BIBBIA

Enciclopedia Italiana (1930)

BIBBIA


(fr. bible; sp. biblia; ted. Bibel; ingl. btble).

Sommario: Natura e carattere della Bibbia: Nome e divisione, autorità e ispirazione, p. 879; numero dei libri e canone, p. 882; ordine dei libri e carattere generale, p. 884. - Testo: i libri dell'Antico Testamento, p. 886; del Nuovo Tesatmento, p. 888.- Versioni: greche dell'Antico Testamento, p. 892 (Settanta, altre versioni, p. 892; il Greco Veneto, le Esaple e altre recensioni, p. 893); aramaiche, siriache, copte, etiopica, p. 894; arabe, armene, georgiana, gotica, paleoslava, p. 895; latine, p. 896 (precedenti s. Gerolamo, p. 896; Volgata, p. 897); italiane, p. 899; francesi e provenzali, p. 903; spagnuole, p. 904; catalane, portoghesi, tedesche, p. 905; inglesi, p. 906; olandesi, svedesi, danesi, islandesi, norvegesi, irlandesi, finniche ecc., lituane ecc., bulgare, p. 907; cèche, polacche, russe, serbo-croate, slovene, ungheresi, neo-elleniche, romene, ebraiche del Nuovo Testamento, p. 908. - Lettura: pubblica, p. 908; privata, p. 909; usi e abusi, p. 910. - Interpretazione: l'esegesi antica, p. 911; l'esegesi scolastica, p. 912; scienze ausiliari, e Bibbie poliglotte, p. 913; l'esegesi moderna, p. 91; ermeneutica, p. 915. - Bibliografia generale, p. 916. - La Bibbia nella letteratura, p. 918. - La Bibbia nell'arte, p. 919. - Codici ed edizioni di maggior pregio, p. 922 (La Bibbia amiatina, la Bibbia di Carlo il Calvo, p. 923; la Bibbia di Borso d'Este, p. 924; la Bibbia mazarina, p. 925).

Natura e carattere della Bibbia.

Nome e divisione. - Il nome di Bibbia viene dal plurale neutro greco βιβλία "i libri" (per eccellenza); il latino volgare, adottato quel nome, ne fece, al solito, un femminile singolare, e con questa forma passò alle lingue moderne. Bibbia designa dunque il complesso dei libri che le chiese cristiane considerano come sacri. Perciò, equivalente di questo termine è Sacra Scrittura, o semplicemente Scrittura per eccellenza, analogamente al greco ᾑ γραϕή, o, al plurale, αἱ γραϕαί, αἱ ἱεραί γραϕαί, τὰ ἱερὰ γράμματα, termini già usati nell'antichità e rimasti in uso presso i Bizantini e i Greci moderni.

Presso tutti i cristiani la Bibbia si divide in due parti assai disuguali, dette (con espressioni tolte alla stessa Ribbia) Testamento antico o vecchio, e Testamento nuovo. Il Nuovo Testamento, che è solo un quinto di tutta la Bibbia, si riferisce tutto alle origini del cristianesimo; l'Antico contiene, in massima, la storia e la letteratura religiosa del popolo ebreo dalle origini sino all'epoca greca, ed è perciò tenuto per sacro anche dagli Ebrei o Israeliti. Presso di loro però è piuttosto raro e moderno l'uso del termine Bibbia, come pure di Antico Testamento. Per lo più essi nominano distinte le tre parti in che lo sogliono dividere: tōrāh, "Legge" o "Pentateuco", nĕbhi'īm "Profeti", e kĕthūbhīm, "Scritti" (alla greca "agiografi"): divisione antichissima, che già troviamo nel prologo dell'Ecclesiastico (v.) circa l'anno 130 avanti Cristo. Termini complessivi per tutto l'Antico Testamento in ebraico sono miqrā ("lettura"), tanak (voce di gergo formata dalle iniziali delle dette tre parti), sĕphārīm ("libri"), kithbē haqqodesh ("libri sacri").

Ogni libro si suol dividere in capi, e ogni capo in versetti, per comodità di citazione e di ricerca. La divisione in capi ora usata fu introdotta circa l'anno 1214 dall'inglese Stefano Langton nell'università di Parigi, e di là si diffuse dappertutto; i manoscritti anteriori al sec. XIII, sia latini sia greci, portano altri sistemi, taluni antichissimi, di capitolazione. La divisione in versetti ha diversa origine per l'Antico e per il Nuovo Testamento. Quella usata ancor oggi nell'Antico Testamento rimonta in sostanza alle scuole giudaiche dei primi secoli d. C. (v. sotto, p. 886-887), nelle quali si contavano i versetti di ogni libro e se ne notava la somma. I numeri dei versetti per ogni capo cominciarono a segnarsi in margine solo da sante Pagnini nella sua versione latina di tutta la Bibbia (v. sotto, p. 899). Lo stesso Pagnini al medesimo tempo divise pure il Nuovo Testamento con un sistema simile di versetti, che però non ebbe voga. La divisione ora in uso si deve a Roberto Stefano (Estienne) che la diede in pubblico nella sua Bibbia latina (Ginevra 1555). Nessuna delle divisioni, né in capi né in versetti, è del tutto soddisfacente; ma si continuerà a usarle per comodità e chiarezza. Una diversa divisione in. trodotta da Sisto V nella sua celebre Bibbia latina del 1590 (v. sotto, p. 899), non sopravvisse all'energico papa.

In antichi manoscritti greci e latini si trova indicata (in fine del testo o a parte, come nel Sangallese 133 o Canone mommseniano) la somma dei versus o στίχοι di ciascun libro. A base di tal computo sta una misura ideale, una linea di circa 16 sillabe, che in media è poco più di un terzo dei nostri versetti derivati dagli scribi. Quella stichometria, com'è chiamata, in uso anche per la letteratura profana, fissava la lunghezza di uno scritto e quindi il prezzo di copiatura. Diversa da questa è la colometria, o lo scrivere per cola et commata, dando cioè una linea a ciascun membro del periodo; modo introdotto per facilitare la lettura prima che si usasse l'interpunzione (v. eutalio; cfr. anche Patrologia Graeca, LXXXV, col. 629; XCIII, col. 1339; Patrologia Latina, XXVIII, col. 771; LXX, col. 1109); per le divisioni fatte per scopi liturgici, v. p. 908 seg.

Autorità e ispirazione. - Donde viene alla Bibbia quel posto privilegiato nella letteratura religiosa, che la fa proclamare libro sacro, il libro per eccellenza? È una questione fondamentale che domina tutte le seguenti, canone, testo, interpretazione.

I più antichi documenti, che appartengono ancora al periodo di formazione della Bibbia, portavoce di quelle generazioni sia giudaiche sia cristiane che collocarono la Bibbia in quel luogo eminente che si è visto, ci dicono: la Bibbia è parola di Dio, ovvero: la Bibbia è ispirata da Dio. Sono due formule non propriamente sinonime, ma correlative come di causa a effetto, ed equivalenti per le conseguenze logiche e dottrinali. Il loro senso è già quanto è possibile chiaro negli scritti dei profeti (v.). "Così parla il Signore (Jahvè)", o "Questo dice il Signore" sono le formule più ordinarie, con le quali incominciavano i messaggi e i vaticinî dei profeti, che conchiudevano sovente con la sinonima: parola di Jahvè" (nĕ'um Yahweh; nĕ'um è radice ebraica non adoperata mai fuori di questa espressione tecnica). Sentivano dentro di sé Dio, che loro suggeriva ciò che dovevano dire (Amos, III, 7,8; Geremia, XX, 7-9; Isaia, VI, 8,9, ecc.), e lo comunicavano come parola di Lui.

Non altrimenti quando mettevano in iscritto i loro messaggi. In Ger., XXXVI (un capo di eccezionale importanza per la storia letteraria ebraica) leggiamo: "Nell'anno quarto di Joakim re di Giuda, fu da Jahvè diretto a Geremia l'ordine seguente: Prenditi un rotolo da libro e scrivici sopra tutte le parole che io ti ho rivolte contro Gerusalemme e contro Giuda e contro tutte le genti, dal giorno che cominciai a parlarti sino a oggi" (1, 2); e il profeta eseguisce l'ordine dettando "le parole di Dio" al suo segretario Baruc (4-8) con quel successo che istruttivo è leggere nella fonte. Più direttamente altrove lo stesso profeta riceve ordine di scrivere: "Parola diretta da Jahvè a Geremia: Cosl parla Jahvè, Dio d'Israele: Scriviti su di un libro tutto ciò che io ti dico" (Ger., XXX,1) e segue il messaggio nuovo da stendere a penna.

Il messaggio dei profeti, pronunciato o scritto, è dunque parola di Dio. I modi con cui essi lo ricevono e l'intendono, possono essere varî (v. Profeta), ma tutti si comprendono nel termine generale "ispirazione divina" (cfr. Isaia, LXI,1; Ezechiele, XI, 5, ecc.).

Ispirazione a scrivere, e ispirazione a predicare, vediamo qui darsi la mano; ma possono essere separate, e sono insomma diverse per l'origine e per il termine. Dell'ispirazione a predicare è sempre avvertita e riconosciuta l'origine divina: nell'ispirazione a scrivere, ch'è propriamente l'ispirazione biblica, lo scrittore per lo più non è conscio della propria ispirazione. Al contrario, l'ispirazione a scrivere è tanto più certa ed efficace nel suo termine (il libro), quanto la parola scritta è, di sua natura, più stabile e valida che la parlata. Pure l'ispirazione biblica ha tanto di comune con la profetica, che presso gli antichi "profeta" è sovente sinonimo di "scrittore ispirato" (agiografo); anzi, per una trattazione metodica dell'ispirazione biblica come distinta dalla profetica, bisogna scendere fino ai tempi moderni. Bastino qui, a prova di quest'uso e della dottrina in genere, i più antichi testimonî della fede giudaica e della cristiana. Giuseppe Flavio, vantando la superiorità delle Scritture ebraiche sulle altre, con l'occhio specialmente alla storia (e agli storici greci in particolare), ne ripone la specialità in questo, che esse sole furono scritte da profeti (μόνων τῶν προϕετῶν......... σψγγραϕόντων) non di proprio arbitrio o impulso (μήτε τοῦ γτάϕειν αὐτεξουσίου πᾶσιν ὄντος) ma per inspirazione venuta da Dio (κατὰ τὴν ἐπίπνοιαν τὴν ἀπο τοῦ ϑεοῦ); e se da tempo (dal regno di Artaserse I, 465-425 a. C., riferisce lo storico) furono bensì scritti altri libri, ma non accreditati come i precedenti, ciò fu perché era venuta meno la successione dei profeti, o almeno la certezza di essa (διὰ τὸ μὴ γενέσϑαι τὴν τῶν προϕετῶν ἀκριβῆ διαδοχήν; cfr. I Maccabei, IV, 46; XIV, 41); perciò era connaturato ai Giudei fin dalla nascita il venerare quelle Scritture come sentenze divine (ϑεοῦ δόγματα; Contra Apionem, I 37-42).

Non diverso linguaggio troviamo negli scrittori del Nuovo Testamento. "Qualunque profezia della Scrittura (leggiamo in II Pietro, I, 20) non è cosa di privato intendimento (ἰδίας ἐπολύσεως οὐ γινεται); perché mai una parola profetica fu portata dall'impulso dell'uomo, ma dallo Spirito santo furono mossi a parlare quei santi uomini di Dio". La II Timoteo, III, 16 ci dà col principio generale anche il termine tecnico: "tutta la Scrittura è da Dio ispirata" (ϑεόπνευστος).

Ispirazione (parola venuta a tutte le lingue moderne dalla Volgata nei due luoghi ora citati) è dunque la più breve e incisiva formula, che compendia i caratteri proprî della Bibbia, è il principio e la ragione della sua preminenza, è il cardine intorno a cui si dibattono le più gravi questioni fondamentali per il valore e l'autorità della Bibbia. Se ne esporranno dunque la natura, l'estensione, le conseguenze secondo che furono variamente intese nel corso dei secoli.

Natura dell'ispirazione. - Prima di procedere, gioveranno alla chiarezza alcune distinzioni. Anzitutto ispirazione non è rivelazione, benché con essa sia connessa. La rivelazione dà nuove cognizioni, l'ispirazione può utilizzare cognizioni già possedute, e così fa almeno nella maggior parte dei casi. Ispirazione è termine assai comprensivo; indica in genere un eccitamento delle facoltà superiori dell'uomo (pensiero e volontà), ma può essere d'assai varia natura secondo la sua origine e il suo termine. In che senso qui s'abbia a prendere l'ispirazione s'intenderà dal già detto: è un impulso eccitato da Dio a scrivere in nome di Lui o almeno sotto la Sua garanzia.

Concetico ellenistico. - La prima teoria dell'ispirazione biblica si ebbe tra i Giudei cresciuti in paesi di civiltà greca o ellenizzata, e imbevuti di idee greche, il cui tipo insuperato fu Filone d'Alessandria. Sotto l'influsso delle idee correnti nel mondo greco (ricordiamo i vantati oracoli di Delfo, di Dodona, di Ammone) Filone, Giuseppe Flavio e qualche scrittore cristiano del sec. II (come Atenagora) riposero l'ispirazione in una specie di estasi mistica, nella quale l'uomo, tutto posseduto dalla divinità e perduta la coscienza di sé, diventa organo passivo delle comunicazioni divine. Tale concetto scomparve fra i Giudei col venir meno dell'ellenismo, fra i cristiani con la reazione contro il montanismo, che pretendeva simili estasi nei suoi profeti e profetesse; Milziade, retore cristiano vissuto circa il 190, scrisse un libro Περὶ τοῦ μὴ δεῖν προϕήτην ἐν εκστάσει λαλεῖν (Eusebio, Hist. Eccles., V, 17), "che un profeta non deve parlare in estasi".

Concetto giudaico. - Il giudaismo talmudico, per dare un'alta preminenza a Mosè e alla Tōrāh (Pentateuco) sopra le altre Scritture, distinse due sorta almeno d'ispirazione: la Tōrāh è opera esclusivamente divina, dettata alla lettera o materialmente comunicata a Mosè in un intimo colloquio con Jahvè. Per gli altri libri la "Shekhināh" (la divina presenza) o lo Spirito santo si posava nell'animo dello scrittore e per esso parlava. Una distinzione e spiegazione di questi ultimi due modi (per i profeti e gli "scritti"), proposta dall'autorevolissimo Mosè Maimonide, con i principî della filosofia arabo-peripatetica, non ebbe gran voga. Nell'ebraismo moderno si vanno sempre più diffondendo le idee più larghe della critica protestante.

Concetto cattolico. - La prima scuola cristiana, l'alessandrina, sebbene subisse fortemente l'influsso dell'ambiente ellenistico, e particolarmente di Filone, non lo seguì però nel concetto dell'ispirazione. Origene, il sommo maestro di quella scuola, polemizzando contro il pagano filosofo Celso (Contra Celsum, VII, 3) pone quale caratteristica della vera ispirazione divina il rimanere sempre pienamente conscio e padrone di sé (cfr. I Corinzî, XIV, 32: "gli spiriti dei profeti ai profeti sono sottomessi"). I profeti ebrei (continua Origene) "illuminati dal divino spirito, divenivano più perspicaci nella mente (διορατικώτεροι τὸν νοῦν) e più luminosi (λαμπότεροι) non solo nell'anima, ma anche nel corpo, non più restio alla vita virtuosa". L'ispirazione dunque, secondo Origene, consisteva essenzialmente in un'illustrazione soprannaturale della mente, accompagnata da un'azione salutare su tutto l'uomo. Altrove egli fa risaltare l'attiva cooperazione dell'uomo: "Non fuori di sé rapiti parlavano i profeti, ma usando delle loro naturali facoltà, di piena scienza e spontanea volontà secondavano la parola a loro diretta" (Hom. VI in Ezech., in Pairol. Graeca, XIII, col. 709).

Questa, in sostanza, può dirsi la dottrina comune dei Padri della Chiesa. Il più acuto e più profondo pensatore fra essi, S. Agostino, fece per il primo una distinzione, ripresa poi ed esposta con la sua solita precisione e chiarezza da S. Tommaso d'Aquino. A ogni cognizione intellettuale concorrono due cose: la presentazione dei termini, e il giudizio che si forma di essi. Ora, allo spirito profetico appartiene propriamente questo secondo, cioè il giudizio (affermazione o negazione) delle cose presentate alla mente. L'illuminazione ispiratrice dello scrittore biblico non apporterà quindi necessariamente nuovi oggetti alla sua mente, ma sempre lo conforterà nel formarsi un giudizio delle cose da dire (Agost., De Genesi ad litt. XII, 9; Tom. d'Aq., Sunma Theol., II, 2, q. clxx111, a. 2; Quaest. disp. de Ver., XII, a. 7, 9). Si tratta sempre, come si vede, d'un impulso previo all'atto dello scrivere.

Alcune controversie sorte fra cattolici in tempi moderni portarono a maggiori precisioni. Sulla fine del sec. XVI due gesuiti belgi (Leonardo Lessio e Giacomo Bonfrère) opinarono, in ipotesi, che un libro potrebbe pur dirsi Scrittura sacra quando o Iddio non facesse più che assistere l'autore nel comporlo in tal modo che non cadesse in alcun errore, o, composto prima con le sole forze umane senza errore alcuno, lo Spirito santo l'approvasse di poi come in tutto verace. Questa dottrina, riprovata dai più, accolta da pochi, da taluni fu poi non solo passata in tesi, cioè che di fatto ci siano di tali libri nella Bibbia (Calmet, Holden, nel sec. XVII e nel XVIII), ma allargata ed estesa al libro che, composto per mera industria umana, fosse poi approvato della Chiesa (Jahn, Haneberg, sec. XIX). Contro quest'ultima opinione il Concilio vaticano dichiarò che "quei (libri) la Chiesa li tiene per sacri e canonici non perché elaborati per sola azione umana, siano stati poscia approvati dalla di lei autorità, né soltanto perché contengano senza errori la rivelazione, ma perché, scritti per ispirazione dello spirito santo, hanno Dio per autore e come tali alla medesima Chiesa furono affidati" (costituzione Dei Filius, c. II, in P.A. Ballerini, Il concilio ecumenico vaticano, Milano 1880, p. 463; cfr. Civiltà Cattolica, 1870, II, p. 328).

Leone XIII nell'enciclica Providentissimus Deus, che si può considerare come la magna charta degli studî biblici per i cattolici (18 novembre 1893), nelle seguenti parole comprese tutta la dottrina cattolica intorno a quell'influsso divino che si chiama ispirazione: "Lo Spirito santo con una forza soprannaturale li eccitò e mosse (gli autori ispirati) a scrivere, li assistette nello scrivere per tal modo, che essi tutto quello e solo quello ch'Egli voleva, rettamente concepissero col pensiero, fedelmente volessero mettere in iscritto, ed acconciamente esprimessero con infallibile verità" (Acta S. Sedis, XXVI, p. 289; Acta Leonis XIII, XIII, p. 358). Tre cose dunque importa l'ispirazione: illustrazione alla mente, impulso alla volontà, assistenza alle facoltà esecutive dell'autore ispirato.

Concetto protestantico. - Il protestantesimo non ebbe da principio idee proprie intorno all'ispirazione della Bibbia, ch'esso non solo ereditò dai secoli precedenti qual libro divino, ma pose quale unica base della sua fede, unica autorità inappellabile in materia di religione. Questa concezione portò nel sec. XVII a esagerare la vecchia dottrina dell'influsso divino spingendolo sino alla dettatura d'ogni singola parola (Calov, Gerhard, i due Buxtorf, Quenstedt, Baier, Hollaz, ecc.). Sullo scorcio del sec. XVIII il razionalismo, propagatosi principalmente in Germania, distrusse nei più, col soprannaturale cui si appoggiava, la vecchia concezione, riducendo l'ispirazione o a una mera azione estrinseca di provvidenza, o a un naturale impulso religioso, non diverso in sostanza dal comune.

Nuove idee recò la teologia soggettivistica o dell'immanenza, che ebbe il suo capo in Federico Schleiermacher. Lo Spirito santo, dice egli, risiede nella comunità dei fedeli e ne è come l'anima. Di questo Spirito, ossia del sentimento della comunità religiosa, sono espressione i libri sacri, dettati da uomini pieni essi stessi di Spirito, ma non più pieni nell'atto dello scrivere , che in qualunque altro momento della loro vita. In luogo dell'ispirazione del libro, sottentra l'ispirazione dell'uomo. È la formula più cara ai protestanti credenti dei nostri tempi. Ma accanto a essa altre se ne proposero: il valore della Bibbia consiste tutto nell'essere il documento scritto della rivelazione avvenuta nella persona di Cristo e degli apostoli (R. Rothe); la Bibbia può dirsi ispirata perché eccita il sentimento religioso, ossia causa l'ispirazione nel lettore (ispirazione attiva, J. Clifford); la Bibbia contiene sì la parola di Dio, ma mista a molte parole umane, e secondo che prevale l'elemento umano o il divino ci sono varî gradi d'ispirazione (W. Sanday). Questi sembrano i punti più salienti di un'infinita varietà di opinioni, in che si frazionò il moderno pensiero protestante; comune è la sola tendenza a spogliar via via la Bibbia d'ogni differenza dagli altri prodotti dello spirito umano.

Criterio. - Qui è luogo di domandarsi: la Bibbia è veramente ispirata come si pretende, e in base a qual prova o con quale criterio se ne riconosce l'ispirazione? La risposta che dà la Chiesa cattolica, e anche l'antica sinagoga giudaica, è quella stessa che già si trova abbozzata nella Bibbia stessa. Essa è ispirata, e le prove di ciò sono, direttamente o indirettamente, quelle medesime che accreditano la divina missione dei profeti e aegli apostoli. Un profeta, a rendere efficace la sua missione presso il popolo, dovrà darne le prove (bontà di dottrina, profezie avverate, talora miracoli; cfr. Deuteronomio, XIII,1-5; XVIII, 20-22; Esodo, IV,1-17). Analogamente gli apostoli, la cui missione è inoltre convalidata da quella di Cristo stesso, il grande messo del cielo per eccellenza (Matteo, X, 8 e 40 e paralleli; II Corinzi, XII, 12; I Giovanni, IV, 2, 3). Il profeta e l'apostolo, provata la sua missione, potrà testificare non solo la propria ispirazione nello scrivere ma anche l'altrui (I Macc., IV, 46; II Pietro, III, 15,16; Giuseppe Flavio, loc. cit.). Insomma la prova dell'ispirazione è una testimonianza estrinseca al libro; testimonianza che il profeta o l'apostolo rende ai suoi uditori, da questi si propaga ad altri fedeli, passa alla Chiesa, si perpetua nei secoli. In questo senso prende il suo valore il celebre detto di S. Agostino: "Non crederei al Vangelo, se non m'inducesse l'autorità della Chiesa cattolica" (Contra epistulam fundamenti, 6; cfr. Confessiones, VII, 11). Con ciò è dato pure il criterio per discernere i libri ispirati dai non ispirati; è un criterio storico, la tradizione ratificata dalla Chiesa. Al più si potrebbe, con alcuni scrittori cattolici, ammettere quale criterio sussidiario, per il Nuovo Testamento, la dignità di apostolo; tutto ciò che avesse scritto un apostolo qualunque, sarebbe ispirato. Ma si conviene da tutti che con la morte dell'ultimo apostolo è venuta meno l'autorità la quale può certificare dell'ispirazione di un libro, e però nessun libro scritto posteriormente può essere ispirato.

