BOLOGNA

Enciclopedia Italiana (1930)

BOLOGNA

Albano SORBELLI
Igino Benvenuto SUPINO
Carlo TAGLIAVINI
Mario LONGHENA
Pericle DUCATI
Francesco Vatielli
Adelmo DAMERINI
Carlo CAPASSO

(A. T., 24-25-26).

Sommario: Geografia, p. 326; Storia: L'età antica, p. 329; L'alto Medioevo, p. 330; Il comune bolognese, p. 331; Lo Studio di Bologna, p. 331; Le signorie locali e il dominio pontificio, p. 332; Il Seicento e il Settecento, p. 333; Il Risorgimento, p. 333; Arte: Architettura, p. 335; Scultura, p. 338; Pittura, p. 339; Arti minori, p. 341; Musica, p. 341; Teatri di musica e di prosa, p. 344; Letteratura dialettale, p. 346; Storia della stampa, p. 347; Istituti culturali e biblioteche: L'Università, p. 347; Altri istituti culturali, p. 348; Biblioteche, p. 348; Biblioteche musicali, p. 348; Provincia di Bologna, p. 349; Congresso di Bologna, p. 349.

Una delle maggiori città d'Italia, capoluogo della regione detta Emilia, situata a 44° 29′ 38″ lat. e 11° 20′ 33″ long. (coord. dell'Osservatorio). È adagiata sul lento declivio degli ultimi colli appenninici che digradano verso la pianura: il contrafforte fra Reno e Savena giunge anzi fino alle porte della città culminando coi colli di S. Luca, dell'Osservanza e di S. Michele in Bosco, le cui cime sovrastano oggi l'abitato. Tenendo conto delle mura, in gran parte abbattute, ha la forma di un ettagono irregolare; maggiore è la larghezza da E. ad O. che la lunghezza da S. a N. Dall'estremo sud - Porta d'Azeglio - al piazzale della stazione corrono oltre 30 m. di dislivello, da 76,2 a 46 m.: la Piazza Vittorio Emanuele, nel centro della città; è elevata 63,5 m. Il giro delle mura, lungo i viali di circonvallazione, misura 7500 m.; lo spazio interno occupato dalla città è di ettari 407,80.

Intorno alla città si trovano ora sobborghi e frazioni; ma un tempo i sobborghi erano pochi e si limitavano a gruppi di case, modesti, fuori delle vecchie porte, o a case e ville sparse. Ed anche dentro le vecchie mura c'erano larghi tratti di terreno dedicato ad orti.

Guardando una pianta di Bologna appare chiaramente quale sia il nucleo più antico: la parte centrale doveva costituire la città romana col suo cardo e il suo decumano; esternamente ad essa s'è formata, attraverso i secoli, la città, e difatti, quasi all'estremità della Bologna romana, Piazza di Porta Ravegnana ad est, e lo sbocco di via Ugo Bassi nella rettangolare Piazza Malpighi ad ovest, sono due centri da cui muovono raggi di strade, 5 ad est e 4 ad ovest, che vanno alle mura: è quella la città più recente, con un piano a raggiera che s'innesta nella città antica dalle strade tagliantisi ad angolo retto.

In particolare, tuttavia, i limiti di Bologna romana non sono sempre facilmente determinabili, ché scarsi ricordi restano di quel tempo: più facile è seguire il tracciato delle vecchie mura, quelle della prima città medievale. Ora queste mostrano che la città più antica si accrebbe soprattutto verso nord, verso est e verso sud. Anche oggi si può vedere l'arco che esse percorrevano: una serie di strade che muove dall'odierna Via Indipendenza verso est taglia Via Zamboni all'altezza di Via Giuseppe Petroni, Via S. Vitale dov'è l'antico voltone, Via Mazzini dove sbocca Via Pusterla, Via S. Stefano dove comincia Via Cartoleria, Via Castiglione dove sorge l'antica porta. Qui s'avvicinano, queste vecchie mura, alla cinta più recente e comprendono dalla parte sud della città molto di più che non dalle altre parti; s'affrettano poi verso Via d'Azeglio che tagliano all'altezza di Via Tovaglie e giungono, attraversata Via Saragozza presso la chiesa di S. Maria delle Muratelle, a Piazza Malpighi. Dentro a questa cinta è la città più antica, scarsa di spazî vuoti di qualche ampiezza; le vie vi sono strette, tranne quelle ricavate recentemente dall'abbattimento d'intere isole di case, come Via Farini, Via Indipendenza, Via Rizzoli, Via Ugo Bassi; e qui si raccolgono le maggiori piazze monumentali: Piazza Vittorio Emanuele, Piazza del Nettuno, Piazza Galvani, Piazza di S. Stefano, Piazza di Porta Ravegnana.

A questo giro di mura, a cui è attribuito uno sviluppo di 4300 m., fu posta intorno - dal 1327 al 1390 - una successiva cinta, quella che si cominciò a distruggere dal 1902, per l'allargamento della linea daziaria, e di cui restano ancora qua e là avanzi. Quando fu spostata la linea del dazio, verso la periferia si trovavano ancora vasti spazî vuoti, occupati da orti e da giardini, ed aree non ancora ricoperte da edifici. I primi dieci anni di questo secolo fecero sparire, in gran parte, questi spazî, trasformandoli in isolati di case, separati da vie ampie e diritte. Prime a sparire furono le zone a nord, prossime alla stazione, come quelle che meglio si prestavano, perché piane ed in posizione favorevole, alla costruzione di ampî palazzi, e in questa parte sono sorti molti edifici universitarî. Le parti est e sud prossime alle mura, come quelle che ancora possedevano in questo periodo minori aree vuote, per le ragioni opposte a quelle che antecedentemente le avevano affollate di case, si copersero meno di fabbricati. Contemporaneamente la città si estendeva oltre l'antica cinta: soprattutto nelle vicinanze della stazione si accumulavano, assai spesso senza un preordinato piano, le abitazioni, e anche a occidente, lungo la Via Emilia, destinata, per il necessario spostarsi degli uffici ferroviarî verso quella parte, a diventare zona industriale. La guerra, con le sue dure ragioni, arrestò l'attività edilizia; ma, appena cessata, ecco risorgere il fervore edilizio: nuovi viali si tracciano, e lungo le vie già esistenti le case si fanno più numerose fino a toccarsi. Tutta la zona entro il dazio diventa città a nord e ad ovest; e anche a sud, su per i colli, nelle vallate fresche, sorgono villini. I sobborghi si accrescono di case e si formano, quasi fuori di ogni antica porta, dei piccoli centri nei quali si svolge, rimpicciolita, la vita del centro. Tutte le arterie stradali continuanti le antiche vie cittadine si ingrossano di fabbricati. I comuni suburbani di Casalecchio di Reno e Borgo Panigale, in questo ampliarsi della città, non sono più separati da spazî vuoti, ma le case loro quasi continuano, senza segno di separazione, quelle che spettano al comune di Bologna. Anche la stazione è andata, necessariamente, ampliandosi; gli uffici commerciali si sono spostati verso ovest, nella zona alla destra del Reno, tanto più che, per l'elettrificazione della Bologna-Firenze, sono stati necessarî nuovi fabbricati.

Linee tramviarie radialmente percorrono la città fino ai piu lontani sobborghi, una tramvia elettrica la unisce con Casalecchio e una funicolare sarà costruita fino al monte della Guardia, dove sorge il santuario della Madonna di S. Luca.

Parallelamente allo sviluppo topografico della città è proceduto lo sviluppo demografico. Delle cifre della popolazione che si posseggono, quelle riferentisi agli anni più lontani non distinguono gli abitanti della città vera e propria dalla popolazione vivente fuori delle mura. In ogni modo risulta che fino alla metà del sec. XIX l'incremento fu modesto. Nel 1759 Bologna aveva, infatti, 64.000 abitanti, cresciuti a 66.000 nel 1800 e a 74.421 nel 1853. Nel 1862 si raggiungevano quasi i 90.000 ab., nel 1885 i 131.000, dei quali 97.000 in città. Questa toccò i 100.000 ab. nel 1890, mantenendosi per un decennio stazionaria; ma poi salì a più di 136.000 abitanti nel 1911 (inclusi i sobborghi), a 185.600 nel 1921, ed ora (1928) supera i 200.000 ab.; mentre l'intero comune raggiunge i 240.000.

Le condizioni finanziarie del comune non sono né buone né cattive; sono come quelle di tutti i comuni d'Italia che, gravati da moltissimi oneri e bisognosi di grandi opere pubbliche, devono spendere tanto, che le entrate, derivanti da tasse e da diritti, non sono sempre sufficienti a far fronte alle spese.

Sono municipalizzate l'azienda del gas e quella tramviaria; gli acquedotti comunali sono gestiti dalla Società nazionale per gazometri ed acquedotti; la fognatura è in via di costruzione.

Sono amministrate dal comune molte aziende speciali. Bologna è ricca di istituzioni d'assistenza e di beneficenza, e il ricordarle tutte sarebbe lungo: di esse le principali sono la Congregazione di carità, l'Opera pia dei vergognosi, il Ricovero di mendicità, i Pii istituti educativi, il Monte di pietà, che oggi è anche banca di credito, l'opera pia Davia-Bargellini, gli asili infantili, l'istituto federato per i figli dei morti in guerra e l'asilo Primodi.

Bologna è sede dell'università più antica d'Italia; convenzioni stabilite fra il governo e gli enti cittadini hanno creato nelle vicinanze dell'antico palazzo dell'università tutta una serie di edifici per le varie discipline, bisognose di gabinetti, tanto che si può dire che nella parte NE. della città sorge, dignitosa e ridente, la città degli studî. L'università bolognese comprende le facoltà di giurisprudenza, di lettere, di medicina, di scienze, di farmacia, e ad essa sono aggiunte tre scuole superiori, quella di veterinaria, la scuola d'applicazione per gl'ingegneri, e quella d'agraria. Per la storia di essa v. sotto: pp. 331-332 e 347-348.

All'università sono annessi due musei, il museo geologico G. Capellini, cominciato nel 1860, e quello di mineralogia, fondato nel 1859; inoltre la Biblioteca universitaria e l'Accademia delle scienze, nata al principio del Settecento e completata nel 1907 con l'istituzione della classe di scienze morali. Nel 1930 è stato fondato anche un Istituto superiore di scienze commerciali.

Caratteristici sono anche alcuni collegi istituiti in secoli lontani per studenti di altre regioni: così è sorto il collegio di Spagna, fondato nel 1364 dal cardinale Albornoz, il collegio fiammingo fondato dall'orefice Jacobs per studenti belgi, il collegio Ventaroli, in origine collegio ungarico, istituito nel 1537 per studenti di belle arti.

Principale teatro è quello appartenente al comune, sorto dove era il famoso palazzo dei Bentivoglio, distrutto nel 1507. Ne fu architetto A. Bibiena e fu aperto nel 1763 col Trionfo di Clelia del Gluck. È stupendo per l'eleganza della sala e per acusticità: le decorazioni sono del 1866. Altri teatri sono il Duse, già Brunetti, inaugurato nel 1865, quello del Corso, edificato nel 1805 e rifatto all'interno nel 1903, il teatro Contavalli del 1811, il teatro Verdi, che è stato recentemente rinnovato e ingrandito. Per altre notizie su questi e gli altri teatri della città, v. pp. 344-346.

Il comune di Bologna ha un'area di kmq. 116,42 e si stende parte in collina e parte in pianura; la Via Emilia lo divide in due parti di estensione poco differente. Oltre al centro principale e ai sobborghi, che hanno popolazione agglomerata e popolazione sparsa, conta 21 frazioni. Nel 1890, anno in cui la città raggiunse i 100.000 ab., il comune contava circa 140.000 abitanti; nel 1921, le due cifre erano diventate rispettivamente 156.262 e 205.058. Al primo maggio 1930 la popolazione della città di Bologna è stata calcolala a 245.716 abitanti.

Storia.

L'età antica. - L'inizio di Bononia romana è segnato dalla deduzione in quel luogo di una colonia latina di 3000 uomini, nel 189 a. C. (Livio, XXXVII, 57). Ma in precedenza la vita si era svolta fervidissima in questo luogo per lunga serie di secoli.

Alle falde delle colline tra le odierne Porta D'Azeglio e Porta Saragozza si sono trovate le vestigia di un primitivo abitato della età del bronzo inoltrata, appartenente, secondo l'opinione più seguita, a famiglie di origine indo-europea o proto-italiche.

Dopo questo abitato, che risale agli ultimi tempi del secondo millennio a. C., si hanno i rinvenimenti di capanne della civiltà villanoviana sotto il suolo dell'odierna Bologna e specialmente nei pressi di Via del Pratello, di Via D'Azeglio e di Via Garibaldi. Appartengono queste capanne ad uno strato etnico diverso da quello dell'abitato precedente? Secondo una teoria sarebbero le capanne degli Umbri, secondo un'altra le capanne dei Protoetruschi. Secondo alcuni tutte queste capanne avrebbero costituito un unico agglomerato, della superficie di 200 ettari al minimo, di 300 ettari al massimo (Zannoni, Brizio, Montelius, Grenier); secondo altri (De Sanctis, Ghirardini, Pigorini) queste capanne sarebbero invece la testimonianza di villaggi distinti.

Per l'età queste capanne scendono attraverso la civiltà villanoviana sino al sec. VII; alcune, anzi, per il materiale che vi fu rinvenuto, dimostrano di essere state abitate durante il periodo etrusco o della civiltà tipo Certosa.

Dopo è lo strato etnico indubbiamente etrusco; la città si chiama Felsina, in etrusco Velzna, nome questo che ricorre nell'Etruria propria a designare la Volsinii dei Romani e che ha corrispondenze e varianti in iscrizioni etrusche. La vita di Felsina ha inizio verso la fine del sec. VI; purtroppo conosciamo Felsina solo attraverso la sua necropoli, coi sepolcreti di fuori Porta S. Isaia (ora A. Costa), tra cui preminente quello tipico della Certosa, e col sepolcreto dei Giardini pubblici Margherita. Tuttora vi è questione sull'abitato di Felsina, poiché di esso le tracce rimaste sono troppo meschine; ma è ovvio che Felsina avesse la sua cittadella in luogo alto e preminente, forse su una collinetta tra Porta D'Azeglio e Porta Saragozza; ed è da notare a tal proposito che residui di costruzioni di tipo etrusco si rinvennero al disopra dell'abitato dell'età del bronzo. La tradizione, raccolta da Silio Italico (Puniche, VIII, 600) e da Servio (Comm. ad Aeneidem, X, 198,. ci dice che Felsina fu fondata da Ocno, figlio o fratello di Auleste, fondatore di Perugia.

Verso la metà del sec. IV a. C. Felsina fu presa e distrutta dai Galli Boi; seguì poi un periodo di barbarie. Al nome di Felsina fu sostituito dai Romani quello di Bononia, il quale avrebbe un'origine celtica e deriverebbe da bona "costruzione". Il carattere celtico del nome di Bononia sarebbe comprovato dall'apparizione del medesimo nome nella Gallia Transalpina, nella Pannonia Inferiore, nella Mesia Superiore.

La dominazione dei Galli Boi in Bononia e nel territorio circostante ebbe fine per la strepitosa vittoria che su di essi riportò il console P. Cornelio Scipione Nasica nel 191 (Tito Livio, XXXVI, 38, 5-7). Due anni dopo, come si è detto, s'iniziò la vita di Bononia romana con la deduzione della colonia latina.

Nel 187 a. C. il console Marco Emilio Lepido conduceva la famosa via Aemilia da Rimini a Piacenza passando attraverso la nuova colonia di Bononia, la quale, occupando il posto di grande importanza agricola, industriale, commerciale che aveva goduto sotto i Villanoviani e sotto gli Etruschi, fu collegata direttamente con l'Italia centrale mediante la via Flaminia, dovuta al console Caio Flaminio nello stesso anno 187 a. C., attraverso l'Appennino con la fiorente città di Arezzo.

Ai tremila coloni dedotti a Bononia furono distribuiti 156.000 iugeri di terreno, pari a kmq. 393,12, e nella campagna bolognese a nord delle falde delle colline è tuttora riconoscibile in alcune plaghe il reticolato dell'ager centuriatus, del territorio cioè diviso a centurie per i coloni inviati da Roma.

Bononia doveva avere l'aspetto di un campo fortificato, diviso in insulae da cardini e da decumani; osservando la pianta dell'odierna Bologna si constata nel centro, tra Piazza Ravegnana e Piazza Malpighi, tra l'incrocio di Via Farini e di Via D'Azeglio e l'incrocio di Via Indipendenza e Via Repubblicana, lo scheletro, per così dire, di un reticolato.

Probabilmente la Bononia dei tempi repubblicani era compresa in questi limiti, misurando in superficie circa 50 ettari, forse con una popolazione di circa 10.000 anime. Ciò non toglie che nei tempi più floridi dell'Impero e di maggior potenza demografica, attorno al nucleo primitivo di Bononia s'innalzassero caseggiati e costruzioni di vario genere. La floridezza della regione padana, e perciò di Bononia, nei primi tempi della colonizzazione romana, ci è attestata da un celebre passo di Polibio (II, 15, 1-7), da cui si desume specialmente la ricchezza agricola. Tali felici condizioni si mantennero anche ai tempi augustei, come si rileva da Strabone (V, 218 c).

La trasformazione di Bononia da colonia in municipio sembra che avvenisse dopo la guerra sociale (91-88 a. C.); come municipio Bononia fu ascritta alla tribù Lemonia. Per il sec. I a. C. sono menzionati due illustri bolognesi, lo scrittore di Atellane Lucio Pomponio e l'oratore Caio Rusticelio.

Bononia è menzionata più volte durante gli avvenimenti della guerra modenese del 43 a. C. (Cassio Dione, XLVI, 36; Appiano, Bellum civile, III, 69; Cicerone, Ad famil., XII, 5, 2; D. Bruto, in Cicerone, Ad famil., XI, 13). E l'atto solenne della riconciliazione e dell'unione di M. Antonio e di Ottaviano, cioè la proclamazione del secondo triumvirato, ebbe luogo in una insula del Reno, vicino a Bononia.

All'età del secondo triumvirato spetta la deduzione di una nuova colonia a Bononia, composta di seguaci di M. Antonio (Cassio Dione, L, 6; Svetonio, Augusto, 17). Ma da un aneddoto presso Plinio (Nat. Hist., XXXIII, 4, 82) e da un'iscrizione (Corp. Inscr. Lat., XI, 1, n. 270) si arguisce che in Bononia furono dedotti coloni anche da Augusto dopo la vittoria di Azio, sicché sembra che Bononia debba essere collocata nel novero delle 28 colonie fondate o restaurate da Augusto, secondo Svetonio (Augusto, 46) e il Monumento Ancirano (c. 28).

Bononia, distrutta da un incendio nel 53 d. C., fu subito ricostruita da Claudio per intercessione di Nerone, che esercitò il patronato sulla città (Tacito, Annali, XII, 58; Svetonio, Nerone, 7). Nell'anfiteatro di Bononia, quando fu riconosciuto imperatore Vitellio (69 d. C.) fu dato un celebre spettacolo gladiatorio. Rufo Camonio, come noto poeta bolognese, è nominato da Marziale (VI, 85, v. 5).

Da documenti epigrafici (Corp. Inscr. Lat., XI, 1, n. 805-808) si desumono rapporti di Bononia con l'imperatore Antonino Pio, che forse beneficò i Bolognesi con l'istituzione delle puellae e dei pueri alimentarii. La decadenza di Bononia, nel sec. IV d. C., si palesa da un passo di S. Ambrogio (Epistolae, II, 8); tuttavia la città sostenne gagliardamente l'impeto dei Visigoti guidati da Alarico nel 410 (Zosimo, VI, 10).

Non molto numerosi né appariscenti sono i residui monumentali di Bononia sino a noi pervenuti. Menzioniamo l'acquedotto delle acque del Setta, ora riattivato; iscrizioni, frammenti architettonici e plastici, residui di strade e di fistole acquarie, mosaici ed altro. Pare che il foro di Bononia fosse nei pressi della chiesa dei Celestini; avanzi di costruzioni sono incorporati nel gruppo stefaniano di chiese, ove sorgeva un tempio di Iside; ricche terme si innalzavano nelle vicinanze del palazzo Albergati in Via Saragozza. Un cospicuo complesso di cippi funerarî iscritti è uscito alla luce dal letto del fiume Reno, dove nei bassi tempi imperiali avevano costituito come una diga del ponte augusteo sul fiume, scalzato sulla riva sinistra dalle acque. Le iscrizioni del Reno, riferibili per gran parte a liberti, c'informano egregiamente della società bolognese dei primi tempi dell'Impero.

Bibl.: G. Gozzadini, Intorno all'acquedotto ed alle terme di Bologna, in Atti e Memorie della R. Dep. di storia patria per le prov. di Romagna, 1864, pp. 1-80; id., Studi archeologico-topografici sulla città di Bologna, ibid., 1868, pp. 1-104; E. Bormann, in Corp. Inscr. Lat., XI, i, p. 130 segg., nn. 693-815; XI, ii, p. 1239 segg., nn. 6823-6920; A. Zannoni, Arcaiche abitazioni di Bologna, Bologna 1893; A. Grenier, Bologne villanovienne et étrusque, Parigi 1913; G. Dall'Olio, Iscrizioni sepolcrali romane scoperte nell'alveo del Reno, Bologna 1922; P. Ducati, Storia di Bologna, I (I tempi antichi), Bologna 1928.

L'alto Medioevo. - L'inizio del Medioevo trova Bologna nelle condizioni di disorganizzazione e di sfacelo in cui si trovavano le altre città dell'Italia superiore, sotto le inseguentisi invasioni barbariche. Rimaneva ancora tuttavia, nella circoscrizione e nella giurisdizione amministrativa, il grande segno di Roma, segno che non si poté cancellare neanche nei secoli che immediatamente seguirono alla caduta dell'Impero romano d'occidente e allo stabilirsi dei regni barbarici.

Nella tradizione religiosa bolognese il primo vescovo è Zama e i primi martiri sono Procolo, Vitale, Agricola, che avrebbero eroicamente testimoniato la fede sotto Diocleziano. Ma poco dopo il 400 la chiesa bolognese riceveva per suo capo il vescovo Petronio; e a lui si deve, secondo la tradizione, la prima fondazione di quell'importantissimo nucleo di chiese che costituirono poi la Nuova Gerusalemme, dette ora di S. Stefano, disposte a imitazione degli edifici religiosi Che erano attorno al tempio di Gerusalemme in Palestina. Il nome di S. Petronio, rimasto attraverso l'alto Medioevo come in disparte, tornò poi in grande onore dopo il sec. XII; e più tardi l'antico vescovo fu assunto a protettore della città.

Dalla venuta degli Ostrogoti sino al sorgere dei Comuni la storia cittadina è assai oscura. Durante il dominio di Teodorico e dei suoi successori, Bologna continuò press'a poco nelle condizioni in cui si trovava sotto l'Impero: orientata verso Ravenna, sede del governo, e non più verso Roma, e con un certo risveglio di attività dovuto alla maggior vicinanza del potere centrale, alla saggezza di Cassiodoro e del grande re. Da Ravenna continuò a dipendere Bologna nel periodo della dominazione bizantina, per tutto il resto del sec. VI e nel sec. VII; ché i Longobardi rimasero a occidente del Panaro. Solo sotto Liutprando essi giunsero a Bologna, che barbaramente devastarono (727-728), alla Romagna e a parte dell'Esarcato; ma, calati in Italia i Franchi, i Longobardi furono ricacciati e Bologna, con l'Esarcato, fu concessa al papa. La città si venne quindi a trovare in una sorta di doppia soggezione, a Ravenna e a Roma, e un po' ai Carolingi; nel dominio della città si alternarono i conti, secondo la distrettuazione carolina e postcarolina; i rapporti coi re, con l'Impero, con la Chiesa di Roma, sono varî e ad ogni momento cangianti. Tuttavia - per quanto si può dedurre dalle scarse e imprecise fonti cronistiche e documentarie dell'epoca e da tutto il successivo sviluppo rapidissimo della città - pare che tanto la chiesa bolognese quanto la città stessa, allora assai ridotta entro il confine quadrato delle cosiddette quattro croci, abbiano saputo svolgere una vita assai indipendente ed avere perfino una milizia civica.

