BEZERRA de la Quadra, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967)

BEZERRA de la Quadra, Giovanni

Giuseppe Scichilone

Nato in Estremadura nella prima metà del sec. XVI e abbracciata ancor giovane la carriera ecclesiastica, entrò a far parte del tribunale dell'Inquisizione nel 1558, conquistandosi rapidamente l'apprezzamento dell'inquisitore generale di Spagna, che il 2 sett. 1562 lo nominava inquisitore del Regno di Sicilia (nomina esecutoriata il 5 febbr. 1563).

Raggiunta l'isola, e preso anche possesso dell'abbazia della Magione in Palermo, il B., uomo dotato di notevoli capacità organizzative, poneva mano a una intensa opera di riordinamento e potenziamento del tribunale. Egli si preoccupò, infatti, che gli ufficiali del tribunale ispezionassero attentamente i vascelli che attraccavano nei porti siciliani per appurare se essi trasportassero stampe o libri proibiti; spiegò un'intensa azione per accentuare il controllo sui fedeli e, per ottenere che essi si accostassero con maggiore frequenza alla confessione, chiedeva ai parroci "di fare la lista di tutti coloro che si confessano e comunicano". Tutta quest'azione il B. accompagnava con richieste insistenti a Madrid di aumento del numero degli ufficiali addetti al tribunale.

Nel primo periodo della sua permanenza in Sicilia il B. fu agevolato, nello svolgimento della sua opera, dalla particolare atmosfera di acquiescenza che circondava il S. Uffizio: era il tempo del viceregno del duca di Medinaceli, che giustamente venne definito "il tempo d'oro dell'Inquisizione" (Garufi). I rapporti tra Inquisizione e viceré dovevano acquistare tono diverso col giungere nell'isola del successore del Medinaceli, don Garzia di Toledo, che con azione pronta e decisa mirava a fiaccare l'autorità del BezerraGià a pochi mesi dall'arrivo dei nuovo viceré, sulla fine del gennaio 1566, l'inquisitore si lamentava col sovrano per le sue "intromissioni". Si era alle prime avvisaglie di una vera e propria lotta giurisdizionalistica con la quale il viceré mirava a impedire che l'Inquisizione, con l'affermazione incondizionata dei diritti del foro particolare per i suoi ufficiali e familiari, dei privilegi e delle esenzioni in fatto di dogane e gabelle, accrescesse il suo potere.

Sembra che l'acme dell'attrito tra i due contendenti sia stato raggiunto in conseguenza di una grave vertenza feudale che vide un familiare del S. Uffizio chiamato in giudizio davanti alla Gran Corte e al viceré. In questa situazione di notevole attrito il B. mostrò di non essere disposto ad abbandonare il campo per primo; anzi si preoccupò spesso di sviluppare iniziative tese a mettere in cattiva luce l'avversario di fronte al sovrano e al grande inquisitore di Spagna.

Così va interpretato il lungo rapporto inviato all'inquisitore generale nel luglio del 1567 da don Lope Villegas de Figueroa, capitano del S. Uffizio, teso a difendere il tribunale dall'invadenza e dalla strapotenza del viceré, che minacciava di sminuirne l'autorità e le capacità operative.

Con la partenza del viceré sembrò forse al B. di aver avuto partita vinta, ma in verità Carlo d'Aragona, principe di Castelvetrano, che prendeva in mano il govemo dell'isola come presidente del Regno, si rivelava non meno deciso dei suo predecessore, e subito esortava ufficiali regi e giudici a procedere contro i rei "non obstanti qual si voglia lettera inibitoria et… di qualsivoglia foro che vi fossero presentati".

Sostanzialmente il punctum dolens era sempre lo stesso: la rivendicazione del diritto d'intervento da parte dello Stato nei confronti di un istituto, i cui appartenenti tentavano di sfuggire alla giurisdizione ordinaria. Giudici della Gran Corte e ufficiali regi, che avevano. resistito all'invadenza dell'Inquisizione, si trovarono coinvolti ìn processi loro intentati o fatti intentare dall'inquisitore. E lo stesso presidente del Regno fu incriminato dal B. per aver fatto condannare un familiare del S. Uffizio, reo di resistenza agli ufficiali regi, e fu condannato a fare pubblica penitenza e a pagare 200 ducati. Filippo II, che pur apprezzava l'opera del suo collaboratore, approvava la sentenza del S. Uffizio e la notificava direttamente all'interessato il 29 apr. 1568.

Anche questa volta il B. - che in momenti particolari della sua azione usò anche servirsi di messaggeri speciali per tenere direttamente informati il sovrano e l'inquisitore generale sull'evolversi della situazione - poteva dire d'avere avuto partita vinta.

Dopo questo episodio e col giungere a Palermo del nuovo viceré, il marchese di Pescara, la lotta giurisdizionalistica subiva una battuta,di arresto. Ed è probabile che sia stata la stessa corte madrilena a suggerire al marchese di Pescara di agire in modo da favorire una certa distensione. Il B., nel dare notizia all'inquisitore generale dell'autodafé svoltosi in Palenno il 26 giugno 1569, esprimeva il suo apprezzamento per il fatto che il viceré, assistendo con la viceregina alla cerimonia, ne aveva accresciuto la solennità: in un messaggio al sovrano il B. diceva del marchese "que favoresce las cosas deste S Ufficio".