I protestanti, avendo rigettato con la tradizione ecclesiastica anche la testimonianza estrinseca, ricorsero a criterî interni. Per Lutero un libro è ispirato, è autorevole, nella misura che parla di Cristo e della giustificazione per la fede. Secondo Calvino, lo Spirito santo dà a conoscere internamente a ciascuno, nella lettura, qual libro sia parola di Dio, qual no. Per altri (i pietisti), la Scrittura si riconosce alla pietà religiosa che la sua lettura eccita nel cuore. Criterî, come si capisce, soggetti a grande varietà di apprezzamenti, e ora anche abbandonati. Più consistenza hanno altri criterî dedotti dal contenuto, così enumerati da Giovanni Gerhardt "l'arciteologo dell'ortodossia luterana" (Allgemeine deutsche Biographie, VIII, p. 767): "l'antichità della Bibbia, la sublimità della dottrina, la forza della parola, la costante armonia delle idee, l'eccellenza delle profezie e il loro avveramento, i prodigi che ne confermarono la dottrina" (De locis theologicis, I, p. 22). Ma, con l'affievolimento del concetto d'ispirazione presso i moderni protestanti, anche questi criterî hanno perduto il loro valore, né occorre cercarne altri.

Conseguenze dell'ispirazione. - Prima e immediata conseguenza dell'ispirazione, tanto immediata che può considerarsi come tutt'uno con essa, come abbiamo accennato più sopra, è questa: la Bibbia è "parola di Dio". Così è chiamata già nel Nuovo Testamento formalmente (Romani, III, 2), o equivalentemente quando un passo della Scrittura è citato con le parole: "come fu detto da Dio; ciò che fu detto da Dio" o simili (Matt., XXII, 31; Ebrei, IV, 4). L'espressione più completa, e anche più frequente, è: "fu detto da Dio per mezzo del tale scrittore" (Matt., II, 15; Ath, I, 16; III, 18-21 ecc.). Non solo Dio, ma anche l'autore umano parla nella Scrittura (Matt., XXII, 41): i due fattori, divino e umano, sono tanto congiunti nell'opera, che essa tutta intiera va attribuita tanto all'uno quanto all'altro, come il lavoro di due forze concorrenti, sebbene prenda denominazione e valore dall'agente principale, il divino.

Di qui viene l'altra conseguenza, l'immunità da errore. Anche questa si trova già espressa nel Nuovo Testamento: "la Scrittura non può smentirsi" (Giovanni, X, 35); "bisogna che si avveri la Scrittura" (Atti, I, 16); "è necessario che si adempîa tutto ciò che sta scritto" (Luca, XXIV, 44). Tale era pure la convinzione dei Giudei (cfr. Giuseppe Flavio, Contra Apionem, I, 37 segg. Nell'antichità cristiana è fatto ben notevole che, sebbene l'interpretazione della Bibbia si dibattesse fra le scuole opposte di Alessandria e di Antiochia, pure nessuno fra tanti pensò mai che alcuno degli scrittori biblici potesse mai cadere in errore. Non occorre dire che così pure si pensò per tutto il Medioevo. A questa dottrina dell'inerranza si mantenne sempre fedele la Chiesa cattolica, il cui insegnamento su questo punto venne così energicamente espresso da Leone XIII: "Tanto non può sotto l'ispirazione covare alcun errore, che essa non solo esclude ogni errore, ma è necessario che lo escluda e lo respinga quanto è necessario che Dio, somma verità, non sia autore d'alcun errore" (encicl. Providentissimus Deus, cit.).

I protestanti sino allo scorcio del sec. XVIII con uguale e anche maggior energia dei cattolici sostennero l'autorità infallibile della Bibbia, sicché si poté loro rimproverare d'essersene fatto un "papa di carta". Ma con i tempi nuovi le idee cambiarono, e ora appena si troverà alcuno fra loro, che ancora sostenga questo privilegio della Bibbia con quel rigore che per i loro antenati era questione vitale. Ciò si connette con le nuove opinioni intorno all'estensione dell'ispirazione, per coloro che ancora l'ammettono.

Estensione dell'ispirazione. Quando i progressi delle scienze e le scoperte storiche nel sec. XIX fecero sorgere nuove difficoltà intorno alla verità della Bibbia (v. pag. 915), non solo molti protestanti, ma anche alcuni cattolici (come F. Lenormant in Francia, S. Di Bartolo in Italia) credettero di poter sfuggire le difficoltà, restringendo l'ispirazione e la conseguente inerranza alle materie religiose solamente, o alle materie principali e non toccate solo di passaggio, ovvero a quelle che direttamente facevano allo scopo dell'autore, ecc. A tutte queste distinzioni fra cattolici tagliò corto Leone XIII insegnando che "non è lecito in alcun modo restringere l'ispirazione soltanto ad alcune parti della Scrittura" (encicl. Providentissimus, cit.).

Subordinata a questa, ma più sottile e in certo senso più dibattuta, è l'altra questione, se l'ispirazione s'estenda alle singole parole, se sia, come suol dirsi, ispirazione "verbale". Questa però può intendersi in due modi ben diversi. Il primo è una formale o equivalente dettatura, in cui lo Spirito santo determina e precisa le parole da scegliere, fra le tante che potrebbero esprimere la medesima idea. In questo senso ammisero l'ispirazione verbale, oltre all'antico giudaismo, anche alcuni cattolici nel Medioevo (cfr. Patrol. Lat., CIV, col. 166) e parecchi tomisti del sec. XVI. Ma nessuno andò tant'oltre in questa via quanto i protestanti del sec. XVII, che in parecchi loro sinodi decretarono ispirati persino i punti vocali del testo masoretico (v. sotto, pag. 887). Così stretto letteralismo non lascerebbe campo a quelle varietà e individualità di lingua e di stile, d'indole e potenza letteraria, che si ravvisano nella Bibbia non meno che nelle letterature di altri popoli.

In altro senso la questione fu modernamente ravvivata e si dibatte ancora fra cattolici. Partendo dall'intima connessione che passa fra l'idea e la sua espressione, e dalla dottrina comune che il libro ispirato è un unico prodotto vitale dei due agenti divino e umano, gli uni vogliono che non si separi l'azione divina sulle idee dalle parole che le esprimono (azione però, ben inteso, sempre confacente alla natura intelligente e libera del soggetto che riceve l'azione); altri, considerando che una medesima idea può esprimersi indifferentemente in molti modi, pongono un'azione sull'idea, che lasci pienamente all'uomo ispirato l'esprimerla aecondo le sue abituali facoltà (con l'assistenza estrinseca intorno alla quale vedi più sopra la parola di Leone XIII). È questione connessa con quella più generale del concorso divino alle opere delle creature, e nella presente materia ha secondaria importanza. L'essenziale è lasciare che l'idea prenda nella mente e nello scritto dell'autore ispirato l'impronta della sua personalità.

Numero dei libri. Canone. - La collezione dei libri che compongono la Bibbia fu chiamata nell'antichità cristiana (dal sec. IV in poi) con parola greca κανών (v. canone) nel senso di "regola, norma", perché distingueva quei libri dai comuni o profani. E perché presto, a evitare dubbî e confusioni o per istruzione, si stese una lista o elenco dei libri appartenenti alla Bibbia, canone più comunemente fu chiamata siffatta lista, e canonici furon detti i libri in essa compresi, non canonici gli esclusi. Protocanonicî e deuterocanonici sono termini di formazione moderna (coniati da Sisto Senese nel sec. XVI) e usati quasi solo dai cattolici per distinguere i libri da tutti ammessi nel canone, da quelli intorno a cui sorse qualche dubbio (v. sotto).

Canone dell'Antico Testamento. - Non è uguale l'estensione di esso, ossia il numero dei libri compresi nell'Antico Testamento, presso tutti coloro che ne riconoscono l'autorità. Qui possiamo dire in breve che si trovano di fronte, da una parte gli ebrei e i protestanti, dall'altra i cattolici e le chiese orientali. I primi hanno un canone più ristretto, i secondi più copioso. Per brevità e chiarezza, chiameremo il primo (ristretto) canone ebraico, il secondo (più largo) canone cattolico.

Il canone ebraico novera ventiquattro libri: cinque di fl40sè (collettivamente Tōrāh, Legge o Pentateuco); otto di profeti (Giosuè, Giudici, Samuele, Re, Isaia, Geremia, Ezechiele, e dodici minori in un sol libro); undici di "scritti" varî (Salmi, Giobbe, Proverbi, Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester, Daniele, Esdra-Neemia, Cronache). A questi il canone cattolico aggiunge altri otto libri, quattro narrativi (Tobia, Giuditta e due dei Maccabei), due didattici (Sapienza cosiddetta di Salomone, e Sapienza di Gesù figlio di Sirac o Ecclesiastico) e due profetici (Baruc e la Lettera di Geremia, la quale però presso i Latini è considerata come il VI e ultimo capo di Baruc). Inoltre i due libri di Daniele e di Ester in questo secondo canone sono più lunghi di alquanti capitoli.

La differenza fra i due canoni risale a una più generale diversità fra i Giudei palestinesi e gli ellenisti o grecizzati. I primi erano usi esclusivamente alla lingua ebraica, o aramaica, e s'andavano sempre più orientando verso il rigido legalismo religioso degli scribi e dei rabbini. Per essi quindi restò sempre escluso dal canone qualunque libro scritto in lingua greca; per quegli stessi che erano composti in ebraico o in aramaico s'andò a poco a poco formando l'opinione già ben radicata e universale al tempo di Giuseppe Flavio (c.. Apionem, I, 9), che dopo Esdra (sec. V a. C.), venuto meno o reso incerto il carisma profetico (cfr. I Macc., IV, 46; XIV, 41), nessun libro si potesse più ascrivere fra i sacri. Di qui avvenne, che alcuni scritti più recenti, anche ebraici, i quali non poterono (come l'Ecclesiaste attribuito a Salomone) ricoverarsi all'ombra di un nome antico, sebbene da principio tenuti per uguali agl'ispirati e talora citati come tali anche tardi (v. ecclesiastico), dovettero esulare dalle liste ufficiali dei libri divini. Ma quelle due ragioni (lingua ebraica e canone chiuso con Esdra) non esistevano per i Giudei ellenisti della diaspora, i quali perciò accolsero e mantennero nella loro Bibbia non solo traduzioni dall'ebraico di libri recenti, quali l'Ecclesiastico, il I Maccabei, ma altresì scritti originali in lingua greca, come la Sapienza. In tal senso può parlarsi di un canone palestinese (o esdrino), chiuso, e di un canone ellenistico (o alessandrino), aperto. La primitiva Chiesa cristiana, erede della fede giudaica, ma non delle ristrette vedute degli scribi, accettò e approvò il più largo canone ellenistico, e così quel canone diventò la Bibbia delle prime generazioni cristiane.

Sulla fine del sec. II d. C. le controversie religiose fra Giudei e cristiani trassero l'attenzione di questi ultimi sulle differenze dei due canoni, e ne accadde che in pratica i controversisti o apologeti si astennero dal prevalersi di scritti che, non essendo ammessi dagli avversarî, non servivano allo scopo; in teoria, si cominciò pure a dubitare anche da cristiani, se quegli scritti avessero diritto a un posto nel canone. Di ciò abbiamo i primi indizî in una lettera di Melitone, vescovo di Sardi in Asia Minore (circa 160-180 d. C.), della quale Eusebio di Cesarea (Hist. Eccles., IV, 26) ha conservato il tratto decisivo. Interrogato da un collega intorno all'esatto numero e ordine dei libri dell'Antico Testamento, Melitone colse l'occasione di un viaggio ai luoghi santi di Palestina per prendere informazioni presso i Giudei del paese. L'effetto fu, com'era da prevedere, che in risposta egli ricevette, ed a sua volta comunicò, il canone palestinese. A questo pure si attennero, nello stendere la lista dei libri sacri dell'Antico Testamento, Origene nel sec. III, e i vescovi Atanasio di Alessandria, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio di Nazianzo, e Anfilochio di Iconio nel sec. IV. Si distinsero allora i libri certi, o da tutti ammessi (ὁμολογούμενα), e i controversi o non ammessi da tutti (ἁντικεγόμενα; v. antilegomeni), distmzione di cui durarono le tracce nella chiesa greca sino al secolo IX, sebbene ogni divergenza d'opinione fosse stata già tolta dal concilio di Costantinopoli, detto in Trullo (1692), che promulgò il canone integrale.

Nella chiesa latina antica tre scrittori tennero per il canone ebraico o palestinese: S. Ilario di Poitiers e Rufino di Aquileia, seguaci di Origene in questo punto, e più tenacemente S. Girolamo per l'influenza dei suoi maestri d'ebraico israeliti. Ma il più grande e più influente teologo dell'Occidente, S. Agostino, fu anche il più strenuo propugnatore del canone ellenistico, e per opera principalmente di lui (sembra) parecchi concilî africani sullo scorcio del sec. IV consacrarono e promulgarono quel canone. Poco appresso il papa Innocenzo I in una celebre lettera ad Esuperio vescovo di Tolosa (405 d. C.) lo sosteneva con l'autorità della sede romana. Altro testimonio di ciò che si pensava a Roma è il cosiddetto Decreto gelasiano, una compilazione anonima, i più antichi elementi della quale (fra cui appunto il canone delle Scritture, ch'è il più ampio) sembrano risalire alla fine del sec. IV. Con tale autorità il canone ellenistico fu accettato da tutto l'Occidente latino per tutto il Medioevo, sinché il concilio di Trento (1546) lo consacrò in maniera definitiva quale regola di fede per la Chiesa cattolica.

Non mancarono tuttavia nello stesso Medioevo e nel Rinascimento, anche in seno alla Chiesa cattolica, uomini di non comune dottrina che, mossi dall'autorità di S. Girolamo, rigettarono i libri esclusi dal canone ebraico. Questa medesima sentenza, del canone ristretto, abbracciarono poi tutti i protestanti, primo fra tutti Andrea Carlostadio; poi, dopo qualche esitazione, Martin Lutero, e gli altri sino ai nostri giorni. Nella pratica però corre in proposito una notevole differenza fra gli antichi protestanti e i moderni. I primi riformatori, cominciando da Lutero, comprendevano nelle loro Bibbie i libri proprî del canone ellenistico, ma li ponevano in appendice col titolo di "apocrifi"; e così si continuò più o meno per tutto il sec. XVIII. Ma già le società bibliche, sorte allora in Inghilterra (v. Bibliche, società), si dichiarano sin dal principio contrarie all'ammissione degli apocrifi nelle Bibbie. Nella viva lotta che si accese fra il 1825 e il 1860 nei paesi protestanti pro e contro gli apocrifi, prevalse la tendenza più severa, e ora appena qualche società luterana, come il Bibelanstalt di Stoccarda, pubblica qualche Bibbia con gli apocrifi in appendice. Ma intanto la moderna scuola critica togliendo, presso la maggiore e più colta parte dei protestanti, ogni distinzione essenziale fra libro sacro e profano, venne di pari passo a riabilitare gli apocrifi, e non è raro udire fra i più dotti protestanti levarsi una voce a deplorare che fra di loro se ne sia abbandonata la lettura.

L'atteggiamento dei protestanti non fu senza influenza sulle chiese greche e slave. Nel sec. XVII, per reazione contro le prime infiltrazioni di protestantesimo in quelle chiese attaccate alla vecchia ortodossia, più fortemente che mai si affermò il vecchio canone ellenistico, principalmente per opera dei patriarchi di Costantinopoli e di Gerusalemme. Ma nel seguente sec. XVIII, per mezzo della Russia, che Pietro il Grande aveva nello stesso tempo aperta alle influenze occidentali e messa alla testa dell'ortodossia greca, il canone ridotto ebraico-protestantico andò guadagnando sempre più terreno fra gli slavi separati da Roma; e nel sec. XIX fra gli stessi Greci. Al presente può dirsi che la questione del canone della Bibbia in Russia è decisa nel senso dei protestanti; in Grecia è lasciata libera, come questione secondaria e teologica, non dogmatica.

Canone del Nuovo Testamento. - Tutt'altro corso seguì la storia del canone per i libri del Nuovo Testamento. Da principio gli scritti degli apostoli, destinati a particolari chiese o persone fra loro assai distanti, non erano conosciuti che in stretta cerchia. Ma il primo impulso a raccogliere tali scritti venne da S. Paolo stesso, che raccomandava ai destinatarî di comunicarsi le lettere da lui scritte a ciascuna chiesa (Colossesi, IV, 16). L'uso di leggere quelle lettere nelle pubbliche adunanze e l'autorità dell'apostolo fecero sì che presto ebbero lo stesso credito che i libri sacri dell'Antico Testamento, e già la II Pietro (III, 15 e 16) le mette a paro "con le altre Scritture". Negli scritti dei Padri apostolici, Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, abbiamo un crescente numero di citazioni e di lettere citate, sicché possiamo dire che già, almeno l'ultimo, aveva tra mano l'intero corpo delle lettere paoline quale giunse fino a noi. Accanto a questo primo nucleo del Nuovo Testamento un altro ne appare allo stesso tempo nelle opere di Papia di Gerapoli e di S. Giustino, cioè i quattro Vangeli, che il suo discepolo Taziano fondeva in un solo racconto dal titolo significativo Diatessáron (Διὰ τεσσάρων, "tra quattro"), numero dunque da gran tempo fisso per i Vangeli canonici, a distinzione dei numerossimi apocrifi. Oltre questi due principali corpi (Vangeli e lettere paoline) sono citate dai medesimi scrittori la I Giovanni, la I Pietro, l'Apocalisse e gli Atti degli apostoli. Il canone del Nuovo Testamento s'andava così avvicinando al suo definitivo assetto in seno alla "grande Chiesa", la cattolica.

A imitazione di essa intanto andavano pure formando il loro canone anche i dissidenti, celebre fra tutti Marcione (v.) che, bandito l'Antico Testamento come opera di un genio malefico, riduceva la Bibbia cristiana all'unico Vangelo di Luca e a dieci lettere di Paolo (toltene le tre "Pastorali" ed Ebrei) l'uno e le altre espurgate di tutto ciò che potesse ridondare a onore dell'antica legge. Può darsi che la propaganda marcionitica per quel canone mutilato abbia mosso la Chiesa, per reazione, a precisare più nettamente il suo canone integrale. Certo si è che circa quel tempo (170-180?), in dichiarata opposizione a Marcione e ad altri eretici, l'ignoto autore del Frammento o Canone muratoriano stendeva un elenco dei libri del Nuovo Testamento ammessi dalla Chiesa cattolica. Sono, secondo esso, i quattro Vangeli, tredici lettere di S. Paolo (si tace di Ebrei), Atti, due o tre lettere di Giovanni, una di Giuda, l'Apocalisse, e infine (secondo la probabile interpretazione di un passo oscuro) due lettere di Pietro, di cui una non da tutti ammessa. Abbiamo qui il canone quasi completo, ma ancora con qualche ombra di dubbio per alcuni libri. Infatti da varie fonti, specialmente dalle diligenti notizie raccolte da Eusebio (Hist. Eccles., III), possiamo così ritrarre lo stato del canone in quello scorcio del sec. II e nel III: erano da tutti ammessi (ὁμολογούμενα) i quattro Vangeli, gli Atti, tredici lettere di S. Paolo, la I Pietro, la I Giovanni. Erano contrastate (ἀντιλεγόμενα), in Oriente l'Apocalisse, in Occidente Ebrei, qua e là le epistole di Giacomo, di Giuda, II Pietro, II e III Giovanni. I dubbî si spiegano con la difficoltà di far giungere a tutte le chiese, già così disseminate, e in quell'era di persecuzioni, sia gli scritti singoli, sia le prove della lolo origine apostolica.

Nel secolo IV, data la pace alla Chiesa e intensificate le comunicazioni, tra l'Oriente greco e l'Occidente latino si scambiano idee, s'integrano a vicenda i canoni, vanno dissipandosi i dubbî. Così la chiesa alessandrina con la XXXIX lettera festale di S. Atanasio (per l'anno 367) promulga il completo canone di 27 libri, cioè 4 Vangeli, 14 lettere di S. Paolo, lettere degli altri apostoli, dette cattoliche, Atti e Apocalisse. Così pure la chiesa di Cipro con S. Epifanio (Panarion, haer., 76). Le chiese di Palestina (Eusebio, Cirillo di Gerusalemme) e di Asia Minore (concilio di Laodicea circa il 360, Gregorio di Nazianzio, Anfilochio) ammettevano le minori lettere apostoliche, sola escludendo l'Apocalisse. Antiochia restava più indietro: ancora nella prima metà del sec. V non riconosceva, non che l'Apocalisse, neppure le dette quattro lettere minori (II Pietro, II e III Giov., Giuda). Ma un secolo dopo, all'epoca di Giustiniano, il canone integrale di 27 libri definitivamente prevaleva in tutto l'Impero bizantino, sebbene solo più tardi si spegnesse ogni eco degli antichi dubbî. Nelle chiese di lingua siriaca il progressivo accrescimento del canone si rispecchia nelle diverse versioni del Nuovo Testamento. L'antica, usata ancora per tutto il sec. IV, non comprendeva che Vangeli, Atti e lettere paoline (tutte 14); la Pescitta (verso il 420?) vi aggiunse Giacomo, I Pietro, I Giovanni; la Filosseniana (508) il resto, cioè II Pietro, II e III Giovanni, Giuda, Apocalisse; e così anche per i Siri il ciclo era definitivamente chiuso.

Assai più presto si giunse ad accordarsi sul canone definitivo di 27 libri in Occidente; grazie all'influenza straordinaria di S. Girolamo, al concilio romano sotto Damaso (382), a varî concilî africani fra il 390 e il 420, alla lettera di papa Innocenzo a Esuperio di Tolosa (405), fin dal principio del sec. V in tutti i paesi latini era fissato quel canone, che poi il concilio di Trento confermò per tutta la Chiesa cattolica. Sola eco dei parziali dubbî di un tempo rimase il termine improprio di deuterocanonici, applicato ai sette scritti che dicemmo anticamente discussi.