Il Comune bolognese.- Non è perciò a meravigliarsi se Bologna può, quasi nello stesso tempo, conquistare la sua indipendenza ecclesiastica effettiva da Ravenna, sancita poi dal concilio di Guastalla (1106), e costituirsi in comune indipendente, lottando contro l'imperatore, atterrando la rocca che era stata eretta e tenuta nel nome di lui (1114). E se i Bolognesi infine si accordarono, per la parte formale, con l'imperatore stesso, riuscirono tuttavia a conservare e, per così dire, a consacrare la loro libertà.

Il comune di Bologna, come gli altri comuni limitrofi, si considerò infatti teoricamente feudo dell'imperatore, ma in pratica agì per conto proprio, amministrandosi come credeva, muovendo guerra ai vicini, assoggettando i signori e gli avversarî del contado; al più limitandosi a pagare ai rappresentanti dell'imperatore il consueto tributo di onoranza. Talvolta si arriva a dimostrazioni evidenti di ostilità verso di lui: l'esempio più caratteristico è quello del 1132, quando l'imperatore Lotario di Supplimburgo dovette piantar le tende a Medicina perché Bologna gli aveva chiuse le porte in faccia.

Quantunque solo al principio del sec. XII l'imperatore Enrico IV lasci comprendere che il comune già vive in Bologna e ne assuma la difesa, non nel nome di un conte o di un singolo ma di tutta la universitas degli abitanti, tuttavia è indubitato che i primi elementi della nuova istituzione debbono essere cercati poco dopo il mille: Bologna infatti dovette essere, per la sua speciale situazione, una delle primissime città di tutta la regione emiliana-lombarda che si eressero a comune.

La costituzione del comune bolognese è molto simile a quella dei comuni limitrofi della regione. A capo del governo sono due o quattro o più consoli, a seconda degli anni, nominato dal consiglio maggiore, i quali hanno il pieno potere esecutivo, giudiziario e militare. Il potere legislativo è tenuto dall'assemblea generale o parlamento, per le questíoni più importanti; i provvedimenti di minore importanza sono discussi nel consiglio minore. Più tardi, quando a capo del comune ci fu il podestà, fu istituito anche un consiglio di credenza o piccolo. Vi sono poi altri magistrati di minor conto: il tesoriere, i sovrastanti alle gabelle, gl'ispettori dei mercati, i sovrastanti alle strade e alle acque, i saltarî e gli estimatori dei danni, per la parte rurale, le guardie notturne, ecc. E v'è pure, come negli altri comuni, l'istituto del sindacato sull'opera compiuta da un magistrato durante il periodo del suo ufficio.

I cittadini erano divisi in quattro quartieri, corrispondenti alla divisione della città secondo il cardo e il decumano che s'incrociano sotto il palazzo del podestà; dentro i singoli quartieri si radunavano i militi appartenenti a ciascuno d'essi, sotto i gonfaloni o vessilli, mentre uno solo per tutto il popolo era il carroccio, simbolo reale dell'unità e della forza della piccola patria. Poco esteso il distretto, ossia il territorio dipendente dal comune, che andava da principio poco più in là delle mura e costituiva la guarda o guardia; solo più tardi poté estendersi all'attuale provincia e talvolta superarne i confini. Fu allora che i conti, i cavalieri del contado, i feudatarî che avevano contrastato in tutti i modi la costituzione del comune, dovettero cedere le armi e assoggettarsi al comune stesso venendo ad abitare nella città.

Ma trionfo del comune vuol anche dire, nell'interno di esso, scoppio delle contese di parte, delle lotte fra guelfi e ghibellini. In Bologna i due partiti presto assunsero i nomi di Geremei e Lambertazzi, da due cospicue famiglie che da principio li capitanarono. E fu un alterno prevalere del partito conservatore (Lambertazzi) e del democratico (Geremei); quest'ultimo però andò sempre più acquistando, anzitutto col movimento di Giuseppe Toschi (1228) per il quale si ottenne il riconoscimento delle compagnie popolari delle armi e l'intromissione nei consigli amministrativi dei rappresentanti delle arti; e poi con gli statuti del 1245, con la liberazione dei servi della gleba nel 1256, coi provvedimenti di Loderingo degli Andalò e di Catalano, i celebri frati gaudenti (1265), e con la furiosa cacciata dei Lambertazzi nel 1274. In quest'anno, e più compiutamente con la seconda cacciata avvenuta poco più tardi, tutto il comune cadde nelle mani della parte guelfa o geremea o popolare. Ma con tale assoluto, esclusivistico predominio ebbe inizio il decadimento del libero comune, già formato col concorso di tutti i cittadini e di tutte le correnti di pensiero e di azione.

Il sec. XIII è stato il più grandioso e glorioso della storia di Bologna. Le idee di umanità, di chiaroveggenza, di sapienza anche in fatto di politica, partono di qui. L'assurgere della democrazia e dell'artigianato all'amministrazione dello stato trova a Bologna uno dei primissimi esempî; Bologna, per prima fra le città d'Italia, procede alla liberazione dei servi con la celebre "riformagione" Paradisus del 1256: quasi 6000 uomini sono, con quel provvedimento, messi in libertà, a spese del comune.

Nel campo della politica esterna Bologna assume una posizione predominante sull'Emilia e sulla Romagna. Con la fortunata battaglia di Fossalta del 1249 fa prigioniero lo stesso figlio di Federico II, Enzo re di Sardegna, e contro la volontà del padre e degl'imperatori tedeschi lo tiene per 22 anni, trattato da re in un sontuoso palazzo, ma prigioniero. Pochi anni dopo Bologna compete con Venezia e per poco non la vince nella battaglia di Primaro. Rolandino Passeggeri, il grande uomo di stato, anima, muove, dirige l'azione del comune.

Il benessere, la ricchezza e la forza appaiono nel rinnovamento edilizio, nelle grandi costruzioni, nella portentosa espansione della città, nei monumenti che in quel secolo sorgono. Si costruisce un nuovo meraviglioso palazzo del podestà in sostituzione di quello modesto, proprio nel cuore della città; s'innalzano torri, si aprono strade, si allarga la piazza maggiore, si eleva quel sontuoso monumento che è san Francesco, si affidano a Niccolò Pisano le sculture della tomba di San Domenico; si fanno, molto più ampie delle prime, le seconde mura della città.

Solo verso la fine del secolo, come s'è detto, si hanno evidenti indizî di decadenza, non tanto economica, quanto (e questo è più grave) politica.

La tendenza guelfa, e soprattutto la rinuncia fatta da Rodolfo d'Asburgo nel 1274 al suo sovrano diritto sulle terre dell'Esarcato in favore della Chiesa, pongono Bologna nelle mani del papa, il quale ai primissimi anni del 1300 manda qui come suo legato il cardinale Orsini. E se più tardi questi sarà cacciato per le sue esorbitanze e se altri legati poco prudenti seguiranno la sorte di lui, tuttavia fin dal principio del sec. XIV Bologna può già dirsi sotto il governo della Chiesa, alla quale rimarrà, salvo brevissime interruzioni, sino al 1859.

Lo studio di bologna. - Se il comune ha notevole importanza nella storia di Bologna, la fondazione dello Studio o università, avvenuta sullo scorcio del sec. XI (al 1088 fu fissata approssimativamente la data), ne ha una che esce dall'ambito della città e del distretto per interessare tutta la cultura europea.

Che fino al sec. X qui esistesse una scuola di grammatica e di rettorica e che accanto ad essa si apprendessero anche i primi principî del diritto, desunti dalle Istituzioni giustinianee e da fonti teodosiane, è certo; ma non è altrettanto facile stabilire quando questo rudimento di scuola si trasformò in vero e proprio Studio e quando esso ebbe la funzione d'istituto, per così dire, ufficiale. La parentela tra quella di Bologna e la scuola ravennate è sicura; come da tutti è tenuto per certo, sulla scorta di Odofredo, che si cominciassero a leggere e spiegare i libri del diritto romano non appena essi furono qui portati da Ravenna. Ma quando avvenne e perché questo trasporto? È probabile che si facesse nel tempo stesso in cui la chiesa bolognese fu, nel concilio di Guastalla, dichiarata indipendente dalla ravennate, e che perciò sino dal principio del sec. XII la scuola funzionasse bene; ma non è improbabile che prima di allora, e per l'opera di Pepone e soprattutto di Irnerio, cui è attribuito il vanto di avere per primo studiati i testi, cominciasse a funzionare lo Studio.

Esso è in pieno vigore quando si tiene la dieta di Roncaglia, verso la metà del sec. XII; intorno al qual tempo, con un privilegio o decreto detto Habita, l'imperatore riconosce la costituzione corporativa degli scolari e inoltre i privilegi di essi e dei maestri di fronte alla città. L'università, o lo Studio, viene così a costituire come un comune dentro un altro, con diritti, con una organizzazione a sé stante, con le cariche e coi magistrati indipendenti dall'autorità comunale; il complesso degli scolari o universitas scolarium, che accorrono da tutte le parti d'Europa e che superano in certi tempi i diecimila, costituisce come un sol corpo, diviso poi in due principali associazioni, a seconda del luogo di origine: "università dei citramontani" ossia degl'Italiani, e "università degli oltremontani" ossia degli stranieri. Le due università alla lor volta si dividono in tante corporazioni o nazioni, a seconda del luogo d'origine, ad es. dei Francesi, degli Spagnoli, dei Catalani, dei Toscani, dei Lombardi, dei Romani, ecc. Quando poi al diritto romano si aggiunse il diritto canonico, per merito del monaco Graziano, e più tardi furono introdotte le altre discipline scientifiche o arti, allora le denominazioni più comuni furono quelle dell'università dei giuristi e dell'università degli artisti.

Assai diversa dall'attuale era la vita universitaria d'allora. I professori erano scelti e pagati dagli scolari; non insegnavano in un unico luogo, ma ciascuno nella casa sua o in altra grande, presa in affitto; rettore (e ce n'era uno per ognuna delle due università) era sempre uno scolaro e durava in carica un anno. Nel sec. XIV i professori cominciarono ad essere stipendiati dal comune, e solo nel sec. XVI si pensò a raccogliere gl'insegnamenti in un unico edificio pubblico, per tale scopo fu costruito il palazzo dell'Archiginnasio.

L'università di Bologna fu il primo Studio d'Europa, e si può dire che da questo, e poi da quello di Parigi, derivarono tutte le altre università d'Italia, di Francia, di Spagna, organizzate su uno stesso concetto di libero insegnamento. Ma l'importanza dello Studio bolognese s'accresce ancora quando si pensi che da esso fu proclamata la rinascita del diritto romano per merito dei giuristi della scuola di Bologna (v. glossatori).

La città poi deve allo Studio la sua fama e il suo sviluppo. La superficie del centro urbano, nel secolo e mezzo del periodo più fiorente dello Studio, quando vi accorrevano gli scolari di tutta Europa, aumentò di dieci volte; e da quella piccola città romana che era divenne quella città estesa che durò poi, press'a poco uguale, dalla fine del sec. XIV fino al sec. XIX.

Le Signorie locali e il dominio pontificio. - Il comune, indebolito per gl'interni dissensi e per le pretese della Chiesa, era ormai in declino. A ben poco avevano giovato gli "ordinamenti sacrati e sacratissimi" del 1283 e tutte le altre disposizioni legislative democratiche della fine del sec. XIII, volte a difendere e conservare il reggimento repubblicano; ormai si stava preparando l'ambiente - politico e morale - per l'avvento del governo signorile. Non mancavano certo entro le mura cittadini ricchi e preminenti e di largo seguito che potevano aspirare al dominio cittadino: primi fra tutti i Pepoli, che infatti si misero tosto alla prova.

Intorno al 1320 Romeo Pepoli fece un tentativo che, sebbene non riuscisse, preparò la via al figlio suo Taddeo. Questi nel 1337 si fece proclamare signore. Mal gradita riuscì al papa tale novità: riaffermando i suoi diritti sulla città, egli costrinse il Pepoli ad accettare il potere da lui stesso, e non più dai cittadini, sotto forma di vicariato. Non fu dunque la signoria piena che il Pepoli e i Bolognesi desideravano, in quanto li avrebbe resi indipendenti, non fosse altro, da Roma, soddisfacendo la costante aspirazione dei Bolognesi; ma una preminenza e delegazione: caratteri che ebbero poi tutti i tentativi di signoria che seguirono più tardi.

Taddeo Pepoli morì nel 1347. I suoi due figli Giovanni e Giacomo Pepoli, ridotti a mal partito, tra un complesso di nemici e le pretese del papa, nel 1350 vendettero la città al potente arcivescovo di Milano Giovanni Visconti; ma, essendo egli venuto a morte nel 1354, la città di Bologna cadde sotto il crudele Giovanni da Oleggio, un visconteo che era venuto a rappresentare l'arcivescovo. Anche il dominio di quest'ultimo fu breve: la Chiesa, le cui mire non erano riuscite nel 1350, a cagione del debole Astorgio di Duraforte (v.), tornò alla riscossa sotto la guida di un valoroso condottiero e legislatore, Egidio Albornoz, che nel 1360 conquistò Bologna e vi insediò stabilmente il governo del papa. Tuttavia la soggezione della città alla Chiesa non fu assoluta né tranquilla. I Bolognesi, non potendo tollerare di non essere liberi come Firenze, come Venezia, come i vicini comuni e signorie, rimasero ostili al reggimento pontificio.

Bologna si solleva contro la Chiesa e costituisce una repubblica indipendente, sia pure per poco, nel 1376; Giovanni I Bentivoglio tenta d'impadronirsi del potere nel 1394 (dal tentativo ebbero origine i Sedici riformatori dello Stato di Libertà); Carlo Zambeccari ripete il tentativo nel 1398, e nel 1402 lo stesso Bentivoglio è per breve tempo signore. Ma egli incontrò insormontabili difficoltà nei rivali interni e nei potenti nemici esterni, sì che fu facilmente sconfitto a Casalecchio (1402) e trucidato poi barbaramente da quella plebe che poco prima lo aveva acclamato. Rese più torbida la situazione di Bologna la morte improvvisa e inaspettata di Gian Galeazzo Visconti conquistatore della città (1402); i suoi successori, deboli e inetti, consentirono tosto a riconsegnare la città al papa (1403)

Sembra intonarsi al non celato spirito bolognese d'indipendenza da Roma e al ristorato e dovizioso tenore di vita nuova, la deliberazione, che sulla fine del sec. XIV presero i cittadini bolognesi, di assumere a principale patrono della città, in luogo di S. Pietro Apostolo, il più cospicuo tra gli antichissimi vescovi cittadini, Petronio, e di dedicare al medesimo un tempio superbo, che doveva superare in grandezza la stessa basilica di S. Pietro di Roma. Il tempio fu cominciato, a stento condotto innanzi, poi interrotto; esso rappresenta tuttavia un altissimo ardimento, e il non essersi potuto finire dipese solo dal fatto che al concetto profondo e nello stesso tempo altero, non corrispose per allora il denaro occorrente; più tardi era già svanito se non cancellato lo spirito che muoveva i Bolognesi del sec. XIV.

Le sollevazioni e proteste dei Bolognesi continuarono anche nel sec. XV: nel 1411 si rivolta con Pietro Cossolini; nel 1420 con Anton Galeazzo Bentivoglio; nel 1438 Bologna si assoggetta ai Visconti; nel 1445 Annibale Bentivoglio assume il potere effettivo. Viene trucidato; ma nell'anno seguente prende saldamente le redini di Bologna, sia pure come vicario del papa, il giovane e astuto Sante Bentivoglio, figlio naturale di Ercole, che conduce il piccolo stato ad affermarsi potente, ne tutela gl'interessi e, consolidando la preminenza della propria famiglia nella città, contribuisce a quel periodo di ricchezza, di dignità e di splendore, che fu detto il Rinascimento bolognese. Sante ebbe l'abilità di stabilire col papa quei capitoli del 1447, approvati da Niccolò V amico dei Bolognesi, per i quali si terminava la lunga controversia tra la citta e la Chiesa circa la sovranità apostolica e le franchigie municipali, assegnandosi a Bologna taluni diritti e prerogative per cui poteva considerarsi come semi-indipendente da Roma e avere in quella città i suoi ambasciatori od oratori, non altrimenti che gli stati non soggetti alla Chiesa.

Il lungo dominio (1462-1807) di Giovanni II Bentivoglio, figlio di Annibale e succeduto a Sante, segna per la città un periodo di continuato, anzi accresciuto splendore. Solo da ultimo, sulla fine del secolo XV e i primi anni del XVI, la situazione mutò: Giovanni incrudelì, l'amore del popolo per lui si convertì in avversione profonda. Né di fronte alle armi di Giulio II seppe lasciare il potere con dignità o con sapienza: fuggì di notte (1506) patteggiando coi Francesi che gli mancarono poi di fede.

Ma non si può non soffermarsi alquanto su questo mezzo secolo di signoria dei Bentivoglio che ha per Bologna un singolare interesse. La vita pubblica assume un nuovo tenore; la ricchezza è largamente diffusa e bene impiegata, sì da darci talvolta l'illusione dello splendore; lo Studio attira ancora scolari e maestri in una rinascita umanistica che ha caratteri originali; l'arte raggiunge una bella fioritura per maestri cittadini e per altri che qui convengono dalle citta vicine; le scienze hanno un risveglio e s'adornano dei più bei nomi. E alla mente corrono tosto le figure di Urceo Codro e degli umanisti bolognesi e forestieri che lo circondano, di Francesco Francia e dei Ferraresi che qui vengono a seguire il maestro, di Aristotile Fioravanti che meravigliò delle sue imprese e costruzioni ardite l'Italia e l'Europa, di Niccolò dall'Arca che qui si stabilisce e termina la tomba di San Domenico e plasma le Marie piangenti e la Madonna col Bambino, di Lodovico Bolognini giurista e diplomatico, e di moltissimi altri.

Sorgono dappertutto palazzi, chiese, monumenti che stanno a testimoniare tutto il fervore operoso che anima la città; la quale a sua volta va abbellendosi e ornandosi. Si conduce a compimento il meraviglioso palazzo Bentivoglio, uno dei più grandi e più belli d'Italia; si rifà il palazzo del podestà; si costruiscono il palazzo degli Strazzaroli e quello Sanuti, ora Bevilacqua; sorgono le chiese della Santa e di Galliera e il delizioso oratorio dello Spirito Santo, mentre si costruiscono cappelle in San Petronio e si fabbrica la poderosa villa del Ponte Poledrano. Giostre e feste grandiose allietano il popolo e gli fanno dimenticare le congiure dei Malvezzi e dei Marescotti soffocate nel sangue.

Il Seicento e il Settecento. - La storia di Bologna, che fino al 1500 è bella e interessante e spesso gloriosa, anche per la cospicua parte che la città ha in molte delle sue vicende nel quadro generale della storia italiana, sotto la Chiesa, con gli stati o principati ormai dovunque formati, ora diventa più smorta. Bologna mantiene, è vero, le prerogative già segnate da Niccolò V, ha inoltre il suo Senato dei Quaranta in luogo dei Riformatori, può parlare a Roma per mezzo di un messo speciale, e non attraverso il rappresentante locale del papa, come altrove; è, dopo Roma, la città più importante dello stato; ma ha perduto realmente, nonostante l'aspetto esteriore, la sua indipendenza. Il legato non è più come prima un "chierico", è ora il vero rappresentante dell'autorità e perciò "il padrone".

Dopo i varî tentativi dei Bentivoglio nel 1507 e nel 1511 per ristabilirsi in signoria (essi non cagionarono se non la distruzione di due superbe opere d'arte - la prima volta, del magnifico palazzo dei Bentivoglio, distrutto da un incendio; e la seconda della statua eretta da Michelangiolo in onore di papa Giulio II), Bologna dovette persuadersi che ogni sforzo per liberarsi dal dominio della Chiesa era destinato a fallire, soprattutto dopo che nel 1530 Clemente VII, coronando in San Petronio l'imperatore Carlo V, aveva dato il suggello sacro a quella catena. Nel campo politico non è più storia, da ora in poi, ma cronaca; non sono più avvenimenti, sono particolari di poco rilievo; non è vita propria, è vita riflessa. Bologna non fa più per sé, altri fanno e pensano per lei; e questa vita incolore e insapore dura sino alla Rivoluzione francese.

E così i cittadini, che ormai han dovuto apprendere ad obbedire senza protestare, debbono interessarsi ai giochi, alle feste, agli apparati, ai carnevali, agli spettacoli varî che diletteranno abbondantemente la città. E s'interesseranno all'elezione al pontificato del cardinale Boncompagni, bolognese (Gregorio XIII); assisteranno, soffrendo, a tutte le guerre del Sei e Settecento; vedranno con dolore la costruzione del Forte Urbano; plaudiranno alla venuta dei papi e al passaggio di principi e sovrani e si commuoveranno ai casi di Giacomo d'Inghilterra o della regina di Svezia, che fastosamente visitano la città e qui si fermano. E mentre tanto collasso era nella vita politica, non minori si presentavano i danni nella più grande istituzione bolognese, l'università. In essa, decadenza estrema, anche per quelle discipline giuridiche che erano state innalzate al sommo grado proprio in Bologna: pochi scolari e riottosi, numerosissimi insegnanti e poco valenti, salvo, naturalmente, qualche rara eccezione.

A rimediare a queste desolate condizioni, per ciò che si atteneva all'istruzione, venne la donazione munifica e sapiente di Luigi Ferdinando Marsili (1711) e l'Istituto da lui fondato, con scuole, musei, libri, materiali scientifici copiosi, valenti maestri; con una mentalità tutta nuova; con un impianto che precorse gli altri istituti scientifici d'Europa. E altra fortuna per l'Istituto marsiliano e per l'università fu il cardinale Prospero Lambertini, poi papa (1740) col nome di Benedetto XIV. Ogni pensiero di questo insigne e dotto pontefice fu rivolto all'università, di cui fu curata la storia e la biblioteca, all'accademia, alla rifioritura di questo grande centro di studî.

In due campi Bologna continuò tuttavia ad essere parte cospicua della civiltà d'Italia: nell'arte e nelle scienze. Nell'arte si afferma la scuola carraccesca di cui non è qui il caso di parlare. Le scienze vantano in Bologna, dalla fine del sec. XVI al XVIII, un sicuro e splendente asilo: così per la scienza pura, come per quella applicata. Per quest'ultimo campo abbiamo già segnalata l'opera pratica, innovatrice di Luigi Ferdinando Marsili; per l'altro sono da ricordare tre nomi che da Bologna trassero la vita e in Bologna operarono: Ulisse Aldrovandi, naturalista sommo; Marcello Malpighi, il medico insigne che aprì le correnti nuove dell'indagine; Luigi Galvani, che per primo avviò gli studî verso il campo ignoto dell'elettricità. E non sono da dimenticare altri egregi dotti, quali gli Zanotti, i Manfredi, la Bassi e la Morandi-Manzolini, il Cassini, il Guglielmini, e infine il grande storico della musica padre Giovan Battista Martini.