Ma la tregua doveva durare ancora per poco: già nel settembre del 1570 il B. tornava a ergersi contro i giudici della Gran Corte criminale perché rimettessero all'Inquisizione alcuni ufficiali e familiari del tribunale accusati di avere ucciso un giurato di Licata e sottoposti alla giurisdizione ordinaria dal capitano d'armi di quella città. Poco dopo il B. assumeva un atteggiamento persecutorio nei riguardi dei gesuiti, che pur in altri tempi aveva favorito, in conseguenza di un futile equivoco in cui aveva intravisto un'offesa alla propria dignità. Il vicerè ebbe a dolersi di quest'azione svolta contro i gesuiti e, oltre a lamentarsi per il mancato rispetto nei suoi riguardi, accusò apertamente il B. di appoggiare alcuni nobili che tentavano di ostacolare l'attuazione della riforma dei tribunali. Qualche anno dopo Scipione di Castro scriverà: "Col Marchese di Pescara passò tant'oltre l'insolentia di B., che fu sforzato scrivere al Re che B. et lui non potevano stare nel medesimo Regno".

D'altra parte il viceré non accennava a piegarsi e, insistendo nega sua azione limitatrice del privilegio dei foro speciale, l'8 aprile 1570 pubblicava un capitolo con cui stabiliva che ufficiali e familiari del S. Uffizio "in crimine concubinatus et percussione religiosorum non gaudeant foro" e dovessero sottostare al Giudizio del tribunale ordinario. Questa improvvisa limitazione dei poteri dell'Inquisizione doveva naturalmente rendere più tesi i rapporti tra viceré e inquisitore, che poco tempo dopo entravano nuovamente in una fase critica.

L'incentivo alla nuova disputa fu dato dalla pubblicazione della bolla In coenaDomini,che avvenne in Sicilia con la semplice approvazione del B. e dell'altro inquisitore, senza essere stata presentata al vicerè per l'exequatur.Il marchese di Pescara considerò l'atto un abuso di potere del B. e, interpellato il Sacro Consiglio di monarchia, non riconobbe la validità della pubblicazione.

Il sovrano, informato minutamente della questione, nonostante gli appunti mossi dal Consiglio d'Italia al comportamento del B., non fece alcuna solenne approvazione dell'operato del suo vicerè, né fece sentire la sua parola di riprovazione all'inquisitore di Sicilia. Egli, "por guardar el decoro y respecto que se deve a los ministres de S. Officios", si limitava a chiedere al cardinale Spinoza, grande inquisitore, di far giungere il suo richiamo agli inquisitori di Sicilia.

La morte del marchese di Pescara servì a dirimere la controversia. Il 10 giugno 1572 il B. celebrava con particolare solennità un altro autodafé, di cui poi dava minuto conto in una relazione inoltrata al grande inquisitore. Fú questo l'ultimo atto solenne da lui compiuto nel suo ufficio perché di lì a poco, sottoposto a "sindacatura" da monsignor Quintanilla, visitatore generale dell'Inquisizione, veniva sospeso dalle sue funzioni.

Il B. lasciava Palermo il 1° sett. 1572 destinato, come visitatore dell'Inquisizione, in Catalogna, e lì, poco tempo dopo, egli moriva.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Palermo, Real Cancelleria,vol. 403, ff. 302, 382, 384, 682; Palermo, Biblioteca Comunale, Doc. originali dell'inquisizione di Sicilia nel sec. XVI,ms. Qq. F. 51, ff. 4, 8 s., 17 s., 23, 27, 38 s., 146, 328, 392; Ibid., Scritture diverse appartenenti al Tribunale del S. Uffizio,ms. Qq. F. 239(sec. XVI-XVIII), passim (ff.n.n.); Ibid., Del Tribunale della S.S. Inquisizione: Origine, Spettacoli, Inquisitori,ms. Qq. E. 69, n. 27(sec. XVIII), ff. 338, 352;L. Paramo, De origine et progressu officii Sancrao Inquisitionis…,Madrid 1598, p. 216;A. Mongitore, Monumenta historica sacrae domus Mansionis S.S. Trinitatis,Palermo 1721, pp.162-162;A. Franchina, Breve rapporto del Tribunale della S.S. Inquisizione di Sicilia,Palermo 1744, pp. 30, 31, 43, 44, 45-48, 71-75, 93-94;V. La Mantia, Origine e vicende dell'Inquisizione in Sicilia.Torino1886,pp. 56 s., 58 n. 1, 59; Id., L'Inquisizione in Sicilia. Serie dei rilasciati al Braccio secolare (1487-1732),Palermo 1904, pp. XV, 41; C. A. Garufi, Contributo alla storia dell'inquisizione di Sicilia nei secc. XVI e XVII,Palermo 1920, passim;A. Saitta, Avvertimenti di don Scipio di Castro a M. A. Colonna…,Roma 1950, pp. 68, 73, 94; 109;H. Koenigsberger, The govemment of Sicily under Philip II of Spain,London 1951, p. 165.

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