Presso i protestanti dapprima vi fu qualche dissensione. Il criterio stabilito da Lutero (v. sopra) lo portò a chiamare "lettera di paglia" la lettem di Giacomo e a escluderla dal canone insieme con Ebrei, Giuda, Apocalisse. Degli altri Riformatori, alcuni erano più ritenuti, come Zuinglio, che rigettava solo l'Apocalisse; altri più arditi, come Ecolampadio, Brenz, Chemnitz, che misero al bando tutti e sette i libri già discussi (deuterocanonici). I calvinisti invece non si dipartirono punto dal canone integrale già stabilito da secoli; e al loro avviso si accostarono a poco a poco anche i luterani, sicché si può dire che dal sec. XVII al XIX non ci fu differenza fra cattolici e protestanti intorno al canone del Nuovo Testamento. Nei tempi moderni si negò l'autenticità di molti, dei più, fra gli scritti del Nuovo Testamento, se ne ritardò la data, se ne invilì il valore. Ma queste novità appartengono alla storia della critica (v. p. 915), non a quella del canone, che, svuotato in tali scuole del suo genuino valore, rimane come quantità storica e termine convenzionale.

Ordine dei libri e carattere generale. - Nella formazione e discussione del canone i libri biblici si trovano raggruppati, come abbiamo visto, in piccoli gruppi omogenei. Però tanto l'ordine dei gruppi fra loro, quanto l'ordine dei libri dentro ciascun gruppo variarono col tempo, con le abitudini locali, con le scuole ecc. zolo pochi punti furono sempre costanti: in capo all'Antico Testamento sta sempre il Pentateuco, e così i Vangeli a capo del Nuovo; nel Pentateuco poi si trovano sempre i cinque libri nell'ordine sotto indicato: i libri storici, Giosuè, Giudici, Samuele, Re, vanno sempre in quest'ordine per evidenti ragioni cronologiche. Nel resto regna la più grande varietà; segnaleremo solo le più importanti. Nelle Bibbie greche i profeti minori stanno prima dei maggiori; nelle ebraiche e nelle latine vengono dopo. Le Bibbie latine anteriori al sec. XIII pongono, con parziale imitazione dell'ebraiche, i profeti prima dei libri didattici o sapienziali. I codici latini prima di S. Girolamo seguivano per i Vangeli l'ordine: Matteo, Giovanni, Luca, Marco. Nei manoscritti greci le Lettere cattoliche stanno il più sovente, insieme con gli Atti, prima delle paoline. L'ordine più comune nei tempi moderni ebbe origine dall'università di Parigi nel sec. XIII (v. sotto, p. 899).

Nel canone più completo dei cattolici, quest'ordine è il seguente: Antico Testamento: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio (Pentateuco), Giosuè, Giudici, Rut, I e II Samuele e I e II Re (o I-IV Re), 1 e II Cronache (o Paralipomeni), Esdra e Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, Salmi, Proverbî, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Sapienza, Ecclesiastico, Isaia, Geremia, Lamentazioni, Baruc, Ezechiele, Daniele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, I e II Maccabei.

Nuovo Testamento: Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Atti degli Apostoli, Lettere di S. Paolo ai Romani, I e II ai Corinzî, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, I e II ai Tessalonicesi, I e II a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei; lettere cattoliche di Giacomo, I e II di Pietro, I, II e III di Giovanni, di Giuda, Apocalisse.

Si contano così, nell'Antico Testamento (non tenendo conto dell'artificiale divisione di Samuele-Re, e Cronache o Paralipomeni in due libri, né dell'artificiale riunione dei dodici profeti minori in un sol libro) 42 scritti, nel Nuovo 27. La lunghezza media di questi scritti è notevolmente maggiore nell'Antico che nel Nuovo Testamento, sicché questo non fa più che un quinto di tutta la Bibbia, mentre per numero di scritti supera il terzo di tutta la somma.

L'Antico Testamento, in genere, espone la storia e la cultura del popolo ebraico dai primordî fin verso i tempi di Cristo.

La Genesi prende le mosse dalla creazione del mondo e della prima coppia umana da cui proviene tutto l'uman genere; di questo segue la propagazione per tutta la terra, innestandone le ramificazioni sul tronco dei progenitori diretti degli Ebrei; e giunge, attraverso Abramo, a Giacobbe o Israele, il padre dei dodici patriarchi capostipiti delle dodici tribù. Dapprima nomadi in Palestina, questi progenitori del popolo ebraico scendono poi in Egitto.

L'Esodo ci narra, come dice il titolo, l'"uscita" degli Ebrei dall'Egitto, guidati da Mosè alla conquista di una patria in Palestina. Durante i lunghi anni passati nel deserto sinaitico gli Ebrei si formano in nazione compatta e cosciente, e ricevono una legislazione religiosa e civile.

Il Levitico è una sistematica raccolta di prescrizioni rituali, donde il suo nome (dai Leviti, quei della tribù di Levi, incaricati del culto).

Il libro dei Numeri prende il nome dai censimenti delle dodici tribù, che ne riempiono i primi capi. Ripigliando il racconto al punto a cui l'aveva lasciato la prima parte dell'Esodo (I-XVIII), conduce il movimento degli Ebrei sino alle rive orientali del Giordano, in faccia alla Terra promessa. V'intercala però non poche ordinanze legali e rituali, e v'inserisce altresì (ciò che per la storia letteraria è di gran peso) frammenti di antichi canti popolari e nazionali (XXI-XXIV); citazioni simili si trovano anche in altri libri storici (p. es., Gen., IV, 23; IX, 25-27; Giosuè, X, 12 segg.; Deut., XXXIII; II Sam. [Re], I, 18-27; III, 33, 34; I[III] Re, VIII, 12 segg.) oltre cantici conservatici per intero come Deut., XXXII; Esodo, XV; Giudici, V; I Samuele, II,1-10.

Il Deuteronomio contiene le ultime disposizioni di Mosè, che muore in vista della Terra promessa senza potervi mettere piede.

Giosuè, che dà il nome al primo dei libri che abbiamo chiamati storici, è il condottiere del popolo alla conquista della Palestina: a questa segue nel libro la ripartizione, più teorica che pratica, di tutto il paese fra le dodici tribù.

Rimaneva da consolidare la conquista e da sottomettere la popolazione indigena; è quanto espone il libro dei Giudici, specie di dittatori, che, nei momenti di grave pericolo per la nazione o parte di essa, sorgevano a scuotere il giogo o a respingere l'assalto del nemico.

Sul punto di passare alla nuova e memorabile epoca dei re, la Bibbia ci presenta il grazioso idillio di Rut, che merita di divenire consorte del betlemita Booz e di essere l'ava di Davide.

Samuele, che dà il primo soggetto e il nome ai due libri seguenti (nell'uso greco e latino detti I e II dei Re o dei Regni), è ancora un giudice; ma per volontà di popolo e ordinazione di Dio consacra la monarchia nella persona dei due primi re: Saul dapprima approvato e poi reietto, e David, sotto il quale la potenza politica della nazione ebrea raggiunge il massimo d'estensione e di vigore.

I due libri dei Re (in greco e latino III e IV dei Re) dànno un semplice schema degli avvenimenti politici sotto i regni dei successori di Davide (re di Giuda) e dei re d'Israele, resisi indipendenti da quelli, sino alla estinzione dell'una e dell'altra monarchia sotto i fieri colpi degl'imperi d'Assiria e di Babilonia (721 e 586 a. C.). Si diffondono invece nel racconto degli avvenimenti religiosi, specialmente dell'attività dei profeti: non a torto perciò gli scrittori si credono usciti dalla scuola dei profeti, e i libri ci dànno la concezione profetica della storia ebraica.

Per eguale e più forte ragione va cercato invece fra il ceto levitico o sacerdotale l'autore dei due libri di Cronache o Paralipomeni, che riprende la storia del solo reame di Giuda da Davide sino alla fine della monarchia, sovente con le stesse parole degli anzidetti Re dei Re, ma aggiungendovi copiose notizie religiose, specialmente intorno al culto.

Dall'esilio babilonese in poi la Bibbia non ci dà più una storia altrettanto continuata della nazione ebraica. I due libri di Esdra e Neemia, immediata continuazione delle Cronache, non c'informano se non dei due momenti più importanti della restaurazione nazionale: un primo nucleo di reduci al tempo di Ciro re di Persia (537 a. C.), per la ricostruzione del tempio, compiuta sotto Dario (circa 516); l'opera politica e religiosa di Esdra e di Neemia con la restaurazione di Gerusalemme fra il 457 e il 444 a. C. Lo spirito di questi libri è lo stesso deidue precedenti (con ogni probabilità uno è l'autore di tutti); recano però molti documenti (gran parte nell'originale aramaico) con poco ordine e collegamento assai floscio, raccolta di materiali piuttosto che propria narrazione (v. ebrei: Storia). Né altro ci dà, per la storia, il canone ebraico.

I due libri dei Maccabei, proprî del canone cattolico, ci narrano i memorabili fatti dell'indipendenza giudaica, conquistata sotto la guida della famiglia dei Maccabei, o Asmonei (175-135 avanti Cristo).

In questa trama, a maglie assai larghe, della storia nazionale, vengono a inserirsi tre episodî più personali narrati nei tre libricciuoli di Tobia ancora al tempo degli Assiri (sec. VIII-VII a. C.), di Ester sotto il regno di Serse (486-465 a. C.) e di Giuditta in epoca imprecisabile se non si vuol vedere in esso un'allegoria in scorcio delle guerre e dei trionfi dei Maccabei.

Ai libri storici fanno corona gli scritti dei profeti, non solo perché aggiungono alcuni fatti e molta luce sopra le condizioni interne, religiose e sociali, del popolo; ma anche perché ci rivelano lo spirito che animava buona parte delle classi dirigenti e gli scrittori della storia, come abbiamo detto. Infatti i profeti erano le guide spirituali della nazione, e i loro scritti, per morale elevatezza, per nobiltà e profondità di idee, formano la più pura gloria della letteratura ebraica. Essi però sono scritti, diremmo, d'occasione. Prendendo viva parte alle sorti del loro popolo, i profeti nei momenti più gravi per la nazione portavano il loro messaggio ora di severo ammonimento, ora di conforto, con lo sguardo proteso all'avvenire, ma con l'animo al presente immediato.

Isaia sconsiglia da una politica di appoggio sull'estero, e sostiene gli animi trepidanti per le minacce della coalizione siro-efraimitica e poi dell'invasione assira. Nel libro di Geremia, che consiglia la sottomissione ai Caldei, quasi tutti i vaticinî sono esplicitamente innestati sui varî avvenimenti della tragica sua vita. Ezechiele istruisce e conforta i compagni d'esilio, promette il risorgimento della nazione (la celebre visione delle ossa risorte: Ez., XXXVII) e persino traccia un programma per la futura restaurazione. Similmente i profeti minori: l'imminente pericolo assiro eccita i fremiti di Amos e di Osea; Gioele da una straordinaria invasione di locuste, flagello delle campagne orientali, trae motivo ai forti colori della sua predica; Nahum plaude alla caduta di Ninive; la terribíle invasione caldea strappa ad Abacuc angosciosce grida e a Sofonia il suo dies irae, dies illa. Aggeo incoraggia i reduci dall'esilio a rifabbricare il Tempio; Malachia, infine, corregge gli abusi già introdottisi nella rinata comunità e, con l'annunzio dell'approssimarsi del divin messo chiude nobilmente il ciclo dei profeti.

Il primo fra i libri che compongono il resto dell'Antico Testamento, quello dei Salmi, o Salterio, deve pure la sua origine in massima parte a fatti contingenti. Esso è un canzoniere di 150 poesie, per lo più liriche e non lunghe, le quali si possono ridurre a tre generi: individuali, nazionali e liturgiche. Nei salmi individuali si chiede a Dio soccorso nei varî bisogni della vita, soprattutto nelle malattie e nelle ostilità di nemici. Alcuni salmi si possono considerare come una formula comune, da recitarsi in varie occasioni a piacimento, come le preghiere dei nostri libri di pietà. Ma è impossibile così spiegarli tutti (sono oltre un terzo di tutto il Salterio); nei più è l'accento d'un affanno sentito e provato e gli accenni a fatti individuali non sono rari. Anche nei salmi nazionali per lo più si deplora una sconfitta, una sciagura pubblica, o s'innalza il grido d'una vittoria, e si tocca il fatto particolare che ne fornì la materia. Solo nei liturgici, composti per uso del culto nel Tempio, è ben rara (e si capisce) la nota particolare.

Con i libri seguenti entriamo più nel mondo delle idee. Il poemetto lirico Cantico dei Cantici è, nel suo genere, unico nella Bibbia. Nel suo senso ovvio canta gli amori d'un giovane pastore e d'una donzella compaesana; ma, per quanto siano numerosi e diversi i sistemi d'interpretazione seguiti o proposti, ben pochi oggi sosterrebbero ancora che esso metta in iscena determinati personaggi e fatti reali: che un ideale brillasse alla mente del poeta, è fuor di dubbio.

Restano i libri propriamente didattici o sapienziali, come sogliono pure chiamarsi. Due, i Proverbi e l'Ecclesiastico, sono raccolte di massime morali, quasi senz'ordine e connessione, con qualche bel brano lirico in lode della "Sapienza". Altri due, Giobbe ed Ecclesiaste, trattano la grave e fondamentale questione d'ogni teodicea: perché il male del mondo? perché i tristi si vedono prosperare e i buoni soffrire? La risposta che dànno, è, in parte, diversa, come diversissimo è il carattere letterario dei due scritti. Giobbe è uno dei più meravigliosi poemi della letteratura universale. Il fatto (vero o finto, poco importa qui) da cui parte, è a tutti noto: l'insegnamento che dalla discussione del libro risulta è che né sola cagione né misura delle pene in questa vita, è la colpa; il perché di tal Jatto non possiamo a fondo comprendere. Ma neanche possiamo dubitare della giustizia e della bontà di Dio. Somigliante è il pensiero dell'Ecclesiaste o Qoheleth (così il titolo ebraico), serie di considerazioni piuttosto slegate sulle miserie della vita umana; se non che il dolore vi è supposto più universale e costante, e nell'onesto godimento dei beni materiali vi è cercato un lenimento alle pene d'ogni sorta dalle quali è come assiepata l'esistenza. Così questi due libri, trattando la grande questione in teoria, non abbandonano la vita pratica.

Ultimo dell'Antico Testamento, e solo nel suo genere, viene il libro detto della Sapienza, scritto originariamente in greco a conforto degli Ebrei d'Egitto, esposti alle ostilità e anche alle seduzioni del paganesimo ellenizzato che li circondava.

Gli scritti del Nuovo Testamento per il genere letterario similmente si raggruppano in tre ordini: narrativo, epistolare, profetico o meglio apocalittico. Di forma narrativa ci si presentano anzitutto i quattro Vangeli, Matteo, Marco, Luca, Giovanni, ognuno dei quali dà breve contezza dei principali fatti e insegnamenti di Gesù Nazareno, i tre primi con una scelta ed esposizione che per la somiglianza fra loro li fece chiamare sinottici (v.) dalla moderna critica; il quarto si distingue per pochi fatti minutamente narrati, e frequenti e lunghi discorsi d'uno stile elevato, in contrasto con lo stile semplice dei Sinottici.

Il libro degli Atti (o Fatti) degli Apostoli (v.) è consacrato al primo stabilirsi e diffondersi del vangelo in Palestina fra i Giudei e fuori di essa fra i Gentili. Nella prima parte (I-XV) campeggia S. Pietro nell'organizzare la nuova chiesa in Palestina; da indi in poi tutta l'attenzione dello storico si concentra sopra Paolo di Tarso, che il libro segue nei viaggi missionarî e finalmente a Gerusalemme, donde un'accusa mossagli dai Giudei, avversi al nascente cristianesimo, lo portò al tribunale dell'imperatore a Roma: a questo punto bruscamente finisce il libro.

Al medesimo Paolo, di tutti gli scrittori del Nuovo Testamento il più fecondo, più originale, più vario, si deve la maggiore e più notevole parte delle lettere o epistole degli apostoli. Quattordici gliene attribuisce la tradizione e tredici di esse ne portano in fronte il nome, nel saluto iniziale, secondo l'uso greco-romano. La serie va per tutte le gradazioni dal trattato teologico, qual è la lettera ai Romani, sino al biglietto di raccomandazione, come quello diretto a Filemone. Ma in tutte, specialmente in quelle la cui autenticità fu meno discussa, c'è un comune carattere, d'essere scritti d'occasione, provocati da particolari fatti o bisogni delle chiese (o persone), alle quali sono rivolte: discordie fra i giudeocristiani e i convertiti dal paganesimo (Romani, Galati), dissensioni e disordini nelle nascenti comunità (I e II Corinzî), timori e incertezze intorno alla parusia (I e II Tessalonicesi); e così via.

Anche nelle rimanenti lettere (una di Giacomo, due di Pietro, una di Giuda, tre di Giovanni), si ravvisa, dove più dove meno, questo medesimo carattere di opportunità.

Particolari ammonimenti, dettati dalle circostanze, contiene pure, sotto forma di lettere, o meglio di messaggi, alle sette chiese dell'Asia minore (rispettivamente ai loro vescovi) l'Apocalisse nella sua prima parte (I-III). Il resto è una serie di visioni, che sotto varie forme, non di rado fantasmagoriche, ci presenta in scorcio la lotta a morte impegnata fra il paganesimo e la novella fede, con la definitiva vittoria di questa e il trionfo celeste dei generosi che nella lotta diedero la vita.

Cercando di fissare ora il carattere generale della Bibbia, notiamo anzitutto che essa non è una letteratura nazionale, neanche nella sua parte più antica (l'Antico Testamento), ove pure il pensiero è quasi ristretto entro la cerchia d'una sola nazione. Essa non comprende che poca parte di ciò che fu scritto nell'antica lingua degli Ebrei, né alla formazione del canone giudaico presiedette il criterio di raccogliere i tesori dell'avita letteratura.

Nemmeno si può chiamare un'antologia letteraria. Vi si leggono molte pagine di una rara perfezione artistica, di una potenza e splendor di parola, da potersene gloriare qualunque letteratura. La poesia soprattutto, almeno la lirica, vi è insieme copiosa e nel suo genere eccellente (Giobbe, Isaia, Salmi, Cantico). Anche la prosa offre squisiti modelli di narrazione in alcune parti della Genesi, dei Giudici; di Samuele, dei Re, dei Vangeli, degli Atti. Ma più spesso la composizione, specie per la nostra cultura più raffinata, lascia a desiderare; e in non poche pagine, come nelle frequenti genealogie, secche liste di nomi, il valore letterario è propriamente nullo. Nemmeno un criterio letterario diresse la scelta dei libri da ammettersi nel canone. Invece, tutti i singolì scritti che lo compongono furono dettati o informati, qual più qual meno, da un principio religioso. L'unico libro, da cui sembra assente l'elemento religioso è il piccolo volume di Ester nella redazione ebraica; ma nella recensione greca (e quindi nella Volgata) quella mancanza è abbondantemente compensata. La Bibbia insomma è un libro essenzialmente religioso.

Tuttavia la religione non v'è insegnata in un modo sistematico. Ogni sua parte è sgorgata da un fatto contingente ed è legata alla storia. Anche la legislazione (Esodo-Deuteronomio) è per lo più provocata dagli avvenimenti, che di tempo in tempo si succedono; e così pure i pochi trattati, quali si possono chiamare, per esempio, le lettere ai Romani e agli Ebrei. Gli stessi libri sapienziali, che più si svincolano dai fatti particolari, si appoggiano all'esperienza, ne raccolgono le lezioni, non fanno teorie. Da tutto ciò segue che nemmeno dobbiamo aspettarci dalla Bibbia un insegnamento completo della religione. Essa ci dà le carte di fondazione, diciamo così, di due religioni, la giudaica e la cristiana; ne stabilisce le basi e i muri maestri, ma a compiere l'edificio manca ancora parecchio.

Nell'intenzione di chi scrisse, e di chi raccolse gli scritti nel canone, la Bibbia, tuttavia, fu certamente qualcosa di più che una raccolta di documenti sulla storia della religione e sul pensiero di alcuni illustri suoi rappresentanti. Ciò che si legge a conclusione del quarto Vangelo: "queste cose furono scritte, affinché voi crediate" o nel principio del terzo: "parvemi bene di scrivere per te, ottimo Teofilo, perché tu conosca la certezza delle cose che ti furono insegnate", può applicarsi a tutti i libri della Bibbia. Gli autori, consci o no della propria ispirazione, hanno scritto per essere creduti: coloro che li ammisero in una categoria a parte di libri sacri prestarono loro una fede superiore a ogni dubbio. La Bibbia pone i fondamenti della religione e della morale, ed esige ascolto nelle credenze e nella pratica della vita. A questo suo carattere la Bibbia deve il suo posto eminente e la sua immensa influenza sulla vita dei popoli.

Il testo della Bibbia.

Due lingue si dividono l'onore di essere le originali adoperate dagli scrittori biblici a tramandare ai posteri i loro concetti: l'ebraica, lingua semitica del ramo occidentale o cananeo, e la greca, che ha un suo proprio e nobilissimo posto fra le lingue indoeuropee. Una terza, l'aramaica, un dialetto semitico del ramo settentrionale (v. aramei: Lingua), segue a grande distanza, non essendo rappresentata che in pochi capi di due libri (Daniele, II, 4-VII, 28 e Esdra, IV, 8-VI, 18; VII, 12-26). All'ingrosso, si può dire che in ebraico (e aramaico) fu scritto l'Antico Testamento, in greco il Nuovo.

Più precisamente due deuterocanonici dell'Antico Testamento (Sapienza e II Maccabei) furono scritti originariamente in greco. Degli altri (Tobia, Giuditta, Baruc, Ecclesiastico in parte) si è perduto il testo originale ebraico o aramaico, e ne tiene luogo per noi l'antica versione greca. Questo medesimo deve dirsi per uno o due scritti del Nuovo Testamento, come il Vangelo di Matteo ed Ebrei, o Giacomo se, come dissero gli antichi e parzialmente si ritiene ancora da alcuni, essi furono stesi primitivamente in ebraico (o aramaico). Peraltro tutti questi scritti nella trasmissione attraverso i secoli seguirono la sorte della rispettiva parte (versione dei Settanta, Nuovo Testamento) della Bibbia greca, come le parti aramaiche dell'Antico Testamento seguirono le sorti dell'ebraico in cui si trovano come immerse. La storia e la critica del testo perciò praticamente non conosce che due grandi rami della tradizione: l'ebraico dell'Antico e il greco del Nuovo Testamento.

Il testo Dell'Antico Testamento. - Esso è giunto a noi in un numero considerevole di manoscritti. È difficile farne un calcolo anche approssimativo, mancando notizie precise di molte biblioteche, specialmente private, e della stessa pubblica di Leningrado, che per antichità e rarità di codici (di provenienza orientale) è la più pregevole del mondo. Ma per numero di codici biblici sta ancora al primo posto la Derossiana (Palatina) di Parma, che ne conta più di 800. Assai pochi però contengono tutta la Bibbia ebraica; i più solo una parte, più o meno grande. Fra totali e parziali, trascurando i brevi frammenti, non è forse arrischiato affermare che i codici biblici ebraici ora esistenti possono ascendere verso i tremila.