Il Risorgimento. - Molta commozione e anche orrore aveva destato in Bologna lo scoppio della Rivoluzione francese; ma poi, quando nel 1796 Bonaparte scese in Italia, circonfuso di un'aureola di gloria e di vittoria, tutti furono per lui. A Bologna Bonaparte ebbe una calorosa accoglienza: tutti plaudirono al rinnovato spirito. E quantunque durante la Repubblica, il Regno e l'Impero dovesse sostenere qualche disagio, pure Bologna si compiacque e del suo Aldini nominato ministro da Napoleone, e della fondazione in Bologna dell'Istituto nazionale, e di altri vantaggi che alla città ne erano venuti.

Nel 1814-15, prima e durante il congresso di Vienna, parve per un momento che Bologna avesse a divenire la capitale di un piccolo stato indipendente, che doveva comprendere le cosiddette Romagne, ossia le Quattro Legazioni; ma poi, per opera soprattutto del cardinale Consalvi, le Legazioni, Bologna compresa, ritornarono allo stato pontificio.

Notevole è la pagina che Bologna ha scritto nella storia del Risorgimento. Già fin dal primo periodo della Restaurazione divenne centro, si può dire, di tutte le sette liberali, che agivano soprattutto in Romagna. E se nel 1821 non poté muoversi, nel 1831 ebbe di tutta la rivoluzione dell'Italia centrale la parte più notevole. Insorta il 4 febbraio, dopo che Ciro Menotti aveva accesa la fiaccola a Modena, presto propagò la rivoluzione alla Romagna, alle Marche, fin quasi alle porte di Roma. Tutte le città insorte si unirono con Bologna capitale e costituirono il governo delle Provincie unite. Il presidente Vicini emanò il famoso decreto di affrancamento dal dominio temporale dei papi. Altri notevoli provvedimenti si presero; ma presto, invitata dal papa, intervenne l'Austria, che riportò il duca a Modena e restituì le provincie insorte al papa.

Il 1831 aveva destato il fuoco che poi covò sotto la cenere; né in Bologna si spense mai più. Nel 1843 abbiamo qui il tentativo dì Savigno; e nel '48 Bologna, per mezzo dei suoi animosi figli, dimostra il suo valore nei campi di Lombardia e soprattutto nel fatto d'armi dell'8 agosto, alla Montagnola; cimento ardito e glorioso, nel quale gli Austriaci del Welden furono sanguinosamente e furiosamente ributtati.

La libertà caduta nel 1849 (e Bologna vide il suo Ugo Bassi fucilato alla Certosa dagli Austriaci), risorse dieci anni dopo. I suoi insigni uomini quali Minghetti, Cassarini, Inviti, Tanari, Zanolini, Malvezzi, Gozzadini, ebbero parte cospicua nei grandiosi avvenimenti che portarono all'unità della patria; e valorosi cittadini parteciparono alle guerre d'indipendenza. Fu poi Bologna, nel periodo dal '70 al '900, centro fervidissimo di vita culturale (basti pensare al Carducci) e di accese passioni politiche.

Il grande Tabularium, che è stato eretto nel chiostro della basilica stefaniana, sta a dimostrare quale contributo di valore e di sangue diede questa città alla guerra liberatrice del 1915-18. Il sacrificio di Giulio Giordani, ucciso dall'insania bolscevizzante a Palazzo d'Accursio nel 1921, ha dato il segno della riscossa e ha risvegliato, non in Bologna soltanto, ma in tutta Italia, l'amore alla patria e il senso della dignità di nazione.

Fonti: Corpus Chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, Città di Castello-Bologna, voll. 4, 1903-1928 (e altre cronache della collezione Muratoriana, ora ristampate a cura del Torraca, Sorbelli, Frati, ecc.); Statuti di Bologna dall'anno 1245 all'anno 1967, a cura di L. Frati, voll. 3, Bologna 1869-77; Gli ordinamenti sacrati e sacratissimi, a cura di A. Gaudenzi, Bologna 1888; Chartularium Studii bononiensis (a cura di A. Sorbelli e di altri), voll. 9, Bologna 1907-28; Sarti e Fattorini, De claris Archigymnasii bononiensis professoribus, voll. 2, Bologna 1769-1772 (ristampati da C. Albicini nel 1888); Rotuli dei lettori, legisti e artisti dello Studio bolognese dal 1384 al 1799, a cura di U. Dallari, voll. 4, Bologna 1888-1923; A. Sorbelli, Le iscrizioni e gli stemmi dell'Archiginnasio, I, Bologna 1916; id., Le croniche bolognesi del sec. XIV, Bologna 1900; G. Melloni, Atti o Memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna, voll. 6, Bologna 1773-1788; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, voll. 9, Bologna 1781-1794; S. Calindri, Dizionario corografico, georgico, orittologico, storico dell'Italia: I-V, Montagna e collina del territorio bolognese; VI, Pianura, Bologna 1781-85; Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna, Bologna dal 1862, in 4 serie; Biblioteca de L'Archiginnasio (diretta da A. Sorbelli), voll. 39, Bologna 1907-1930; L. Frati, Opere della bibliografia bolognese che si conservano nella Biblioteca Municipale di Bologna, voll. 2, Bologna 1888-1889.

Bibl.: Storie generali e compendî: C. Ghirardacci, Historia di Bologna, Bologna, I, 1596; II, 1657; III, 1928 (edito a cura di A. Sorbelli); P. Vizani, Historie della sua patria, voll. 2, Bologna 1602-1608; L. V. Savioli, Annali bolognesi, voll. 6, Bassano 1784-1795; S. Muzzi, Annali della città di Bologna dalla sua origine al 1796, voll. 9, Bologna 1840-1849. Tra i compendî ricordiamo: C. Monari, Storia di Bologna, Bologna 1862; C. Pancaldi, Compendio storico di Bologna, Bologna 1840; L. Aureli, Compendio della storia di Bologna, Bologna 1851; P. de Bouchaud, Périodes historiques de Bologne, Parigi 1909; E. E. Coulson James, Bologna its history, antiquities and arts, Londra 1909; e il recentissimo di G. Rossi, Bologna nella storia, nell'arte e nel costume, voll. 3, Bologna 1925-1928.

Monografie: Si ricordano solo le principali: F. Lanzoni, San Petronio nella storia e nella leggenda, Bologna 1907; A. Gaudenzi, Il monastero di Nonantola, il ducato di Persiceto e la chiesa di Bologna, Roma 1916; A. Vicinelli, Il passaggio di Bologna dal dominio pontificio ai re d'Italia, Bologna 1921-22; M. Gualandi, Origine dei conti da Panico, Bologna 1908; A. Albicini, Origine dello Studio bolognese, Bologna 1888; A. Gaudenzi, L'origine dello Studio di Bologna, Bologna 1910; A. Hessel, Gesch. der Stadt Bologna (1116-1280), Berlino 1910; F. Bosdari, Bologna nella prima Lega Lombarda, Bologna 1897; G. Gozzadini, Le torri gentilizie in Bologna, Bologna 1875; V. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, Bologna 1901; N. Rodolico, Dal Comune alla Signoria: Saggio sul governo di Taddeo Pepoli, Bologna 1898; A. Sorbelli, La Signoria di Giovanni Visconti a Bologna e le sue relazioni con la Toscana, Bologna 1901; O. Vancini, La rivolta dei bolognesi al governo dei vicari della Chiesa, Bologna 1906; U. Santini, Bologna sulla fine del quattrocento, Bologna 1901; F. Bosdari, Giovanni I Bentivoglio, Bologna 1915; G. Gozzadini, Nanne Gozzadini e Baldassarre Cossa, Bologna 1880; L. Frati, La vita privata di Bologna dal sec. XIII al XVII, Bologna 1900 (Ristampata con aggiunte nel 1929); A. Sorbelli, I primordi della stampa in Bologna; Baldassarre Azzoguidi, Bologna 1908; id., La storia della stampa in Bologna, Bologna 1929; F. Cavazza, Le scuole dell'antico Studio bolognese, Milano 1896; C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro, Bologna 1878; F. Malaguzzi-Valeri, L'architettura a Bologna nel Rinascimento, Rocca S. Casciano 1899; G. Gozzadini, Giovanni II Bentivoglio, Bologna 1839; G. Giordani, Della venuta e dimora in Bologna del sommo pontefice Clemente VII per l'incoronazione di Carlo V, Bologna 1842; A. Battistella, Il Sant'Officio e la Riforma religiosa in Bologna, Bologna 1905; C. Ricci, Vita barocca, Roma 1912; id., I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII, Bologna 1888; L. Frati, Il Settecento a Bologna, Palermo 1923; E. Masi, La vita, i tempi, gli amici di Francesco Albergati, Bologna 1878; La repubblica Cispadana: costituzione e parlamento, Bologna 1915-22; G. Ungarelli, Il generale Buonaparte in Bologna, Bologna s. a.; U. Lenzi, Napoleone a Bologna, Bologna 1921; A. Zanolini, Antonio Aldini e i suoi tempi, voll. 2, Firenze 1864; F. Cantoni, Bologna nel 1820-1821, Bologna 1924; A. Sorbelli, Opuscoli, stampe alla macchia, fogli volanti riflettenti il pensiero politico italiano 1830-35, Firenze 1927; id., l'Università di B. e la rivoluzione del 1831, Bologna 1926; G. Vicini, La rivoluzione dell'anno 1831, Imola 1889; A. Comandini, Cospirazioni di Romagna e B., Bologna 1898; U. Pesci, I Bolognesi nelle guerre nazionali, Bologna 1906; D. Brassini, L'8 agosto 1848 in B., Bologna 1883; V. Fiorini e R. Belluzzi, Il tempo del Risorgimento italiano, Bologna 1897; A. Dallolio, La spedizione dei Mille nei ricordi bolognesi, Bologna 1912; A. Testoni, B. che scompare, Bologna 1905; 2ª ed. 1930.

Arte.

Architettura. - Non è dato conoscere l'importanza e la vastità dello sviluppo che ebbe il cristianesimo nei suoi primordî a Bologna. Secondo la tradizione S. Zama, il primo vescovo (sec. III), avrebbe costruito fuori della città, sulla via che va a Modena, la prima cattedrale, che, dedicata in seguito ai Ss. Naborre e Felice e ridotta nel 1800 a magazzino dell'Ospedale militare, non conserva di antico che la cripta, preteso avanzo della primitiva costruzione, ma con tutti i caratteri del sec. XI, quali si rltrovano in quella di S. Vitale. Notizie più certe si hanno sulla fine del sec. IV allorché S Ambrogio a Bologna assistette alla traslazione dei corpi dei due martiri Vitale e Agricola nella chiesa fatta costruire da Faustiniano, oggi più nota coi nomi dei Ss. Pietro e Paolo. Attorno a questa basilica S. Petronio (430-450?) vescovo, e poi protettore della città, avrebbe edificato quel gruppo di chiese che vanno sotto il nome di S. Stefano, riproducendo in esse i luoghi santi di Gerusalemme. Ma questi edifici subirono tali e tanti restauri e rifacimenti che non è il caso di cercare nelle costruzioni presenti quelle del sec. V. Distrutte in gran parte nel 903 per l'invasione degli Ungari, nel sec. XI i benedettini, che qui avevano stanza, le riattarono facendo nuovo il bel chiostro romanico a doppio ordine, costruendo nella chiesa del Crocifisso, già del Battista, la cripta per accogliervi i corpi dei Ss. Vitale e Agricola; restaurando l'ottagono stefaniano, rifacendo il cortile che lo collega alla chiesa della Croce, anch'essa alterata nel '700 e ora rimessa al pristino stato. Nel centro del cortile è il catino con l'iscrizione che ne assicura l'origine al sec. VIII, e destinato, probabilmente, a raccogliere le offerte nel Giovedì santo. Tali edifici sono tutti di carattere schiettamente lombardo.

Anteriore a queste ricostruzioni era la cattedrale, dedicata a San Pietro, distrutta nel 1141 da un incendio, restaurata subito dopo, a tre navate con pilastri cruciformi e rinnovata del tutto nel '500 e nel '600. Dell'antica costruzione non rimangono che l'alta torre e gli avanzi della Porta dei Leoni ricordata dal Vasari, eseguita, non da Marchionne Aretino ma da maestro Ventura nel 1220-23. Le altre numerosissime chiese di questo periodo furono distrutte o modificate in tempi posteriori.

Povere case di legno coperte di paglia fiancheggiavano in origine le torri, numerosissime anche nei secoli XIII e XIV, appartenenti alle principali famiglie; tra le superstiti più celebri e popolari quelle dell'Asinella e della Garisenda, costruite verso il 1109. In seguito, accanto a queste torri sorsero meno umili dimore, costituite da un piano superiore sporgente, sorretto da mensole se poco aggettante, o da lunghe travi poggiate su zoccoli di selenite, a formare così il portico. Il piano nobile con finestre bifore ad arco tondo è situato ora sotto il portico (casa Isolani), ora sopra (casa Grassi). Successivamente si abbandonarono i sostegni in legno per adottare pilastri quadrati o ottagoni, decorati con semplici capitelli. Eccezioni, la nuova residenza del Comune (1244), che prese poi il nome da re Enzo per la prigionia sofferta dal figlio di Federico II dopo la battaglia della Fossalta (1249), e le case Pepoli (sec. XIV), entrambe a coronamento merlato e senza portico; ma queste ultime a quattro piani, con finestre e porte ad arco acuto.

Nessun centro più propizio della città dello Studio per ricevere e diffondere le nuove idee di cui si erano fatti propugnatori S. Domenico e S. Francesco; e due chiese nel nuovo stile, importato d'oltremonte dai cisterciensi e accolto con molte attenuazioni dai due nuovi ordini, furono costruite dai loro seguaci.

La chiesa di S. Domenico perdette il primitivo carattere nel rifacimento del Dotti (1729-1732); quella di S. Francesco, invece, degnamente restaurata, si presenta più vicina al tipo francese per le sue singolarità: peribolo absidale con cappelle raggianti, contrafforti con archi rampanti, navata maggiore che si sopraeleva d'assai sulle laterali, pilastri a fascio transetto che si mantiene sulla linea del corpo della chiesa. Solo nella facciata torna il tipo tradizionale romanico-lombardo. Grande fu l'influenza che ebbe questa chiesa sugli altri monumenti sacri della città. S. Giacomo alla forma propria degli Eremitani (una sola grande navata con tre cappelle di testata) aggiunse poi le cappelle a raggiera; lo stesso avvenne in S. Maria dei Servi, iniziata da Andrea Manfredi (1386) ma compiuta molto più tardi. Invece S. Martino (1308-1350?) ha struttura gotica con abside a pianta quadrata per necessità topografiche, S. Procolo (1384) abside poligonale; così S. Girolamo della Certosa (1359) la Misericordia e più tardi S. Michele in Bosco.

Del periodo trecentesco meritano particolare menzione due esempî di architettura civile: il collegio di Spagna e la loggia del Carrobbio o della Mercanzia. Il primo, costruito dal cardinale Albornoz (1365-67) per accogliere gli studenti spagnoli che venivano allo Studio, ebbe come architetto maestro Gattapone che, ai servigi del cardinale, costruì a Spoleto la Rocca e in S. Francesco d'Assisi la cappella gentilizia; la Mercanzia, che presenta i caratteri dell'arte gotica veneto-lombarda, fu iniziata nel 1382 e compiuta nel 1390. Era soprastante ai lavori, nel 1384, Antonio di Vincenzo (1350-1402) il cui nome è legato a uno dei più grandiosi e solenni monumenti di Bologna, e non di Bologna soltanto: il S. Petronio.

Iniziato nel 1390, alla morte dell'architetto erano già costruite quattro cappelle per parte; interrotti subito i lavori furono ripresi qualche anno dopo seguitando lo schema primitivo; ma quando al principio del '500 si pensò al coronamento dell'edificio sorsero dispute e dubbî che consigliarono d'interrompere l'opera. Manca ogni documento sul progetto vagheggiato da maestro Antonio, il quale invece di una cupola di quasi 50 metri di diametro e di 150 metri di altezza, sognata dagli architetti cinquecenteschi, immaginò probabilmente un tiburio sviluppato sul quadrato di pianta di una campata, sul tipo di quello milanese. Comunque, la bella chiesa, nella quale il gotico d'oltremonte è temperato dal sentimento italiano dello spazio (campate a pianta quadrata) e il pilastro a fascio è derivato da quello di Francesco Talenti nel duomo di Firenze, attesta la scienza e l'abilità costruttiva dell'architetto bolognese. A lui si deve pure il campanile di S. Francesco (1397), anch'esso incompiuto, dove son fuse con rara perizia le forme decorative romaniche e gotiche.

Attorno alla gran mole di S. Petronio convergono per tutto il Quattrocento gli sforzi dei Bolognesi, i quali sentirono solo superficíalmente gli effetti del nuovo indirizzo che da Firenze si diffondeva per la penisola. Lo conferma quella parte del Palazzo del Comune costruita da Fioravante Fioravanti (1425-28), dove grandi finestre ad arco acuto, decorate all'intorno con formelle in terracotta, e i capitelli gotici del cortile derivano dalla Mercanzia. Ad altro architetto e idraulico della stessa famiglia, Aristotele (1420?-1480?), famoso per il trasporto della torre della Magione, si assegna ll modello del Palazzo del Podestà, commessogli dal Comune nel 1472, nel quale rivestì con nuove forme il portico e la facciata. Fu però Pagno di Lapo Portigiani (1408-1470), scolaro di Donatello, che importò a Bologna per primo le forme del Rinascimento.

Bologna per necessità di clima, per difetto di sentimento classico nel popolo si tenne sempre ligia alle tradizioni imponendole agli stessi artisti fiorentini che qui operarono. Solo nella cappella Bentivoglio in San Giacomo spicca in modo singolare il carattere toscano e ne assicura la paternità a Pagno di Lapo, appunto per i tanti elementi donatelliani che vi si riscontrano. Il cronista Borselli ascrive allo stesso maestro la costruzione del celebre palazzo Bentivoglio, cominciato nel 1460 da Sante e compiuto da Giovanni II; e l'attribuzione trova conferma nei rapporti che dovettero intercedere tra il signore bolognese e l'artefice fiorentino, appunto per la costruzione della cappella di S. Giacomo. Il palazzo, distrutto a furia di popolo nel 1507, fu modello ad altre costruzioni, tra le quali la casa degli Strazzaroli, però solo nelle finestre e nelle pilastrate (1486-1496); mentre anche più toscaneggianti sono i palazzi Bolognini, ora Isolani, in Piazza S. Stefano, dello stesso Pagno (1451) e quello Sanuti (1479), ora Bevilacqua, in via d'Azeglio. Sull'esempio della cappella Bentivoglio se ne costruirono altre in S. Martino. in S. Giovanni in Monte, in S. Vitale e alla Misericordia; ma gli edifici sacri erano allora nella maggior parte compiuti e solo se ne modifica l'interno. A S. Giacomo si toglie il tetto ligneo e si voltano le cupole (1497-98); S. Giovanni in Monte è ricostruito sul modello di S. Petronio (1440); più originali la Madonna di Galliera (1591), la chiesa della Santa o del Corpus Domini (1478), e Santo Spirito (1481-1497), le cui facciate, pur mostrando i nuovi influssi, ripetono nelle terrecotte i motivi cari all'arte bolognese, non senza arricchirsi di preziose figure, oggi purtroppo assai guaste.

Dopo una sosta dovuta agli avvenimenti politici: la cacciata dei Bentivoglio, Giulio II a Bologna con Bramante, Michelangiolo e forse anche Raffaello, il breve ritorno dei Bentivoglio nel 1511, la definitiva conquista della città alla Chiesa, l'attività edilizia prese nuovo sviluppo. Non più da Firenze giunge il verbo artistico, ma da Roma da cui sono importate le nuove forme classicheggianti.

Nel 1516 Andrea Marchesi da Formigine, intagliatore e architetto, disegna il portico di S. Bartolomeo col motivo adottato da Bramante in quello della Pace a Roma; a lui si ascrivono pure i palazzi Dal Monte in via Galliera (1518) e Fantuzzi in via S. Vitale (1526-1532); ma così diversi per carattere e stile da farci dubitare della tradizionale attribuzione. Convennero successivamente a Bologna per la facciata d[ S. Petronio alcuni dei più celebri architetti: Baldassarre Peruzzi (1522), il Vignola (1547), Giulio Romano (1546), il Palladio (1578), e alcuni lasciarono qualche saggio dell'arte loro. Il Peruzzi, la cappella Ghisilardi in stile dorico (e si vuole che fosse il primo a far conoscere ai Bolognesi questo stile) affiancata alla fronte di S. Domenico; secondo il Vasari la porta di San Michele in Bosco (si disse poi anche la facciata) e secondo alcune Guide il palazzo Albergati. Il Vignola, i palazzi dei Banchi (1565-68), Piella già Bocchi, esagerato nella bugnatura, e Benelli già Boncompagni in via del Monte (1545); il Palladio (1518-1580), il palazzo Ruini ora dei Tribunali. Agli architetti ricordati seguirono altri maestri locali; i due Tibaldi, Domenico, il più attivo, cui si deve l'università (1560), l'arcivescovado (1575), il palazzo Magnani ora Salem (1577-87), e l'inizio del rinnovamento di S. Pietro; Pellegrino, la cappella Poggi in San Giacomo con gli stucchi e gli affreschi delle pareti. Nulla rimane di Sebastiano Serlio, il celebre trattatista, dacché la finestra del palazzo comunale con gli stemmi Dal Monte è oggi data all'Alessi, al quale spetta anche la porta dello stesso palazzo, cui Domenico Tibaldi aggiunse il terrazzo e l'edicola dove più tardi fu alzata la statua di Gregorio XIII. Antonio Morandi s'ispira al Vignola nell'opera sua migliore, l'Archiginnasio (1562); e il figlio Francesco, detto il Terribilia (morto nel 1603), fece la prima delle vòlte in S. Petronio (che fu poi abbattuta) e disegnò la facciata per la stessa chiesa; Bartolomeo Triachini costruì il palazzo Malvezzi (1570?) a ordini sovrapposti, e quasi contemporaneamente il palazzo Vizzani, ora Sanguinetti, in via S. Stefano, anch'esso di evidente ispirazione vignolesca. Nella maggior parte di questi palazzi si ripete, arricchito, il tipo delle antiche costruzioni: il portico con colonne o pilastri dai capitelli svariati; nel piano nobile ampie finestre architravate; circolari o quadrate sotto il cornicione. Inoltre, al principio del sec. XVII, un architetto lombardo, Giov. Ambrogio Magenta, ebbe parte nel rinnovamento della basilica di S. Pietro e nella costruzione della chiesa di S. Salvatore, ispirate alle chiese di Roma.

Ma tornano ben presto a prendere il sopravvento gli architetti locali: Floriano Ambrosini con la cappella di S. Domenico (1596-1626); Pietro Fiorini (morto nel 1629) con la chiesa di S. Niccolò e il chiostro dei Carracci in S. Michele in Bosco; Bartolomeo Provaglia (morto nel 1672) col palazzo Davia Bargellini; G. B. Bergonzoni (1629-1692) con l'interno di S. Maria della Vita, a pianta centrale; G. A. Torri (1655-1713) con la Madonna di Galliera; G. G. Monti (1621-1693) con la Santa. Il gusto secentesco predomina in queste costruzioni, ma nonostante la ricca fioritura di ori e stucchi, cartelle e festoni, che rompono e frastagliano le linee architettoniche, contribuendo alla fastosità e festosità di quelle fabbriche, si può affermare che l'indiscussa fantasia di questi artisti non degenera mai nel trito e nel pesante.

