia, occorre non trascurare che sul filo di questo ritorno dei gusto a "usare gran masse d'ombre e poco lumi", Solimena favente e Preti ripreso a modello, il D. stava guadagnando l'attitudine ad apprezzare Caravaggio e l'intero Seicento "naturalistico". Per ragioni alle quali forse non era estranea la preoccupazione dell'imprimatur, egli continuava a condividere la riserva di matrice carraccesca e belloriana nei confronti del "naturale ignobile" di Caravaggio e dell'"idea bassa e indecente al rappresentato" che quegli aveva messo in opera dipingendo la Resurrezione di Cristo; nonostante ciò, egli seppe apprezzare la "nuova maniera di quel terribile modo di ombreggiare, la verità di quei nudi, il risentito lumeggiare senza molti riflessi [che] fece rimaner sospesi non solo i dilettanti, ma i professori medesimi" (III, p. 41). Il D. prendeva così a partecipare per tempo anche. al complesso e un po' disperso movimento settecentesco volto per tutta Europa al recupero sia critico che esemplare del Seicento caravaggesco, in vista del recupero sperimentalmente illuministico della "natura", principio e fondamento della realtà.

È altresì interessante ricordare che il D. stesso riferisce d'essere stato sollecitato in casa Valletta dal paesista francese ClaudeJoseph Vernet, in visita a Napolì verso il 1742-43, a rivendicare contro Salvator Rosa il merito di Bernardo Cavallino (III, pp. 714 s.); il qual merito, secondo il D., era consistito principalmente nel "grande intendimento del lumeggiare", in una "maniera, che ad un tempo stesso sembra dolce ..., ma con grande arteficio di chiaro scuro, e con grandi abbattimenti di lumi, e di ombre, grave e robusta" (III, pp. 161 s.; per l'intera questione dei recuperi seicenteschi nel Settecento, di quanto qui sintetizzato e di altro ancora in rapporto al tema, cfr. Bologna, 1985, pp. 306-309, 343 s.). Resta da rilevare, per ultimo, che le Vite con cui l'opera tocca il limite cronologico più avanzato e accenna a sorpassare Solimena - quelle dedicate agli architetti-pittori D. A. Vaccaro e F. Sanfelice -, sembrerebbero comportare una certa adesione dello scrittore alle scelte asolimeniane, se non antisofimeniane, dei maggiori discepoli di Solimena stesso, che si erano aperti al tardobarocco austriaco e appairivano avviati al rococò mediante il recupero della "struttura voltata in ornamento" di Cosimo Fanzaga. V'è motivo di credere, tuttavia, che il D. rimanesse in bilico su questo punto cruciale. Proprio nella Vita di Fanzaga aveva apprezzato senza riserve i "bizzarri pensieri" del maestro, ma sì era affrettato a definirli "senza affettazione" e a contrapporli alle "mal concepite stravaganze, che usano a' nostri giorni alcuni, che credono fare da capricciosi" (III, p. 381). Inoltre, proprio sul punto di chiudere l'ultimo tomo della storia, e certo quand'esso era ormai stampato, lo riaprì per aggiungervi l'elogio delle opere estreme, sia pittoriche sia poetiche, di Solimena stesso, "artefice si glorioso alla patria, ed illustre appresso il Mondo" (IV, pp. 627-30).

Il D. morì a Napoli nel 1750 circa.

Fonti e Bibl.: Oltre alla bibl. in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, IX, p. 414 (sub voce Dominici, Bernardo de), si veda: A. Comolli, Bibliografia storico-critica dell'archit. civile ed arti subalterne, II, Roma 1788, pp. 244-53; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia [1809], Firenze 1968, I, p. 455; L. Catalani, Discorso sui monumenti patrii, Napoli 1842, pp. 5, 7-14, 16, 20-25, 27-29, 43 s., 56; G. Frizzoni, Napoli nei suoi rapporti coll'arte del Rinascimento, in Arch. stor. ital., s. 4, I (1878), pp. 496-523; Il (1878), pp. 76, 79, gi; N. F. Faraglia, Le memorie degli artisti napoletani pubblicate da B. D., in Arch. stor. per le prov. napoletane, VII (1882), pp. 329-64; VIII (1883), pp. 83-110, 259-86; B. Croce, Sommario critico della storia dell'arte nel Napoletano, I, Il falsario, in Napoli nobilissima, I (1892), pp. 122-26, 140-44 (riediz. aggiornata: B. D., in Aneddoti di varia letteratura, 2 ed., II, Bari 1953, pp. 323-44); G. Ceci, Il primo critico del D., in Arch. stor. per le prov. napoletane, XXXIII (1908), pp. 617-36; A. Borzelli, Luca Giordano, l'"Anonimo", e B. D., Napoli 1917, pp. 19-37; E. Petraccone, Luca Giordano, a cura di B. Croce, Napoli 1919, pp. 17-30, 169; J. Schlosser, [Die Kunstliteratur, Wien 1924], La letterat. artistica (3 ediz. ital.), Firenze 1964, pp. 472, 533, 604 ss.; A. De Rinaldis, in Encicl. Ital., XII,Roma 1931, p. 477; G. Ceci, Bibliografia delle arti figurative nell'Italia meridionale, Napoli 1937, ad Indicem; A. Borzelli, B. D. Nota, Napoli 1940; F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958, pp. 157-61, 171 s. n. 50, 209 s. e passim; Id., La pittura italiana delle origini, Roma-Dresda 1962, p. 6; G. Previtali, La fortuna dei primitivi. Dal Vasari ai neoclassici, Torino 1964, pp. 67 ss.; N. Dacos, La découverte de la Domus Aurea..., London-Leiden 1969, pp. 141 s.; F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma 1969, pp. 4-8 e passim; N. Spinosa, in Diz. enciclopedico Bolaffi..., IV,Torino 1973, p. 182 (sub voce Dominici, Bernardo de); L. Grassi, Teorici e storia della critica d'arte, pt. II, Il Settecento in Italia, Roma 1979, pp. 53 s., 56-61, 73, 195; F. Bologna, Gaspare Traversi nell'illuminismo europeo, Napoli 1980, pp. 43 s.; Id., Ancora di Gaspare Traversi nell'illuminismo …, in Atti del Convegno I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, Napoli 1985, II, pp. 306-309, 343 s.; Th. Willette, B. D. e le Vite..., contrib. alla riabilit. di una fonte, in Ricerche sul'600 napol., V (1986), pp. 255-69. A questi scritti, che con maggiore o minore ampiezza trattano del D. dal punto di vista degli orientamenti culturali, dei metodo storiografico, della storia delle edizioni delle sue opere e del valore storico-critico generale di esse, occorrerebbe aggiungere tutti gli altri scritti (monografie su personalità e su epoche, edizioni di testi e guide sei-settecentesche, cataloghi di mostre, saggi sul collezionismo, ecc.) che hanno utilizzato le Vite come fonte, o ne hanno discusso i giudizi in rapporto a momenti, persone e opere singole. Ciò equivarrebbe, tuttavia, a estendere l'elenco all'intera storiografia dell'arte napoletana, o documentata per opere a Napoli, dal IV al XVIII secolo. Utili riferimenti a concetti e a termini particolari usati dall'autore sono in L. Grassi-M. Pepe, Dizionario della critica d'arte, I-II,Torino 1978, passim.

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