L'antichità loro, almeno rispetto ai codici d'altre lingue, non è molto grande. I più antichi (e sono assai rari) possono risalire al secolo nono; il primo che porti una data non sospetta (Leningrado, Codice babilonico dei profeti) è dell'anno 916. Accade perciò che fra gli originali e le più antiche copie a noi giunte passano da 1000 a 1500 anni. In tanta distanza di tempo, ci avranno tali copie conservato fedelmente il tenore originale dei libri sacri? La domanda si presenta spontanea, quando si pensi con quanta facilità si introducessero gli errori nelle copie manoscritte; prima dell'invenzione della stampa, era praticamente impossibile che due codici fossero, per il testo, esattamente uguali.

Ora vaste e diligenti ricerche hanno accertato i seguenti fatti:

1. In così gran numero di codici le varianti testuali sono relativamente pochissime e di lieve conto: per lo più non toccano che l'ortografia e pronuncia delle parole, il numero dei sostantivi, la flessione dei verbi e simili minuzie, che appena sfiorano il senso. Questo fatto, che si può dire unico nella storia letteraria dell'antichità, balza evidente dalle collazioni pubblicate da Beniamino Kennicott (Vetus Testamentum hebraice cum variis lectionibus, Oxford 1776,1780; circa 600 codici e 50 edizioni) e da Gian Bernardo De Rossi (Variae lectiones Veteris Testamenti, Parma 1784-1788; Supplementum, ivi 1798), che portò il numero dei codici collazionati a quasi 1200 e le edizioni a circa 300: lavoro immenso, che praticamente ebbe solo esito negativo; ma era pur necessario per mettere una buona volta fuor di dubbio un fatto così importante. In questo senso quel lavoro fu definitivo; i nuovi studî, che ora si proseguono specialmente da P. Kahle, sui codici orientali più antichi, riguardano esclusivamente la pronunzia e la grammatica della lingua ebraica (v. ebrei: Lingua).

2. La medesima uniformità, o poco meno, ritroviamo nei secoli precedenti risalendo attraverso le testimonianze degli scrittori giudei e cristiani e le versioni antiche, sino al sec. II dopo Cristo.

3. Se invece passiamo ai secoli precristiani, troviamo condizioni notevolmente diverse: di quell'età abbiamo testimoni un frammento ebraico nel papiro Nash, il Pentateuco samaritano e soprattutto la versione greca detta dei Settanta (v. p. 892 seg.), che per tutta l'estensione della Bibbia ebraica tiene per noi il posto di un codice ebraico del sec. III avanti Cristo. Qui le divergenze dal testo corrente anzidetto sono a un tempo e numerose e gravi: toccano sovente il senso e talora persino la redazione di un intero libro (ordine delle parti, omissioni o aggiunte, ecc.).

4. Il medesimo testo ebraico a noi giunto ci dà modo di risalire ancora più su verso l'origine stessa dei sacri libri. Infatti non poche narrazioni, genealogie, poesie, si trovano riportate alla lettera in diversi libri, per es. in Samuele-Re e nelle Cronache, nei Re e nei profeti, in Samuele e nei Salmi; anzi entro lo stesso Salterio, in diverse parti si trovano salmi in sostanza identici, in origine un solo. Ora anche fra tali duplicati si notano non poche né lievi differenze, quali solevano facilmente introdursi nella trascrizione a mano, svarioni di copisti o ritocchi di recensori. Si noti che le medesime divergenze si vedono rispecchiate nella detta versione greca: segno che rimontano a età più antica, non precisabile. Diciamo così in genere, che il tempo che va dalla composizione dei libri all'epoca greca (fine sec. IV a. C.), fu il più infausto per il testo ebraico; allora si produsse la massima parte delle mende, che ne offuscano molte pagine. Non tutti i libri ne furono ugualmente tocchi; quelli del Pentateuco, p. es., ci giunsero in uno stato che potremmo dire ottimo; i più bistrattati dalla sorte sono Samuele, Proverbî, Ezechiele, e alcuni profeti minori. Ma anche in questi, è doveroso notarlo subito, le corruzioni del testo, se modificano il senso di molti luoghi, non toccano mai la sostanza.

I fenomeni ora segnalati trovano la loro spiegazione in altri fatti non meno accertati dalla storia. Dalle origini della letteratura ebraica sino all'epoca greca la nazione israelitica andò soggetta a gravissime vicende, che ne turbarono la normale evoluzione e certo dovettero pesare fortemente sulla trasmissione dei testi letterarî. Fra tali vicende la più grave fu l'esilio babilonese, con l'abbandono della patria, dopo il quale Neemia sent'ì il bisogno di raccogliere, come da naufragio, i resti della letteratura religiosa (II Maccabei, II, 13). Ma anche doveva aversene in quelle prime età meno cura, quando il canone dei libri sacri non era ancora fisso, quando il carattere sacro dei singoli scritti non era ancora conosciuto o accertato.

All'epoca greca, se non già nella persiana, sorsero gli scribi (ebr. sophĕrīm "letterati", da sepher "libro" o da sāphar "contare") dati per professione allo studio e all'interpretazione della legge (Tōrāh), nome tolto dalla parte principale della Bibbia ebraica (v. p. 879) ma esteso a tutto il suo complesso. Dagli scribi comincia quel crescente accumularsi di minute osservazioni intorno al testo biblico che formò poi l'immenso e complesso corpo della "masora" (v. sotto). Agli scribi in particolare si attribuisce la divisione e numerazione dei versetti di ciascun libro, sulla quale è basata quella che anche oggi si usa per comodità di citazione (p. 879). Spento lo stato giudaico dalla forza romana, l'opera degli scribi fu continuata dai rabbi o rabbini. Ma. stando ancora in piedi il Tempio (sec. I) una tradizione giudaica (v. Schwab, Le Talmud de Jérusalem, VI, p. 179 e Ugolini, Thesaurus antiquitatum, XV, col. 902) sembra indicare che fu fatta una revisione del testo sacro, scegliendo la lezione attestata da due codici contro uno. Certo è che d'allora in poi si vede circolare quell'unica forma di testo così fissa e quasi inalterabile che sopra abbiamo segnalata. Il merito di tanta esattezza e concordia nella trascrizione dei sacri libri si deve allo zelo dei rabbini, diventati la forza viva della nazione, i quali stesero minute prescrizioni ai copisti (v. il trattato Sophĕrīm nel Talmūd) inculcando la massima attenzione per rispetto alla parola di Dio; ordinarono che si rivedessero con diligenza le copie, e le difettose fossero gettate nella genizāh o ripostiglio della sinagoga; stesero liste di vocaboli che sotto tal forma determinata occorrono nella Bibbia tante volte e non più: utili repertorî per mezzo dei quali si possono agevolmente scoprire ed emendare gli errori e togliere i dubbî se mai sorgessero intorno all'esattezza di qualunque testo. Tali liste od osservazioni, tramandate prima nelle scuole, poi scritte in margine del testo sacro o in appendice ai codici, costituiscono appunto quella "masora" (māsoreth, māsōrāh, "tradizione"), che acconciamente fu detta far da siepe alla Torà", chiudendo l'adito all'intrusione di stranieri o cattivi elementi. Questo lento e paziente lavorio critico terminò intorno al sec. X dopo Cristo.

Intanto s'era introdotto un nuovo importante elemento nella scrittura dell'ebraico. Sino al sec. VI d. C. almeno, secondo l'uso delle lingue semitiche, nessun segno speciale indicava le vocali per mezzo delle quali doveva essere pronunziata ogni parola: l'alfabeto semitico non contiene infatti che consonanti. A ovviare alle incertezze che potevano sorgere nella lettura specialmente d'una lingua morta qual era da secoli l'ebraico, fra il secolo VI e il VII d. C. si cominciò, a imitazione dei Siri, a indicare le vocali con punti sopra o sotto le rispettive consonanti. Con la varia combinazione di punti e lineette ne vennero fuori varî sistemi di vocalizzazione, le cui origini ed evoluzioni sono ancora oscure. Fra tutti prevalse poi il sistema detto tiberiense, dalla città di Tiberiade dove sembra si sia formato al principio del sec. VIII d. C., e talmente prevalse, che non solo fu l'unico adoperato nelle scuole e nella stampa sino ai nostri tempi, ma anche fece al tutto dimenticare gli altri, disseppelliti poi soltanto verso la metà del sec. XIX. L'invenzione dei segni vocalici, introdotta per la retta pronuncia del testo sacro, non fu mai applicata ad altre scritture, private o profane, e neanche nei manoscritti biblici è d'uso universale; quelli che sono destinati alla pubblica lettura nelle sinagoghe è prescritto ancor oggi che siano senza vocali, almeno il Pentateuco (tōrāh) e il libro di Ester.

Dai tempi dei masoreti (sec. IX-X) all'invenzione della stampa, si propagò il testo nei manoscritti secondo le prescrizioni della masora, con rigorosa fedeltà in quelli d'uso pubblico, con minore in quelli d'uso privato, donde quelle poche e lievi varianti che abbiamo detto. Questo stato di cose si riflette nel primo mezzo secolo della stampa, nel quale il numero delle Bibbie, o parti di Bibbia, ebraiche, pubblicate specialmente in Italia, fu relativamente considerevole. Nel 1525 presso il tipografo-libraio Bomberg a Venezia per cura di un Iacob ben Chayim, dotto ebreo, uscì una Bibbia intera con commenti (Bibbia rabbinica) col testo scrupolosamente conformato alle prescrizioni della masora. Questa edizione fu la base di tutte le numerosissime che si susseguirono sino ai nostri giorni, comprese le due critiche e ottime, di D. Ginsburg, Londra 1908-1926, più accurata, e di R. Kittel, Lipsia 1906, 3ª ed. Stoccarda 1929, la più usata nelle scuole, con breve apparato di varianti.

Conchiudendo: nelle copie o stampe correnti noi oggi leggiamo il testo ebraico in una forma o recensione fissata nel sec. I dell'era volgare. Questa è una copia soddisfacente, ma non del tutto esatta, del testo originale. A emendarla, ove occorre, quasi a nulla servono i numerosi codici ebraici, poco le versioni fatte nei primi secoli cristiani, molto invece l'antichissima versione greca detta dei Settanta. Ove questa non basti (caso non raro), non rimane altro che il ricorso alla critica interna, alla congettura, la cui legittimità., se con giudizio applicata, nell'Antico Testamento è provata da quanto sopra è stato detto.

Il testo del Nuovo Testamento. - Questo è in condizioni assai migliori di quello dell'Antico Testamento, anzi così favorevoli che nessun libro dell'antichità può essergli neanche da lungi messo a paragone. Quasi tutti i classici non ci sono giunti che in pochi manoscritti e di età piuttosto bassa, pochissimi più antichi del sec. IX d. C. (fra cui i frammenti di papiri greci di recente scoperti). Il Nuovo Testamento invece ci si presenta in 17 fra codici e frammenti del sec. IV, 24 del V, 37 del VI, e così via: si aggiungano versioni antiche (alcune del sec. II o III), e le citazioni di scrittori (dal sec. II in poi), che ci conducono a meno di 100 anni dagli originali; del che non si ha quasi traccia nelle letterature classiche. La critica testuale del Nuovo Testamento è un campo senza pari per l'abbondanza dei materiali e per la sicurezza dei risultati. I manoscritti conosciuti, fra totali e parziali, sommano a più di 4000, di cui almeno 170 unciali (maiuscoli) e 40 papiri. Numero così grande di copie diede anche grandissima quantità di varianti, secondo il normale andamento sopra accennato: ma allo stesso tempo offre alla critica abbondanti e preziosi mezzi per giungere sempre o quasi alla genuina lezione, almeno con la più grande probabilità.

Fu detto che i testi del Nuovo Testamento offrono più varianti che parole. Ciò può esser vero, se si tien conto di tutte le singolarità d'ogni codice, e delle varietà ortografiche alle quali si presta la lingua greca specialmente col suo iotacismo: è però difficile fare un calcolo anche approssimativo; e in ogni caso non si vuol dire con ciò che ogni parola sia controversa, poiché intorno a una sola parola sono sovente molte le varianti, e, secondo il computo di due esperti quali il Westcott e il Hort, "la gran massa del testo, diciamo i sette ottavi, è attestata unanimemente da tutta la tradizione e su di essa non cade ombra di dubbio" (The N.T. in Greek, Londra 1896, II, p. 2). L'ottavo restante, che forma propriamente la materia della critica, consiste per lo più in differenze di ordine nelle parole e simili quisquilie (sostituzione del nome a un pronome, omissione o aggiunta di un e, ecc.) senza influenza sul senso: e anche di questo ottavo la parte su cui potrebbe cader dubbio, secondo i principî e il giudizio dei medesimi critici, si riduce a un sessantesimo, e siccome in questo sessantesimo la proporzione delle quisquilie è maggiore che nell'ottavo precedente, i casi dubbî di vera importanza difficilmente possono superare la millesima parte di tutto il Nuovo Testamento. Quindi rettamente conchiudevano: "Nel Nuovo Testamento l'abbondanza, varietà e relativa eccellenza dei documenti sì poco lascia alla pura emendazione congetturale, che praticamente essa si può trascurare" (op. cit., p. 3).

Per l'emendazione critica delle imperfette copie a noi giunte tre vie si possono seguire, e di fatto furono seguite dai critici: affidarsi ai codici più antichi e più corretti, esaminare caso per caso l'intrinseca probabilità delle lezioni, classificare i codici e cercar di giungere al comune archetipo. Le tre vie non si escludono assolutamente a vicenda; ma la terza, più lunga e più laboriosa, è pure la più solida e la più battuta dalla recente critica: nulla osta ch'essa sia, nei casi dubbî o difficili, contemperata con le altre due.

La prima edizione di tutto il Nuovo Testamento greco fu stampata l'anno 1514 ad Alcalà (Spagna) ma pubblicata solo nel 1522 (vedi pagina 914). Intanto Erasmo lanciò al pubblico (Basilea 1516) la sua edizione, che, fatta su pochissimi e recentissimi codici, epperò d'infimo valore, fu tuttavia la base di tutte le seguenti sino al sec. XIX. Quel testo, poco o punto migliorato da Roberto Estienne (Stefano; quattro edizioni, 1546-1551), dai celebri Elzevir nella loro seconda edizione (Leida 1633) fu proclamato textus receptus "testo da tutti accolto", e quel nome gli rimase fino ai giorni nostri. Col sec. XVIII cominciano le edizioni critiche; ma per più di un secolo ancora i critici editori (Mill, Oxford 1707; Wettstein, Amsterdam 1075; Griesbach, Halle 1774 e 1796, Lipsia 1805; Scholz, Lipsia 1830) si contentarono quasi solo di porre sotto il testo volgato (receptus) un numero sempre maggiore di varianti raccolte dai manoscritti, dalle versioni, dalle citazioni d'antichi scrittori. Influsso duraturo ebbero il Wettstein, che designò i codici con un sistema di lettere e di numeri, ancora vigente in gran parte, e il Griesbach, che introdusse il principio della classificazione. C. Lachmann, nome illustre negli annali della filologia classica, per il primo osò dare (Berlino 1831) un testo corretto a norma dei codici più antichi e della Volgata latina (rappresentante di un codice del sec. IV). Sopra simili principî critici fondarono i loro testi s. Tregelles (Londra 1857-1879) e C. Tischendorf, infaticabile ricercatore di codici, che pubblicò in trent'anni (1841-1872) non meno di 24 edizioni; la più vasta di mole e accurata, oggi non ancora invecchiata, è l'ultima, da lui chiamata octava maior, Lipsia 1869-1872, 2 voll., fondata soprattutto sul codice Sinaitico, scoperto dallo stesso Tischendorf e portato in Europa (ora a Leningrado). Ne scrisse i Prolegomena, morto il Tischendorf, il suo discepolo R. Gregory (Lipsia 1894). Gl'inglesi B. F. Westcott e F. J. A. Hort nella loro pregiata edizione (Londra 1881; puro testo, senza apparato critico) tornarono ai principî critici del Griesbach, fondati sulla classificazione e genealogia dei codici, preferendo quasi sempre la recensione da loro chiamata "neutrale" (codice Vaticano B e compagni). Anche sulla classificazione si fonda l'opera veramente gigantesca di H. von Soden (Berlino-Gottinga 1902-1912, due parti in 4 volumi), che collazionò di nuovo codici in assai maggior numero, designandoli con un sistema di sigle interamente nuovo e piuttosto complicato, che non ha avuto molta fortuna, raggruppandoli in tre recensioni (con parecchie suddivisioni), e seguendo di norma la lezione concordante di due contro la discordante della terza. Tutto questo immane sforzo (è forse la più grande opera di critica testuale che si sia mai condotta a termine), e pure ammettendo i molti e rilevantissimi pregi di esso, non soddisfece i dotti, per i non lievi difetti e inconvenienti che esso comportava, e una commissione internazionale, con a capo E. von Dobschütz, prepara ora una nuova edizione sul modello di quella del Tischendorf: ma finché essa non esca, sarà sempre indispensabile l'apparato critico del von Soden accanto a quello del Tischendorf.

Intanto, in tutto questo succedersi e anche battagliare di edizioni critiche e di polemiche relative, il fatto più notevole si è che, come scrisse acutamente il Gregory, il vecchio textus receptus è stato definitivamente seppellito senza rimpianto e senza speranza di ritorno. I moderni in sostanza sono d'accordo nel preferirgli un testo che s'accosta più o meno al codice Vaticano B e simili. Di questo tipo sono pure le edizioni scolastiche manuali, del Nestle (13ª ed. riveduta, Stoccarda 1927) fondata sul consenso delle grandi edizioni, del Vogels (2ª ed., Düsseldorf 1922) su proprie basi indipendenti, di E. Bodin (Parigi 1918) sul codice Vaticano.

Nominiamo, per l'intelligenza di ciò che segue, i principali codici, che sono: il Vaticano 1209 (sigla: B) del sec. IV; il Sinaitico (ora a Leningrado, Biblioteca pubblica, sigla א, talvolta S ovvero 01) anch'esso del secolo IV; l'Alessandrino (British Museum, Londra: A) del sec. V; il cosiddetto Palinsesto di Efrem o Codex Ephraemi rescriptus (Parigi, Nazionale, frammentario: C) del sec. V; il cod. Freer a Washington (W), ancora del sec. V; il Cantabrigense o di Beza (Cambridge, Universitaria: D) greco-latino, del sec. VI. suoi fratelli minori possono dirsi altri bilingui greco-latini del medesimo sec. VI, come il Laudiano (E; 08) degli Atti, scritto in Sardegna e passato in Inghilterra (sec. VII), ora a Oxford; e il Claromontano (D delle lettere paoline; 06) ora a Parigi (Nazionale); ed altri del sec. IX, come l'Augiense (F, ora a Cambridge, Trinity College) e il Boerneriano (G delle lettere paoline; 012, Dresda) che hanno le lettere paoline con traduzione interlineare. Ancora del sec. VI è tutto un gruppo di evangeliarî purpurei, di pergamena tinta in porpora, col testo in argento e oro: tali il codice di Rossano in Calabria (Σ) miniato, di Sinope (O, ora a Parigi, Nazionale), e N, trovato in Asia Minore, i cui fogli sono ora sparsi a Leningrado, a Patmos, a Roma (Vaticana), a Genova, a Vienna, a Londra; inoltre il Borgiano (T, greco-saidico); il Dublinese (Z), palinsesto, entrambi dei Vangeli. Meno antico (sec. VIII-IX), ma più importante, è il codice dei Vangeli di Koridethi (Caucaso), ora a Tiflis (Θ).

Come si è visto, per i codici in lettere "unciali" (all'ingrosso, maiuscole) si usano le lettere maiuscole dell'alfabeto latino e del greco (oltre la lettera א, alĕph prima dell'alfabeto ebraico, usata dal Tischendorf per il Sinaitico); per i codici in minuscola, più tardivi, numeri arabici progressivi (il n. 1 designa un codice di Basilea usato da Erasmo, e capostipite di una famiglia:1, 22, 118, 131, 209, 1582, 2193). In questa classificazione alcune lettere sono usate per designare codici diversi (p. es. D per il Codex Bezae e per il Claromontanus). Perciò si usano anche, per gli unciali, numeri arabici preceduti dallo zero. Per ovviare a quel difetto e per dare un'idea dell'età e del contenuto dei manoscritti, il von Soden usò le lettere greche δ, ε, α iniziali di διαϑήκη, εὐαγγέλιον, ἀπόστολος, per indicare manoscritti contenenti rispettivamente l'intero Nuovo Testamento, i soli Vangeli, i soli Atti ed epistole, e numeri che designano l'età del codice e indicano altresi se quelli del gruppo α contengono o no l'Apocalisse. Così B diventa, in questa classificazione, δ 1; א, δ 2; C, δ 3; A, δ 4; D (Codex Bezae) δ 5; W, ε 014; D (Claromontanus), a 1026; 1, δ 254; 28, ε 168;565, ε 93;700, ε 133; e cosi via.

Come nella formazione e storia del canone, così pure nella trasmissione del testo, gli scritti del Nuovo Testamento si dividono in gruppi. Ordinariamente si trascrivevano in codici separati i Vangeli, le epistole paoline, gli Atti con le lettere cattoliche; l'Apocalisse o va da sola, o si aggiunge all'uno o all'altro degli ultimi due gruppi. Di qui vario trattamento dei singoli gruppi, miscele e incroci di varî tipi, quando tutto il Nuovo Testamento si raccoglieva in un solo codice. I Vangeli, più sovente trascritti perché più popolari, subirono maggiori vicende anche per una ragione particolare a loro, come racconti paralleli, cioè l'influsso dell'uno sull'altro, ossia la tendenza di copisti e recensori a uniformare i passi paralleli, come già osservava S. Girolamo (prefazione ai Vangeli, o Lettera a papa Damaso). Però se nei Vangeli le fattezze del testo hanno lineamenti più spiccati, negli altri libri non prendono guari diverso colorito. Perciò nell'esporre il problema critico del Nuovo Testamento parleremo principalmente dei Vangeli, ma s'intenderà analogamente anche dei rimanenti gruppi di scritti.

Ora, nei Vangeli la tradizione manoscritta è tanto ramificata e gli incroci così varî, che a primo aspetto si ha l'impressione di un labirinto. Però un attento esame rileva presto poche linee maestre alle quali si riconducono tutte le ramificazioni; sono quattro classi o famiglie di codici, capitanate rispettivamente dagli unciali Alessandrino A, Vaticano B, Cantabrigense D, e di Koridethi Θ.