Lo stesso indirizzo segue Alfonso Torreggiani (morto nel 1764) che, castigato nella facciata di S. Pietro, diviene ricco e íastoso nell'oratorio dei Filippini (1727); più carico e greve nelle decorazioni della cappella Aldrovandi in S. Petronio (1726). Emulo di lui Carlo Francesco Dotti (morto nel 1759) mostrò la sua valentia d'architetto nella costruzione a pianta centrale del tempio di S. Luca, una delle più originali e caratteristiche fabbriche di Bologna. Rinnovò l'interno della chiesa di San Domenico (1729) e costruì il palazzo Agucchi, ora Bosdari, in S. Stefano e quello Monti, ora Salina, in via Barberia.

Sbollito l'entusiasmo per queste forme d'arte lussureggianti, a poco a poco la reazione neoclassica penetra anche a Bologna, e s'inizia con le imitazioni palladiane del Tadolini (morto nel 1805) e del Compagni (morto nel 1781); si sviluppa con le opere di Filippo Antolini e di Angelo Venturoli.

Il più completo esempio di quello stile si ha nella villa Aldini costruita fra il 1811 e il 1816 da Giuseppe Nadi. Fredde manifestazioni di un'arte non d'ispirazione ma d'imitazione, tuttavia sempre fine e distinta.

Non durarono troppo quelle forme accattate e non sentite, e si tornò allo studio dei grandi esemplari cinquecenteschi da cui nacque quello stile eclettico che domina tuttora.

Avemmo così il palazzo della Banca d'Italia di A. Cipolla (morto nel 1874), la Cassa di risparmio di G. Mengoni (morto nel 1877), la scalea della Montagnola (1893) di T. Azzolini (morto nel 1907) e A. Muggia, e infine il palazzo Bonora (1910) e la chiesa del Sacro Cuore (1902-1912), d'ispirazione romanico-orientale, di E. Collamarini. Ultimi saggi della nuovissima architettura, i palazzi di via Rizzoli.

Non ebbe fortuna l'indirizzo romantico che portò ad evocare forme medievali e specialmente gotiche.

Questa corrente ebbe qui un caldo e devoto assertore in Alfonso Rubbiani (morto nel 1913) cui si deve la fondazione del comitato per Bologna storico-artistica, benemerito con lui del restauro dei più notevoli edifizî della città: la Mercanzia, il palazzo dei Notai, la facciata di S. Domenico, e con le tombe dei Glossatori la bella chiesa francescana. In questo stile fu rinnovata la fronte di S. Martino da G. Modonesi (1879) e costruita la chiesa di S. Antonio da C. Barberi (1903).

Scultura. - Allo sviluppo dell'architettura non corrispose egualmente quello della scultura. Artisti forestieri debbono essere chiamati in Bologna per opere importanti: i pisani nel 1265, i Dalle Masegne nel 1380, il della Quercia nel 1425.

Forse mancanza del materiale e difficoltà di procurarselo contribuirono alla scarsa passione in Bologna per questa forma d'arte. Del primitivo periodo ben poco rimane: le croci che si vogliono poste da S. Petronio nei quadrivî della città sono tutte dei secoli XI e XII. Solo quella che è in S. Giovanni in Monte, e che porta il nome di Barbato prete, appartiene al sec. VIII. Il Cristo crocifisso (già sul pontile della cattedrale romanica di S. Pietro); i Magi nella chiesa di S. Stefano; i simboli degli Evangelisti nel pulpito della stessa chiesa ci confermano in quali condizioni si trovasse l'arte in Bologna nei periodi successivi. Per dare più solenne aspetto al sepolcro di S. Domenico si affidò a Nicola Pisano e a fra Guglielmo l'esecuzione del sarcofago (1265-67); e quando, dopo il recupero di Bazzano, il Comune volle erigere una statua a Bonifacio VIII si dovette ricorrere all'orafo Manno senese. Scultori veronesi lavorano ai monumenti dei glossatori Bonandrea (morto nel 1333), Pietro Cerniti (morto nel 1338), Bonifazio Galluzzi (morto nel 1346). I veneziani Iacobello e Pier Paolo dalle Masegne eseguono il sarcofago di Giovanni da Legnano, giunto a noi frammentario, e ai due medesimi artisti i frati di S. Francesco commettono nel 1388 l'ancona per l'altare maggiore della loro chiesa. Dalle tombe a piramide degli antichi legisti, d'ispirazione orientale, si passa alla forma consueta del sarcofago sorretto da mensole dove sulla fronte è riprodotto il lettore coi suoi scolari; ma nei monumenti dei Da Saliceto, eseguiti da Andrea da Fiesole (1412), il coperchio dell'arca si adorna della figura del legista morto e in alto sovrastano le statuette della Vergine e di Santi. Artisti toscani lavorano alle sculture figurate della Mercanzia; veneziani e fiamminghi alle formelle dello zoccolo della facciata di S. Petronio, veneziani e toscani alle basi delle prime finestre laterali della chiesa; ma tra il 1425 e il 1438 Iacopo della Quercia lascerà a Bologna i saggi più preziosi dell'arte sua, arte stupenda per la grandiosità delle figure e la perfezione della tecnica. Anche quest'opera rimarrà manifestazione isolata di un ingegno potente, senza aver seguito nella città dello Studio. Soltanto Niccolò dall'Arca, che il Vasari vuole scolaro di Iacopo, fattosi alla scuola di Donatello, con lo studio delle formelle della porta bolognese riuscirà a creare con larghezza e originalità alcune opere piene di vigore e di vita: il Mortorio in S. Maria della Vita (1463), la Madonna di Piazza (1478), il busto del Patriarca in S. Domenico (1493). Altri scultori vennero dalla Toscana e specialmente da Firenze: Pagno di Lapo Portigiani, Domenico Rosselli, Antonio di Simone, Francesco Ferrucci per lavorare ai basamenti delle finestre nei fianchi del S. Petronio; a quest'ultimo artista si deve la bella sepoltura del Tartagni in S. Domenico, dov'è un'eco anche se attenuata, della grande arte di Andrea del Verrocchio; dalla Lombardia giunse nel 1480 Sperandio mantovano, medaglista e scultore, cui si deve la cella campanaria del campanile di S. Petronio e il basamento della tomba di Alessandro V in S. Francesco; finalmente nel 1494 Michelangiolo. L'arca di S. Domenico non s'accordava più con la nuova cappella dove era stata trasportata nel 1411 e allora i frati pensarono di arricchirla con un coronamento, dando l'incarico del lavoro a Niccolò d'Antonio, che per quest'opera si meritò il titolo d'onore di Niccolò dall'Arca. Ma Niccolò non compì il lavoro, e allora, capitato a Bologna Michelangiolo, ebbe dall'Aldrovandi l'incarico di eseguire il S. Procolo, un Angelo e di finire la statua di S. Petronio che Niccolò aveva lasciato incompiuta. L'altra opera di Michelangiolo, la statua in bronzo di Giulio II, col ritorno dei Bentivoglio a Bologna (1511), fu gettata a terra e distrutta. Accanto a questo grandissimo, ricorderemo il modesto bolognese Vincenzo Onofri che lavorò in terracotta e in marmo e che lasciò in S. Petronio, oltre alla tomba Nacci, un Cristo morto con sette figure, ben lungi dal raggiungere il dramma che Niccolò dall'Arca aveva impresso in quello di S. Maria della Vita, e il fiorentino Baccio da Montelupo, nel sepolcro (1495) per la cappella Bolognini in S. Domenico, di cui si sono conservate solo alcune figure. Nel 1510 si cercò di compiere alla meglio la porta centrale di S. Petronio; e lavorarono alle sculture dell'archivolto Antonio del Minella, Antonio da Ostiglia, Domenico da Varignana e Amico Aspertini; e si collocò nella lunetta la meravigliosa Madonna e il S. Petronio di Iacopo, e Domenico da Varignana completò il gruppo con la statua di S. Ambrogio. Nel 1525 si pensò alle decorazioni delle porte minori. Parteciparono a questo lavoro artisti di fuori e qualche scultore locale: Alfonso Lombardi, Niccolò Tribolo, Girolamo da Treviso, Amico Aspertini, Ercole Seccadenari, Niccolò da Milano, Properzia de' Rossi, Zaccaria Zacchi di Volterra, i quali eseguirono le varie formelle con storie di Mosè, di Giuseppe e di Cristo, cercando invano d'ispirarsi all'opera di Iacopo. Assai più tardi questa decorazione fu compiuta nelle parti superiori da Lazzaro Casario (1542-1593), Teodoro Rossi e Giacomo Silla in modo anche più superficiale.

Fra le opere di scultura del sec. XVI che si ammirano a Bologna la più singolare per bellezza di forme, originalità di concezione e sapienza tecnica è la Fontana del Nettuno, disegnata da Tommaso Laureti, architetto e pittore palermitano, e modellata dal Giambologna tra il 1563 e il 1566. Opera monumentale tra le più perfette dell'artista, per l'euritmia delle parti, lo slancio e l'imponenza della figura principale, la bellezza della base, i particolari decorativi, ond'è giustamente considerata una delle più belle fontane d'Italia.

Non giova ricordare le opere insignificanti condotte dopo da artisti mediocri; o quelle farraginose eseguite da artisti rimasti ignoti. Diremo invece che tra il 1558 e il 1561 frate Giovanni Antonio da Montorsoli eseguì il grande altare marmoreo della chiesa dei Servi per commissione di Giulio Bovio e nel 1580 Alessandro Menganti la statua di papa Gregorio XIII, mostrandosi entrambi seguaci della maniera michelangiolesca. La quale si conferma nel gruppo di Alessandro Algardi (1602-1654) in S. Paolo, dove lo scolaro del modesto Conventi (1577-1640), sotto la guida dei Carracci, riuscì a dare carattere pittorico alla sua scultura, ossia bella scioltezza di linee e larga pastosità di modellato. È questo l'ultimo grande scultore che operò in Bologna; ricordiamo tuttavia i più modesti plasticatori quali i Mazza: Camillo (1602-1672), discepolo dell'Algardi, e Giuseppe (1653-1741), pittore e scultore, scolaro del Pisanelli, operosissimo e popolare per le belle figurine in terracotta per i "Presepi" o quelle non prive di sentimento per i "Sepolcri"; e Angelo Piò (1690-1769), fecondissimo e facile modellatore. Poi sotto l'influsso del Canova, del Tenerani e del Bartolini l'arte prese l'indirizzo classico ch'è ormai del tutto abbandonato per lo studio più libero e più cosciente del vero. Risentono del mutamento avvenuto alcune delle opere nel cimitero monumentale della Certosa: di Vincenzo Vela (morto nel 1891) il Murat e la Desolazione nel monumento Gregorini; del Duprè (morto nel 1882) la statua di Gian Luca Pallavicini; del Salvini (morto nel 1895) quella di Giovanni Contri; del Rivalta (morto nel 1924) le sculture nelle celle Trombetti; del Barberi il monumento della famiglia dei Conti Cavazza. Di Giulio Monteverde (morto nel 1917) sono i monumenti a Vittorio Emanuele (1888) e a Marco Minghetti (1896); di Diego Sarti (morto nel 1914), Pietro Veronesi e Tullo Golfarelli (morto nel 1928; quest'ultimo eseguì il busto del Carducci nell'aula universitaria dove il maestro tenne cattedra) sono le sculture della scalea della Montagnola con fatti relativi alla storia di Bologna. Infine di Giuseppe Romagnoli è la lapide con figure allegoriche in memoria di Re Umberto, sulla fronte del palazzo comunale, e del Borghesani il monumento agli studenti caduti in guerra nell'atrio dell'università (1921).

Pittura. - I saggi più antichi di pittura sono tutti del periodo romanico-bizantino. La famosa Madonna di S. Luca d'importazione greca, i resti delle storie che decoravano la vòlta dell'ottagono stefaniano, gli affreschi entro le arche di S. Giacomo, alcune tavole e frammenti di affreschi giunti sino a noi, sono di così scarso pregio e così malandati che non merita soffermarcisi. Maggior credito ebbe qui la miniatura, favorita dai lettori e dagli scolari, e celebri per il ricordo dantesco sono Oderisi da Gubbio e Franco bolognese, il quale, in special modo, sotto l'influsso d'oltremonte, perfezionò la tecnica dando ai suoi lavori maggior grazia e vivacità di colori. Tal genere di decorazione adorna le Matricole, gli Statuti delle varie Compagnie religiose e delle Società delle arti e i libri corali dei principali conventi; e, se alcuni artisti portarono nelle tavole la tecnica dei miniatori, l'arte non se ne avvantaggiò perché essi furono chiusi a ogni influsso forestiero.

Emerge sui mediocri Vitale degli Equi (1300-1359), che si disse "dalle Madonne" per essersi dedicato a ripetere la sacra immagine con una certa grazia ma con tecnica povera e convenzionale; migliore di Vitale è Iacopo Avanzi che operò nella seconda metà del sec. XIV, da non confondersi con l'Avanzo veronese collaboratore di Altichiero a Padova. Iacopo è seguace di Andrea Bartoli, più noto sotto il nome di Andrea da Bologna; modesto pittore anch'esso come dimostrano le storie di S. Caterina dipinte nella cappella Albornoz in Assisi e il grande polittico della Pinacoteca bolognese. Dello stesso stampo è Simone de' Crocifissi (morto nel 1399), scolaro di Vitale, che nel 1366 prese a dipingere alcune storie del Vecchio Testamento nella chiesetta di Mezzaratta. Su tutti si eleva Lippo Dalmasio (1352-1410), nipote di Simone de' Crocifissi, che ebbe molti seguaci, i quali, attratti da quella certa grazia che Lippo infuse nelle sue figurazioni, cercarono d'imitarlo, ma si resero nella superficiale imitazione anche più manierati; e lo stesso Iacopo di Paolo (1390-1426), cui oggi si ascrivono in parte gli affreschi della cappella Bolognini (1410) in S. Petronio, il quale nei contorni duri, nel colorito crudo, nelle mosse sforzate non anima le storie con quel sorriso d'arte che rifulgeva già nelle opere toscane dello stesso periodo.

Nemmeno nella prima metà del Quattrocento la pittura bolognese accenna a qualche miglioramento. Pietro Lianori (1416?-1460) e Orazio di Iacopo (1446) seguono la vecchia scuola e ripetono senza grazia e senza vita i consueti schemi.

Ma nel 1450 giunge a Bologna il quadro colorito da Antonio e Bartolomeo Vivarini; e come la pittura si avviava a Venezia a forme più alte e più nobili, così da Bologna partono alcuni artisti verso scuole più progredite, e si staccano dalla maniera locale. Michele di Matteo da Bologna (1440-1469) s'ispira ai Veneziani, Marco Zoppo (1440-1478) si fa addirittura scolaro dello Squarcione e, pur mantenendo, per l'educazione primitiva e per l'influenza del maestro, duri i contorni e alquanto secche le forme, raggiunge un colorito vivace alla maniera veneta.

Vengono poi da Ferrara a Bologna Francesco del Cossa (1440?-1478), Ercole Roberti (1440?-1496) e Lorenzo Costa (1460-1535), qui formando quasi un centro d'arte ferrarese. Nel 1490 il Costa si associa col "bonissimo gioielliero" Francesco Francia (1450-1517) che appunto con la finezza propria dell'orafo smalta le sue pitture, nobilitando i tipi, raffinando i contorni, modellando con più morbidezza le figure. Dalle prime opere in cui l'influsso ferrarese è evidente alla pala d'altare nella cappella Bentivoglio si può cogliere il progresso dell'artista il quale, sia per il sentimento proprio, sia per l'influsso peruginesco, sia per l'acquistata padronanza tecnica riesce a darci opere degne di stare a confronto con le più belle e perfette produzioni del Quattrocento. La finezza del suo pennello si avverte altresì negli affreschi della cappella di S. Cecilia dove sono dipinte da lui in compagnia del Costa, del Chiodarolo e di Amico Aspertini, le storie della Santa. Ma anche l'arte di questo maestro bolognese doveva esser vinta dalla gloria di Raffaello. Nel 1516 giunge a Bologna la Santa Cecilia e si chiude l'opera dell'artista in un doloroso rimpianto per la nuova luce che veniva dalla tavola del divino maestro. Né la tenue maniera di alcuni seguaci, né le strampalate fantasie di Amico Aspertini possono arrestare la decadenza dell'arte a Bologna, dove pur erano convenuti artisti di pregio quali Girolamo da Treviso, Girolamo da Carpi, il Garofalo e il Parmigianino. Ché da un lato la pittura di Pellegrino Tibaldi nel palazzo Poggi di carattere michelangiolesco, dall'altro l'opera di Raffaello dividono il campo, e si ha una schiera di artisti pedissequi imitatori dell'uno o dell'altro maestro.

Innocenzo da Imola, Gerolamo Marchesi da Cotignola, Biagio Pupini, Bartolomeo Ramenghi detto il Bagnacavallo seguono più o meno abilmente le orme raffaellesche e forzano i colori per raggiungere effetti cangianti; Bartolomeo Passarotti (1530-1592), Orazio Samacchini (1532-1577), Lorenzo Sabatini (1530-1577), si attengono a Michelangiolo, e, peggio, al Vasari. Ma veri precursori dei Carracci furono Dionisio Calvart (1553-1619) il quale prima col Fontana (1512-1597), poi col Sabbatini finisce per aprire una sua scuola; Bartolomeo Cesi (1556-1629) che si perfeziona con lo studio delle opere del Tibaldi e del Passarotti; Niccolò dell'Abate col Primaticcio in Francia, innamorato del Correggio.

Fra le tante e diverse correnti, fra le convenzionali derivazioni dai grandi maestri i Carracci ebbero il merito di additare la via da seguire, ispirandosi ai sommi ma rifuggendo da formule e non perdendo mai di vista lo studio del vero. Lodovico (1554-1619), Agostino (1557-1602), suo cugino Annibale (1560-1609) con le pitture dei palazzi Fava e Sampieri acquistano subito tanta rinomanza che i giovani abbandonano per la loro la scuola del Calvart e del Fontana. E così ha inizio la scuola eclettica, prima detta dei Desiderosi, poi degl'Incamminati. Lodovico grandeggia nelle composizioni, ed è il maestro; Agostino è più fantasioso, originale, di maggior ingegno; Annibale, più castigato per lo studio degli antichi, è il pittore nato. Dalla scuola di questi artisti, o troppo biasimati o troppo esaltati ma ricchi di doti eminenti, escono maestri che onorano l'arte: l'Albani (1578-1680); Guido Reni (1574-1642); il Domenichino (1381-1641); il Guercino (1591-1666); più personale e indipendente Alessandro Tiarini (1577-1668). A questi maestri seguirono C. B. Bertusi (1611-1688), il Cignani (1628-1719), Elisabetta Sirani (1638-1665) e altri minori che continuarono a colorire numerose tele ora sul fare di Guido Reni, ora dei Carracci o del Guercino. Ma fra gli artisti che nel sec. XVIII emersero per originalità e vivacità giova ricordare Giuseppe Crespi detto lo Spagnolo (1665-1747), Ercole Graziani (1688-1765) e i Gandolfi, Ubaldo (1728-1781) e Gaetano (1734-1802), che sotto l'influsso dei Veneziani, i quali rendevano quello che uno di essi, il Piazzetta, aveva attinto dal Crespi, rinnovarono, con una certa grazia settecentesca di origine francese, le loro fresche e facili composizioni. A questi pittori dobbiamo aggiungere i prospettici che coi sotto in su completarono le ampie e magnifiche decorazioni delle scale e dei saloni nei palazzi bolognesi; e gli scenografi che svilupparono nuovi partiti per il meccanismo degli scenarî teatrali.

Figuristi e decoratori ricercati e ammirati furono Angelo Michele Colonna (1600-1687), Giacomo Alboresi (1632-1677), Marco Antonio Franceschini (1648-1729) il più immaginoso di tutti, G. B. B. (1623-1675) e Gius. Ant. Caccioli (1672-1740), Antonio Rolli (1643-1696) e Paolo Guidi (1703). A Giovan Maria Bibiena (1615-1668) seguirono Antonio (1700-1774), che costruì fra il 1756 e il 1763 il teatro comunale e il figlio Francesco (1659-1739), che portò all'estero l'arte e l'esperienza della decorazione scenica. Vittorio Bigari (1692-1776) e Stefano Orlandi (1684-1760) sono rappresentanti di quest'arte caratteristica della città.

La scuola degli scenografi e prospettici ha buoni continuatori nei secoli XVIII e XIX: Antonio Basoli (1774-1848), Francesco Cocchi (1788-1865), Domenico Ferri (1808-1865), Valentino Solmi (1810-1866) e Contardo Tomaselli (morto nel 1877). Minor pregio ha quella che riprende la tradizione della pittura bolognese del sec. XVII coi Rosaspina, i Muzzi, i Masini, i Guardassoni, ecc. Ma il più severo e solido seguace dell'indirizzo realistico fu Luigi Serra (1846-1888), il pittore dell'Irnerio nella sala della provincia. Chiaroscuristi e prospettici con effetti illusionistici si ebbero in Luigi Samoggia e Gaetano Lodi. Abili interpreti del simbolismo mistico del Rubbiani, Alfredo Tartarini (morto nel 1906), Augusto Sezanne e Achille Casanova, decoratori questi ultimi delle cappelle absidali di S. Francesco. L'ultima grande opera pittorica in Bologna alla quale è legato il nome di Adolfo De Carolis (morto nel 1928) è la decorazione del salone del podestà, dove in una serie di grandiosi affreschi sono riprodotti (e ben poco rimane a compierla) i principali episodî della storia di Bologna.

Le arti minori. - La terracotta è il materiale tipico nella decorazione degli edifizî bolognesi: essa trionfa nelle cornici, nelle mensole, nelle formelle, e una scuola di scalpellini o intagliatori abilissimi tratta il mattone come fosse pietra o marmo. E non mancarono anche a Bologna fabbriche di ceramica che produssero oggetti d'uso domestico, ma furono vinte dalla vicina Faenza che mandò lavori anche di maggior importanza artistica come i pavimenti a formelle maiolicate di cui rimangono preziosi esemplari in S. Petronio nella cappella Vasselli (1487) e in S. Giacomo nella cappella Bentivoglio. Vanta la città esperti maestri e bei lavori d'intaglio in legno.

Tommasino di Giovanni da Baiso nel 1407 intaglia il coro per la chiesa di S. Francesco; Giovanni degli Anselmi e Pietro di Antonio nel 1424 lavorano quello per la chiesa di S. Vittore; e Agostino de' Marchi più tardi (1468-77) il coro di S. Petronio, per il quale Marco Zoppo (1462) e Francesco del Cossa (1473) disegnano le figure di S. Ambrogio e S. Petronio da eseguirsi ad intarsio. Infine fra Damiano da Bergamo, domenicano (1528-40), lasciò nel coro e negli armadî della sagrestia di S. Domenico i saggi singolari della sua perizia. A questi seguirono fra Raffaele da Brescia, che lavorò a S. Michele in Bosco (1523), Paolo Sacca a S. Giovanni in Monte (1527), Biagio de' Marchi alla Certosa (1539), i quali ripetono più o meno abilmente i tipi consueti. Particolare menzione meritano fra gl'intagliatori i Da Formigine, cui si attribuiscono le più belle cornici per le tavole dipinte dai migliori artisti del Rinascimento, dove la profusione e la finezza dell'intaglio rendono queste inquadrature preziose, contribuendo al risalto dell'opera che racchiudono.