Ci si presenta anzitutto nella massima parte dei codici, specialmente di età tardiva, un testo che ha per caratteristiche: una dicitura morfologicamente più corretta, sintatticamente più precisa e più chiara, stilisticamente più fluida, insomma meno lontana dall'uso classico; cura di conformare, con piccoli ritocchi o aggiunte, il racconto d'un evangelista al racconto parallelo di un altro, o anche due luoghi simili del medesimo evangelista, o le citazioni dell'Antico Testamento alla lezione corrente dei settanta; pienezza di testo, sommando insieme le diverse lezioni che si trovassero sparse in altri codici o recensioni. Per esempio, in Luca, XXIV, 53 gli uni (codice B e compagni) dicono "benedicendo (εὐλογοῦντες) Iddio", gli altri (codice D e compagni) "lodando (αἰνοῦντες) Iddio", i più "lodando e benedicendo Iddio"; in Marco, VIII, 26 i primi "non entrar in paese"; i secondi "non parlare ad alcuno in paese"; i più "non entrare in paese, e non parlare ad alcuno in paese".

Questa forma di testo, che si nota nelle omelie di S. Giovanni Crisostomo e già nel codice alessandrino (A), sembra nata nel principio del sec. IV ad Antiochia, donde raggiunse Costantinopoli, e di lä si diffuse per tutto l'Impero bizantino, con una fortuna che sta in ragione inversa del suo valore, e subendo leggiere varietà di forme, ultima delle quali quel textus receptus, che dominò nelle stampe di tre secoli (v. sopra). Essa è chiamata da Westcott-Hort syrian, dal von Soden K (quasi koinè - comune) e mesga in relazione con la recensione lucianea dei Settanta (v. p. 893).

Alla parte opposta di questa confusa moltitudine di manoscritti giovani e vecchi, sta un piccolo manipolo di codici, venerabili per antichità e forti del loro valore. Ne è capo il Nestore dei manoscritti biblici, il Vaticano B, a cui sta di fianco il sinaitico (א), e seguono i parigini L (Nazionale, greco 62) e 33 (Naz., gr. 14, detto "il re dei minuscoli"), per dir solo dei principali, e le versioni egiziane (copte), abissina e (in massima) Volgata latina. Questi codici si distinguono per una dicitura più popolare, simile, per morfologia e particolarità ortografiche, a quella che le moderne scoperte ritrovarono negli innumerevoli papiri egiziani; per immunità (non totale) da contaminazioni armonistiche di un Vangelo con l'altro (soltanto in questa famiglia, p. es., la forma del Pater noster di Matteo, VI, 9-13, ossia la comune, non ingrossò quella, più breve, di Luca, XI, 2-4); per la tendenza alla concisione, omettendo parole o membri di frasi non necessarî e ridondanti. Più gravi e celebri sono le omissioni della finale di Marco (XVI, 9-20) e della pericope dell'adultera" (Giovanni, VII, 53- VIII, 11), speciali a questa famiglia (almeno ai principali codici), patria della quale è l'Egitto, e che da Westcott-Hort è chiamata "neutrale", e dal von Soden H, con accenno alla recensione esichiana dei settanta (v. p. 893).

Fra queste due classi estreme stanno altre due classi fra loro connesse e ciascuna con uno o più legami vincolata all'Italia. Viene anzitutto, più piccola, più vecchia e pur più balda e più spiccata, la piccola famiglia costituita dal codice di Beza (D) e dalle antiche versioni latine, che, nate in Italia o in Africa (v. p. 896 seg.), sono rappresentate soprattutto da codici dell'alta Italia, il Bobbiense (a Torino), il Vercellese, il Veronese, il Palatino (a Trento). Una delle caratteristiche di questa famiglia, spalleggiata sovente dall'antica versione siriaca, è la parafrasi, cioè il dire le stesse cose con altre o più parole; valgano ad esempio i due versetti Luca, V, 10,11, che poniamo di fronte sotto le due forme:

Tra le altre caratteristiche sono: omissioni brevi ma significative, p. es., Luca, XXIV, 6 "non è qui, ma è risorto"; 12,40 (due versi interi); 51 "adorandolo"; 52 "era portato in cielo"; aggiunte più frequenti e notevoli, per lo più fatti o circostanze d'un sapor piccante e meraviglioso. P. es., nel codice di Beza (e in esso solo) si legge in Luca, VI, 5: "Lo stesso giorno (Gesù) vedendo uno che lavorava il sabato, gli disse: O uomo, se tu sai quello che fai, beato sei; ma se non lo sai, maledetto sei tu e trasgressore della legge". Il Bobbiense latino, ed esso solo, nel racconto della resurrezione (Marco, XVI, 3) inserisce: "All'ora terza subitamente si fecero tenebre per tutta la terra e discesero dal cielo gli angeli e sorgendo egli nello splendore di Dio vivo, ascesero insieme con lui e tosto si fece luce". Questa forma di testo fu detta "occidentale", dalle regioni dove fu più diffusa e si mantenne più a lungo.

Ha con essa elementi comuni, quali la parafrasi e l'armonistica, ma se ne distingue per proprie lezioni, un'altra famiglia discretamente numerosa ma poco omogenea, perché i suoi membri s'incrociarono con testi d'altro tipo. I più notevoli sono il codice di Koridethi (Θ), in parte W, e un gruppo di minuscoli, tutti scritti nell'Italia Meridionale fra i secoli X e XII, (codici 13, 69, 124, 346, 543, 788, 826, 828, 983, 1689, 1709), gruppo detto Ferrar dal dotto irlandese che per il primo lo scoprì (1877), oltre al codice 565, "dell'imperatrice Teodora", purpureo scritto in minuscole per Teodora moglie di Teofilo (842-56). Questa famiglia nella classificazione di H. von Soden è compresa, con la precedente e altri "tipi" secondarî, in una più vasta "forma" o recensione che avrebbe avuto il suo centro in Palestina, e però da lui è chiamata I (Ierusalem). Più rettamente in questi ultimi anni alcuni dotti inglesi e americani (Streeter, Lake) rilevandone la particolare fisionomia, le hanno dato un luogo a parte e indicato come culla più particolarmente Cesarea di Palestina. Le ricerche per l'avanzamento della critica testuale del Nuovo Testamento si muovono ora in questa direzione.

Ciò posto, la superiorità del tipo rappresentato principalmente dal codice Vaticano B è ora universalmente riconosciuta. È una prova lampante della sua intrinseca bontà il fatto notevole, che tanti critici da un secolo in qua partiti da punti differenti e procedendo per vie diverse, siano giunti a ricostruzioni del testo così poco diverse fra loro e dal codice E: "Nove volte su dieci (scriveva F.C. Burkitt, in Journal of theol. Studies, gennaio 1916, p. 149 seg.), le lezioni del tipo chiamato dal Hort neutrale, dal von Soden H, le lezioni insomma dei codici א e B... si raccomandano da sé ai critici editori... Difatto le teorie intorno alla critica testuale del Nuovo Testamento cambiano più che il testo accettato dai critici come originale. Divergono assai fra loro le teorie del Hort e del von Soden intorno alla classificazione dei documenti, al relativo valore delle classi, alle cause delle corruzioni e al metodo di ricostruire il vero testo; il piccante si è ch'essi giungono a un dipresso allo stesso risultato. Plus ça change, plus c'est la même chose". Ciò prova anche la sicurezza dei risultati già ottenuti. Per quel che resta, per quel decimo cui accennava il Burkitt, le questioni pendenti sono: Che valore dare alle varianti e alle omissioni (non alle aggiunte) proprie del testo occidentale o del cesariense? Può il textus receptus (K) averci conservato da solo qualche lezione genuina, primitiva? Sì, se esso è una recensione indipendente e parallela alle altre due (H e I) come giudica il von Soden; no, se esso non è indipendente, ma un amalgama degli altri due tipi, come pensa il Hort. E quanto c'è di vero nell'asserito influsso del Diatessaron (v.) di Taziano sull'armonistico livellamento dei Vangeli?

Dando una precisa risposta a queste questioni si farà avanzare la critica del Nuovo Testamento verso il suo ideale. Ma importa notare che qualunque risposta si dia, qualunque lezione o testo si preferisca o si sia preferito in passato, sotto qualunque forma, non un domma si aggiunge, non uno se ne toglie al credo cristiano.

La medesima classificazione (abbiamo già accennato) si applica, sebbene con rilievo assai minore, agli altri scritti del Nuovo Testamento, eccetto forse l'Apocalisse che ha storia a parte. Negli Atti il testo cosiddetto occidentale (codice di Beza, antica versione latina e pochi altri) diverge dal comune anche più che nei Vangeli; ora aggiunge brevi fatti, circostanze, nomi di luoghi e persone; il più sovente racconta in altra maniera i medesimi fatti, spiega la situazione, addolcisce i passaggi, ecc.; si calcola che sia di un decimo più lungo del testo rivale. Come spiegare tali differenze? Menò scalpore sulla fine del secolo scorso, riscosse applausi e si attirò critiche l'ipotesi, rinnovata da Federico Blass, di due redazioni originali: S. Luca avrebbe prima composto quel libro nella sua forma occidentale a Roma; più tardi l'avrebbe ritoccato o rifuso a Cesarea in Palestina dandogli quell'altra forma (più comune) che suol chiamarsi orientale (codice B e compagni). Al contrario, egli avrebbe scritto il vangelo prima in Palestina nella forma occidentale, e più tardi a Roma l'avrebbe ridotto alla forma orientale. L'ipotesi suppone che le caratteristiche del testo occidentale si restringano a questi due scritti; ma non spiega come simili caratteristiche abbia quel testo anche negli altri Vangeli. Più comunemente e più verosimilmente si crede che quel testo rappresenti una recensione del libro fatta quando la memoria dei fatti era ancora viva: il suo pregio sta nell'averci conservato (oltre qualche lezione genuina, primitiva) alcuni fatti e circostanze, che, quantunque non autentiche, cioè non del primo autore, storicamente tuttavia hanno il loro valore.

Versioni.

Con le traduzioni in altre lingue la Bibbia ebbe in tutto il mondo una diffusione che non ha l'eguale. (Per qualche dato statistico sul numero delle lingue v. bibliche, società). Non ancora era compiuta la serie dei libri che la compongono, e già l'Antico Testamento era tradotto nella lingua più diffusa dell'antichità, la greca; né d'allora in poi la Bibbia ha cessato di essere tradotta in sempre nuovi idiomi, come vediamo accadere ai giorni nostri. Bisogna però distinguere due generi, o due età, delle versioni: le antiche e le moderne, ossia in lingua d'una nazione antica o moderna. Le antiche sono ancora, direttamente o indirettamente, preziosi documenti per la critica del testo e spettano al filologo; le moderne non valgono più che per l'interpretazione del testo e appartengono alla storia. Le due serie non sono discontinue: mentre la prima con le parecchie versioni arabe e la paleoslava giunge al secolo IX, la seconda già si apre nel sec. VIII con i primi tentativi in anglo-sassone e in vecchio tedesco. Quanto alla storia della civiltà ha somma importanza il fatto che, per la maggior parte delle lingue antiche (siriaca, copta, etiopica, gotica, armena, georgiana, paleoslava) e per quasi tutte le moderne, la versione della Bibbia fu il primo monumento delle rispettive letterature, e sovente diede origine e impulso alla scrittura nazionale. Ai giorni nostri la Bibbia si può dire tradotta in tutte le lingue del mondo, specialmente per gli sforzi delle varie società bibliche. Il sec. XVI, per l'azione combinata del Rinascimento e della Riforma protestante, diede alle versioni della Bibbia un impulso e un'impronta affatto nuova; tuttavia le versioni medievali hanno grande interesse, anche per l'influsso che esercitarono sulle successive. Di regola, le versioni medievali e le moderne cattoliche sono fatte sulla Volgata latina.

Versioni greche dell'Antico Testamento. - I Settanta. - La più antica versione biblica, anzi il primo lavoro, che conosca la storia, di traduzione in grande stile, è la versione greca detta dei Settanta (o LXX), dal leggendario numero dei presunti interpreti. È considerata qui soprattutto in relazione al testo originale e alle numerose sottoversioni da essa derivate (per l'origine e la storia, v. settanta). In connessione con essa, per un vincolo stabilito dalla storia letteraria, toccheremo delle altre versioni antiche in greco.

La Settanta sorse ad uso, privato o pubblico, degli Ebrei grecizzati d'Egitto sotto il regno dei Lagidi, per opera di più traduttori. Della varia sua origine essa reca chiara impronta: i diversi libri o gruppi di libri variano assai fra loro di qualità, sia che si consideri la fedeltà o l'intelligenza o la grecità della traduzione. Il Pentateuco, che certo dovette essere tradotto per il primo, si può prendere quale modello di giusto mezzo per fedeltà non servile, buona intelligenza del testo originale, e grecità corrente ma non sciatta. Alcuni libri invece, come il Cantico, l'Ecclesiaste e parecchi libri storici e profetici, sono tradotti così servilmente, da riuscire non di rado incomprensibili. Al contrario altri, come Giobbe, i Proverbî, Daniele, sono così liberi di fronte al loro testo, che sovente appena si riconoscono. Giobbe e Proverbi affettano eleganza classica; la traduzione di Daniele è più andante, ma la Chiesa cristiana la ripudiò, preferendole, per questo libro, Teodozione (v. sotto). In complesso la versione dei LXX è quindi un'opera di colore e di valore assai disuguale. Tutto ben calcolato i traduttori dovettero essere molti, benché assai meno dei 70 voluti dalla leggenda. In media quella versione resta ben al disotto di quanto si esigerebbe oggi da un traduttore, al disotto anche di ciò che ci aspetteremmo da nativi Ebrei in quell'età ancora sì vicina ai tempi biblici. Tuttavia se consideriamo quanto si difettasse allora di mezzi per simile impresa, non possiamo che ammirare il coraggio e benedire l'opera di quegli antesignani delle versioni bibliche. Per la critica poi sovente una traduzione inetta val più d'una traduzione elegante, perché lascia meglio scorgere il testo originale tenuto innanzi dal traduttore; e appunto perché in questo sta il principal valore di quell'antichissima versione, dobbiamo essere grati al meticoloso letteralismo della maggior parte di quei traduttori.

I manoscritti che ci tramandarono quella prima versione della Bibbia, noti fino ad oggi, sono più di 1500, di cui oltre la metà i soli Salterî. Si indicano gli unciali più illustri con le maiuscole dell'alfabeto latino, tutti gli altri con numeri (da 13 in su). I primi unciali A, B, C, S (o א), contenendo la Bibbia intera, sono quei medesimi che così vedemmo designati per il Nuovo Testamento (v. sopra), cioè rispettivamente Alessandrino, Vaiicano, Palinsesto dî Efrem, Sinaitico. I più notevoli dei parziali sono: l'Ambrosiano A 147 inf. (F) del sec. v che contiene l'Ottateuco (Pentateuco e Giosuè, Giudici, Rut: complessiva denominazione frequente presso i Greci): il Colberto Sarraviano (G), sec. IV-V, incompleto e diviso fra Leida, Parigi e Leningrado, che contiene pure l'Ottateuco (larghi frammenti) con i segni diacritici origeniani (v. sotto); il Marchaliano (Q), alla Vaticana col n. 2125, sec. VII, che dà i profeti con molte lezioni esaplari (v. sotto) in margine; il Salterio Veronese (R), alla Capitolare di verona, sec. VI, con i salmi in latino e in greco trascritto in caratteri latini; il Basiliano (V) del sec. VIII, che comprende tutto l'Antico Testamento, di cui i libri storici alla Vaticana, 2106, il resto alla Marciana,1; il Chigiano (88) del fondo Chigi alla Vaticana, sec. X, che ha i soli profeti maggiori con i segni origeniani, e che, unico al mondo, ci ha tramandato per Daniele la versione greca dei Settanta.

Altre versioni dell'Antico Testamento. - Questa versione greca, detta anche alessandrina, accolta da principio da Giudei ellenizzati, fu poi adottata dai cristiani, che se ne servivano a scopo di propaganda nelle polemiche con i Giudei. Per ciò stesso e per le divergenze di quella versione dal testo ebraico allora (secolo II) corrente, i Giudei la ripudiarono e si volsero a far nuove traduzioni più fedeli al testo ormai divenuto ufficiale. Quindi sorsero nel corso del sec. II varie altre versioni greche, delle quali a nostra notizia giunsero sei, tre totali, che ebbero per rispettivi autori Aquila, servilmente letterale, Simmaco (v.), più libero ed elegante, Teodozione (v.) mediocre; e tre parziali, anonime e perciò chiamate per numero, quinta, sesta e settima. Di tutte queste però non giunsero a noi che scarsi frammenti nei resti della gigantesca opera di Origene, detta Esapla.

Di tutti questi traduttori abbiamo poche e confuse notizie presso i Padri della Chiesa: di Aquila anche nella letteratura rabbinica. Vagliate le fonti, si può stabilire con sufficiente certezza che Aquila era un proselito (gentile convertito al giudaismo) nativo del Ponto, divenuto poi in Palestina discepolo del famoso rabbi ‛Aqībā (v.). E appunto lo spirito di ‛Aqībā informa tutta la sua versione (da porsi fra il 130 e il 150 d. C.), cioè una scrupolosa venerazione per ogni apice del testo tradizionale. La lingua di essa è una singolare fusione di magistrale maneggio del greco e di sfregi impudenti alla sintassi classica, di audacia nel coniare nuovi vocaboli e di servilità alla lettera del testo; tutto perché la versione fosse un calco dell'originale ebraico persino nella quantità e nella forma dei vocaboli. Tal qualità andava tanto a genio agli antichi Giudei, che la versione di Aquila (immune, per testimonianza di S. Girolamo, da tendenze anticristiane) fu da essi preferita ad ogni altra, letta, usata e trascritta per secoli. Una legge di Giustiniano (Novella 146) ne autorizzò espressamente la lettura nelle sinagoghe, e di essa sola, fra le rivali, ci giunsero frammenti per tramite giudaico, fuori della tradizione esaplare; parecchi ne furono ritrovati l'anno 1897 fra i palinsesti della vecchia sinagoga del Cairo; i quali, confermando una notizia generica tramandataci da Origene e da s. Girolamo, ci rivelarono che in questa versione greca il nome tetragrammato di Dio (Jahvè) era scritto in caratteri ebraici della forma più antica (fenicia, non quadrata).

Il Greco Veneto. - In connessione con i LXX e le antiche versioni greche suole trattarsi del cosiddetto Graecus Venetus, traduzione medievale di parte dell'Antico Testamento (Pentateuco, Rut, Proverbî, Ecclesiaste, Cantico, Lamentazioni e Daniele), conservata unicamente nel codice Marciano greco 7, autografo. Si distingue per una meravigliosa padronanza del greco, una rara conoscenza dell'ebraico e dell'esegesi rabbinica, attinta principalmente al lessico di David Qimchi (v.), e una scrupolosa aderenza al testo, che ricorda Aquila: per questa ragione le parti aramaiche di Daniele sono rese in dialetto dorico. Mons. G. Mercati provò che autore ne è Simone Atumano (v.). La traduzione doveva far parte di un'intera Bibbia poliglotta, rimasta imperfetta.

Edizioni: Ne pubblicarono: il Pentateuco Cr. Fed. Ammon, Erlangen 1790, il resto J. B. D'Anse de Villoison, Strasburgo 1784; tutto per l'ultima volta O. Gebhardt e Fr. Delitzsch, Lipsia 1875.

Le esaple. - La medesima ragione della controversia religiosa fra cristiani e Giudei, congiunta con la grande varietà che intanto la versione alessandrina era venuta assumendo nelle diverse regioni del mondo ellenistico, anzi nelle copie d'una medesima regione, condussero al primo lavoro di critica, a un lavoro di mole ancora insuperata, dovuto al talento e all'energia di Origene. Nato in Alessandria, allora sede della filologia greca, e allevato nello studio della cultura classica, Origene parte trasportò alla Bibbia i metodi della critica omerica, parte creò del nuovo nella celebratissima "Esapla" ("sestupla", sottinteso: Bibbia). In sei colonne a linee di due e tre parole ciascuna, pose a riscontro:1. il testo ebraico nei suoi proprî caratteri; 2. lo stesso testo trascritto in caratteri greci; 3. la versione di Aquila; 4. quella di Simmaco; 5. la LXX; 6. Teodozione. In quei libri, dei quali trovò altre versioni (le suddette anonime parziali), vi aggiunse per esse una o due colonne, donde anche i nomi di Ettapla e di Ottapla che s'incontrano negli antichi, ma non vanno distinte dall'Esapla. Distinta opera invece è la Tetrapla, copia dell'Esapla ridotta a quattro sole colonne, con l'omissione delle due prime (ebraiche), indecifrabili ai più.

In quest'opera, ai LXX (5a colonna esaplare, 3ª nella Tetrapla) Origene fece il seguente trattamento: scelse fra i codici correnti un buon testo, e lo emendò dagli errori più evidenti; quelle frasi o parole che non avevano corrispondenza nel testo ebraico, segnò d'un obelo (- ovvero ÷); quelle invece che si trovavano nell'ebraico, ma non nella LXX, aggiunse (togliendole da un'altra versione, per lo più da Teodozione) contrassegnandole con un asterisco (*). Per tal modo ognuno poteva da sé facilmente vedere, in un'occhiata, ciò che fosse in ebraico e non in greco, e viceversa. Era questo uno appunto degli scopi prefissisi da Origene; l'altro era di togliere la discordante varietà dei codici e produrre l'uniformità (v. Patrol. Graeca, XI, col. 60; XIII, col. 1293). Né l'uno né l'altro gli riuscì; non il primo (se non in scarsa parte), perché i copisti che trascrissero il suo testo (la 5ª colonna), trascurarono per lo più i segni diacritici (asterischi e obeli) che gli davano valore: non il secondo perché in altri tipi di testo passarono soltanto, in varie proporzioni, i passi aggiunti sotto asterisco e quindi la varietà aumentò invece di diminuire.

L'Esapla non fu mai copiata per intero. Della 5ª colonna (recensione dei LXX) per opera specialmente di due intelligenti bibliotecarî di Cesarea, Panfilo (martire nel 309) ed Eusebio il celebre storiografo (v.), si fecero molte copie, sovente corredate in margine di note ed estratti delle altre versioni. Ma copie intere (di tutte le colonne) si fecero di alcuni libri soltanto, specialmente del Salterio, il più letto di tutti. Frammenti di due tali copie del Salterio giunsero a noi in palinsesti dell'Ambrosiana (questo non ancora pubblicato) e del Cairo. Preziosa, per la conoscenza dell'opera origeniana, è la versione siro-esaplare (5ª colonna, con molte lezioni delle altre in margine), fatta da Paolo vescovo di Tella nel 615-617, la seconda metà della quale è superstite in un codice ambrosiano, edito dal Ceriani. La prima parte, che nel sec. XVI era in mano dell'umanista belga Andrea Masio (Maes), scomparve alla morte di lui (1573); ma restano altre copie parziali (di pochi libri) nelle biblioteche di Parigi e Londra, insieme pubblicate dal de Lagarde. San Girolamo ridusse in latino tutto l'Antico Testamento sull'originale di Cesarea (5ª colonna); ma ne pubblicò poca parte, e a noi giunsero in poco felice stato solo Giobbe e i salmi.