Accanto ai grandi stanno più umili maestri di legname che costruiscono mobili d'ogni specie in quello stile che prende il nome dalla città. Infatti se nel '400 la mobilia bolognese si attiene al carattere toscano, nel '500 e nel '600 le forme si appesantiscono e si avvivano con bugnature nei piani, con forti smussature agli angoli, con borchie di metallo agli sportelli degli armadî e delle grandi credenze, alle cassette delle tavole e degli stipi.

Ai cenni già dati sui miniatori aggiungiamo qui il nome di Niccolò di Giacomo (1310-1399), il quale tiene il campo per la sua singolare abilità e attività.

A lui seguirono fra Antonio di Lucrezia da Bologna che eseguì il "Collettorio" (1400), ora nel museo civico, ove sono pure i corali di fra Giacomo Filippo da Milano (1507), di Baldassarre degli Isolani carmelitano (1520), di don Giacomo Tassi bolognese (1514); e tra gli esecutori dei graduali e antifonarî di S. Petronio, Taddeo Crivelli da Ferrara (1476), il decoratore della Bibbia di Borso d'Este, Domenico Pagliarolo (1473), Matteo di Tommaso da Firenze (1471), Martino da Modena (1480) e più tardi Tommaso pure da Modena (1504).

Celebre fra i pittori di vetrate Giovanni da Ulma, domenicano, di cui si ammirano i lavori in S. Petronio; operoso nella seconda metà del '400 fu Giacomo Cabrini con la vetrata della cappella Vaselli e l'occhio della facciata di S. Giovanni in Monte, su disegno del Cossa, e Vincenzo di Domenico Cabrini per alcuni lavori in S. Petronio. L'oreficeria fu continuamente praticata.

Tra gli orefici Iacopo Roseto dimostra la sua valentia nei reliquiarî di S. Petronio (1380) e S. Domenico (1383); tra gli orefici e medaglisti del periodo successivo Sperandio mantovano (1440-1528), giunto a Bologna nel 1478, lavorò vasellami d'argento ed eseguì le medaglie di Giovanni II Bentivoglio, Virgilio Malvezzi, Andrea Barbazza, Nicolò Sanuti, Giuliano dalla Rovere, ecc. Ma lo vinse in entrambe le arti Francesco Francia (1450-1517) che nel 1481 per le nozze di Bartolomeo Felicini con Dorotea Ringhieri niellò la bella Pace, oggi nella Pinacoteca. Fu anche direttore della zecca di Bologna.

Il mutamento avvenuto nell'indirizzo artistico verso la fine del '500 e nel periodo successivo influì sulle opere decorative: il metallo si piega in volute e cartocci quasi fosse legno, il legno prende negli oggetti del culto un carattere ricco e fastoso. Naturalmente questo indirizzo, che risente più tardi dell'influsso forestiero, fa perdere alla produzione locale l'impronta propria per inserirsi nel movimento generale settecentesco. L'arte dell'incisione che Marcantonio Raimondi (1475-1534) perfezionò e diffuse ebbe cultori prima e dopo di lui.

Degna di menzione la famosa "Geografia" di Tolomeo, stampata a Bologna da Domenico Lapi, con 26 carte geografiche incise da Taddeo Crivelli, il già ricordato miniatore, che nel 1474 aveva fatto società con l'umanista Puteolano per la stampa dei Mappamondi. Ricordevoli le stampe di Agostino Carracci e degli scolari; le edizioni dell'Azzoguidi nel '400, del Benacci nel '500. del Monti nel '600, del Della Volpe nel '700, le quali vanno adorne di belle illustrazioni in legno e in rame. La incisione in rame prese largo sviluppo con Giov. Maria Mitelli (morto nel 1718), che illustrò la vita popolare di Bologna, con Giovan Maria Crespi (morto nel 1747), che incise all'acquaforte i fatti burleschi di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, con Francesco Rosaspina (morto nel 1841), che, discepolo del Bartolozzi, incise in nero e a colori. Poi i processi fotomeccanici fecero porre in disparte questi sistemi, e tornò in vigore quella forma d'arte tanto cara agli antichi che è la xilografìa. A renderla popolare contribuì in larga parte il De Carolis, il quale, oltre a lasciare i saggi della sua valentia nei pregiati volumi di molte case editrici, avviò una schiera di seguaci a questa nobilissima pratica.

Panni d'arazzi e broccati d'oro e d'argento si produssero sin dal sec. XVI per opera di un Giovanni Tedesco e Vincenzo di maestro Bettino Tassi. Poi l'importazione d'oltremonte nocque alle industrie paesane, che perdettero gran parte della loro importanza e della loro attività. Rifioriscono alcune di queste ai nostri giorni per opera di volonterosi cittadini e di abili interpreti: lo attestano le maioliche del Minghetti, i ferri battuti del Minguzzi, i mobili del Rambaldi, i ricami e le trine dell'Aemilia Ars.

Vantò Bologna un tempo numerose raccolte di pregevoli opere d'arte che col decadere o scomparire di antiche famiglie sono andate disperse. Oggi però si avverte un nobile risveglio per raccogliere le memorie e le testimonianze di un glorioso passato. E pubbliche raccolte quali l'Opera pia Davia-Bargellini, dove ora ha sede il museo d'arte industriale, e l'Opera pia dei Vergognosi, conservano quadri e oggetti d'arte di notevole importanza. Una preziosa collezione di stampe e disegni si trova nel Collegio Venturoli; buone raccolte di pitture sono presso il marchese Zacchia Rondinini (via Mazzini), il conte Isolani (piazza S. Stefano) e il conte Salina (via Barberia). Numerosi e pregevoli disegni di scuola bolognese si possono ammirare nella bella raccolta del cav. Antonio Certani; documenti iconografici bolognesi in quella del comm. Romagnoli e infine oggetti d'arte di ogni genere del Sei e Settecento bolognese presso l'ing. Giovanni Ceschi.

V. tavv. LVII a LXVI.

Bibl.: L. Frati, Opere della bibliografia bolognese, Bologna 1888; A. Sorbelli in testa all'Elenco degli edifizi monumentali, XXVII, Roma 1915.

Per la storia di Bologna, cfr. in particolare: L. Alberti, Delle historie di Bologna, Bologna 1541-43; A. P. Masini, Bologna perlustrata, Bologna 1823-26; P. Lamo, Graticola di Bologna, Bologna 1844; M. Gualandi, Mem. riguardanti le B. A., Bologna 1840-45; G. Gozzadini, Studi arch.-top. in Atti e mem., 1868; L. Frati, La vita priv. di Bol., Bologna 1900; L. Weber, Bologna, Lipsia 1902; G. B. Comelli, Piante e vedute della città di Bologna, Bologna 1904; R. Ambrosini, Raccolta di opere riguardanti Bologna, Bologna 1906-09; P. De Bouchaud, Bologne, Parigi 1909; J. Coulson, Bologna, its History, Antiquities a. Art, Londra 1909; G. Zucchini, Bologna, Bergamo 1914.

Per l'architettura: G. Gozzadini, Delle torri gentilizie di Bologna, Bologna 1875; A. Rubbiani, La chiesa di S. Francesco e le tombe dei glossatori, Bologna 1900; F. Malaguzzi-Valeri, L'architettura a Bologna nel Rinascimento, Rocca S. Casciano 1899; I. B. Supino, L'architettura sacra in Bologna nei secoli XIII e XIV, Bologna 1909; A. Gatti, La basilica petroniana, Bologna 1913; L. Sighinolfi, L'architettura bentivolesca e il Palazzo del Podestà, Bologna 1909; G. Zucchini, Disegni di Antonio di Vincenzo per il campanile di S. Francesco di Bologna, in Architettura e arti decorative, I (1921-22), pp. 526-35.

Per la scultura: G. Bosi, Manuale di notizie degli scultori di Bologna e loro scuole, Bologna 1860; I. B. Supino, La scultura in Bologna nel sec. XV, Bologna 1910; id., Le sculture delle porte di S. Petronio in Bologna, Firenze 1914; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, III, V, VI, Milano 1904 e 1907.

Per la pittura: C. C. Malvasia, Felsina pittrice, Bologna 1678, I (t. III, Roma 1769); A. Amorini Bolognini, Le vite de' pittori e artefici bolognesi, Bologna 1841-43; Cavalcaselle e Crowe, Storia della pittura in Italia, IV, Firenze 1887; A. Venturi, Storia dell'arte, cit., VII iii, IX iv; R. Baldani, La pittura in Bologna nel sec. XIV, in Documenti e studi, Dep. st. d. Rom. 1909; G. Rouchès, La peinture bolonaise à la fin du XVIe siècle, Parigi 1913; A. Foratti, I Caracci, Città di Castello 1913; H Janitschek, Die Malerschule von Bol., Lipsia 1870; E. Jacobsen, L. Cost e F. Francia, in Jahrb d. preuss. Kunstsammel, XX (1899), pp. 159-73; T. Gerevich, F. Francia nell'evoluzione della pittura bolognese, in Rass. d'arte, VIII (1908), p. 121 segg.; G. Lipparini, F. Francia, Bergamo 1913.

Musica.

Tracce storiche riguardanti la musica a Bologna risalgono al Duecento. Esistevano allora, annesse alle belle chiese e ai conventi dei francescani e dei domenicani, fiorenti Scolae puerorum dove s'istruivano nel canto e nelle discipline letterarie giovanetti che insieme coi loro precettori erano adibiti al servizio delle cerimonie e delle solennità del culto. Né sono dimenticati nei vecchi volumi d'archivio i nomi di organisti e di maestri che in quelle chiese esplicavano la loro attività artistica.

Monumenti musicali sufficientemente copiosi e interessanti non cominciano ad apparire che in alcuni codici laurenziani e parigini contenenti composizioni di maestri bolognesi fioriti nel sec. XIV, un Bartolomeo e un Iacopo bolognese rappresentanti e seguaci dell'Ars Nova fiorentina, e di entrambi, per tal modo, ci è dato conoscere ballate e canzoni profane piene di fresca melodia e di ingegnosi ritmi. Solo tuttavia nella seconda metà del Quattrocento Bologna inizia veramente un'attività abbastanza regolare e capace di imprimersi in una certa distinta fisionomia.

Papa Niccolò V, emanando nuovi statuti per lo Studio cittadino, vi propugnava l'istituzione di una Lectura musicae che venne affidata a un dotto spagnolo, Ramos de Pareja, proveniente dall'università di Salamanca. Le sue teorie rivoluzionarie suscitarono le polemiche più accese. Il suo maggior sostenitore fu Giovanni Spataro, primo dei bolognesi a occupare l'ufficio di maestro della basilica di S. Petronio, ma certamente nella lunga lotta che ne seguì egli dovette essere sorretto da altri musici conterranei.

Nel Viridario (1513) dell'Achillini si legge:

De' musici è dorata questa terra

che cantano improvvisi ogni bel punto,

d'assai compositori a cui non erra

l'arte, e molti hanno il canto seco aggiunto;

e non vi si tralascia di ricordare numerosi organisti e suonatori di lira e di liuto.

Se le troppo scarse reliquie non ci consentono di affermare decisamente l'esistenza di una primitiva scuola bolognese e di determinarne i caratteri, tutto concorre a farci intravvedere l'importanza della personalità artistica dello Spataro. A lui, morto nel 1541, non succedettero altri maestri capaci di accentrare con l'autorità delle loro opere la vita musicale cittadina, di darle un indirizzo deciso, organico e un carattere proprio.

Questi tuttavia nelle diverse forme dello stile polivoco cinquecentesco si cimentano con certi tratti di originalità nelle musiche popolari e popolareggianti. Certe villanelle e canzonette dell'Azzaiolo, del Costa, del Dattari sono ricche di piacevoli melodie e conteste di aggraziate movenze ritmiche. In mezzo a questo fiorire di freschi canti risalta lo spirito ridanciano di Adriano Banchieri (v.), soprattutto notevole per le sue Commedie armoniche, argute, festose ma non esenti da un sensibile riflesso del loro modello: l'Amfiparnaso di O. Vecchi.

All'affacciarsi del melodramma fiorentino, il Giacobbi ed il Vernizzi furono fra i più immediati assertori del nuovo stile monodico, ma mostrandosi ligi alle maniere del Peri e del Caccini, e non, come avvenne in altri centri musicali italiani, tentando di superarle e di farle progredire con nuovi atteggiamenti.

La situazione cambiò notevolmente nei primi anni del '600. Bologna, primi fra le città dello stato pontificio, dopo Roma, andava moltiplicando le istituzioni clericali e confessionali, e dava un eccezionale sviluppo alle cappelle delle sue principali chiese. E le une e le altre cercavano di emularsi nel fasto delle solennità religiose dove la musica aveva parte precipua, e di accaparrarsi perciò i migliori virtuosi della regione e di fuori. Nelle case patrizie v'era inoltre una continua gara per il lusso, il decoro e lo splendore. Il popolo, addomesticato dall'astuta politica dei Legati, amante del quieto vivere e del divertimento, si accontentava di ammirare e di esaltarsi allo spettacolo del fasto. E questo spirito di servilismo e di ossequio verso le autorità ecclesiastiche e patrizie era diffuso anche nella classe dei musicisti, che avevano tutto l'interesse a sostenerle, dacché in entrambe trovavano le basi della loro esistenza e della loro attività professionale.

In così fatto ambiente sorge e prospera verso la metà del secolo XVII quella che si può designare col nome di "Scuola musicale bolognese". Il formarsi d'una scuola artistica può essere determinato o dalla personalità originale ed eminente d'un maestro il quale accentri intorno a sé un certo numero di discepoli, o da un gruppo di individui, che, mettendosi sulla medesima via, elaborino con geniale talento una o più forme d'arte riuscendo concordemente a dar loro un'originale fisionomia, una particolare impronta.

Quest'ultimo è appunto il nostro caso. Arte quindi, quella dei secentisti bolognesi, che nell'estrinsecarsi si valse di riflessione, di metodo, di ossequio alla migliore tradizione più che dell'impeto di originali intuizioni. Contesta di differenti maniere, essa riuscì necessariamente eclettica, forbita nel dettato e polita nella forma. Nella genesi di questa scuola noi scorgiamo quindi il perdurare di quel difetto e di quella manchevolezza d'impeto creativo già segnalato nella produzione dei maestri anteriori.

Forse nessun periodo della storia musicale d'Italia presenta, come nei primi decennî del Seicento, tanto succedersi e confluire di varî stili, di diverse tendenze e di contrasti fra antichi e nuovi indirizzi. Le scuole di Roma e di Venezia, allora in pieno sviluppo, facevano sentire potente il loro influsso. Onde nei maestri bolognesi del primo Seicento s'incontra a tutta prima una varietà di vecchio e di nuovo, un ibridismo di stile, un'incertezza d'intendimenti, uno smarrimento insomma d'orientamenti estetici.

Ma non tarda a rivelarsi tutto un processo d'elaborazione, al quale non furono estranee le numerose accademie di musica sorte allora a Bologna. Codeste accademie, pur sovente degenerando in oziose congreghe di professionisti e di dilettanti, pure servendo o agl'interessi materiali degli uni o alla vanità degli altri, compirono una funzione importantissima con le loro continue discussioni, col vicendevole scambio d'opinioni e di giudizî, con la propagazione e la conoscenza delle migliori composizioni dei maestri contemporanei. Non che codeste accademie siano state le generatrici dirette della scuola bolognese, ma certo esse compirono un utile ufficio di chiarificazione, determinarono la spinta verso taluni indirizzi, prepararono un terreno propizio.

Le principali di queste accademie furono quelle dei Floridi da cui, per una secessione avvenuta da parte di varî soci, si originò quella dei Filomusi (1622). Ma anche in questa nuova accademia sorsero ben presto contese e un nuovo gruppo si formò sotto la denominazione di Accademici Filaschisi.

Nel 1666 il conte Vincenzo Carrati fondava l'Accademia Filarmonica. Quest'accademia - che nella sua arma portava la significativa iscrizione: Unitate Melos - doveva divenire appunto il nucleo accentratore e l'areopago indiscusso dell'arte musicale bolognese sino a quasi tutto il '700. Col suo sorgere ed affermarsi, vediamo effondersi nella città un soffio di nuova e intensa vita. La Cappella di S. Petronio assume l'importanza di quelle delle maggiori basiliche italiane, le belle case patrizie ospitano e proteggono sempre più musici e virtuosi, i teatri aprono frequentemente i loro battenti agli spettacoli melodrammatici, gli oratorî dei filippini risuonano di sacre cantate, e, sull'esempio di Venezia, si fondano case editrici che stampano e divulgano in gran copia musiche e trattati musicali.

Bologna per la sua posizione e per relazioni politiche e commerciali aveva contatti continui con Roma e con Venezia. Si spiega così perché nelle composizioni dei bolognesi si trovino riflesse con tanta evidenza le impronte ora dell'una ora dell'altra scuola.

La romana, forte ancora della gloriosa tradizione palestriniana, si alimentava tutta di classiche forme e di architettoniche strutture polifoniche. La veneziana invece era più moderna, più ardita, piu coloristica, tutta propensa all'unione delle voci con gli strumenti.

La bolognese sembra si accingesse a contemperare queste opposte tendenze, anelasse a divenire la privilegiata creatura del loro connubio. Il principio eclettico dunque la domina e la caratterizza; quel principio che si era già riscontrato anche nella pittura bolognese giusta gli ammaestramenti di Agostino Carracci.

Per quanto feconda in tutti i generi di musica allora in voga, l'attività dei maestri bolognesi mostra soprattutto la sua eccellenza e originalità nelle musiche violinistiche, e nelle forme strumentali di concerto afferma la solidità della sua perizia tecnica e il suo accentuato senso per il decorativo e l'architettonico nelle composizioni concertate ecclesiastiche e oratoriane; emula infine per l'efficacia dei suoi insegnamenti le maggiori scuole di canto italiane del sec. XVIII.

Verso la metà del Seicento accadde un fatto importantissimo. Rompendo una tradizione che da gran tempo vigeva, e con probabilità allo scopo di smuovere lo stato di atonia nel quale i mediocri maestri succeduti al Giacobbi avevano ridotto la musica nella principale basilica cittadina, assunse la direzione della cappella un maestro non bolognese, Maurizio Cazzati, che proveniva dalla scuola veneziana. Con la sua venuta la cappella si trasformò notevolmente e si arricchì d'elementi strumentali fino allora in numero assai esiguo. Accanto alle masse vocali presero posto nelle cantorie (che proprio allora furono ampliate) le masse strumentali per le quali si crearono posti stabili. Così entrò lo stile concertato con le sue sonorità magniloquenti e coloristiche.

L'introduzione dello stile strumentale per opera del Cazzati appassionò sensibilmente i maestri bolognesi. Insieme col suo miglior discepolo G. B. Vitali, cremonese di nascita, il Cazzati diede grande incremento a questo stile e lo sviluppò nelle sue numerose composizioni sonatistiche e nei salmi e inni concertati; ed entrambi, poi, maestro e discepolo, contribuirono a promuovere la mirabile fioritura di quelle composizioni violinistiche che costituirono la maggiore e più originale e duratura gloria della scuola nostra.

Qui si plasma sotto il magistero di due violinisti di S. Petronio l'arte e l'eccelsa personalità del Corelli; qui, più che altrove, il violoncello diviene strumento da concerto con Domenico Gabrielli, qui dalla sonata da chiesa il Torelli giunge al concerto grosso.

La musica violinistica, timida e infantile ancora nelle anteriori sonate e nei balletti e divertimenti da camera, assume toni di austerità e maggior consistenza di struttura nella sonata e nella sinfonia da chiesa.

Succeduto a Maurizio Cazzati, il bolognese Gio. Paolo Colonna accoppiò ai frutti derivati dall'influsso della musica veneziana le maniere della scuola di Roma, dove egli s'era educato sotto la guida del Benevoli e dell'Abbatini.

Col Colonna (morto nel 1696), che per più di vent'anni tenne l'alto ufficio di S. Petronio e si diede ad un'intensa attività didattica, si determina più decisamente e precisamente la scuola musicale bolognese. Nelle sue messe e salmi a doppio organo o concertate con strumenti, la dotta polifonia vocale dei maestri di Roma s'accoppia col rilievo coloristico apportato dall'esperienza d'uno strumentale più evoluto e complesso, e si estrinseca come in maravigliose e solide architetture sonore, ricche di contrasti e di fantasia. I rapsodici andamenti dei violini che gareggiano coi melismi del virtuosismo canoro, la frequente varietà degli atteggiamenti melodici, ora contesti di rapidi e baldanzosi ritmi, ora pervasi d'un sentimentalismo morbido e mellifluo, dànno un'impressione di contrastante movimentazione e di melodrammatici effetti, e con logica analogia ci fanno pensare alle caratteristiche più palesi del barocco. I pezzi polivoci concertati, alternantisi con gli assolo, ora melliflui, ora retoricamente tronfî, sovraccarichi di vocalizzi e di fioriture, le maestose fughe che esplodono nei finali, sembrano un continuo compromesso fra lo stile osservato del classico periodo del polifonismo sacro e le maniere del melodramma. Tutta questa musica è il genuino riverbero dell'ostentata magnificenza dello stile religioso di quell'epoca, la fedele traduzione in musica dello stile barocco.

Questa stessa sensazione ci pervade alla lettura dei numerosi oratorî su testo italiano, di cui i Bolognesi furono produttori fecondissimi. Essi non tanto si presentano come pio esercizio spirituale, quanto come una specie di melodramma religioso, che gli esteti di allora erroneamente vagheggiavano. Quando le ire e i rigori papali proscrissero il teatro musicale e ne limitarono la voga, l'opera si travestì abilmente sotto le spoglie dell'oratorio e accondiscese alle esigenze di quella società frivola, vuota, per la quale solo le apparenze in ogni manifestazione della vita avevano valore, a scapito della proprietà e della purezza.

Quando nel 1696 nell'ufficio di maestro della basilica bolognese, al Colonna succedette il Perti, la Cappella si trovò in un periodo di acuta crisi per le eccessive spese sostenute, tanto che sulla fine del secolo fu sciolta e ne furono licenziati i componenti. Molti di costoro si rifugiarono nella vicina Modena presso la corte Estense, dove Francesco IV li accolse e li protesse, altri andarono in altre città o all'estero.

Questa forzata emigrazione, se privò momentaneamente Bologna dei suoi musici migliori, contribuì però a far conoscere il loro valore personale e quello della loro scuola. Né questo fu senza influsso, ad esempio, nei paesi tedeschi dove il Mattheson lamentava precisamente nei primi anni del '700 che i maestri suoi connazionali "odorassero troppo di salume bolognese".

Tuttavia nel 1701, sia pure con un numero d'elementi assai ridotto e con emolumenti dimezzati, la cappella fu ripristinata e sotto la mano esperta del Perti riprese una ragguardevole attività. Ma l'invasione sempre maggiore dell'opera influì notevolmente sul cambiamento dello stile musicale bolognese. Si aggiunga a queste circostanze il fatto importantissimo dell'avvento e della dominazione sempre più dispotica della scuola napoletana, in quell'epoca illuminata dallo splendore del genio di Alessandro Scarlatti.

Il genere sacro che era stato, come vedemmo, prediletto dall'attività dei Bolognesi, fu un po' trascurato in seguito a questo nuovo fervore per la musica melodrammatica. Ma in questa, nonostante il talento di molti maestri (e, in prima linea, del Perti, che in un certo momento sembrò voler competere e contrastare la palma al maggior maestro napoletano), i bolognesi non riuscirono a esprimere una forma propria. Tutti gli operisti bolognesi dell'ultimo Seicento sono ligi all'opera veneziana o napoletana.

La consuetudine poi allo stile operistico influì sempre di più nel modificare e nel trasformare le maniere con le quali s'era soliti trattare il genere ecclesiastico concertato.

La stesura delle composizioni sacre si semplifica, tempera le tradizionali consuetudini di uno stile polifonicamente elaborato, e, per prediligere gli andamenti omofonici, diventa più piatta ed incolore e nei mediocri finisce per tradursi in inespressivi convenzionalismi. Si salva tuttavia per la solidità della struttura e per la forbitezza del dettato tecnico. I maestri bolognesi hanno nella prima metà del '700 la fama di grandi insegnanti. Bologna diventa, come disse più tardi il De Brosses, le grand séminaire de la musique en Italie, e infatti specialmente nell'insegnamento del canto, ebbe nel '700 grande nome. Caposcuola ne fu Francesco Pistocchi il quale, dopo diverse peregrinazioni in altre città e all'estero, fermatosi a Bologna istituì un insegnamento da cui i cantanti del tempo trassero uno straordinario profitto. Gli ammaestramenti tecnici e i canoni estetici dell'arte del canto bolognese furono codificati da Pier Francesco Tosi in un aureo volume che, tradotto in varie lingue, si propagò in tutti i paesi europei.

Dei discepoli del Pistocchi il più famoso rimane il bolognese Bernacchi che fu uno dei più efficaci propagatori di quel virtuosismo canoro che ebbe non liete conseguenze nell'opera italiana.

Per gran parte del sec. XVIII la scuola musicale bolognese è impersonata da G. B. Martini. A lui i musicisti più insigni d'ogni nazione si rivolgevano per sollecitarne il giudizio. Egli rappresenta soprattutto il periodo dotto, erudito, alessandrino della scuola bolognese. Il suo temperamento riflessivo, più che intuitivo, il suo carattere paziente e tranquillo di studioso, la fede costante alle tradizioni e alle regole dei grandi maestri del classicismo musicale italiano guidarono tutta l'opera sua. Egli temeva fortemente che superare la tradizione significasse precipitare. E perché la sua scuola bolognese non si corrompesse, la imbalsamò.

Lo stile musicale bolognese, ridotto a formule e a regole, si protrasse ancora, specialmente nel genere ecclesiastico, con una persistenza di maniere e di atteggiamenti nelle quali l'artificio dotto sostituisce ogni vita e ogni impeto di genialità.

Se, dalla rapida delineazione che abbiamo fatto delle vicende della scuola bolognese, vogliamo sinteticamente definirne i peculiari caratteri, potremo dire che essa per l'eccellenza dei suoi rappresentanti non può competere con le tre grandi scuole maggiori italiane e che di queste non ebbe né l'impeto creativo, né l'ampiezza e la varietà della produzione. In essa l'elemento riflessivo, la capacità elaboratrice, lo spirito critico prevalsero. Ma appunto per siffatte virtù (che notammo anche in singoli maestri anteriori) essa riuscì in un certo periodo a cogliere e selezionare gli elementi migliori e più consoni alla sua indole e a compiere un'elaborazione geniale e avveduta sì da riuscire ad acquistare un aspetto proprio e una fisionomia caratteristica.

Durante il sec. XIX la vita musicale a Bologna fu particolarmente intensa e interessante. Essa si esplicò segnatamente in tre istituti cittadini: il Liceo filarmonico, il Teatro comunale, la Società del Quartetto.

Il Liceo filarmonico, solo più tardi chiamato musicale, nacque dalla necessità di provvedere alla sistemazione di quella classe di musicisti la quale, con l'avvento della Rivoluzione francese, per la soppressione delle corporazioni religiose e delle istituzioni ecclesiastiche e confessionali, era stata privata di ogni possibilità di esplicare la propria professione. Nel 1804-05 il Comune provvide alla sua fondazione chiamando ad insegnarvi i migliori (ma più vecchi) maestri superstiti della scuola bolognese. A capo di essi fu il Mattei (già scolaro del Martini) che donò al Comune l'archivio musicale, preziosissimo, ereditato dal suo maestro. Il Liceo, posto dapprima sotto la protezione dell'Accademia filarmonica, un poco alla volta e non senza lotta si sottrasse a tale soggezione e finì per avere una piena libertà d'esistenza. Nella prima metà del secolo il Liceo contò fra i suoi alunni il Rossini (che dal 1839 divenne del Liceo stesso consulente perpetuo), il Donizetti, il Morlacchi, l'Alboni, ecc.

Nella seconda metà dell'Ottocento - dopo la definitiva rinuncia del Rossini alla sua carica (a cui del resto aveva sempre scarsamente accudito) e dopo alcune non fortunate vicende direttoriali, il Liceo ebbe a capo due illustri maestri: Luigi Mancinelli (1882) e Giuseppe Martucci (1887), che divennero veri animatori di tutta la vita musicale cittadina. Il loro nome si collega strettamente all'importanza a cui assurse Bologna musicale negli ultimi decenni del secolo, all'istituzione d'importanti società musicali e in genere alla rinascita e alla propagazione del sinfonismo in Italia, di cui questa città fu precipua promotrice.

Già antecedentemente l'antica Accademia filarmonica nella sua pur non intensa attività aveva opportunamente introdotto l'usanza di concerti strumentali nei quali si eseguivano composizioni da camera di Haydn, Mozart, Beethoven e di altri maestri del sinfonismo tedesco, allora quasi interamente sconosciute. Assertore di tali musiche dapprima fu Stefano Golinelli che aveva studiato con F. Hiller in Germania.

La Società del Quartetto, fondata nel 1887, prima con carattere privato, dal mecenatismo d'un gentiluomo bolognese, il marchese Camillo Pizzardi, divenuta poi associazione pubblica ebbe la sua parte in questo movimento di rivalutazione della musica da camera e comunque non operistica.

Contemporaneamente le opere wagneriane entravano nel Teatro comunale. Il celebre direttore Angelo Mariani, che sin dal 1860 aveva quasi annualmente assunto la direzione della stagione d'autunno al Comunale presentando opere di Meyerbeer, di Gounod, del Verdi, del Halévy, nel 1871, dietro incitamento specialmente del sindaco Cassarini, fece sentire per la prima volta in Italia il Lohengrin. L'esperimento (allora tanto ardito) incontrò straordinario favore e Wagner stesso ne testimoniò a Bologna la sua riconoscenza quando venne eletto cittadino onorario. Il Comunale si segnalò altresì per avere dato il battesimo ad alcune opere di grande importanza: fra le altre al Mefistofele di Boito (1875).

Nei primi decenni di questo secolo il fervore musicale a Bologna non scemò, ma nonostante l'aumentare delle società, delle iniziative e il valore di egregi maestri, quali M. E. Bossi (1903) e Franco Alfano (fino al 1923) che furono messi a capo del Liceo, le mutate condizioni ed esigenze dei tempi non consentirono quell'accentramento di direttive artistiche che erano risultate nel passato a Bologna tanto efficaci e benefiche.

Teatri di musica e di prosa. - Sempre vaga e appassionata di spettacoli, Bologna, nella storia del teatro italiano, occupa un posto eminente. Numerosi sin dal sec. XVI furono difatti non solo i teatri pubblici, edificati o adattati in appositi edifici, ma anche quelli privati che - specie nel Settecento - erano considerati indispensabile decoro dei palazzi e delle ville signorili, e teatri vi furono perfino nei conventi. Si dà qui breve notizia solo dei più importanti.

Teatro della Sala. - L'aula vastissima - recentemente restaurata e affrescata - che occupa tutto il primo piano del palazzo del Podestà, fu adibita nel 1547 a spettacoli acrobatici e ginnastici e a giuochi popolari che si alternarono per tutto il secolo con rappresentazioni di commedie per le quali era stato eretto apposito palco. Nei primi decennî del sec. XVII il vasto ambiente venne ornato con file di palchetti per gli spettatori e con decorazioni. Memorabile rimase la rappresentazione del Pastor fido del Guarini avvenuta nel dicembre del 1627, con intermezzi di fuochi d'artificio. Questi però furono cagione che parte del teatro andasse distrutta da incendio. Il locale, riattato nuovamente e abbellito ci appare in un disegno prospettico contenuto nei libri degli Insignia sotto la data del 1639. Sorto nel 1641 un nuovo teatro, il Formagliari, la Sala dovette tuttavia sostenere una concorrenza ininterrotta. Ne nacquero polemiche, dicerie e lotte, a comporre o a sedare le quali intervenne spesso l'autorità dei Signori e del Legato. Ma non valse che s'apprestassero spettacoli di commedie e d'opere, importanti anche per l'eccellenza degli esecutori. Ogni sforzo riuscì vano; alla Sala rimase fedele soltanto il ceto popolare. E vi si susseguirono esibizioni di saltimbanchi e ballerini, giostre ed esposizioni di bestie feroci, rappresentazioni sovente poco decenti durante le quali gli spettatori ostentavano un contegno scorretto e chiassoso. L'autorità intervenne alfine e cercò di frenare tanta licenza, ma con scarso successo, così che nel 1767, in considerazione anche del cattivo stato in cui era ridotto, il teatro venne definitivamente cliuso.

Teatro Formagliari. - Deve il suo sorgere a due cittadini bolognesi, G. B. Santamaria e G. B. Senesi, promotori dell'Accademia dei Riaccesi, i quali presero in affitto la casa dei Formagliari per adibirvi una sala ad uso di teatro: in seguito il marchese Guastavillani comperò tutto lo stabile ampliandolo e riducendolo a teatro pubblico (1641). Ne fu architetto Andrea Sigliozzi che fu il primo, o dei primi, a disporre la fila dei palchi secondo le più opportune migliori regole di prospettiva. Fu specialmente destinato a rappresentazioni musicali, e gli anni più fortunati della sua vita coincidono precisamente con quelli, compresi fra la fine del sec. XVII e il principio del XVIII, nei quali Bologna vantò una scuola musicale fiorente. Divenne subito il ritrovo prediletto del ceto aristocratico delle dame e dei cavalieri, e fu non di rado testimone di piccanti episodî, d'intrighi mondani, di cavalleresche contese fra gli imparruccati protettori delle belle virtuose che calcavano le sue scene. Circa il terzo decennio del sec. XVIII le rappresentazioni melodrammatiche vi si alternavano con quelle di commedie e dl tragedie, e successo strepitoso vi ottenne nel 1738 il comico veronese Pietro Gandini che all'abilità di attore univa quella di trasformista. Nel 1752 accolse la compagnia del Medebac, che vi recitò, fra altre, diverse commedie del Goldoni. Già dopo il 1745 si erano dovute fare riparazioni provvisorie: nel 1776, passato in proprietà dei Ragnoni, fu solidamente restaurato e abbellito. E con frequenza vi si rappresentarono spettacoli melodrammatici, opere del Cimarosa, del Tritto, del Paisiello: qualche volta vi si produssero anche concertisti e suonatori di grido. Un incendio lo distrusse nel 1802: nelle cronache è designato con nomi diversi a seconda del succedersi dei proprietarî: Villani e poi Ragnoni o anche dei Casali, nome desunto dalla località nella quale sorgeva, comunemente detta Croce dei Casali.

Teatro Malvezzi. - S'inaugurò nel 1653 in un vasto locale di proprietà del marchese Francesco Pirro Malvezzi, che nella metà del Seicento era adibito a palestra per maneggio equestre o per il giuoco della pallacorda. Stabilmente riedificato e abbellito in piu volte dal 1681 al 1691, divenne il teatro più aristocratico e più importante di Bologna tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento. La sua linea architettonica, schiettamente barocca, dava a tutto l'ambiente un senso di fastosa signorilità e la scena s'avanzava arditamente sulla platea. Tutto intorno giravano in triplice ordine i palchetti, per metà o per intero chiusi da sottili grate di legno a mo' dei coretti che usavano allora nelle chiese. Al Malvezzi furono date le migliori opere dei numerosí maestri bolognesi fioriti sullo scorcio del Seicento, Domenico Gabrielli, Attilio Ariosti, Giuseppe Aldrovandini, Giacomo Antonio Perti (memorabile per lusso di decorazioni e di vestiarî la rappresentazione del Nerone fatto Cesare di quest'ultimo) per le quali, come per altri importanti spettacoli di quell'epoca, erano scritturati i più grandi cantanti, quali il Pistocchi, la Muzi, la Pini (la Tilla), il Grossi (Siface) ecc. Gli scenarî erano stati appositamente ideati dai fratelli Galli di Bibbiena. Nel 1737 il Malvezzi ospitò anche importanti compagnie di comici, italiane e francesi. Nel 1741 gli spettacoli d'opera ripresero con fervore e particolamiente graditi furono i melodrammi del Jommelli. Poi tornarono ancora in voga le rappresentazioni di drammi e di commedie e fu dopo una di queste rappresentazioni (il Giustino del Beregani) che la notte del 19 febbraio 1745 il teatro fu preda d'un incendio che lo distrusse completamente.

Teatro Marsigli-Rossi. - Sorse in un magazzino interno d'una casa dei marchesi Marsigli, già adibito a custodire fasci e legname, e s'inaugurò nell'ottobre del 1710 con l'opera Partenope del maestro Luca Predieri con "grande applauso e gran concorso di forestieri". Più tardi, ampliato e riattato, alternò spettacoli musicali con quelli d'"opere nobili in prosa"; ma generalmente parve adatto ad accogliere opere buffe, operette e intermezzi che, derivati dalle classiche creazioni dei maestri di Napoli, si erano sparsi subito in tutta Italia con straordinario favore. Queste forme sceniche, cominciate già verso il 1725 con la Zannina dell'Aldrovandini e con gl'Intermezzi di Pollastrella e di Parpagnocco astrologo, seguitarono alternandosi con spettacoli di varietà, con giochi equilibristici, con pantomime e balli e con spettacoli di burattini. Ma l'opera comica o semiseria prevalse coi suoi migliori esemplari. Le cronache del teatro ci segnalano numerose le più belle opere buffe del Jommelli, del Galuppi, del Piccinni, del Guglielmi, del Sarti, del Paisiello e del Cimarosa. Dopo l'avvento della rivoluzione il teatro assunse il nome di Teatro civico; e le forti e violente tragedie dell'Alfieri e del Voltaire parvero oscurare la sorridente atmosfera a cui il teatro si era avvezzato. Riprese poi la consueta fisionomia, ma per poco; nel 1821 un'ordinanza comunale ne decretava la chiusura, per poca solidità e scarsa sicurezza.

Teatro Comunale. - Dopo la distruzione del Malvezzi per l'incendio avvenuto nel 1745, "diversi cavalieri e cittadini" presero l'iniziativa di erigere un nuovo edificio e presentarono al pontefice concittadino, Benedetto XIV, una supplica per ottenerne l'autorizzazione. Come località fu scelto un vasto appezzamento di terreno detto Guasto dei Bentivoglio, sul quale nel sec. XV sorgeva il magnifico palazzo distrutto nei primi anni del millecinquecento a furia di popolo. Trattative e discussioni si protrassero per diversi anni e continuarono non meno accese e clamorose dopo il 1756, nel quale anno Antonio Galli Bibiena diede principio all'edificio.

Per scarsezza di mezzi si dovettero sacrificare certe parti del fabbricato, il portico dell'ingresso che doveva sostenere "un nobile loggiato", fu coperto con rozze tegole, tanto che qualche bolognese di quell'epoca lo paragonò a una "stalla nova".

L'inaugurazione avvenne la sera del 26 maggio 1763 con l'opera Il Trionfo di Clelia del celebre signor Abbate Pietro Metastasio poeta cesareo e musica dd cavaliere Cristoforo Gluck. L'opera, che era stata rappresentata l'anno prima al teatro imperiale di Vienna, appartiene alla maniera italiana del maestro e non è tra le sue migliori, né pare che soddisfacesse allora i bolognesi. Straordinarie per magnificenza parvero soltanto le scene (dipinte pure dal Bibiena) e i costumi dei personaggi.

Gli spettacoli d'opera che immediatamente seguirono furono tutti assai notevoli melodrammi del Jommelli, del Traetta, del Salieri e dello stesso Gluck. Nel 1772 comparve la compagnia comica del Medebac. Negli ultimi anni del secolo si ebbe anche al Comunale un breve riflesso della rivoluzione: veglioni pubblici a cui il popolo poteva partecipare gratuitamente, figurazioni allegoriche e simboliche, cantate d'occasione e via dicendo.

Poi il Comunale riprese il suo carattere nobilmente elevato e coi primi dell'Ottocento si iniziò quell'ascesa meravigliosa che doveva raggiungere il suo maggior culmine nella seconda metà del secolo. Nell'elenco degli spettacoli al Comunale il nome del Rossini figura la prima volta come maestro al cembalo nel 1809 (non aveva che diciassette anni). Nel 1814 si dà il suo Tancredi; la prima opera del Donizetti è segnata nel cartellone del 1823, del Bellini nel cartellone del 1830, del Verdi in quello del 1843. Costantemente, ad ogni opera, venivano aggiunti balli figurati.

Nel carnevale del 1846-47 cominciarono ad apparire le prime opere d'autori stranieri, ma in modo sporadico. Meyerbeer, già apparso nel '46, riappare (e questa volta con una significativa continuità) nel 1860, anno che segna l'inizio d'un'importante attività musicale. Per la prima volta nel 1864 appare sul podio del Comunale come direttore d'orchestra Angelo Mariani e incomincia con lui un periodo di voga meyerbeeriana che precede e sotto certi riguardi prepara quello wagneriano. Per la prima volta al Comunale di Bologna il Lohengrin poté essere dato in Italia (1871).

Vero è che l'introduzione dell'arte wagneriana non fu a tutta prima incontrastata nemmeno a Bologna. Sono rimaste famose nelle cronache del teatro le lotte fra wagneriani e antiwagneriani. Ma la fervida propaganda successiva dell'arte sinfonica tedesca in genere e wagneriana in ispecie, che sopra tutti il Martucci continuò nell'ultimo decennio del secolo, contribuì a dare al Comunale una meritata rinomanza. Fra le più notevoli rappresentazioni che si ebbero dall'ultimo quarto del secolo scorso ad oggi sono da ricordare: la riabilitazione del Mefistofele di A. Boito (1881), la prima rappresentazione in Italia del Parsifal (1913), e quella del Nerone di Boito dopo quella della Scala (1924). Pure in questi ultimi anni il Comunale è stato adibito, oltre che a sala di concerti (memorabili quelli dati dalla Società wagneriana e da quella del Quartetto), a rappresentazioni di prova. Esso è stato per qualche anno sede del Teatro sperimentale italiano.

Per quanto non conservi più l'aspetto che aveva da principio, perché sono state chiuse le balaustre dei palchi, tolte le eleganti curve e le statue del proscenio, e le gradinate semicircolari che circondavano la platea, la Sala del Bibiena - come viene spesso designato il Comunale - è considerata, per la bellezza delle sue linee una delle migliori opere del celebre architetto e uno dei più eleganti e artistici fra i teatri italiani.

Arena del Sole. - A uguale importanza assurse nell'Ottocento per gli spettacoli di prosa l'Arena del Sole. Una parte dei locali d'un antico e ampio convento di monache (le monache di Santa Maddalena), soppresso nel 1789 e messo all'incanto, fu acquistato nel 1802 da un tal Pietro Bonini, coramaio, che lo ridusse ad uso di teatro. Nella petizione inoltrata al prefetto del dipartimento del Reno per ottenere l'esercizio del teatro, il Bonini lo informava che il suo teatro consisteva in "una fabbrica in oggi del tutto nuova, ideata alla foggia delle Arene degli antichi, adorna di gradinate e ringhiere". Si aperse al pubblico nel 1810, ed esibiva spettacoli di giorno "a diletto (come scriveva il Giordani) de' popolani ed artieri onde avessero agio dalle produzioni teatrali di conseguire dilettevole istruzione nelle ore pomeridiane dei dì festivi". Gli spettacoli erano varî di genere e di carattere: balli, fiabe, pantomime, farse improvvisate, rappresentazioni di marionette, di giuochi d'illusionismo, pure prevalendovi esibizioni di commedie, di drammi e di tragedie a forti tinte. Specialmente gradite erano recite in cui un attore appositamente scritturato sosteneva la parte del "tiranno". Non raramente questi tiranni nei momenti culminanti della loro scenica ferocia venivano fatti segno alle invettive più roventi e bersaglio ai boccali e ai bicchieri degl'indignati e accalorati spettatori. Ma sulle scene dell'Arena si produssero poi, nell'età romantica, i più grandi attori del tempo: il Vestri, Gustavo Modena, Augusto Bon, Ernesto Rossi, la Marchionni, la Pezzana, ecc.

Passata nel 1888 in proprietà dell'Ospizio dei vecchi settuagenarî, e restaurata con nuovo portico sulla facciata, l'Arena del Sole ha notevolmente trasformato ai giorni nostri il suo primitivo carattere, e gode ora rinomanza fra i più importanti teatri italiani di prosa. Alla finezza di giudizio del suo pubblico hanno reso omaggio attori famosi. L'Emanuel lo dichiarò "il più intelligente pubblico d'Italia, il più raccolto, il più attento, il più simpatico".

Teatro del Corso. - Sorse all'epoca della dominazione francese e fu inaugurato nel maggio del 1805: Napoleone I, insieme con la consorte, vi intervenne ad uno degli spettacoli, e Gioacchino Rossini, giovanetto, vi cantò una piccola parte in un'opera del Paer. Nel 1808 vi agirono la compagnia comica di Eugenio de Beauharnais e quella di M.me Rancourt. Più tardi vi si diedero notevoli spettacoli d'opera: nel 1817 il Don Giovanni di Mozart e negli anni seguenti specialmente opere del Rossini. Paganini nel 1818 e la Malibran nel 1835 vi diedero due concerti rimasti famosi.

A questo periodo di grande attività musicale e melodrammatica succedettero dal 1857 in poi frequenti rappresentazioni di prosa. Vi agirono primarie compagnie e celebrati artisti come la Pezzana, la Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini. I restauri compiuti nel 1903 parvero dargli un nuovo impulso senza tuttavia imprimergli una determinata fisionomia. Dal 1915 sino al '25 il teatro rimase chiuso: restaurato nuovamente in questi ultimi anni ha ripreso la sua vita con ritmo già abbastanza intenso.

Teatro Contavalli. - Costruito dal Contavalli sopra una parte del convento dei Carmelitani di S. Martino, soppresso dai francesi nel 1798, fu inaugurato la sera del 3 ottobre 1814 con uno spettacolo d'opera e un'azione pantomimica. L'anno dopo, durante la dimora a Bologna di re Murat, Gioacchino Rossini musicò e vi diresse in suo onore un inno noto sotto il titolo di Marsigliese italiana. Il nome del celebre maestro ricorre molto di frequente negli annali del teatro e per le numerose esecuzioni delle sue opere e per un'attività insolita a lui, che egli simpaticamente gli concesse. Memorabile fu l'esecuzione dell'Otello, diretto dal Rossini ed eseguito dai principi Giuseppe, Elisa e Carlo Poniatowski, presenti, oltre che il fiore della cittadinanza, le più autentiche celebrità della scena lirica: la Colbran, la Frezzolini, il Pedrazzi, l'Ivanoff ecc. Specialmente adatto apparve questo teatro, di modeste proporzioni ma non privo d'eleganza, per opere liriche di carattere leggiero e per opere semiserie e comiche, non rade volte interpretate da artisti di grande grido. Ma non meno frequenti degli spettacoli musicali furono quelli di prosa. Predilessero il Contavalli soprattutto le compagnie di filodrammatici e di accademici, dalle quali uscirono talvolta attori che divennero famosi come, ad esempio, Gustavo Modena, né sdegnarono di presentarsi al suo pubblico Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Virginia Marini e lo Zacconi. E ad esso sono legati anche i tentativi di rinnovamento del teatro bolognese per il quale Alfredo Testoni dettò le sue prime e più gustose commedie dialettali.