Altre recensioni. - Non erano passati cinquant'anni dalla morte di Origene (254) e due altri studiosi si accinsero a nuovo lavoro di recensione, togliendo, secondo il lor modo di vedere, le imperfezioni dal testo corrente nei loro paesi: Esichio ad Alessandria e Luciano in Antiochia. Su Esichio non abbiamo di certo che questa notizia dataci da S. Girolamo (Praef. in Paral. ex hebr., in Patrologia Lat., XXVIII, col. 1324), ed è solo una congettura, che egli sia quell'Esichio vescovo egiziano, che morì martire sotto Diocleziano (311?; cfr. Eusebio, Hist. Eccl., VIII, 13). Di Luciano (v.) possiamo dire con certezza, ch'egli, fondatore della scuola esegetica di Antiochia e martire nel 312, fu autore di quella recensione dei libri santi, che vediamo poi apparire negli scritti dei grandi esegeti di quella scuola, come Giovanni Crisostomo e Teodoreto. Il testo lucianeo dei LXX è perciò ben conosciuto; s'allontana più d'ogni altro dal puro ceppo dei LXX e ha molte lezioni che vengono direttamente dall'ebraico, a volte diverso dal masoretico: e in ciò sta il suo valore. Del rimanente i caratteri di questa recensione sono quelli stessi che vedemmo nel testo antiocheno del Nuovo Testamento: dicitura più corretta, stile più fluido, pienezza di materia, lezioni doppie: p. es. a Numeri, XI, 32 il cod. Vaticano (B) porta: uccisero (le quaglie), altri, meglio, fecero seccare; Luciano; uccisero e fecero seccare; a I Samuele, XIV, 33, il verbo ebraico begattem che significa "prevaricaste" fu dai LXX preso qual nome proprio: "in Gettem"; Luciano ritiene questa falsa traduzione e vi aggiunge la giusta: "in Gettem prevaricaste".

Stato attuale. - Con la propagazione di questi tre tipi di testo (origeniano, esichiano, lucianeo) alla fine del sec. IV, secondo l'energica frase di S. Girolamo (loc. cit.), buon conoscitore che viveva in quei tempi, "tutto il mondo fra quella triplice varietà si dibatteva". Né qui si fermò lo scompiglio, perché da questi tre gruppi per miscele e influssi reciproci nacquero altri sottogruppi, sicché il testo della LXX ci si presenta ora nei codici, almeno per molti libri, con una tal massa di varianti, che a bella prima sconcerta. Tuttavia con un po' di studio riesce relativamente facile dipanare l'arruffata matassa, e ritrovare il testo o genuino o prossimo all'originale. Anzitutto si deve stabilire la lezione delle tre grandi recensioni (le posteriori manipolazioni si possono trascurare). Ora, la lucianea e l'origeniana sono facilmente riconoscibili per indizî documentati, e fra i competenti da gran tempo si è praticamente d'accordo in quali codici si abbiano da ravvisare. Oscuro, o almeno dibattuto, è ancora quanto concerne la recensione di Esichio. Ma un fatto della più grande importanza dà la chiave della decisione: si può provare con argomenti interni, ma evidenti, almeno per la massima parte dei libri, che tutte e tre le dette recensioni hanno per base o fondo comune un testo del tipo del codice B, sfuggito quasi del tutto all'influsso di quelle recensioni, e di tutti il più puro. Quindi nella ricostruzione critica dei LXX si prenderà a base il testo di B e si emenderà (poiché di pecche non manca) col confronto delle altre famiglie di codici. Questa è pure in sostanza la conclusione di A. Rahlfs.

Edizioni: Quattro edizioni tipiche furono date nei secc. XVI-XVIII, dalle quali dipesero le altre, in grandissimo numero, fino ai nostri giorni. Esse rispondono pure, all'ingrosso, ai quattro tipi di testo (tre recensioni, e cod. B) dei quali si è parlato. La prima fu quella di Aldo Manuzio (Venezia 1518), che rappresenta, in genere, la recensione esichiana. La Bibbia poliglotta di Alcalà (stampata nel 1515, pubblicata nel 1522) segue, nei libri storici soprattutto, i codici lucianei. Sotto Sisto V usci a Roma nel 1587 l'edizione, detta perciò sistina o romana, basata sul codice B; e per la bontà del suo testo e per le erudite note accolta con plauso e preferita dai dotti anche protestanti, divenne, per l'Antico Testamento greco, un textus receptus. Dopo oltre un secolo il prussiano E. Grabe, profugo in Inghilterra, le oppose la sua edizione (Oxford 1707), che riproduce il codice Alessandrino (A) ritoccato e supplito su altri testi e munito di obeli e asterischi, si da rappresentare (più nell'intenzione del Grabe che nella realtà) l'edizione origeniana.

Nei procellosi tempi della Rivoluzione francese R. Holmes, professore a Oxford, preparava e cominciava la grande edizione critica (Vetus Testamentum graecum cum variis lectionibus, I, Oxford 1798) continuata dopo la morte di lui (1805) da J. Parsons (altri quattro volumi, 1810-1827). Sotto il testo dell'edizione sistina si dànno le varianti di circa 300 codici, collazionati in ogni parte d'Europa; opera di gran mole (la più voluminosa che esista in questo genere), piuttosto confusa, inesatta nei particolari, ma per conclusioni generali sicura e non ancora antiquata.

Nel sec. XIX si fecero molti studî particolari e si cercarono vie metodiche per la critica di questa importantissima versione, nel che si segnalò sopra tutti il berlinese Paolo Antonio de Lagarde (nato Bötticher), professore a Gottinga, dove lasciò (morendo nel 1891) una scuola di continuatori. Intanto nel 1873 a Cambridge in Inghilterra si formava una Commissione per una nuova edizione critica dei LXX più comoda, più chiara e più esatta della vecchia di Oxford. Si mandò innanzi, per cura di H .B. Swete un'edizione minore o manuale (The Old Testament in Greek, Cambridge 1887-1894, voll. 3; ristampato più volte), che dà il testo del codice Vaticano B (in mancanza di questo א o A) e le varianti di alcuni unciali. Nel 1906 uscì il primo fascicolo (Genesi) della grande edizione (stesso titolo, in 4°) a cura di A. E. Brooke e N. Mc Lean: il testo è quello stesso dell'edizione minore, cioè del codice B; l'apparato critico dà le varianti di tutti i codici unciali conosciuti e di trenta corsivi (segnati, questi, con lettere minuscole dell'alfabeto latino); sono usciti finora l'Ottateuco (I vol.) e I-IV Re (vol. II, fasc. I e II). Profittando di questi lavori inglesi A. Rahlfs, scolaro del de Lagarde e capo del comitato per l'edizione della LXX (Leiter des Septuaginta Unternehmens) ha intrapreso un'edizione manuale, che dà un testo emendato, ossia ricostruito a norma di critica, e le varianti dei codici Brooke-Mc Lean, ma raggruppati in famiglie. Sono stati sinora pubblicati i libri di Rut, come saggio (Stoccarda 1922), e Genesi (ivi 1926).

Versioni aramaiche. - Targūm. - Da quando fra gli Ebrei, anche in Palestina, s'era spento l'uso dell'ebraico e adottato in sua vece l'affine aramaico, nelle singole sinagoghe giudaiche si soleva leggere la Scrittura facendo seguire subito al testo ebraico la sua traduzione nel dialetto volgare aramaico (a ogni versetto per la Tōrāh o Pentateuco, a ogni tre versetti per gli altri libri). Di qui sorse una tradizionale versione aramaica detta per eccellenza targūm ("traduzione"), la quale più tardi fu anche posta per iscritto. Se ne distinguono tre generi secondo le tre parti della Bibbia ebraica: il Targūm del Pentateuco, il più stimato fra tutti, attribuito ad un Onkelos, forma semitica (sembra) del greco 'Ακύλας, Aquila; il Targūm dei Profeti che va sotto il nome di un Ionathan (equivalente ebraico di Teodozione), discepolo di Hillel (sec. I), ma nella forma attuale è d'assai posteriore (sec. V); e il Targūm degli scritti o kĕthubhīm, assai disuguale.

Per il carattere comune alla maggior parte del Targūm esso veniva pur chiamato "parafrasi caldaica"; è tutto edito, accanto al testo originale, nelle Bibbie rabbiniche, e con versione latina nelle poliglotte (v. p. 914).

Edizioni speciali: del Targūm di Onkelos, di A. Berliner, Lipsia 1879 (masora) e Berlino 1884 (testo); del Targūm di Jonathan, di P. de Lagarde, Prophetae chaldaice, Lipsia 1872, e di P. Churgin, Targum Jonathan to the Prophets, Londra 1926; del Targūm dei kěthubhīm (meno Daniele ed Esdra-Neemia. che non furono tradotti mai) di P. de Lagarde, Hagiographa chaldaice, Lipsia 1873; quello della Cantica a parte da R.H. Melamed, The Targum to Canticles, Philadelphia 1921, tradotto in francese da P. Vulliaud, Le Cantique des Cantiques d'après la tradition juive, Parigi 1925, p. 67-103. V. anche targum.

Versioni siriache. - La Pescitta. - In siriaco, lingua del gruppo aramaico, l'Antico Testamento fu tradotto per tempo dall'ebraico, benché non se ne possa fissare il tempo (si tiene per il sec. II o III d. C.), e si disputi se i traduttori (parecchi senza dubbio) siano giudei o cristiani. Questo è più probabile; ma in ogni caso i più di essi conoscevano bene l'esegesi rabbinica, e produssero una versione in genere eccellente; ne turbano la purezza molte lezioni derivate dalla Settanta per opera sia dei traduttori, sia (più spesso) dei copisti. Fu chiamata (dal sec. X) Pescita (Peshittā) cioè "la volgata" o, secondo altri, "la semplice".

Del Nuovo Testamento furono tradotti prima i Vangeli, e appunto (pare) nella forma del Diatessaron di Taziano (v.), cioè fusi in un solo racconto. Più tardi si tradussero i Vangeli separati (damĕpharreshē): ne abbiamo due codici imperfetti: il sinaitico, palinsesto (nel monastero del Monte Sinai), scoperto nel 1892, e il curetoniano (al British Museum), edito dal Cureton nel 1858.

Quando siano stati la prima volta tradotti gli altri scritti del Nuovo Testamento non si sa. Al principio del sec. V., Rabbūlā vescovo di Edessa (o altri per suo impulso) corresse tutto il Nuovo Testamento siriaco (senza i deuterocanonici) sul greco allora corrente ad Antiochia, e formò così la Pescitta o volgata del Nuovo Testamento, che con la versione dell'Antico costituì la Bibbia comune a tutti i Siri, sebbene divisi poi in sette opposte. Anzi in tanto pregio fu presso di loro e tanto studiata questa versione, che fu circondata di un apparato grammaticale e critico a somiglianza della Bibbia ebraica, detto perciò (dai moderni) la masora siriaca.

Edizioni: Totali nelle poliglotte di Londra e di Parigi; a parte, per cura di S. Lee, Londra 1823-26; della missione protestantica, Urmia 1841; dei padri domenicani, Mossul 1887-91. Dell'Antico Testamento diede la riproduzione fotolitografica del codice più antico (l'Ambrosiano, sec. VI) A. Ceriani, Translatio syra Pescitto Vet. Test., Milano 1875-83; del Nuovo, edizione critica, Londra 1920; dei Vangeli G.M. Gwilliam, Tetraevangelium sanctum, Oxford 1901 (con apparato); dei Vangeli "separati", F. C. Burkitt, Euangelion Damepharreshe, Londra 1904; A.S. Lewis, The Old Syriac Gospels, Londra 1910 (sinaitica, con apparato).

Altre versioni. - Nonostante i rari pregi della Pescitta, specie nell'Antico Testamento, per il crescente prestigio della cultura greca si volle anche una versione fatta sulla LXX; se ne ebbero due: la .filosseniana e la siro-esaplare. Circa l'anno 508 per impulso di Filosseno, vescovo di Mabbūg, un Policarpo, corepiscopo, tradusse l'Antico Testamento sulla recensione lucianea; ne rimangono pochi frammenti (editi da A. Ceriani, in Monumenta sacra et profana, V, Milano 1868). Si estese anche al Nuovo Testamento, ma probabilmente non fece che ritoccare la Pescitta e aggiungervi i deuterocanonici che vi mancavano (frammenti editi da J. Gwynn, Remnants of the later Syriac versions, Londra 1909).

Un secolo più tardi (615-617) nel monastero di Ennaton presso Alessandria, per ordine di Atanasio, patriarca d'Antiochia, Paolo vescovo di Tella, compiva sulla recensione origeniana quella versione siro-esaplare, di cui più sopra è stato detto; e in modo analogo Tommaso di Harkel (Eraclea) rivedeva sopra diversi codici greci e muniva sia di asterischi e obeli nel testo, sia di varianti al margine, la filosseniana del Nuovo Testamento; recensione detta perciò Eraclense (ediz. di J. White, Versio philoxeniana (per "eraclense"), Oxford 1798-1803; manca un'edizione critica).

Oltre queste tre, che possiamo dire versioni complete, un'ultima se ne fece in Palestina, per uso dei melchiti, nel dialetto del paese (sec. VII ?); se ne conservano solo alcuni lezionarî (cioè le parti lette pubblicamente in chiesa; edizioni di Miniscalchi Erizzo, Evangeliarium hierosolymitanum, Verona 1861-1864 e di A.S. Lewis, A Palestinian Syriac Lectionary, Londra 1897; id., The Palest. Syriac Lectionary of the Gospels, ivi 1899).

Versioni copte. - Con la rapida diffusione del cristianesimo in Egitto sorse presto, e prima nelle regioni meridionali più lontane dai centri di vita greca, il bisogno di aver la Bibbia tradotta nella lingua volgare del paese, cioè la copta (v. Copti). Se ne ebbero col tempo quattro versioni secondo i quattro dialetti di quella lingua: saidica, boheirica, fayumica e akhmimica. Le due prime furono probabilmente complete, le due ultime solo parziali; di tutte non ci giunsero che frammenti. Se ne poté mettere insieme tutto il Nuovo Testamento nei due principali dialetti, boheirico e saidico.

Le versioni copte seguono per lo più, così nell'Antico come nel Nuovo Testamento, il testo del codice B, e sono perciò di ottimo soccorso per la critica; in Giobbe la sola versione saidica ci ha conservato il puro testo della Settanta (Ciasca, II, pp. xviii-xxxvi).

Edizioni:G. Horner, The Coptic version of the New Testament in the northern dialect (boheirico), Oxford 1899-1905, voll. 4; id., The Coptic version of the N. T. in the southern dialect (saidico), ivi 1911-1924, voll. 7. Dell'Antico Testamento le più importanti edizioni (parziali) sono: A. Ciasca, S. Bibliorum fragmenta coptosahidica Musaei Borgiani, Roma 1885-99; C. Wessely, Duodecim prophetarum minorum versionis achmimicae codex Rainerianus, Lipsia 1915; per la data v. I. Guidi, in Nachrichten v. d K. Ges. d. Wiss. di Gottinga, 1889, pp. 49-52.

La versione etiopica o abissina (in lingua ge‛ez) cominciata probabilmente già nel sec. V sul greco, giunse a noi in codici relativamente scarsi e poco antichi (al più del sec. XIII), e in questi sotto tre forme: il vecchio testo non ritoccato, e due recensioni, una sul testo ebraico (per l'Antico Testamento) e l'altra su una versione araba, derivata per lo più dal copto. Ha valore critico solo il primo (puro testo), che segue per lo più il tipo del codice vaticano B, come le copte, talora anche più fedelmente.

Edizioni: Dell'edizione critica, progettata da A. Dillmann in cinque volumi, non uscirono che il primo (Octateuchus aethiopicus, Lipsia 1853) ed i primi fascicoli del secondo (libri dei Re, ivi 1861) e del quinto (deuterocanonici, ivi 1894). Un'altra, cominciata nella Bibliotheca abessinica di E. Littmann, è ancora ai suoi principî. La sola edizione totale della Bibbia etiopica, ma più pratica che scientifica, si ebbe recentemente (Asmara 1920-1926) a cura dei missionarî cappuccini dell'Eritrea.

Versioni arare. - Poniamo qui, per chiudere il ciclo delle lingue semitiche, le versioni arabe, sebbene assai tardive. Infatti, benché il cristianesimo si sia mediocremente diffuso nei paesi di lingua araba sin dal sec. III o anche prima, non s'hanno però tracce di traduzioni arabe della Bibbia se non dopo che l'Islām e la conquista araba dell'Oriente diedero a quella lingua, con l'espansione, importanza politica e letteraria, cioè dal sec. VIII. Il Nuovo Testamento e i Salmi dovettero essere i primi a venir tradotti, e se ne conservano codici e frammenti del sec. VIII e IX alla Vaticana, a Lipsia, a Leningrado, al monte Sinai. Seguirono altre versioni dell'Antico Testamento del sec. IX o X almeno. Quanto agli originali immediati, gli Arabi tradussero da cinque lingue diverse: dal greco, dal siriaco, dall'ebraico (versioni dell'Antico Testamento fatte da Giudei), dal copto (sec. XII e seguenti), e persino dal latino (in Spagna, sec. IX-X). Non sembra però che alcuno abbia tradotto tutta la Bibbia, e le versioni complete che se ne leggono in pochi manoscritti (il più antico, ora al Museo Asiatico di Leningrado, è del 1238), e nelle Poliglotte di Parigi e Londra (dal codice Par. Nat. ar.1) sono un'accozzaglia di traduzioni parziali, d'indole e provenienza assai diversa. Le più sono inedite.

Edizioni: Fra le stampate le più importanti sono le versioni di Sa‛adia (sec. X; ed. Oeuvres complètes, Parigi 1893-1899; dall'ebraico) per la lesicografia e l'esegesi giudaica; la versione dei profeti, pubblicata nelle Bibbie poliglotte di Parigi e di Londra, per la critica della Settanta, (cfr. Biblica II, 1921, p. 401-422; Journal of biblical Literature, XLIV, 1925, p. 327-352); e quella del Diatessaron di Taziano (A. Ciasca, Tatiani Evangeliorum harmoniae, Roma 1888; v. diatessaron e taziano).

Versioni armene. - Gli Armeni (v.) confinanti con paesi di lingua greca e di lingua siriaca, e sotto l'influenza delle due letterature, ebbero le prime traduzioni bibliche dal siriaco; poi, per opera principalmente del loro patriarca Sahak (390-440), si volsero a Bisanzio per codici greci e su di essi tradussero tutta la Bibbia da capo; della primitiva traduzione dal siriaco non restano che lievi tracce nella nuova. Nell'Antico Testamento, la versione armena segue normalmente la recensione origeniana (esaplare), nel Nuovo il testo di Cesarea.

Edizioni: Ottima è quella curata da Joh. Zohrab (Venezia 1805) su otto buoni codici, con breve apparato critico di varianti; ristampata, ma senza le varianti, ivi 1860. Riproduzioni fototipiche d'importanti manoscritti dei Vangeli per cura di G. Kalatians, Mosca 1899 e F. Macler, L'Évangile arménien, Parigi 1920.

Versione georgiana. - Lo studio dell'antica versione della Bibbia in georgiano (una lingua caucasica) si può dire appena cominciato in questo secolo, e soltanto lo studio diretto di esso potrà stabilirne l'origine e le relazioni, meglio che le notizie contraddittorie degli storici delle due nazioni vicine, armeni e georgiani. Se ne conservano manoscritti, Salterî e Vangeli, del sec. VIII e IX, che si dicono copiati da originali del sec. V o della fine del IV. È difficile accertare la verità di tali asserzioni o anche l'età dei codici. Ma l'esame interno della versione rende probabile che le prime traduzioni, parziali, rimontino al sec. V o VI, e mostrano chiara l'influenza della versione armena. Più tardi, dopo la rottura della chiesa georgiana con l'armena (circa il 600), si aperse l'adito all'influenza greca, e sul greco furono rimaneggiate le vecchie traduzioni e se ne fecero di nuove. Si ebbe così, specialmente per opera dei monaci georgiani del monte Athos (il celebre monastero Iviron o degli Iberi) nel sec. X, tutta la Bibbia in georgiano. Non è ancora appurato qual recensione della Settanta segua nell'Antico Testamento; nel Nuovo s'accosta al testo di Cesarea.

Edizioni: L'unica edizione totale della Bibbia fu pubblicata a Mosca nel 1743 su fonti manoscritte antiche, ma ritoccate e completate sulla versione paleoslava. Le società bibliche ne hanno ristampate alcune parti nel secolo scorso. R.P. Blake ha dato un'edizione critica di Marco, con importanti prolegomeni (in Patrologia Orientalis, XX), Parigi 1928; altra W. Benesević, Quattor Evangeliorum versio Georgia vetus, fasc. I, II (Matteo e Marco), Pietroburgo 1909,1911.

Versione gotica. - Della versione in gotico (lingua sorella dell'antico tedesco) possiamo nominare l'autore e quasi precisare la data. Ulfila o Wulfila, vescovo dei Goti stanziati nella Mesia romana, sotto l'imperatore Valente (364-378) tradusse nella loro lingua tutta la S. Scrittura, eccetto i libri dei Re (Filostorgio, Hist. Eccles., II, 5; Socrate, Hist. Eccles., IV, 33). Resti di questa versione devono essere senza dubbio i manoscritti:1. palinsesti ambrosiani (quattro codici, più quattro fogli a Torino) provenienti da Bobbio, sec. V-VI (frammenti di Neemia, Vangeli, lettere paoline); 2. argenteo, in pergamena purpurea e scrittura d'argento, sec. V, ora ad Upsala (Vangeli); 3. carolino, bilingue gotico-latino, sec. V, ora a Wolfenbüttel (quattro fogli con Romani, XI-XV). Un altro foglio membranaceo gotico-latino con frammenti di Luca, XXIII, XXIV, fu trovato in Egitto nel 1907 (pubblicato in Zeitschrift für die neutestamentl. Wissenschaft, 1910, pp.1-38). È noto che il famoso codice bresciano dei Vangeli è copia della metà latina di un simile bilingue, trascuratane la parte gotica. Ulfila segue, tanto nell'Antico quanto nel Nuovo Testamento, la recensione lucianea o antiochena.