Teatro Brunetti, poi Duse. - Eretto da Emilio Brunetti e inaugurato la sera del 18 febbraio 1865 con un veglione, anche questo teatro ha avuto qualche periodo ben degno di memoria. Quello più glorioso va dal 1878 all'83. Nell'aprile del '78 vi cantò per due sere Adelina Patti (una lapide ricorda l'avvenimento) e nell'83 il Tamagno. Nel novembre del '79 e negli anni successivi Luigi Mancinelli vi iniziò la serie dei concerti popolari nei quali vennero esibite e fatte conoscere le migliori composizioni dei sinfonisti classici. E fu in questo teatro che il 3 giugno 1882 davanti a una folla, commossa alla notizia della morte di Garibaldi, Giosuè Carducci pronunciò il suo mirabile discorso. Dal 1898 il teatro cambiò il nome primitivo per intitolarsi a Eleonora Duse.

Fra i teatri sorti in questi ultimi anni per spettacoli di varietà e per cinematografo, ricordiamo qui soltanto il Teatro Verdi, il Teatro Modernissimo, il Teatro Medica.

Ma un particolare ricordo meritano invece i teatri privati, già ornamento e decoro delle case e delle ville patrizie e delle case nobili dei secoli XVII e XVIII.

In alcuni di essi si svolsero talvolta rappresentazioni di singolare importanza storica ed artistica. Così nell'anno 1600 nel teatro di casa Bentivoglio si esibì una pastorale in musica: il Fileno disperato della nobildonna Laura Guidiccioni in Lucchesini, poetessa di qualche rinomanza alla corte dei Medici, le cui produzioni furono messe in musica da Emilio de' Cavalieri. È facile identificare questa pastorale con la Disperazione di Fileno degli stessi precursori del melodramma fiorentino. Nel 1616 - se non prima - nel teatro dei Marescotti fu fatta un'esecuzione dell'Euridice del Peri e in quel periodo frequenti furono al teatro Campeggi favole e intermezzi musicali e tragedie di Rodolfo Campeggi musicate in stile recitativo. Ma più di tutti ragguardevoli furono nel Settecento i teatri Albergati, uno dei quali era nella grandiosa villa di Zolu Predora e l'altro nel palazzo di città. Degli Albergati stessi, il conte Pirro fu valente musicista e Francesco noto commediogrsfo e attore di segnalato valore. Questi componeva e recitava tragedie e commedie e molte ne traduceva dal francese. Agli spettacoli dell'Albergati interveniva sempre il fiore della nobiltà e dell'intelligenza bolognese e forestiera. Interessanti particolari offrono pure le cronache bolognesi del sec. XVIII, sulle rappresentazioni che si davano in casa Orsi dove erano preferite commedie facete, in una delle quali due vecchi e venerandi senatori bolognesi non si peritarono di sostenere rispettivamente le parti di Zanni e di Pantalone, con grave scandalo - a quanto racconta il Ghiselli - degli uomini serî di quell'epoca i quali li rimproveravano di fare da istrioni e di "trasandare i negozî più serî della loro carica".

Care al popolo furono infine sempre le rappresentazioni di burattini che si esibivano in piccoli teatri o sulle piazze. Esse costituiscono una caratteristica delle costumanze bolognesi sino dal secolo decimottavo; e sono ancor vivi presso i bolognesi il nome e, presso i più vecchi, il ricordo di Filippo e di Angelo Cuccoli, burattinai pieni di genialità e di spiritose trovate, che per diversi decennî con le loro arguzie e lepidezze deliziarono il loro uditorio facendo rivivere i tipi più comici e caratteristici della popolazione. Nelle piazze, di giorno, e sotto il voltone del Podestà, di sera, negli ultimi anni dell'Ottocento, i due geniali burattinai (a cui più tardi si aggiunse Augusto Galli) videro successivamente sui rozzi sedili, approntati davanti al loro castello, affollarsi un uditorio che clamorosamente si entusiasmava alle tirate del dottor Balanzone, classica maschera bolognese, alle legnate distribuite da Sandrone, maschera originaria del teatro modenese, alle furberie e monellerie di Fagiolino, alle ingenue facezie di cui l'amabile Sganapino Posapiano si compiaceva.

Bibl.: C. Ricci, I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII, Storia, aneddotica, Bologna 1888; G. Cosentino, Un teatro bolognese del sec. XVIII, Bologna 1900; id., L'Arena del Sole, Bologna 1903; O. Trebbi, Il teatro Contavalli, Bologna 1914; L. Bignami, Cronologia di tutti gli spettacoli rappresentati nel gran teatro Comunale di Bologna, Bologna 1880; A. Pandolfini Barberi, Burattini e burattinai bolognesi, Bologna 1923; F. Vatielli, Cinquant'anni di vita musicale bolognese, Bologna 1918; E. Masi, La vita, i tempi, gli amici di F. Albergati, commediografo del secolo XVIII, Bologna 1878; L. Frati, Il teatro del Corso, in Vita cittadina, Bologna 1920.

Letteratura dialettale.

Il bolognese è, fra i dialetti emiliani, uno di quelli che vantano una letteratura più antica e più ricca. Come lingua scritta fa la sua apparizione dapprima in qualche commedia di autori non bolognesi ove, fra i personaggi, si collocava un bolognese (in generale un Graziano) che parlava nel suo dialetto. Tale è il caso p. es. della favola pastorale Gl'Intricati, di Alvise Pasqualigo (Venezia 1581). Sul finire del Cinquecento e nei primi anni del Seicento, sorgono i primi autori dialettali bolognesi: Giulio Cesare Croce e Adriano Banchieri (più noto sotto lo pseudonimo di Camillo Scaligeri dalla Fratta). Della svariata attività del Croce sarà meglio detto alla v. croce, giulio cesare; il più noto fra i suoi componimenti dialettali è La Fleppa combatù (1628), in cui l'eroina stretta d'assedio da due villani innamorati, finisce con lo scegliere quello che è fornito del naso più lungo. Adriano Banchieri, monaco olivetano, è specialmente noto per il suo Discorso... qual prova che la favella naturale di Bologna precede et eccede la toscana in prosa e in rima (1626), ma fu autore anche di parecchie commedie dialettali: La Catlèina da Budri (1619), L' Urslèina da Crevalcor (1620), La Mingheina da Barbian (1621), per tacere di una Lettera nell'idioma natio di Bologna scritta al sig. Gio. Battista Viola a Roma, sopra il ratto d'Elena del pittore Guido Reni (1633). Sempre nella prima metà del seicento abbiamo il Lamento di Tugnol da Mnierbi per esserli stata robbata la borsa di Francesco Draghetti, la Togna del Timido accademico Dubbioso (A. Banchieri?), traduzione della Tancia di Michelangelo Buonarroti il giovane, la traduzione della Gerusalemme Liberata, opera di Francesco Negri (1628, canti I-XIII, il resto manoscritto), ecc. Alla seconda metà del Seicento appartengono gli scritti sul dialetto bolognese di Ovidio Montalbani (Dialogogia, overo delle cagioni e della naturalezza del parlare e spetialmente del più antico, e più vero di Bologna, 1652; Cronoprostasi Felsinea, overo, le Saturnali vindicie del parlar bolognese, 1653, ristampati col titolo di: Vocabolista Bolognese, nel quale... di Bologna si dimostra il parlare piìì antico lodevolissimo, 1660 (sotto lo pseudonimo di Antonio Bumaldi). Per tutto il Seicento e per il Settecento la produzione dialettale, specialmente di commedie, fu notevolissima; se ne possono enumerare alcune centinaia; fra le molte ricorderemo solo: Il villano ladro fortunato di Giambattista Querzoli (1661), La Pluonia da Castion di Peppel di Fulvio Gherardi (1663), che, al pari di quelle precedentemente nominate, rappresentano ancora il tipo antico di teatro rustico bolognese. Fra le commedie che nel Settecento cominciano a rappresentare il nuovo indirizzo satirico e mordace e che contengono i "tipi" e le "maschere" ricorderemo: I diporti d'amore in villa (1710) e Amor torna in t'al so, ovvero: L'nozz dla Checca e d'Bdett (1698) di Antonio Maria Monti. Fra gli scrittori del Settecento eccelse Lotto Lotti, i cui strani libri: Ch'n'ha cervel hapa gamb, o sia la liberatione di Vienna assediata dall'armi Ottomane (1685) e Rimedi par la sonn da liezr alla Banzola (1703) divennero popolarissimi. Una buona commedia di ambiente popolare è anche La Fleppa lavandara (1741) di un anonimo, e un vero gioiello nel suo genere è la commediola Cun più l'è rotta la s' cunza mei (1778), pure di autore anonimo. All'infuori del teatro meritano di esser ricordate le opere seguenti: I dsgrazi d'Bertòld, d'Bertuldèin e d'Cacasènn (1738), versione in ottava rima dei poemetti del Vizzani (che mettevano in poesia il Bertoldo del Croce), per cura delle due sorelle Teresa e Angiola Zanotti, delle due sorelle Maddalena e Teresa Manfredi e di G. Gaetano Bolletti di G. Scandellari; Al trionf di Mudnis pr'una segia tolta ai Bulgnis (1767), traduzione della Secchia Rapita fatta da "un accademico del Tritello"; L'Asnada, poemetto di Clemente Bondi (1773); La Chiaqlira dla Banzola o per dir mii: Fol divèrs tradutt dal parlar napulitan in lingua bulgnesa, per rimedi innucent dla sonn e dla malincunj (1742), traduzione del Cunto de li Cunti del Basile, per opera delle sorelle Manfredi. Questo libro si ristampa e si legge ancora, dopo quasi due secoli. Nell'Ottocento la letteratura dialettale bolognese ebbe un periodo di ristagno, e specialmente il teatro che doveva tornare a nuova vita solo nell'ultimo trentennio del secolo, sotto una forma completamente modificata. In questo periodo si pubblicano però opere importanti come il Vocabolario bolognese di Claudio Ermanno Ferrari (1ª ed., 1820), i sette volumi della Collezione di componimenti in idioma bolognese (1827-1839). Fra la produzione del periodo moderno si dovranno ricordare in primo luogo le commedie di Alfredo Testoni da El trop l'è trop (1878) fino alla Fola dal trei ucareini (1928) con una serie ininterrotta della quale ricorderemo solo: I pisunent, Tourna in scena i pisunent, La sgnera Arabella a Montecarlo, Scuffiareini, La sgnera Tuda, Il burbero burlato, Mestreini, Qualla ch' fa 'l cart, ecc., e le più moderne I Persichetti in muntagna (1925), Quand a jera i Franzis (1926), El fnester davanti (1927) per non parlare dei Sonetti della sgnera Cattareina ecc. (v. testoni, alfredo). Fra i minori, Antonio Fiacchi si rese celebre con le sue macchiette: El sgner Pirein; Bologna d'una volta, ecc.; Emilio Roncaglia contribuì al teatro bolognese facendo tradurre dal modenese alcune sue commedie; Luigi Gaibi, autore di una nota Trilogia di Paolo Incioda; Camillo Nunzi, autore di parecchie poesie dialettali (Poesì in dialett bulgnèis, 1874); Goffredo Galliani, Carlo Musi (notissimo per le sue canzonette), Fanfulla Fabbri, R. Bonzi, Umberto Roversi (poeta di squisito sentimento), R. Belluzzi, U. Trebbi, ecc.

In quest'epoca la signora Carolina Coronedi Berti pubblicò il suo voluminoso Vocabolario bolognese-italiano (voll. 2, 1869-1872) ed altri scritti atti a illustrare gli usi e le tradizioni della sua città natale. Buona parte degli scrittori bolognesi fioriti negli ultimi decennî del secolo passato erano riuniti intorno ad alcuni giornali umoristici come l'Ehi c'al scusa?, Bologna che dorme, ecc., ma oggi non esiste nessun giornale dialettale atto a raccogliere una tradizione che sta spegnendosi. Solamente il teatro, per merito delle due compagnie dialettali bolognesi che ogni anno recitano tutto l'inverno (Compagnia Gandolfi al Teatro del Corso; Compagnia Galliani al Teatro Contavalli) si arricchisce di produzioni sempre nuove e svariate.

Bibl.: C. G. Sarti, Il teatro dialettale bolognese, (1600-1894), Bologna 1894; B. Biondelli, Saggio sui dialetti gallo-italici, Milano 1853, pp. 452-467.

Storia della stampa.

La storia e la fortuna della tipografia in Bologna sono per grande parte legate alle vicende dell'antico suo Studio. L'Università infatti, mentre da un lato offriva i maestri atti a comporre opere molteplici e originali, facilitava insieme, dall'altro, a cagione degli scolari, la diffusione e il consumo delle medesime.

La prima tipografia, quella che aveva a capo Baldassare Azzoguidi (v.) sorge in Bologna fino dall'anno 1470, e quantunque i primi prodotti datati, con la sottoscrizione dell'Azzoguidi, siano soltanto del 1471 (e prima opera notevole è l'Ovidio), non può dubitarsi che qualche stampa rimasta senza data, come il Torneamento di Giovanni Bentivoglio (a celebrazione della sontuosa giostra che il signore di Bologna indisse per il 4 di ottobre), sia uscita nello stesso 1470. Accanto all'Azzoguidi e ai suoi soci, il Malpigli e l'umanista Francesco Dal Pozzo, altri numerosi sorsero nel sec. XV come il Portilia, il Lapi, i Ruggeri, i Bertocchi, i da Rubiera, e parecchi scesero dalla Germania come il Wurster, Enrico di Colonia, Giovanni Schreiber, Enrico di Haarlem, Giovanni Valbeek di Nördlingen, e non mancò una fiorente tipografia ebraica con Abraham Ben Chaijm. I maggiori e più attivi tipografi furono però tutti italiani, e i nomi di Ugo Ruggeri, di Francesco Platone de' Benedetti, di Benedetto d'Ettore, di Ercole Nani vivranno celebrati nell'arte tipografica bolognese di quel secolo per ricchezza di prodotti, per nitore di caratteri, per cura di edizioni, per freschezza di ornamenti xilografici; e proprio da Bologna vennero edizioni come il Boccaccio dell'Azzoguidi, la Cosmografia tolemaica del Lapi, il Tractatus de musica composto da Ramis de Pareja (il primo che uscisse sull'argomento), l'Esopo tradotto da Accio Zucco, del Nani, lo stesso di Baldassarre da Rubiera, edizioni celebri anche per la loro eccezionale rarità.

Il Cinquecento continua la fortuna della tipografia e le porta tutto il gusto, la finezza, le attrattive del fiorito Rinascimento nostro, in un tempo in cui l'università era frequentata da Copernico, e v'insegnavano il Codro, l'Amaseo, il Pomponazzi, l'Alciato, il Sigonio, il Cardano, e faceva domanda per essere qui accolto professore Galileo Galilei. E perciò le maggiori famiglie di tipografi del sec. XV continuano e affermano sempre meglio l'opera e l'arte loro; e ai vecchi si aggiungono altri molti come i Bonardi, i Giaccarelli, Giovanni Rossi, i Benacci; i quali ultimi, specialmente, diedero saggi assai pregevoli. E sorgono anche tipografie private come quella dei Bottrigari e del Bocchi, autore, questo ultimo, delle Symbolicae Quaestiones illustrate dal Bonasone e da A. Carracci; mentre il fiore della nobiltà e dottrina, con a capo il Sigonio, si unisce per impiantare e far funzionare la Società tipografica bolognese, che ebbe dieci anni di vita operosa. Magnifico, ben condotto, nitido per caratteri e carta, grazioso, e talvolta sontuoso per le illustrazioni e per le originali marche tipografiche, è il libro delle tipografie bolognesi del Cinquecento, che seppe unire alla severità dell'argomento la dignità esterna e anche la stessa ornamentazione, sì che divenne a un tempo strumento di cultura e fonte di bellezza.

Se nel Seicento le gravi opere e la varietà del contenuto hanno una sosta, a cagione soprattutto delle limitazioni della Controriforma e del Sant'Uffizio, ottengono in compenso una singolare fioritura le stampe popolari con due uomini che in modo potente e misterioso rappresentano i tempi e l'anima del popolo: Giulio Cesare Croce, l'autore del Bertoldo, il poeta idolatrato dalle folle, e Giuseppe Maria Mitelli, illustratore degno del poeta. E quanti tipografi a servigio dei due e dei loro imitatori! Il prediletto è Bartolomeo Cocchi, ma con lui e dopo di lui, i Ferroni, i Barbieri, i Pisarri, i Manolessi, i Peri; mentre il Monti si dedica alle opere gravi, il Tebaldini comincia a stampare la Gazzetta di Bologna, che è uno dei più antichi giornali, e i Silvani si specializzano nella musica.

Un trionfo per la stampa bolognese è costituito, nel Settecento, dalla tipografia Dalla Volpe, che dura tutto il secolo, prima con Lelio poi con Petronio; ambedue seppero dare al libro veste adeguata alla rinascita della scienza e della cultura. L'illustrazione del libro è in gran risveglio, e non poteva essere altrimenti in una città che fu sede di quella scuola detta bolognese, ricca di diecine di artisti che trattarono con arte e con forza l'incisione, dai Carracci a Francesco Rosaspina.

Arte decadente dimostra la tipografia bolognese nell'Ottocento, se si tolgono il Nobili, la tipografia di San Tommaso d'Aquino, nonché il successore della tipografia Dalla Volpe, continuata poi nella Regia Tipografia; ma ai prodotti tipografici dànno slancio e caratteristici atteggiamenti le condizioni politiche varie. Sul finire del secolo si afferma Nicola Zanichelli, attivo e valente: dalla sua tipografia uscirono quei volumetti "elzeviri" che il Carducci e gli altri insigni autori che erano attorno a lui hanno reso celebri.

Bibl.: A. Sorbelli, Storia della stampa in Bologna, Bologna 1929: in questo volume sono ricordati tutti i precedenti scritti riguardanti la storia della stampa in Bologna.

L'Università - Istituti culturali e biblioteche.

L'Università. - La vita culturale di Bologna ha sempre gravitato, com'è naturale, intorno al suo glorioso Studio. Come si è detto di sopra, esso, acquistato alla fine del sec. XI carattere ufficiale, è già assurto, alla metà del XII, alla più alta importanza. Sin d'allora costituisce infatti il centro della cultura italiana, e a Bologna convengono scolari e professori d'ogni parte d'Italia. La Lombardia e il Veneto, il Mezzogiorno e la Toscana vi son rappresentati; anzi quest'ultima alimenta siffattamente lo Studio bolognese che le tracce della cultura toscana predantesca son da ricercare, più che altrove, in Bologna. Del resto lo stesso Dante assai probabilmente fu da giovane a Bologna per studiarvi. E va anche ricordato che non solo scolari stranieri affluirono in gran numero, ma non manca qualche esempio di maestri stranieri; ed è universalmente noto come le università italiane e straniere - citiamo solo quelle di Padova e di Oxford - abbiano derivato da quella di Bologna sistemi d'organizzazione e indirizzi di attività scientifica. Bologna e Parigi possono considerarsi le capitali della cultura europea nel Medioevo.

La nota frase del Carducci, secondo la quale il massimo fiorire dello Studio coinciderebbe col fiorire del comune bolognese, e la decadenza di quello sarebbe segnata dal tramutarsi di questo in signoria, è da accettare più come eloquente espressione dell'amore carducciano per le libertà comunali che come verità storica rigorosa. Infatti, la decadenza - s'intende relativa - dello Studio, già in atto alla fine del sec. XIV, dev'essere riconnessa con mutamenti economici, politici e sociali assai più generali e complessi, e massime con le stesse nuove necessità della cultura, che, sempre maggiormente diffondendosi, non consente più d'essere concentrata in pochissime sedi, fatto tipicamente medievale.

Certo, lo Studio vive appieno la vita del comune, pur conservando la propria integrità e autonomia, in mezzo alle turbolenze delle fazioni, grazie alla sua organizzazione a salda base corporatizia. La quale tuttavia lentamente si evolve verso una forma di dipendenza dai poteri politici, man mano che questi assumono su di sé gli oneri dello Studio, reclamando nello stesso tempo, com'è naturale, una sempre maggiore ingerenza nella vita interna dell'università; finché, nel sec. XVI, sotto la stabile dominazione pontificia, le corporazioni degli scolari non hanno più che valore formale. I rettori, p. es., che coi loro consiliarii - gli uni e gli altri scolari immatricolati - esercitavano in origine la giurisdizione civile su tutti gli appartenenti all'università e persino, in certi casi, quella penale, videro diminuire a poco a poco la loro autorità, assiduamente combattuta dai legati pontifici, finché dopo il 1604 il rettorato degli scolari cessa definitivamente. Così pure, mentre in origine i lettori erano scelti e pagati direttamente dagli scolari, e in seguito, tra il sec. XIII e il XIV, erano bensì pagati dalla città, ma continuavano ad essere eletti dagli scolari, in seguito essi furono pagati e scelti soltanto dalla città, che aveva assegnato allo Studio i proventi di alcune gabelle.

Le cattedre esistenti nell'università dei giuristi, e in quella, di fondazione posteriore, degli artisti, restano invariate sino al sec. XV. Nella prima, cattedre di diritto civile (Codice, Digestum vetus, Volumen, Digestum novum, Infortiatum) e di diritto canonico (Decreto, Decretali, Sesto, Clementine); nella seconda, cattedre di medicina (teorica e pratica), di chirurgia, di filosofia (morale e naturale), di astrologia, di logica, di rettorica e di ars notaria. trasportata dopo il 1357 nell'università dei giuristi.

Dal sec. XV in poi, cresciute le esigenze della cultura, si suddividono le vecchie cattedre e se ne istituiscono di nuove: notevoli, nello studio dei giuristi, la suddivisione in tre (1440) della cattedra per lo studio del volumen, l'istituzione della Lectura criminalium (1509), della Lectura pandectarum, di una cattedra delle Ripetizioni di Bartolo (1587), nonché quella, determinata dalle nuove condizioni degli studî, delle cattedre De commerciis seu de oeconomia civili (1791) e di diritto pubblico vero e proprio (1798).

Parallelamente all'università dei giuristi si rinnovava l'università degli artisti. Nel 1439 s'istituisce una cattedra superiore di rettorica e umanità; nel 1455 una di greco; nel 1464 una di ebraico; nel 1520 un'altra di caldaico: riflessi cospicui del rinascimento degli studî. Né le scienze son trascurate: accanto all'originaria elementare Lectura artis metricae et geometriae, si fonda nel 1545 una cattedra di matematica pratica e nel 1564 una di matematica superiore, da cui nel 1768 si stacca l'insegnamento autonomo dell'algebra. Si istituiscono ancora altre cattedre: di meccanica nel 1650, d'idrometria nel 1694, di fisica e di chimica nel 1737, di ottica nel 1766. E così per le altre scienze.

Con l'invasione francese, lo Studio subì una serie di trasformazioni, finché, col decreto 4 settembre 1802 del corpo legislativo della Repubblica italiana, fu ordinato in tre classi: una di fisica e matematica con 20 cattedre, una seconda di morale e politica con 7 e una terza di letteratura con 5; ordinamento che, con pochi ritocchi, restò fino a quando la bolla Quod divina sapientia di Leone XII (1824) divise l'università di Bologna in quattro facoltà: di teologia, con 6 cattedre, dì giurisprudenza, con 12, di medicina e chirurgia, con 14, di filosofia, con 9. Altri ordinamenti si ebbero nel 1859. La legge sarda del 13 novembre 1859, nota come legge Casati, non fu mai estesa all'università di Bologna; e le numerose leggi successive, pur cercando di conguagliare tra loro le varie università dello stato, lasciarono sussistere alcune particolari guarentigie e prerogative di quella di Bologna, che furono in seguito abolite, come quelle delle altre università, dalla legge Rava del 19 luglio 1909.

Tra gl'insigni maestri che in ogni tempo onorarono lo Studio di Bologna, basterà ricordare, oltre a Irnerio, Bulgaro, Odofredo, Accursio e Baldo: Mondino de' Luzzi, Francesco Accolti, Francesco Filelfo, Andrea Alciati, Aldo Mauzio, Pietro Pomponazzi. Agostino Nifo, Giulio Cesare Aranzi, Ulisse Aldrovandi, Girolamo Cardano, Buonaventura Cavalieri, G. D. Cassini, Marcello Malpighi, Luigi Galvani, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Giacomo Ciamician, Augusto Righi, Giovanni Capellini, Giacomo Venezian, Augusto Murri.

Istituti culturali. - Tra i principali istituti di cultura di Bologna vanno menzionati i seguenti:

Accademia delle scienze dell'Istituto. - Trae la sua origine da un'Accademia degli Inquieti, fondata intorno al 1690, poi accolta dal 1711 da L. F. Marsili nel suo Istituto, attuale palazzo universitario, onde il nome. Fu nel 1802 trasformata da Napoleone in Istituto nazionale, poi fu restituita alla condizione primiera da Pio VIII nel 1829. Nel 1907 l'Accademia fu integrata dalla classe delle discipline morali e posta in tal modo alla pari delle più grandi accademie italiane. Ha pubblicato centinaia di volumi con le denominazioni di Commentarî (dal 1731), Nuovi Commentarî, Memorie e Rendiconti.

Accademia Clementina. - Fu detta Accademia de' pittori, scultori ed architetti, unita essa pure all'Istituto del Marsili; poi, largamente favorita ed accresciuta dalla liberalità di Clemente XI, si chiamò Clementina. Napoleone nel 1803 le sostituì l'Accademia di belle arti, ma poi con la Restaurazione riprese la sua vita, resa negli ultimi decennî assai modesta. È stata nel 1930, con sovrano provvedimento, restituita al primitivo decoro.

R. Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna. - Si occupa degli studî storici della regione. Fu istituita nel 1860 con decreto del governatore dell'Emilia L. C. Farini; lo statuto fu approvato nel 1862. Ha sede nella casa abitata dal Carducci, il quale per lunghi anni ne fu segretario e poi presidente. Ha pubblicato un centinaio di volumi di Atti e di Monumenti storici.

Commissione per i testi di lingua. - Fondata essa pure nel 1860 con decreto del dittatore Farini, ai fini di pubblicare opere inedite o rare dei primi tre secoli della letteratura italiana, ha dato fuori non meno di cento volumi. Aggregata all'Accademia della Crusca nel 1924, risorse tosto per volere del comune di Bologna. Ha anch'essa la sua sede nella casa Carducci.

Società medico-chirurgica. - Fu fondata nel 1823, approvata dal governo pontificio nel 1827, eretta in ente morale nel 1891: ha tre serie di pubblicazioni: Opuscoli, Memorie, Bollettino, con le quali continua attivamente l'opera sua scientifica. Ha sede dall'origine nello storico palazzo dell'Archiginnasio.

Società agraria. - È detta anche napoleonica perché fondata nel 1807 con decreto del regno italico affinché tutelasse l'agricoltura e lo sviluppo delle scienze agrarie. Pubblica le serie delle Memorie, degli Annali e dei Rendiconti. Anche questa società ha sede nell'Archiginnasio.

Bibl.: A. Sorbelli, Il primo cinquantennio della R. Deputaz. di st. patria per le Romagne, Bologna 1916; id., L'università di Bologna nel passato e nel presente, Bologna 1919; id., Il primo centenario della Società medico-chirurgica, Bologna 1925; C. Zanolini e G. Boraggine, Sunto storico monografico della Società agraria di Bologna, Bologna 1929.

Biblioteche. - Numerose e ricche biblioteche ebbe Bologna nel Medioevo; basti ricordare la raccolta degli Stazionarî sino dal sec. XIII, quelle monastiche: di San Salvatore, doviziosissima di codici; dei francescani; dei serviti; quella del Collegio gregoriano, fondata da Gregorio XI (1371); la Biblioteca capitolare assai curata sino dal sec. XIV, e le altre del Collegio spagnolo, del Bolognini presso i domenicani, poi nel sec. XVIII la biblioteca di S. Lucia fondata dal can. Zambeccari, la prima che venisse aperta al pubblico. Fra le più importanti biblioteche che ancora rimangono meritano di essere segnalate le seguenti:

R. Biblioteca universitaria. - Servì di sussidio dapprima all'Istituto delle scienze fondato da L. F. Marsili (1711), ma si arricchì soprattutto per i doni del card. Monti, di Benedetto XIV che fece costruire anche il magnifico salone di lettura (1744), e d'innumeri altri benemeriti fra i quali il card. Mezzofanti: ad essa il Senato unì anche la libreria di Ulisse Aldrovandi. Nuovi ingrandimenti sono stati recentemente apportati all'edifizio. Dopo essere stata nel periodo napoleonico biblioteca dell'Istituto nazionale divenne in seguito biblioteca universitaria. Possiede circa 400.000 volumi ed opuscoli, 5400 manoscritti, 890 incunaboli.

Biblioteca comunale dell'Archiginnasio. - Predisposta sin dalla fine del sec. XVIII per dare ricetto e ordine al materiale derivato dalle soppressioni di corporazioni religiose, fu fondata dall'amministrazione centrale del Reno nel 1801, accanto alla chiesa di S. Domenico; nel 1811 le fu unita la biblioteca Magnani, nel 1838 fu trasportata nel palazzo storico dell'Archiginnasio, dove ancora si trova. Ha avuto numerosi donatori e tra i fondi suoi più cospicui sono da notare quelli Muñoz, Mezzofanti, Giordani, Hercolani, Landoni, Minghetti, Pizzardi e molti altri. L'edificio della biblioteca è ornato degli stemmi degli antichi scolari. Possiede circa 400.000 volumi ed opuscoli, 8000 manoscritti, 1700 incunaboli, 350.000 lettere e autografi.

Biblioteca arcivescovile. - Fu fondata alla fine del sec. XVI dal card. G. Paleotti primo arcivescovo di Bologna, riordinata poi nel sec. XVIII da Benedetto XIV, verso la metà del sec. XIX dal card. Oppizzoni e nel 1907 dal card. Svampa, che le unì i manoscritti Breventani.

Archivio di stato. - Fu istituito nel 1874 per una convenzione fra lo stato e il comune di Bologna. È diviso in quattro sezioni: del comune, fino al 1512, del periodo pontificio (1512-1796), del periodo moderno (1797 in poi) e degli enti autonomi. Ricco di documenti medievali, contiene l'importante collezione dei codici figurati delle Insignia.

Bibl.: C. Malagola, L'archivio di stato di Bologna dalla sua istituzione a tutto il 1882, Bologna 1883; Le bibl. gov. ital., Roma 1890, p. 247 seg.; A. Sorbelli, La biblioteca capitol. della cattedrale di Bologna, Bologna 1904; id., Brevi notizie della Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, Bologna 1924; L. Frati, Le biblioteche di Bologna, in Tesori bibliografici dell'Emilia, Milano 1930.

Biblioteche musicali. - Nel campo delle biblioteche musicali Bologna vanta in quella del suo Liceo musicale una delle più ricche d'Europa, per copia di opere rarissime e preziose. Per la letteratura musicale citeremo le opere teoriche di Franchino Gaffurio (Theoricum opus musicae disciplinae, Napoli 1480, edizione princ., la prima opera che si sia stampata in Italia sulle teorie musicali); di Morley (A plain and easy introduction to practical Musik. Londra 1597); di Agazzari (Del suonare sopra il Basso, Siena 1607); di Cerone (El Melopeo, Napoli 1613); di Majerus (Atalanta fugiens, Oppenheim 1618); di Di Podio, di Cannuzio, di Ganassi del Fontego, di Bona, di Bianciardi, di Ramis de Pareja (De musica tractatus, Bologna 1482); di Burtio, di Spataro, di De La Porte, del Menard, del Vicentino (Descrizione dell'Arciorgano, Venezia 1561; unico), di A. Fr. Doni (Dialogo della musica, Venezia 1544; unico completo nelle sue quattro parti), di G. B. Doni (Trattato dei generi, ecc., ms. autografo), ed altri, autografi: di Sante Landi (Trattato), di Valentini (Regole di contrappunto), di Cerreto, di G. Belli, di Giov. M. Mancini, di Costanzo Porta (Trattato di contrappunto), gli scritti di Bottrigari, ecc. Fra le composizioni musicali ricordiamo: Missae quindecim ecc., edite da A. Antico de Montona (Roma 1516), le messe e i mottetti di Villaert, i madrigali di Verdelot, di Cipriano de Rore, le messe di Romano da Siena, le Cinquanta stanze del Bembo (Venezia 1545), del De Ponte, tutte le edizioni delle opere di Anerio, Arcadelt, Asola, Marenzio, Merulo, O. Vecchi, Viadana, Benevoli, Lorelli, Cifra, Legrenzi, Monteverdi. Notevoli sono gli esemplari di Harm0nicae musices odhecaton A. e dei Canti B. cinquanta editi dal Petrucci in Venezia nel 1501 e le edizioni rare degli editori veneziani Gardano, Scotto, Vincenti, Antico di Montona, Marcolini di Forlì. Figurano, oltre l'Amfiparnaso di O. Vecchi, molte partiture di opere melodrammatiche (Peri, Caccini, Monteverdi, Marco da Gagliano, Landi, Mazzocchi, ecc.); partiture manoscritte e quasi tutte autografe di A. Melani, Alessandri, Righini, Borghi e Il Barbiere di Siviglia di Rossini, ed altri autografi (messa di G. Vincenti, due messe di O. Benevoli, una messa di Carissimi, una fuga di Basily, 319 voll. di musica inedita e autografa di Mattei, e 500 pezzi autografi di Martini). Sono da ricordare infine i codici preziosi degli scritti e composizioni degli autori più antichi, come Beda (sec. VIII), Reginone (sec. X); Bernone (sec. XI), Emilio di Zamorra (sec. XI), Guido d'Arezzo (sec. XI), Giov. Cotton (sec. XI), Marchetto da Padova (sec. XIII), Giov. de Muris (sec. XIV), ecc. e la collezione di libri corali miniati (del secolo XIII).

Bibl.: Cfr. Gaspari, Catalogo della bibl. del liceo di Bologna, I; II, pubbl. da F. Parisini; III, da L. Torchi; IV, da R. Cadolini, Bologna 1890, 1893, 1893, 1905; F. Vatielli, La bibl. del Liceo Mus. di Bologna, in Bibl. de "L'Archiginnasio", s. 2ª, XIV, Bologna 1917.

La provincia di Bologna.

È la più vasta e la più popolata provincia dell'Emilia, contando su 3707 kmq. di superficie, circa 634.600 ab., il che dà una densità di circa 170 ab. per kmq., assai superiore alla media del regno (130). Consta di una parte piana e di una montuosa. Quest'ultima è costituita dai contrafforti diramanti dalla dorsale principale appenninica, la quale è essa stessa compresa entro i confini della provincia, sotto all'estremo angolo sud-ovest, dove s'innalza la punta Giorgina, continuata dal Corno alle Scale (1945 m.) la più alta cima di tutta la provincia; qui si toccano i confini delle provincie di Bologna, Modena e Pistoia. I contrafforti declinano in larghi colli fino alla Via Emilia, la quale divide, all'incirca, la parte montuosa e collinosa della provincia da quella pianeggiante. Quasi tutte le acque della provincia sono raccolte dal Reno, il quale ha le sorgenti ed il corso superiore in Toscana, e l'inferiore in provincia di Ferrara, ma nel Bolognese raccoglie il contributo di quasi tutti gli affluenti così di destra come di sinistra.

Dal Reno derivano parecchi canali irrigatorî, tra cui principale quello che si stacca a Casalecchio e si ricongiunge presso Segni, scavato fin dal sec. XII e detto prima Canal di Reno, poi Naviglio. Varî bacini idroelettrici furono costruiti nelle vallate di affluenti del Reno; principali quelli del Brasimone e del Limentra di Sambuca.

La provincia di Bologna è scarsa di risorse minerarie; sono da ricordare solo alcune cave di pietre da costruzione e da ornamento (serpentine, arenarie, calcaree), di materiali per cementi e calci idrauliche, di terre per laterizî e stoviglie, di gesso (S. Ruffillo e Gesso). Più importanti le acque minerali (Bagni della Porretta, Castel S. Pietro, Castiglione dei Pepoli, Corticella, ecc.; v. alle singole voci).

Ma la ricchezza di gran lunga più importante della provincia consiste nell'agricoltura. Appena il 7% dell'area è improduttivo o perché coperto di case e tagliato da strade o perché sterile per natura. Di tutta la zona agraria e forestale (353.297 ettari) 42.488 ettari sono occupati (1925-26) da seminativi semplici, 180.469 ettari da seminativi con piante legnose, 54.983 messi a prati stabili e a pascoli, 11.535 ettari sono dedicati a colture specializzate di piante legnose, 54.868 a boschi (compresi i castagneti). Son lasciati incolti 8954 ettari, che tuttavia producono qualcosa.

La pianta erbacea più diffusa è il frumento, che ha dato nel 1925, 1.476.000 q. (17,02 per ettaro) e nel 1926, 1.200.000 q. (13,68 per ettaro); ad esso seguono, per produzione, il risone e il granturco maggengo; poca area - e quindi modesta produzione - hanno l'orzo e l'avena. In complesso i cereali occuparono, nel 1926, 109.140 ettari e produssero 1.735.100 quintali.

Le leguminose coltivate su uno spazio di soli 5887 ettari, diedero tuttavia un prodotto di molte migliaia di quintali (q. 44.700). Le piante industriali coltivate nel Bolognese sono la bietola zuccherina, la canapa (tiglio) e il lino (seme). Sono pure coltivati la patata e gli ortaggi di grande coltura.

I foraggi, offerti da prati artificiali, da erbai di ogni specie, dai pascoli permanenti e da prati naturali asciutti, nel 1926 raggiunsero la cifra di oltre 4 milioni e 1/2 di quintali. Pochi sono i vigneti del Bolognese, quasi tutti raccolti sulle colline (appena 9000 ettari); invece ampia è la coltura promiscua (154.500 ettari), onde maggiore fu la produzione di questa (912 mila q. nel 1925 e 783 mila q. nel 1926) che dei vigneti (254 mila q. nel 1925 e 216 mila nel 1926). Pochi del pari sono nella provincia i frutteti, e la più gran parte della frutta è data da alberi sparsi per i campi: la produzione maggiore è di pere, mele, cotogne, pesche, ciliege, noci: i castagneti, ampî 12.700 ettari, diedero, nello stesso anno, 152 mila quintali di castagne. Resta ancora da ricordare che, come piante da filari, crescono i gelsi e infine che da qualche tempo s'è cominciato a promuovere la coltivazione del tabacco.

L'ultimo censimento del bestiame è vecchio (1918), ma ad esso solo è possibile riferirsi, come a quello che dà cifre, sia pure un po' antiche, ma vicine al vero. Secondo tale censimento si ha una diminuzione, rispetto al censimento del 1908, negli equini, nei suini e negli ovini: solo sono cresciuti i bovini. E se aggiungeremo che si alleva il pollame, che si alleva il baco da seta, che da un po' si è estesa l'apicoltura, che la caccia, specialmente sui monti e nelle bassure delle valli, è remunerativa e che buono è il pesce del Reno e delle valli, si avrà un quadro completo della fauna domestica della provincia.

La provincia di Bologna non ha grande importanza industriale: pur tuttavia essa vanta parecchie industrie, alcune delle quali le hanno dato un po' di nome nel passato. La sua industria non è giunta al grado di grande industria: per lo più sono pochi operai per ogni stabilimento, e, se si eccettuino i due stabilimenti governativi, il pirotecnico e la manifattura tabacchi, gli altri spettano alla media o alla piccola industria.

Hanno la prevalenza le industrie alimentari: si macinano cereali, si pila e si brilla il riso, s'insaccano carni suine, si fabbrica un'ottima birra e parecchi sono i pastifici; inoltre ci sono fabbriche d'aceto, d'acque gassose, di biscotti, di cognac, di cioccolato, di conserve alimentari e di pomodoro, di ghiaccio, di liquori, di marmellate e a Bologna, a Bazzano e a Molinella lavorano tre zuccherifici. Le industrie che lavorano i metalli sono rappresentate da un gran numero di piccole fabbriche che fondono il ferro, il piombo, l'ottone, il bronzo, che fanno caratteri da stampa, letti e mobili varî di ferro, oltre ad attrezzi agricoli, serrande a rotolo, rubinetti, macchine per pastifici, ecc.

Non mancano neppure le industrie chimiche: i prodotti farmaceutici, i concimi chimici, i colori di anilina, le vernici, la gomma arabica, la ceralacca, gl'inchiostri, i saponi, le candele, i fiammiferi, le polveri piriche si fabbricano in numerosi opifici sparsi per i dintorni di Bologna.

Un tempo erano più diffuse che non oggi le industrie tessili, e parrebbe naturale che la grande produzione di canapa avesse fatto sorgere la lavorazione di questa fibra: oltre ad una fabbrica dove si tesse la canapa, a 2 fabbriche che lavorano il cotone ed il lino, e a 2 lanifici - tutte industrie di scarsa importanza - ci sono fabbriche di cordami, 6 filature di canapa, 18 fabbriche dove si fa la prima lavorazione della canapa, qualche maglieria, fabbriche di nastri e passamani. La carta ha importanti stabilimenti; l'industria del libro ha ottime e valenti tipografie; si costruiscono mobili artistici e strumenti musicali; vi sono concerie e calzaturifici; officine elettromeccaniche ed elettrotecniche; vi sono società elettriche, segherie, fabbriche di apparecchi igienici e sanitarî, di ferri chirurgici, società per costruzioni stradali, per escavazione di pozzi artesiani, per costruzioni di acquedotti. Il censimento industriale del 15 ottobre 1927 dava per tutta la provincia un complesso di 12.261 esercizî con 70.612 addetti.

La provincia di Bologna è assai ben provvista di comunicazioni. Le ferrovie principali e tramviarie sommano a 430 km., dei quali 201 spettano alle linee ferroviarie di grande comunicazione, 95 a quelle d'interesse locale. Bologna è uno dei centri ferroviarî più importanti d'Italia. Le strade rotabili sommano a 4242 km. (0,588 km. per ogni 100 ab.), delle quali 209 di prima classe; il traffico automobilistico per il trasporto di viaggiatori e di merci vi è sviluppatissimo e non solo allaccia tutti i maggiori centri della pianura, ma penetra, per le valli maggiori, nel cuore della parte montuosa; linee regolari in servizio pubblico valicano anche l'Appennino, allacciando la provincia di Bologna alle provincie limitrofe di Firenze e Pistoia.

Congresso di Bologna.

Ebbe luogo nell'autunno 1529 e nei primi del 1530, col compito di tradurre in atto gli accordi tracciati il 29 maggio 1529 a Barcellona tra il papa Clemente VII e l'imperatore Carlo V, dopo l'esito, non lieto per Clemente stesso e per gli stati italiani avversi all'imperatore, della seconda guerra contro il re di Francia, Francesco I.

Clemente VII entrò in Bologna il 24 ottobre 1529, l'imperatore il 5 novembre, dopo essere sbarcato il 12 agosto con truppe a Genova, proveniente dalla Spagna. Erano rappresentati inoltre, o dai propri sovrani, o da appositi delegati, i ducati di Savoia e di Milano, la repubblica di Venezia, i ducati di Ferrara e di Urbino, il marchesato di Mantova e le repubbliche di Siena e di Lucca. Si presentarono anche gli ambasciatori fiorentini, ma furono esclusi. Infatti già a Barcellona era stato stabilito che in Firenze, nuovamente repubblica dal 1527, dovevano essere rimessi i Medici.

Nel congresso si ottenne veramente quella pace generale cui anelavano tutti, stati italiani, papa e imperatore. Sennonché essa si risolse in gran parte a beneficio maggiore di quest'ultimo, che già vi si era preparato mostrandosi arrendevole coi duchi di Milano e di Ferrara, i quali ancora poche settimane prima gli avevano mostrato il viso dell'arme. Fu invece assai più duro coi Veneziani, che rappresentavano la parte più potente e più avversa, mentre fu arte sottile l'indulgere agli stati e ai principi più deboli, e così dividerli, asservirli o almeno controllarli. Francesco II Sforza fu, pertanto, riconosciuto duca di Milano (ma il ducato fu considerato come feudo reversibile all'Impero) dopo essersi presentato con un salvacondotto ed essere stato ricevuto dall'imperatore il 23 novembre. L'imperiale "generosità" gli costò però 300.000 ducati. Venezia fu obbligata a restituire Cervia e Ravenna al papa, e le città occupate in Puglia all'imperatore. Carlo, duca di Savoia, ebbe Ceva, Cherasco, Asti, sottratte ai Francesi; la città di Carpi fu tolta ad Alberto Pio e assegnata ad Alfonso di Ferrara; Malta, unita da vincoli feudali alla corona di Sicilia, fu data ai Cavalieri di Rodi; il marchese di Mantova fu elevato a duca. Non si definì la sorte di Modena, Reggio e Rubiera che, secondo gli accordi di Barcellona, dovevano essere restituite dal duca di Ferrara al papa. In un lodo posteriore, del medesimo anno, ne fu peraltro investito lo stesso duca di Ferrara: esempio tipico del modo come Carlo V volle tenere in rispetto i grandi e solleticare i piccoli. La pace implicava l'alleanza di tutti per la tutela dei reciproci interessi: ma in pratica costituiva un vero primato di Carlo V in Italia.

Il 12 febbraio 1530 Carlo V volle essere consacrato con la corona ferrea, già dei re longobardi, e il 24 con quella d'oro imperiale. Apparentemente egli fece rivivere le vecchie forme storiche dell'impero: in realtà consacrò la potenza della sua casa e, in Italia, il definitivo successo del primato spagnolo. Furono fatte grandissime feste che ebbero eco vivissima. Il 22 marzo l'imperatore partì da Bologna: e, il 31, anche Clemente.

Un secondo convegno tenuto a Bologna nei primi mesi del 1533 tra il papa e l'imperatore condusse a due trattati: l'uno segreto per la conservazione dell'assetto esistente in Italia e l'altro pubblico del 24 febbraio con la conclusione di una lega italiana per la pace, cui però non prese parte Venezia.

Bibl.: Du Mont, Corps universel diplomatique, IV, ii, Amsterdam 1726, p. 53 segg.; G. De Leva, Storia documentata di Carlo V in correlazione con l'Italia, II, p. 535 segg.; L. Pastor, Geschichte der Päpste, IV, ii; G. Giordani, Della venuta e dimora in Bologna del Sommo Pontefice Clemente VII..., Bologna 1530 e 1832; Romano, Cronaca del soggiorno di Carlo V in Italia, Milano 1892.

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