Edizioni: I frammenti ambrosiani, scoperti da A. Mai, furono pubblicati da O. Castiglione, Milano 1819-1839; l'argenteo da F. Iunius, Dordrecht 1665; il carolino da Fr. A. Knittel, Wolfenbüttel 1762. Dopo altre edizioni parziali, il tutto fu riunito in Patrol. Lat., XVIII, 407-872. Un'edizione moderna col testo greco a fronte, apparato critico e glossario ne ha dato W. Streitberg, Die gotische Bibel, 2ª ed., Heidelberg 1919.

Versione paleoslava. - Anche dell'antica versione paleoslava, almeno dei suoi principî, possiamo indicare autore ed età. I primi apostoli dei popoli slavi, i due fratelli tessalonicesi Cirillo e Metodio (sec. IX), hanno tradotto i sacri libri, o meglio una parte non bene precisabile di essi, in quel dialetto slavo che a loro dovette essere familiare: nel vecchio bulgaro. Nei più vecchi manoscritti, che risalgono al sec. XI, si trovano molte parti dell'Antico e del Nuovo Testamento; quali in caratteri glagolitici (v.), quali in cirillici (v.], con notevoli varietà fra di loro. La versione primitiva subì poi modificazioni in tempi e luoghi diversi e soprattutto dal lato linguistico, per l'inserirsi nella versione primniva, di elementi proprî alle lingue dei singoli popoli slavi di rito ortodosso. Quando sullo scorcio del sec. XV, Gennadio, arcivescovo di Novgorod, volle avere un esemplare completo della Bibbia paleoslava e a tale scopo andò cercando codici per ogni dove, di buona parte dell'Antico Testamento non ne poté trovare, e tradusse perciò (oppure fece tradurre) dalla Volgata Cronache, Esdra-Neemia, Tobia, Giuditta, Sapienza, due terzi di Geremia, i due libri dei Maccabei e poco altro. Ne risultò un complesso di varia origine e colore, che fu però la base delle edizioni della Bibbia paleoslava sino ai nostri giorni. Ora le accurate pubblicazioni di manoscritti cominciano a portar luce sulla storia di questa versione, e se ne spera vantaggio anche per la critica.

Edizioni: La prima edizione di tutta la Bibbia fu fatta ad Ostrog 1581, su manoscritti di Gennadio e qualche altro. Venne ristampata e riveduta a Mosca nel 1663, e più profondamente ritoccata sull'edizione Grabe della LXX (v. p. 894), Pietroburgo 1751. Quest'ultima è chiamata la "Bibbia di Elisabetta" dall'imperatrice regnante, e rimase il testo normale; fu sovente ristampata. Dei moderni editori di codici ricorderemo principalmente: V. Jagič (Quattuor Evangeliorum codex glagoliticus, Berlino 1879; Quattuor Evangeliorum codex Marianus, ivi 1883; Psalterium Bononiense, ivi 1907) e J. Vajs (Psalterium paleoslovenicum, Praga 1916; Ecclesiastes, Veglia 1905; Propheta Joel, ivi 1908; Propheta Osea, ivi 1910; Propheta Habacuc, ivi 1912; Sophonias-Haggaeus, ivi 1913; Rut, ivi 1905 e Praga 1926; Evangelium Sv. Marka, ivi 1927; il cosiddetto Evangelium Assemani, ivi 1927). Nel 1911 si annunziava una grande edizione critica totale per cura dell'accademia ecclesiastica di Pietroburgo (v. la rivista russa Hristianskoie Čtenie, XCI, pp. 435 e 644).

Versioni latine. - Due sono i generi, ben distinti, delle versioni latine della Bibbia: le antiche, anonime, e quella di S. Girolamo, che divenne col tempo la Volgata; le prime per l'Antico Testamento fatte interamente sul greco, l'altra direttamente sull'ebraico; quelle, opere volgari puramente pratiche; questa, opera scientifica di un uomo che nell'antichità non ebbe pari per cognizioni linguistiche e letterarie atte allo scopo. Rivali d'inegual forza, le due specie di versioni intrecciano in parte la loro storia. Diciamo subito che nell'odierna Volgata rimangono ancora libri interi dell'antica latina, da S. Girolamo neppur toccati, cioè Sapienza, Ecclesiastico, Baruc, i due Maccabei; ne rimangono altri che S. Girolamo soltanto ritoccò sul greco, i Salmi e il Nuovo Testamento; il rimanente è opera tutta personale del grande dottore della Chiesa, cioè tutti i libri del canone ebraico, più Tobia e Giuditta, tradotti dagli originali. Per questa fusione nella Bibbia latina medievale e moderna e per altre vie ancora, i due generi di versioni influirono, qual più qual meno, sulla formazione delle lingue romanze.

1. Le versioni latine prima di S. Girolamo. - Molte e gravi questioni si agitano ancora intorno alle prime versioni latine: se fossero una o più, dove e quando sorgessero. Prima di trattarne, dobbiamo fare un breve inventario dei principali codici, scritti per lo più in Italia, che ce ne hanno conservato una parte notevole.

Codici. - Per ordine di libri e per ampiezza di mole sta in capo a tutti il codice Lionese (Lione, Civica 54), che contiene (mutilo in principio ed in fine) l'Eptateuco (Genesi-Giudici), edito in due volte da U. Robert, Pentateuchi versio latina antiquissima, Parigi 1881, e Heptateuchi versio latina antiquissima, Lione 1900. Accanto a questo, ce ne dànno frammenti l'Ottoboniano della Volgata, sec. VII (v. sotto) e i palinsesti Monacense (Monaco 6225), sec. V-VI e Virceburgense (Würzburg, Università 64 a). Rut è nel codice di Madrid (Università 31), edito da S. Berger. Dei libri dei Re assai scarsi frammenti sono nel palinsesto già viennese sec. VI (ed. J. Belsheim, Palimpsestus Vindobonensis, Cristiania 1885) ora tornato a Napoli (Nazionale) e il Quedlinburgense, sec. VII, ora a Berlino (ed. V. Schultze, Die Quedlinburger Itala-Miniaturen, Monaco 1898). Per i libri di Tobia, Ester, Giuditta, talora misti alla Volgata, ve n'ha una mezza dozzina in varie biblioteche: Vallicelliana, Ambrosiana, di Lione, Alcalà, Monaco, ecc. I Salterî poi quasi non si contano, essendosi conservati a lungo in uso nella liturgia, prima di cedere alla Volgata (cfr. A. Allgeier, Die altlateinischen Psalterien, Friburgo in B. 1928). Il Cantico dei Cantici si conserva intero in più manoscritti (ed. D. de Bruyne, in Revue bénédictine, 1926, pp. 97-109). Poco invece abbiamo degli altri libri sapienziali: un palinsesto di Vienna (ed. A. Vogel, Vienna 1868) e frammenti in Verona (ed. Ch. U. Clark, New Haven 1909). Per i profeti, frammenti sparsi di un codice già di Costanza e un palinsesto di Würzburg, l'uno e l'altro edito da E. Ranke, il primo più completamente da A. Dold (Konstanzer altlatein. Propheten... Bruchstiicke, Beuron 1923) insieme con un sangallese.

Assai più numerosi, in proporzione, sono i codici del Nuovo Testamento, segnatamente dei Vangeli. In critica si sogliono designare con le minuscole dell'alfabeto latino. I principali dei vangeli sono, in ordine alfabetico: a, il Vercellese, sec. IV, ed. A. Gasquet, Roma 1923; b, il Veronese, sec. V, ed. (col precedente e altri) da G. Bianchini, Evangeliarium quadruplex, Roma 1748 (v. Patrol. Lat., XII); c, Colbertino (ora Parigi, Nat. 2541) sec. XII; d, la parte latina del bilingue Cantabrigense o di Beza (v. p. 889); e, Palatino, sec. V, purpureo, già a Vienna, dopo la pace di S. Germano al museo di Trento ;f, bresciano, sec. VI (v. p. 895); ff, Corbeiense (ora Parigi, Nat. 17225), sec. VI; k, Bobbiense (ora a Torino, università), sec. V; i, purpureo sec. VI, già Viennese, ora restituito a Napoli (Naz.); q, Monacense sec. VII.

Per le lettere paoline vengono in prima linea i bilingui greco-latini Claromontano (greco D, latino d), sec. VI, Augiense (f), sec. IX, ora a Cambridge, Trinity College, e Boerneriano (g), sec. IX, a Dresda; inoltre i frammenti di Frisinga (r), ora a Monaco, sec. VI. Per gli Atti e le altre lettere nominiamo il gigas librorum (g) così detto dall'enorme formato (cm. 88 × 45), sec. XIII, a Stoccolma, il Bobbiense (s), sec. V, palinsesto, tornato da Vienna a Napoli, e il Palinsesto di Fleury (h), sec. VII, ora a Parigi.

A questi codici bisogna aggiungere le copiose citazioni degli scrittori cristiani, fra cui i più importanti sono Tertulliano, Cipriano, Novaziano, Lucifero di Cagliari, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Girolamo, Cassiano e l'anonima raccolta di sentenze dall'Antico e Nuovo Testamento, detta (falsamente) Speculum S. Augustini (sigla m), conservato in un codice Sessoriano (Roma, bibl. naz. vitt. Em. 2106), del sec. VIII.

Edizioni: Raccolse quanto poté dai codici e dalle citazioni dei Padri su tutta la Bibbia il benedettino Pietro Sabatier, Bibliorum sacrorum latinae versiones antiquae, Reims-Parigi 1739-1749,3 voll. in folio. Singoli codici pubblicano le recenti collezioni: Old Latin Biblical Texts, Oxford 1883 e segg. (sinora 7 voll.); Collectanea biblica latina, Roma 1912 e segg. (6 voll.). Altri ne pubblicarono nel secolo XIX C. Tischendorf e J. Belsheim. Il progetto d'una nuova grande edizione complessiva, tipo Sabatier, formato dall'accademia di Monaco (Baviera), fu poi abbandonato al parroco J. Denk, che nel 1914 già ne annunziava la stampa; impedita questa dalla guerra, il materiale giace ora presso i benedettini di Beuron.

Una prima lettura e confronto di quei testi può cagionare perplessità e confusione. Ora tanta somiglianza da far pensare a una versione unica, ora, e poco dopo, tali e tante divergenze da far conchiudere a traduzioni diverse. Influenze per tutti i versi, incroci d'ogni sorta, ritocchi sul greco, ritocchi stilistici a varî strati, tutto concorre a rendere sovente difficile, se non impossibile, la soluzione; ma insieme è indizio eloquente di lunga storia e di vita intensa. Un esame più diligente, una paziente analisi dei fenomeni linguistici, in particolare del lessico, mette in chiaro due fatti: 1. dello stesso libro si dànno sovente due o più versioni; così, p. es., nell'Esodo i codici Lionese e Virceburgense hanno in fondo la stessa versione diversamente ritoccata, il Monacense invece ne dà un'altra tutta differente; ma nel prossimo libro del Levitico dànno tre versioni distinte, ognuno la sua, ed è impossibile far venire da una medesima traduzione originaria le citazioni dei profeti di S. Cipriano e quelle del suo contemporaneo Novaziano, o, nei Vangeli, il codice vercellese (a) e il bobbiense (k); 2. entro il medesimo codice passando da libro a libro troveremo non minore varietà. I quattro Vangeli ancora nella Volgata, dopo tanti ritocchi e tante vicende, mostrano chiari segni di essere stati tradotti da quattro mani differenti. Insomma né un solo traduttore di tutta la Bibbia, né una sola versione di ogni libro. "Si possono contare quelli che voltarono le Scritture dall'ebraico in greco, ma i traduttori latini non si contano punto" (S. Agostino, De doct. christ., II, 16). Si traducevano i varî libri alla spicciolata e da diversi qua e là e un'intera Bibbia latina si poté avere solo col tempo, adunando insieme le traduzioni parziali. Quando cominciò il lento lavorio? S. Agostino (loc. cit.) lo fa risalire "ai primi tempi della fede", cioè alla prima diffusione del Vangelo nelle provincie latine dell'Impero romano. Semplice induzione di erudito. Documenti storici però ci provano che verso il 180 in Africa si trovavano i libri principali (certo in latino) fra le mani di popolani, quali i martiri di Scilli; il punto iniziale poté essere almeno circa il 150. Tertulliano ora traduce direttamente dal greco, ora cita da versioni latine già esistenti: una Bibbia latina intera non l'ha ancora. San Cipriano invece già la possiede. Questi punti segnano le tappe della prima Bibbia latina; essa si formò, possiamo concludere, fra il 150 e il 230, almeno per quel che riguarda l'Africa.

Infatti la molteplicità anzi accennata delle versioni latine, a giudizio assai comune dei critici, si riduce a due tipi distinti, uno africano e l'altro europeo. Si parla in proposito di africitas e di africanismi. Ma sarebbe errore il credere che a tali nomi risponda una qualità assoluta, quasi che la versione africana contenga vocaboli e frasi esclusivamente usati nell'Africa romana; in tal senso non esiste alcun africanismo. Per africana si deve intendere quella versione, che nel linguaggio è conforme a quella citata da S. Cipriano; sua caratteristica è la frequenza di dati vocaboli a preferenza dei loro sinonimi (per es. incundari invece di laetari, felix invece di beatus, muscipula per laquens ecc.), e in genere una dicitura più rude, più curante di fedeltà che di lindura, più vicina alla lingua parlata del popolo che a quella dei letterati (esempî in Old Latin Biblical Texts, II, pp. xcix-cxxv111; H. v. Soden, Das altlatein. Neue Test. in Afrika, pp. 323-352; P. Capelle, Le texte du Psautier latin en Afrique, pp. 122-329, ecc.). Ciò posto, ci dànno la versione africana: dei Vangeli, i codici palatino e bobbiense (e, k); degli Atti, Lettere cattoliche e Apocalisse, il floriacense (h).

Europei, con termine generale e comprensivo, sono tutti gli altri manoscritti. Non si potrebbero suddividere anche questi per regione? Ci fu chi li distinse in gallici e italici; più comunemente, dopo il Hort, si dividono in europei in genere e italici in specie, essendo questi una revisione, una edizione migliorata di quelli. Recentemente, A. d'Alès (in Biblica, 1923, pp. 56-90) ha raccolto i materiali per dar consistenza a una vetus romana: perché la prima Bibbia latina sul suolo europeo non sarebbe nata a Roma. Suol dirsi che a Roma era conosciuto il greco e in greco si celebrava la liturgia ancora al see. III; ma è pur vero che a Roma era assai più densa che altrove la popolazione cristiana, in massima parte appunto del ceto popolare, più bisognoso d'una traduzione, e in ogni caso è certo che negli scritti di Novaziano (circa il 250) abbiamo elementi sufficienti di una Bibbia latina quale troviamo più tardi (sec. IV) sul suolo italiano; la possiamo dire, se non contemporanea, di poco posteriore a quella africana sopra menzionata.

Qui è il luogo di accennare almeno in breve alla famosa questione della cosiddetta itala versio. Sono ben note le parole di S. Agostino (De doctr. christ., II, 22), che hanno dato occasione a tante controversie: fra le traduzioni si preferisca alle altre l'itala, perché sta più attaccata alla parola senza venir meno alla chiarezza del pensiero" (In ipsis autem interpretationibus itala ceteris praeferatur; nam est verborum tenacior cum perspicuitate sententiae). Fuori di questo luogo, né mai più Agostino stesso, né alcun altro scrittore antico ha mai fatto menzione di una versione itala. Ma che cosa spremere da quell'unica frase? I più, tratti dal senso ovvio del vocabolo, tengono che l'itala fosse un'antica versione (o recensione) latina corrente in Italia: ma oltre questa vaga designazione non si va. Quot capita tot sententiae. Il Burkitt, e il De Bruyne pensano che l'Itala altro non sia che la Volgata o versione di S. Girolamo dall'ebraico. Contro questi e quelli sta la teoria e la pratica di S. Agostino: per qualunque forma dell'antica versione latina egli ha le più dure parole di biasimo (De doctr. christ., II, 16; Ep. LXXII, 6 e LXXXII, 35) e la versione dall'ebraico non amava si facesse (Ep. LXXII, 4; LXXXII, 35) e fatta non voleva si preferisse ai Settanta (De Civitate Dei, XVIII, 43; De doctr. chr., II, 22). Del resto il contesto stesso del De doctina christ. fa pensare piuttosto a versioni greche. Quindi è venuto il sospetto che la voce itala sia solo errore di copista; e chi la vuol cambiata in illa (Bentley, ultimamente d'Alès), chi in usitata (Potter), chi in Aquila (Vaccari), chi suppone una lacuna da supplire in parte: itat... fit ut a Iudaeis Aqui]la ceteris praeferatur, ecc. (Quentin). Quest'ultima pare la soluzione migliore. Meglio, probabilmente, imitare lo stesso Agostino e non curarci più dell'itala.

Comunque andassero le cose alle origini, certo è che nel secolo IV le versioni latine della Bibbia s'erano tutte notabilmente trasformate e, per le varie cause sopra accennate, avevano preso tal varietà di forme che, secondo l'enfatica espressione di S. Girolamo, non un codice assomigliava all'altro, anzi tanti erano i tipi di testo quanti i codici: tot exemplaria quot codices (Praef. in Evangelia; cfr. S. Agostino, loc. cit). Rimediare alla confusione fu uno degli scopi che mossero lo stesso S. Girolamo a dare alla Chiesa latina una versione interamente nuova dall'ebraico, per l'Antico Testamento.

2. La Volgata. - La considereremo qui nelle sue attinenze con i testi originali e con le versioni sia ad essa anteriori sia da essa derivate (v. anche volgata).

Il nome. - Nell'antichità, tra i secoli IV e V, vulgata editio si chiamava la traduzione dei Settanta e la latina da essa derivata, perché comunissima allora in tutte le Chiese; in tal senso la frase si legge proprio nella versione di S. Girolamo (Ester, X-XIV più volte), che sorse in opposizione a quella e poi le si sostituì nel fatto e nel nome di "volgata". Che cosa s'intenda ora per Volgata, già abbiamo definito: è la versione di S. Girolamo con parte dell'antica latina. I primi a darle questo nome, almeno stabilmente, furono Erasmo da Rotterdam e Le Fèvre d'Étaples nei primi decennî del sec. XVI; poco dopo, il concilio di Trento (1546) consacrava per sempre quella denominazione, già da secoli meritata di fatto.

Formazione della Volgata. - Autore della Volgata è detto S. Girolamo, e giustamente, purché con la restrizione già accennata. Egli in Roma (383) per impulso di papa Damaso corresse su ottimi codici greci la versione latina dei Vangeli. Inesorabile per tutto ciò che toccasse il senso, poco ritoccò per motivi puramente linguistici, e perciò non fece opera perfetta; ma in complesso, a giudizio dei più intendenti (citiamo per esempio il von Soden, il Harnack, il Vogels), produsse il miglior testo dei Vangeli, che a noi sia giunto. Corresse similmente anche il resto del Nuovo Testamento? Si ritiene comunemente di sì, sulla testimonianza dello stesso Girolamo (De viris ill., c. ult.); pochi, ma autorevoli, contraddittori lo negano. La bilancia pende sensibilmente per l'affermativa; ma è inteso che la correzione non fu così profonda né accurata come per i Vangeli.

Insieme col Nuovo, S. Girolamo mise mano all'Antico Testamento e prima correggendolo con simili criterî sul greco dei Settanta. Così a Roma (circa 384) emendò i Salmi alla lesta sul testo corrente (è il Salterio detto perciò romano, ora in uso soltanto nella basilica di S. Pietro in Vaticano). Più tardi (386), in Palestina, attratto dalla ricca biblioteca di Cesarea, ritoccò tutto l'Antico Testamento sul testo esaplare di Origene, di cui adottò anche i segni diacritici, obeli e asterischi. Di tal correzione però pubblicò pochi libri, e a noi ne giunsero due soli: Giobbe, in tre manoscritti (in Patrol. Lat., XXIX, coll. 61-114), e il Salterio che ora è d'uso in tutta la Chiesa latina e fa parte della Volgata; si chiama gallicano, perché diffuso dapprima nelle Gallie.

Una, e la principale, delle ragioni per cui S. Girolamo abbandonò l'impresa della correzione esaplare, si fu che intanto gli si andava sempre più nettamente delineando la convinzione che per la retta intelligenza dell'Antico Testamento non bastasse un qualunque rifacimento sul greco, ma bisognasse andare alla fonte, al testo originale ebraico. Già ben istruito in quella lingua e in continuo contatto con dottori ebrei, si accinse allora (verso il 390) all'opera interamente nuova della traduzione dall'ebraico. Incominciò dai libri di Samuele e dei Re, passò a Giobbe, ai Salmi (terzo Salterio, detto ebraico), ai profeti, ai libri sapienziali, alle Cronache e a Esdra; Tobia e Giuditta tradusse frettolosamente dall'aramaico in tempo imprecisato; con l'Ottateuco ed Ester finì (404) la lunga e laboriosa impresa.

Essa non è d'ugual valore per tutti i libri, né omogenea, avendo il santo dottore dato maggior cura e tempo agli uni che agli altri. Ma in genere è un lavoro eccellente, che riscuote ancor oggi l'ammirazione e il plauso dei dotti. Per sobria eleganza e nobile semplicità di linguaggio, congiunta con scrupolosa fedeltà, supera di gran lunga tutte le antiche versioni; per la retta intelligenza del senso, certo non sta dietro a nessuna di esse. Ha però i difetti del tempo (la filologia ebraica non era ancora nata) e delle scuole esegetiche, sia giudaiche sia cristiane, alle quali talora S. Girolamo cedette soverchio nella sua versione. Ma se ora è superata dalla scienza moderna, non bisogna né dimenticare i quindici secoli di studî che ci separano dal suo autore, né disconoscere che molto deve la scienza biblica moderna appunto a S. Girolamo.

La Volgata non ottenne subito la comune accettazione di tutto l'Occidente. Per tre secoli almeno dovette contendere il terreno all'antica latina; ma a ogni battuta segnava vittorie, e già era padrona del campo quando venne il rinascimento carolingico a consacrarne per sempre i trionfi. Alla lentezza della sua propagazione contribuì una circostanza estrinseca: in quei secoli rare assai erano le Bibbie intere; per lo più ogni libro, o gruppo di libri, circolava in codici separati; a raccogliere in un solo volume, quasi in edizione tipica, i libri della versione geronimiana con i necessarî complementi, occorreva l'opera cosciente e intelligente di letterati. E due ne sorsero all'uopo nel sec. VI: l'italiano Cassiodoro (v. Pantrol. Lat., LXX, 1124) e un suo contemporaneo spagnolo, probabilmente certo vescovo Peregrino (cfr. Civiltà cattolica, 1916, 1v, pp. 538-48 e Revue Benédictine, XXXI, pp. 398-401); l'uno e l'altro chiama il suo volume pandecten (quasi "raccolta completa") per indicare con un nuovo nome la novità del fatto: il corpus della Volgata era costituito.

Come in questo corpus entrasse parecchio dell'antica latina, già è stato detto sopra; ma anche per un altro verso quella vetusta versione si prese una postuma rivincita sulla rivale; nei libri stessi tradotti da S. Girolamo penetrarono (per interpolazione il più sovente) molti frammenti dell'antica versione; quelle interpolazioni furono il cattivo destino della Volgata in ogni tempo, e nella vicendevole intromissione ed espulsione di esse consistono i tre quarti della sua storia sino ai nostri giorni (cfr. Civiltà cattolica, 1922,1, pp. 492-506).

I codici della Volgata. - Quelli anteriori all'evo carolingio sono relativamente pochi. Ottimo, e il solo che comprenda tutta la Bibbia, è l'Amiatino (v. p. 923). Parziali sono il Pentateuco Turonense (Parigi Nazionale), sec. VII, illustrato; l'Ottateuco Ottoboniano (Vaticana, Ottob. 66) già del card. Cervini (Marcello II), sec. VII; il Fuldense, del Nuovo Testamento (Fulda, Abbazia), scritto verso il 540 per Vittore vescovo di Capua, che in luogo dei quattro vangeli separati vi pose un'armonia evangelica simile al Diatessaron (v.) di Taziano. Numerosi sono i codici dei soli Vangeli: Milanese (Ambrosiana) del sec. VI; Friulano (Cividale; parte a Praga e a Venezia), sec. VI-VII; di Cambridge (Corpus Christi), sec. VII; di Oxford (Bodleiana,) sec. VII; Harleyano (Museo Britannico), sec. VI-VII; tutti di tipo italiano.

A partire dal sec. IX i codici della Volgata si distinguono per regioni e recensioni. Porremo qui in primo luogo i codici spagnoli, rappresentanti d'una tradizione particolare e anteriore. I migliori e più antichi sono due Bibbie complete: la Cavense (Cava dei Tirreni, Badia), sec. IX e la Toletana (Madrid, Nazionale), sec. x. Contengono soltanto la seconda parte della Bibbia i codici di S. Emiliano (Madrid, Accad. di storia) e di León (Cattedrale), ambedue del sec. X. Celebri sono i codici Gotico-legionense (León, chiesa di S. Isidoro), Complutense (Madrid, Università) e Farfense (ora alla Vaticana), Bibbie intere dei secoli X-XI.

Testo d'Alcuino. - L'anno 801 Alcuino presentava a Carlo Magno una Bibbia corretta d'ordine dello stesso imperatore (Patrol. Lat., C, coll. 375,369,923). S'era proposto soprattutto di restaurare l'ortografia e la grammatica, orribilmente svisate dagli scribi. Ma insieme, avendo presi i modelli da York (tipo Amiatino; Patrol. Lat., C, col. 208), diede un testo eccellente anche per fondo; testo che si diffuse in tutto il vasto impero carolingico. Ne sono i principali rappresentanti i codici Carolingio (British Museum), Paolino (Roma, S. Paolo fuori le mura), Vallicelliano íRoma), di Rorigone (Parigi, Nazionale), di Zurigo (Biblioteca Cantonale).

Testo di Teodolfo. Quasi allo stesso tempo Teodolfo, vescovo di Orléans, rivedeva la Bibbia su manoscritti spagnoli e la corredava di varianti in margine. L'opera sua pare non fosse guari diffusa: forse si ridusse alle poche copie che ancora ne restano: i codici Mesmiano (Parigi, Nazionale), Sangermanese (ivi), del Puy (Cattedrale), Hubertiano (British Museum) e qualche altro.

Testi italiani. - In Italia la recensione alcuiniana si fuse con testi locali anteriori, a cui si aggiunsero elementi importati forse dalla Spagna. Ne uscì così una propria forma di testo, già costituita nel secolo X, con lezioni particolari, specialmente glosse e interpolazioni. Sinora fu poco studiata. I codici più noti sono le Bibbie di Bovino, di Todi, del monastero di Avellana, di S. Cecilia e di S. Maria ad Martyres (Pantheon), ora tutti alla Vaticana, dell'archivio di San Pietro (A, I), il Marciano (lat.1), l'Ambrosiano (B, 47 inf.), e qualche altro esulato a Madrid (Nazionale), a Vienna, a Parigi, a Ginevra. Ma un gran numero nelle biblioteche italiane attende ancora l'esame dei periti. La formazione di questo testo (che suol distinguersi anche alla bella scrittura tondeggiante, alle grandi iniziali, agli ornati d'intreccio, al colorito, ecc.) è posta da S. Berger a Milano, da H. Quentin con più verosimiglianza a Roma. Probabilmente erano di questo tenore le Bibbie che Niccolò Maniacoria corresse con perizia d'ebraico e ottimi criterî verso il 1050.

Testo Parigino. - Al principio del sec. XIII, accorrendo all'università di Parigi studenti da ogni parte d'Europa e recando ognuno la Bibbia in uso nel proprio paese, si sentì la doppia necessità d'avere un testo uniforme per tutti e una divisione comoda per ritrovare i luoghi citati nella scuola. A questo bisogno provvide, come già fu detto (p. 879), la divisione in capitoli, introdotta da Stefano Langton circa il 1214 e ancor oggi d'uso comune. All'uniformità del testo si provvide dai librai col mettere in vendita copie fatte su un modello formato d'un fondo alcuiniano con forte miscela di altri testi, segnatamente teodolfiani e italiani, e buon numero di lezioni nuove. Quel testo misto, d'infimo valore, fu propagato per tutta l'Europa a migliaia di esemplari e formò, si può dire, il solo testo conosciuto per tre secoli e più; l'invenzione della stampa non fece che dargli un'immensa voga, un'aureola immeritata.

La Volgata nel sec. XVI. - Il Cinquecento fu il secolo più decisivo per la storia della Volgata, a cominciare dal nome. Ma d'altra gravità erano i fatti che intorno a essa venivano svolgendosi. Da una parte, per la conoscenza del greco e dell'ebraico portata dal rinascimento degli studî, molti la impugnavano come inesatta o anche falsa, la correggevano ad arbitrio, le opponevano nuove traduzioni latine. Di queste, le principali, che ebbero influenza sulle versioni posteriori anche in lingue moderne, sono quelle di Erasmo (1516) e di Teodoro Beza (1556) per il Nuovo Testamento, del domenicano lucchese Sante Pagnini (1527) e del ferrarese Emanuele Tremelli col genero Fr. Junius o de Jon (1579) per l'Antico Testamento, la Tigurina (Zurigo 1543) per tutta la Bibbia. Di qui incertezze nelle controversie religiose, appunto allora sorte, non avendosi più un'interpretazione della Bibbia che fosse d'incontrastata autorità. Ciò diede per altra parte al concilio di Trento motivo di decretare la Volgata sola autentica fra le versioni latine, e di prescriverne l'uso nelle lezioni, nelle dispute, nelle prediche, con divieto di rigettarne la testimonianza. Su questo decreto, v. volgata.

Altro fatto decisivo fu la correzione e l'edizione ufficiale della Volgata, decretata pur essa dal concilio ed eseguita per cura dei papi da Paolo III a Clemente VIII, con un lavoro di quasi 50 anni (1546-1592). Si voleva un testo uniforme per tutti e scevro il più possibile dalle mende che vi si erano introdotte nel lungo corso de secoli. Non si risparmiarono cure né fatiche: si collazionarono molti manoscritti, fra cui gli antichi e ottimi Amiatino e Ottoboniano; mezzi sufficienti, che in mano degli eccellenti critici (per lo più italiani) che componevano le commissioni istituite all'uopo dai pontefici, potevano dare e prepararono di fatti un testo eccellente. Ma il testo preparato dalla commissione, già pronto per la stampa nel novembre 1588, a Sisto V non piacque, perché troppo si scostava da quello allora corrente; s'era perduta ogni nozione dell'origine recente di quel testo, cioè della Bibbia di Parigi. Quindi Sisto V di suo impulso cassò quasi tutto il lavoro della commissione e tornò in sostanza al testo parigino. Così si stampò l'anno 1590 la Volgata detta "Sistina" (Biblia sacra vulgatae editionis, Roma, Tipografia Apostolica Vaticana).

Ma intanto, appena morto Sisto V nell'agosto di quell'anno, quando poche copie se ne erano regalate o vendute, la pubblicazione fu sospesa e le copie alienate vennero, quando fu possibile, ricomperate e distrutte. Ripreso il lavoro, ne venne fuori, sotto Clemente VIII nel 1592, l'edizione ufficiale, che da quel papa prese più tardi il nome di "clementina", ma che nelle tre tirature vaticane (fu ristampata in formati minori nel 1593 e nel 1598) porta sempre e solo il nome di Sisto V: e non a torto perché, sebbene la clementina differisca dalla sistina in più di duemila luoghi (quasi sempre in meglio), pure le è ancora tanto somigliante quanto a nessun altro testo, e, in paragone delle altre edizioni, le due vaticane hanno fattezze di due sorelle.

Ai nostri giorni. - L'esemplare clementino fu prescritto come testo ufficiale alla chiesa cattolica e quale modello ai tipografi che volessero pubblicare la Volgata. Perciò d'allora in poi tutte le edizioni di essa sono uguali per il testo, salvo gl'inevitabili errori di stampa. Sentirono però ben presto i dotti come l'edizione clementina abbisognasse di correzioni e quanto si potesse migliorare. Ma solo nel secondo trentennio del sec. XIX due barnabiti italiani, Luigi Ungarelli e Carlo Vercellone, con estese e accurate ricerche si diedero a raccogliere i materiali per la desiderata emendazione. Frutto del loro immane lavoro sono le Variae lectiones vulgatae Bibliorum editionis pubblicate dal Vercellone (Roma 1860-1864, voll. 2, fino ai libri dei Re, inclusi). La vasta opera, interrotta dalla morte del Vercellone (1869), fu ripresa nel 1907 dalla S. Sede, che ne incaricò l'ordine benedettino. Lavorando su più vasta scala, con metodi perfezionati e anche con mire più alte che il Vercellone, i benedettini preparano un testo restituito, per quanto possibile, alla sua primitiva purezza, corredato di un ampio apparato critico. Sono usciti sinora i due primi volumi: Genesi (1926), Esodo e Levitico (1929) a cura di dom Henri Quentin.

Una simile edizione critica, ma ristretta al Nuovo Testamento, andarono preparando sin dal 1878 due dotti anglicani, J. Wordsworth e H. J. White. Sono usciti sinora i Vangeli, gli Atti, e le tre prime lettere di S. Paolo, a Oxford. Ma nel 1911 se ne diede pure un'edizione minore completa, con testo provvisorio da I Corinzî in poi, e ridottissimo apparato critico.

Versioni italiane. - Medioevo. - Quale prima versione biblica in un volgare italiano potrebbe passare il dugentesco Splanamento de li proverbj di Salamone del eremonese Gerardo Patecchio, se quel vetusto monumento di nostra lingua non prendesse troppo spesso dai libri del savio ebreo nulla più che lo spunto o il modello. Ma esso è sintomatico anche per le più antiche traduzioni formali sotto tre aspetti: il tempo, il dialetto, la materia. Infatti i manoscritti che ci rimangono delle versioni bibliche medievali ci obbligano a riportarne gl'inizî alla prima metà del sec. XIII, prima che si diffondesse in Italia la Volgata parigina (v. p. 899); e ce ne rimangono non solo in toscano, ma anche in altri dialetti, specialmente in veneto, sebbene prevalessero poi le versioni toscane; finalmente il libro dei Proverbî spicca fra gli altri per numero sia di versioni diverse, sia di copie manoscritte.

Notiamo qui i codici sinora conosciuti di versioni in dialetto veneto: quelli di Venezia (Marciana 5237) e di Vicenza (Bertoliana 2,10,5) contengono i Salmi e i Cantici dell'Antico e del Nuovo Testamento (cfr. El Salmista venezian, pubblicato da L. C. Borghi, Venezia 1889); il Vaticano latino 7208 contiene i libri storici dell'Antico Testamento e i Vangeli liberamente compendiati e accresciuti con varie leggende; da Atti alla fine del Nuovo Testamento la traduzione è fedele. Un simile compendio della storia sacra o Fioretto della Bibbia è nel Marciano 4937 e nel codice della Comunale di Bologna (A, 252). Il Marciano 4889 ha i Vangeli separati, copiati in prigione dal triestino I70menico de Zuliani nel 1369, il Marciano 4.975 i Vangeli fusi in uno e il Bodleiano Canoniciano ital. 224 ha Giovanni con commento; le Epistole e i Vangeli di tutto l'anno reca il Marciano 1901; altro codice mutilo, in pergamena, sec. XIII-XIV, è presso l'Istituto biblico di Roma.

Si traduceva dunque la Bibbia in varie parti d'Italia, nel secolo XIII; ma si traduceva alla spicciolata, da chi un libro, da chi un altro, talora il medesimo da diversi, secondo il bisogno e il talento. Pare si cominciasse dai brani che si leggono alla Messa e agli Uffici sacri, a giudicare anche dai tanti manoscritti che ne restano; poi si vollero i libri interi. Gli autori di quelle versioni ci sono ignoti; solo dal seguente sec. XIV qualche raro traduttore lasciò affisso all'opera il suo nome, Domenico Cavalca agli Atti, Romigi d'Ardingo de' Ricci alla Genesi (codice Riccardiano 1655), Ghinazzone da Siena (sec. XV) a Genesi-Giosué (Parigi, Nazionale, manoscr. ital. 85). Ma questi hanno già intenti letterarî, e solo il primo fu ammesso a far parte della Bibbia volgare. la quale poté formarsi già nel secolo XIV con la riunione delle traduzioni parziali, ma non omogenea né uguale nelle diverse copie; soltanto la stampa, alla fine del sec. XV, facendo prevalere una o due di tali raccolte, diede un tipo fisso alla Bibbia volgare.

Manoscritti: Bibbie intere (rare e più o meno incomplete): Bibl. Angelica (Roma), 1552-1553, pergamena, in folio, sec. XIV (tutto l'Antico Testamento; è perduto il Nuovo col 3° vol.); Laurenziana, Ashburnhani 1102, cartaceo, in folio, dell'anno 1466 (prima parte della Bibbia, dalla Genesi ai Salmi [I-XIV]; appartenne a Fr. Redi); Riccardiana, 1252, cartaceo, in 4°, sec. XIV (seconda parte d'una Bibbia, dall'Ecclesiaste all'Apocalhse); Parigi, Nazionale, ital.,1,2, cartaceo, in folio, sec. XV (manca soltanto Daniele da X, 8 alla fine e tutta la lettera ai Romani; appartenne già, come il seguente, alla biblioteca Aragonese [v.] di Napoli); ivi, ital., 3,4, parte di pergamena, parte di carta, in folio (i due ultimi volumi di una Bibbia, da Esdra all'Apocalisse, scritti da Nicola di Nardò, domenicano, negli anni 1466 e 1471).

Antico Testamento: Siena, Comunale, F, III, 4, cartaceo, in folio, secoli XIV-XV, tutto l'Antico Testamento, con poche lacune; ivi, I, V, 5, cartaceo, in 4°, sec. XIV, libri storici dell'Antico Testamento (Genesi; Esodo, I-XXVIII; Re; I Maccabei; Tobia); vaticana, Barberini 3931, pergamenaceo, in 8°, sec. XV (Proverbî, Ecclesiaste, Salmi); Firenze: Laurenziana, 667, pergamenaceo, sec. XIV (Proverbî ed Ecclesiaste); Nazionale, Conventi soppressi, B, 3,173 (soli Proverbî); Laurenziana, XXVII, 3 (Salmi); Nazionale, II, IV, 70 (Salmi) e Palatino, 2 (Salmi); ivi, II, IV, 107 (Genesi). Tobia solo è in molte copie e redazioni.

Nuovo Testamento, intero: Firenze, Riccardiana, 1250, cartaceo, in folio, sec. XIV; quasi completo: Oxford, Bodleiana, Canoniciani ital., 63; Firenze, Nazionale, II, X, 39; Siena, Comunale, I, V, 9; Vaticana latino, 7733; Marciana ital., 2. Dei soli vangeli, sia separati sia fusi in uno, le copie non si contano. Atti ed Epistole nel Vaticano Barberini lat., 4011 e Laurenziano Strozzi, 10. Le Epistole tutte nel Riccardiano 1321, e nel Vaticano Rossiano 132. Soltanto le Epistole paoline: Riccardiana, 1325,1382,1627; con l'Apocalisse, nel Vaticano, Capponi 177. Moltissimi sono quelli che contengono unicamente o gli Atti (nella redazione del Cavalca) o qualche Epistola o l'Apocalisse.

Per la varietà delle versioni e redazioni possiamo solo dare le seguenti indicazioni sommarie, suscettibili di maggiori precisioni e di qualche correzione. Nei libri storici dell'Antico Testamento, i codici dànno due versioni: l'Angelico e i Parigini una più letterale, i senesi l'altra più libera; l'Ashburnham (Redi) va ora con i primi ora con i secondi. In Giobbe, Salmi, Ecclesiaste dànno tre versioni nei Proverbî sin quattro, di cui due assai diluite con chiose (Siena, F. III, 4 e Firenze, Nazionale, Conv sopp., B, 3, 173); due versioni nel Cantico, una sola (pare) in Sapienza ed Ecclesiastico; due di nuovo nei profeti. I Vangeli circolarono sotto due forme, cioè fusi in uno ("Armonia evangelica" derivata, con poche modificazioni, dal codice Fuldense), con unica versione, e separati, con tre diverse redazioni. Negli Atti due versioni: la più antica, inedita, e quella del Cavalca. Nelle Epistole di S. Paolo tre versioni differenti, due nelle Cattoliche, nell'Apocalisse quattro. Da tutto insieme si rileva che i libri più letti in quei secoli per l'Antico Testamento dopo i Salmi erano Genesi, Tobia e Proverbî; per il Nuovo, dopo i Vangeli, l'Apocalisse: quest'ultima senza dubbio per influsso del movimento religioso eccitato da Gioacchino di Fiore. E l'aspetto modesto e semplice dei codici, con altri indizî, ci dice ch'erano scritte a uso dei borghesi, mercanti e artigiani, per il popolo insomma e non per i signori feudali, come avveniva p. es. in Francia.

Fra tante versioni parziali, qualcuna, come il Salterio del codice Palatino 2 (Firenze, Nazionale) deriva direttamente dal francese (Salterio normanno; v. p. 903), anziché dal latino. Ma non è provato che il Nuovo Testamento in toscano dipenda dalla versione provenzale; le affinità innegabili fra le due traduzioni hanno la loro ovvia spiegazione nella somiglianza dei testi latini correnti di qua e di là dalle Alpi e nella comunanza della tradizione esegetica nel Medioevo (per esempio, l'interpretazione "figlio della Vergine" per "filius hominis" si trovava dappertutto). È certo invece un caso in contrario: la caratteristica parafrasi degli Atti fatta dal Cavalca fu tradotta in provenzale da un valdese.

Delle diverse traduzioni varia è l'indole e vario il valore: pregevoli come testi di lingua, non sono però tutt'oro, per la soverchia servilità all'originale latino, comune al più di esse; i puristi del secolo scorso ne hanno esagerato i meriti.

Edizioni: Nel 1471 uscirono a Venezia due diverse edizioni della Bibbia in italiano, derivate ambedue più o meno da manoscritti simili ai sopra menzionati; ambedue ebbero nome di Bibbia volgare.

La Bibbia del Malermi. - La prima (i agosto) usci dai tipi di Vindelino da Spira per cura di Nicolò Malermi (o Mallermi, Malerbi, Manerbi), camaldolese, il quale adoperò certamente alcune versioni trecentesche (per gli Atti adottò la redazione del Cavalca), ma le ritoccò notevolmente sia per accostarle più al testo latino, sia per dar loro il colore del tempo e del luogo, cioè le forme del dialetto veneziano. L'opera ne uscì più omogenea che nei manoscritti, più fedele in genere, ma dura e rozza nella lingua. Pure fu accolta con tanto favore, che per un secolo (sino al 1567) se ne fecero almeno trenta edizioni, non senza qualche miglioramento (Marino da Venezia, domenicano, vi aggiunse nel 1477 i sommarî dei capi e la lettera d'Aristea tradotta da B. Fonzio), ma anche con degenerazioni nel testo. Molte di tali edizioni sono celebrate per le xilografie che le adornano. Un'edizione, La sacra Bibbia volgarizzata da Nicolò Malermi... Ridotta allo Stile Moderno e arricchita di Note (Venezia 1773, voll. 7), ha per autore Alvise Guerra professore a Padova, il quale in realtà fece opera del tutto nuova, ritraducendo or dalla volgata or dall'ebraico e non di rado adottando la versione del Diodati (v. p. 902); tutte sue sono le note alla fine d'ogni volume.

Bibbia jensoniana. - Due mesi più tardi (1° ottobre 1471) lo stampatore Nicolò Jenson diede anch'esso una Bibbia italiana su manoscritti d'origine trecentesca, ma lacunosi (pare), poiché a tratti, specialmente nei Salmi e nel Nuovo Testamento, questa edizione segue alla lettera la precedente del Malermi. Essa quindi, fedele in genere ai manoscritti, non può però dirsi un pretto esemplare della Bibbia trecentesca. Nei secoli XVI-XVIII non ebbe una sola ristampa. Nel XIX invece, risorto il culto per i primi secoli della lingua, ebbe ammiratori e zelatori. Nel 1846 la " Società veneta dei bibliofili" cominciò a stampare la Bibbia volgare, testo di lingua secondo l'edizione del 1471 dî Nicola Jenson, ma per difficoltà sorte con l'autorità ecclesiastica non andò oltre il Deuteronomio e nulla pubblicò. Circa il medesimo tempo mons. Stefano Rossi, risalendo con miglior criterio ai manoscritti, s'era accinto a "prendere dai 6 o 8 testi volgari, provenienti, secondo me, da una fonte sola, ciò che vi è di più terso e di conforme alla Volgata, e pubblicare così la Bibbia volgare del buon secolo senza aggiungervi nulla" (lettera a C. Cavedoni, del 15 gennaio 1853); ma colto da morte (1857) non andò oltre i preparativi, che ora giacciono nella Biblioteca universitaria di Genova. Un po' più tardi Carlo Negroni tornò all'idea di ristampare l'edizione jensoniana con alcuni miglioramenti, e condusse a termine la desiderata pubblicazione col titolo: La Bibbia volgare secondo la rara edizione del Ottobre MCCCCLXXI, Bologna 1882-1887,10 volumi in 8°. Intanto però un gran numero di libri separati (specie gli storici e i sapienziali dell'Antico Testamento e varie Epistole paoline), tratti sia dai manoscritti sia dall'edizione jensoniana si vennero pubblicando dalla fine del Settecento, specialmente fra il 1840 e il 1870; se ne può legger l'elenco (per altro incompleto) in Negroni, op. cit., I, pp. xxx-xl.

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